Giovanni Giolitti

 


 

Giovanni Giolitti

 

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Giolitti


« ...le leggi devono tener conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese... Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all'abito »


Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita 


 Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842 – Cavour, 17 luglio 1928) è stato un politico italiano, più volte presidente del Consiglio dei ministri.
Il periodo storico durante il quale esercitò la sua guida politica sull'Italia è oggi definito età giolittiana. Sebbene la sua azione di governo sia stata oggetto di critica da parte di alcuni suoi contemporanei, come ad esempio Gaetano Salvemini, Giolitti fu uno dei politici liberali più efficacemente impegnati nell'estensione della base democratica del giovane Stato unitario, e nella modernizzazione economica, industriale e politico-culturale della società italiana a cavallo fra Ottocento e Novecento.


 Rimase orfano del padre ancora in culla... Studiò al ginnasio San Francesco da Paola di Torino...  Frequentò la facoltà di Giurisprudenza all'Università di Torino e si laureò a soli 19 anni, grazie a una speciale deroga del rettore che gli consentì di compiere gli ultimi tre anni in uno solo.
Privo di un passato impegnato nel Risorgimento, portatore di idee liberali moderate, nel 1862 iniziò a lavorare al Ministero di Grazia e Giustizia Nel 1882 si candidò a deputato, venendo eletto. .


Nel 1892 ricevette dal re Umberto I l'incarico di formare il nuovo governo.
Fu costretto alle dimissioni dopo poco più di un anno messo in difficoltà dallo scandalo della Banca Romana e inviso ai grandi industriali e proprietari terrieri per il suo rifiuto di reprimere con la forza le proteste che attraversavano estesamente il paese ( i Fasci siciliani) e per voci su una possibile introduzione di una tassa progressiva sul reddito.


 Giolitti non ebbe incarichi di governo per i successivi sette anni, durante i quali la figura principale della politica italiana continuò ad essere Francesco Crispi, che condusse una politica estera aggressiva e colonialista. A Crispi succedettero alcuni governi caratterizzati da una notevole rudezza nel reprimere le proteste popolari e gli scioperi; Giolitti divenne sempre più l'incarnazione di una politica opposta. Il 3 novembre 1903 Giolitti ritornò al governo: si oppose alla ventata reazionaria di fine secolo; intraprese un'azione di convincimento nei confronti del Partito Socialista per coinvolgerlo nel governo, rivolgendosi direttamente ad un "consigliere" socialista, Filippo Turati, che avrebbe voluto persino come suo ministro (Turati però rifiutò anche in seguito alle pressioni della corrente massimalista del PSI).


Nei confronti delle agitazioni sociali il presidente del Consiglio mutò radicalmente tattica rispetto alle tragiche repressioni dei governi precedenti: i sindacati erano i benvenuti in quanto un'organizzazione garantisce sempre e comunque maggior ordine rispetto ad un movimento spontaneo e senza guida. I precedenti governi, quindi, ravvisando nelle agitazioni operaie un intento sovversivo, avevano commesso un tragico errore: la repressione degli scioperi era espressione di una politica folle, che davvero avrebbe potuto scatenare una rivoluzione. Lo Stato non doveva spalleggiare l'una o l'altra parte in conflitto; doveva semplicemente svolgere una funzione arbitrale e mediatrice, limitandosi alla tutela dell'ordine pubblico.


Questi concetti, che oggi possono sembrare scontati, erano all'epoca considerati "rivoluzionari". I conservatori criticarono duramente quello che per loro era un cedimento al sovversivismo e gli industriali rimasero costernati quando si sentirono dire a chiare lettere che il governo non sarebbe assolutamente intervenuto nei confronti degli scioperi e che, piuttosto, gli imprenditori si sarebbero dovuti rassegnare a concedere adeguati aumenti salariali ai lavoratori.
In questo contesto furono varate norme a tutela del lavoro (in particolare infantile e femminile), sulla vecchiaia, sull'invalidità e sugli infortuni; i prefetti furono invitati ad usare maggiore tolleranza nei confronti degli scioperi apolitici; nelle gare d'appalto furono ammesse le cooperative cattoliche e socialiste.


 Nel maggio 1906 Giolitti insediò il suo terzo governo, durante il quale continuò, essenzialmente, la politica economica già avviata nel suo secondo governo. Il terzo ministero Giolitti passò alla storia come "lungo e fattivo" ed è anche indicato come il "lungo ministero".In campo finanziario l'operazione principale fu la conversione della rendita, cioè la sostituzione dei titoli di stato a tassi fissi in scadenza (con cedola al 5%) con altri a tassi inferiori (prima il 3,75% e poi il 3,5%). Le risorse risparmiate sugli interessi dei titoli di stato furono usate per completare la nazionalizzazione delle Ferrovie; si iniziò a parlare anche di nazionalizzazione delle assicurazioni  con la nascita dell'INA(portata a compimento nel quarto mandato).


Degne di nota, inoltre, le operazioni di soccorso e ricostruzione che il governo nel 1908 organizzò in occasione del terremoto di Messina e Reggio seguito da un disastroso maremoto. Dopo alcune, inevitabili, carenze, tutto il Paese si prodigò per aiutare la popolazione siciliana. Da molti storici questo episodio è stato definito come il primo evento durante il quale l'Italia diede la dimostrazione di un vero spirito nazionale.


Furono inoltre introdotte alcune leggi volte a tutelare il lavoro femminile e infantile con nuovi limiti di orario (12 ore) e di età (12 anni). In questa occasione i deputati socialisti votarono a favore del governo: fu una delle poche volte nelle quali parlamentari di ispirazione marxista appoggiarono apertamente un "governo borghese".
 Nel 1909 si tennero le elezioni, da cui uscì una maggioranza giolittiana. Nonostante ciò, con una manovra tipica, Giolitti lasciò che fosse nominato presidente del consiglio Sidney Sonnino, di tendenze conservatrici; in questo modo Giolitti voleva proporsi come alternativa per un governo progressista; Sonnino si appoggiava su una maggioranza estremamente eterogenea e instabile e dopo soli tre mesi dovette dimettersi.


Nel frattempo il dibattito politico italiano aveva preso a concentrarsi sull'allargamento del diritto di voto. Colto il vento, Giolitti si dichiarò a favore del suffragio universale. Molti storici, in realtà, ravvisano in questa mossa di Giovanni Giolitti un gravissimo errore. Il suffragio universale, infatti, venne concesso prima e senza alcuna gradualità rispetto a tutte le altre liberaldemocrazie europee. Il suffragio universale, contrariamente alle opinioni di Giolitti, avrebbe destabilizzato l'intero quadro politico: se ne sarebbero avvantaggiati, infatti, i partiti di massa che erano o stavano per sorgere (partito socialista, partito popolare e, in seguito, partito fascista). Ben presto il carrozzone politico dell'illuminata borghesia liberale italiana sarebbe stato rovesciato e distrutto.
 Giolitti, nel settembre 1911, diede inizio alla conquista della Libia.


 Nel 1913, dopo che le elezioni a suffragio universale maschile videro la drastica sconfitta della maggioranza liberale e il raddoppio dei deputati socialisti,  Giolitti dovette difendere l'operato del governo relativamente alla guerra in Libia. ll governo, indebolito dalle difficoltà della guerra e dall'affermazione dell'ala massimalista dei socialisti, contraria a qualsiasi forma di collaborazione con un governo borghese e militarista rassegnò le dimissioni.


 Dietro raccomandazione dello stesso Giolitti, il sovrano incaricò l'onorevole Antonio Salandra di formare il nuovo ministero e presentarlo alle Camere. Ben presto Salandra,  pur di rendersi autonomo dal Giolitti egli non avrebbe esitato, pochi mesi dopo, a impegnare il Paese nella prima guerra mondiale senza informare non solo il Parlamento, ma nemmeno la maggioranza ed i membri del governo (nel gabinetto, infatti, erano a conoscenza del Patto di Londra solo Salandra ed il suo ministro degli Esteri, Sonnino).


 L'assassinio dell'arciduca d'Austria, Francesco Ferdinando, fu la miccia che innescò la prima guerra mondiale. La Germania dichiarò la guerra a Russia e Francia; la notizia colse Giolitti in visita privata a Londra: questi si precipitò all'ambasciata per inviare un telegramma all'inesperto Salandra. Il vecchio statista piemontese scrisse al governo italiano che non c'era obbligo alcuno ad intervenire a fianco degli Imperi Centrali. Nel 1913, infatti, egli era venuto a conoscenza delle intenzioni aggressive dell'Austria nei confronti della Serbia: egli aveva ammonito severamente il governo austriaco, l'Italia non avrebbe seguito gli altri membri della Triplice Alleanza in guerre d'aggressione.


Inoltre il trattato prevedeva che, nel caso in cui uno degli alleati avesse dovuto scendere in guerra contro un altro stato, gli alleati avrebbero dovuto esserne informati preventivamente e ricevere adeguati compensi territoriali: l'Austria non aveva adempiuto a questi due obblighi e pertanto per l'Italia non c'era obbligo alcuno di intervenire nella conflagrazione europea. Il governo italiano dichiarò la sua neutralità.


 In Italia si scatenò subito un forte dibattito fra interventisti e neutralisti. I primi, sostenitori di un rovesciamento delle alleanze e di un'entrata in guerra a fianco di Francia e Gran Bretagna, erano presenti in tutto lo schieramento politico. Essi erano però un'esigua minoranza. Godevano però dell'appoggio dei più importanti giornali e dei politici in quel momento al timone: Salandra ed il suo ministro degli esteri, Sonnino. A favore dell'intervento era anche il sovrano, sia pure con una posizione più sfumata. Questa situazione paradossale, nella quale gli interventisti, pur essendo netta minoranza, davano, per gli appoggi di cui godevano, un'apparenza di forza e risolutezza, spinse Salandra ed il suo ministro degli esteri ad una scelta di grande doppiezza politica. Mentre il governo chiedeva all'Austria, che aveva annesso la Serbia, di discutere i compensi territoriali ai quali l'Italia aveva diritto in base al trattato della Triplice Alleanza,  si faceva sapere alla Triplice Intesa che l'Italia era interessata a conoscere eventuali proposte degli Alleati, in cambio di un intervento italiano contro gli imperi centrali.


 Senza che il Parlamento ed il resto del governo fossero informati, complice il sovrano, Salandra firmò il Patto di Londra il 26 aprile 1915. Con esso, impegnava l'Italia a scendere in guerra contro gli imperi centrali nell'arco di un mese. Venne chiesto agli Alleati solo un minimo contributo finanziario in quanto era opinione comunque che la guerra sarebbe finita entro l'inverno, la questione dei compensi coloniali era trattata genericamente: veniva detto che l'Italia avrebbe ricevuto "adeguati compensi coloniali", ma nel trattato non si precisava quali e in quanta estensione. Inoltre l'assetto della frontiera orientale non contemplava Fiume italiana, e soprattutto non teneva in debito conto un dato esiziale: era evidente che, a guerra finita, gli iugoslavi avrebbero voluto formare uno stato indipendente.


Fu così che l'Italia si ritrovò, per una settimana, alleata di entrambi gli schieramenti. Se il Patto di Londra venne firmato il 26 aprile, fu solo il 4 maggio che il governo della penisola denunciò la Triplice Alleanza (1882). L'improvviso rovesciamento di alleanze richiedeva i necessari preparativi. Mentre le manifestazioni interventiste, fomentate ad arte dal governo, si intensificavano,  era comunque a tutti evidente che la maggioranza del Parlamento e del Paese erano per la neutralità, così come lo erano sia socialisti che cattolici.

 

Salandra allora rassegnò le dimissioni nelle mani del re.  Dimettendosi, Salandra volle lasciare al sovrano il compito di conciliarsi Giolitti.


Contro lo statista venne montata una violenta campagna di stampa, a Roma vennero affissi sui muri manifesti che lo ritraevano di spalle al momento della fucilazione: come i disertori. In un comizio delirante D'Annunzio incitò la folla ad invadere l'abitazione privata dello statista e ad uccidere quel "boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno le vie di Berlino". La folla invase con violenza lo stesso edificio della Camera: chiara intimidazione nei confronti della maggioranza neutralista. Il questore di Roma avvertì Giolitti che non era in grado di garantire la sua incolumità: un'offesa senza precedenti alla libertà e al diritto, lo stato abdicava al suo ruolo.


 Durante le consultazioni Giolitti ammonì il sovrano che la maggioranza era contraria all'intervento, che l'esercito non era pronto (lui stesso se ne era reso conto durante l'impresa di Libia) e che la guerra avrebbe potuto portare un'invasione e persino una rivoluzione. Ma quando il sovrano illustrò allo statista piemontese la novità ed il contenuto del Patto di Londra, Giolitti comprese che ormai il danno era fatto: non adempiere all'impegno preso con tanto di firme equivaleva a compromettere il buon nome del Paese e avrebbe implicato, tra l'altro, l'abdicazione del re. In questa situazione fu facile per il re respingere le dimissioni di Salandra e confermarlo nell'incarico.


 Alla riapertura della Camera fu subito evidente che la maggioranza aveva modificato in maniera sorprendente il suo atteggiamento: abbandonata dal suo capo, pressata da minacce ed intimidazioni, messa finalmente al corrente del Patto di Londra, trasse le sue conclusioni. I pieni poteri al governo "in caso di guerra" furono approvati con 407 voti favorevoli contro 74 contrari (i socialisti e qualche isolato). Il 24 maggio entrò in vigore lo stato di guerra con l'Austria.

 

Autore : Devid Roselli mercoledì 27 ottobre 2010 alle ore 2.09

http://www.liceoscientificopiazzi.com/approfondimenti%20on%20line/lezioni%20roselli%20al%2027-10-10.doc

 

 


 

Giovanni Giolitti

L'ETA' GIOLITTIANA

 

Gli ultimi anni dell'800 : tensioni sociali, nascita del partito socialista, i sindacati, la questione cattolica.


Gli ultimi anni del 800' erano stati anni abbastanza bui per le masse popolari e contadine : dopo l'unità d'Italia, il Governo Nazionale non era stato capace di rispondere ai conflitti e alle tensioni sociali scoppiate nella penisola : la "Piemontesizzazione dello Stato", imposta al meridione d'Italia, con il fenomeno collegato del brigantaggio, l'imposizione del sistema fiscale e delle varie tasse sul macinato, sul grano, sui prodotti agricoli ai contadini del sud, l'imposizione del prezzo politico del pane, la totale indifferenza verso politiche di aiuto alla previdenza sociale, allo sviluppo dell'economia e dell'industria, l'ignoranza delle agitazioni sociali nelle città e nelle campane, la visione di tutela dell'ordine pubblico nei conflitti padroni-operai e proprietari terrieri - braccianti agricoli, con il deciso intervento dell'esercito e delle forze di polizia a sostegno di questi primi, di espansione delle spese militari, di ammodernamento dell'esercito, aveva causato un aumento generalizzato della povertà e della miseria, provocando una massiccia emigrazione verso le Americhe. La corte, sostenitrice di idee conservatrici e reazionarie, vagheggiava una politica di espansione militare e coloniale, mentre la classe liberale, che giudicava i socialisti nemici dell'ordine pubblico, non trovava di meglio che rispondere con leggi marziali e stati di assedio alle agitazioni sociali, mentre la corruzione serpeggiava al suo interno, il trasformismo la faceva da padrone, ed idee autoritarie e antidemocratiche andavano sempre più maturando. Così, nel paese, le agitazioni sociali esasperano i contrasti operai - padroni, mentre nelle campagne difficile era la situazione tra proprietari terrieri e contadini : è un periodo in cui le fasce più deboli della popolazione non sono minimamente tutelate, i lavoratori possono essere licenziati a piacimento, non esistono contratti di lavoro, né previdenze e casse mutue, gli orari di lavoro sono pesanti e i salari molto bassi. In questo contesto, approfittando della parentesi del primo governo Giolitti (maggio 1992-novembre 1993), che era di idee molto più moderate rispetto ai suoi predecessori, contrario all'imposizione di nuove imposte per la politica militare e coloniale e favorevole ad una riforma tributaria che eliminasse le disuguaglianze sociali, ma reperisse le risorse lì dove erano, cioè presso i ceti più ricchi, con un sistema di imposte dirette progressive piuttosto che attraverso dazi e tributi generali, oltre a ritenere che i conflitti e le spinte sociali provenienti dal mondo operaio e contadino non andassero ignorate e represse, nacquero e si svilupparono diverse organizzazioni dei lavoratori, tra cui lo stesso Partito Socialista dei Lavoratori, che dava al proletariato italiano un organizzazione politica capace di interpretare bisogni e aspirazioni, per opera di Filippo Turati e la Kuliscioff. Il nuovo partito, nato dal Congresso di Genova dell'agosto 1892, cercava di far incontrare il proletariato con la classe borghese più evoluta, ma al suo interno già si delineavano due correnti : una MASSIMALISTA e rivoluzionaria, ed un'altra RIFORMISTA e socialdemocratica. La prima era rappresentata da Labriola, la seconda da Turati. Comunque si riconosceva sostanzialmente come un partita marxista, avente come obiettivo immediato l'ottenimento di miglioramento delle condizioni sociali dei lavoratori e come obiettivo secondario la conquista dei pubblici poteri. In questo modo, si dava impulso al movimento sindacale, che attraverso le Camere del Lavoro, in breve nate in tutta Italia, avevano come obiettivo la difesa del salario reale, della tutela dell'apprendistato e del lavoro delle donne e dei ragazzi, la creazione di cooperative, l'organizzazione dell'insegnamento professionale, la diffusione della cultura tra i lavoratori. Questo fatto generò una sempre maggiore presa di coscienza delle masse lavoratrici dei propri diritti e le spinse sempre più alla difesa dei propri interessi contro i padroni, permettendo l'organizzazione degli scioperi e di altre forme di lotta. Rimaneva la questione cattolica : i cattolici rimanevano fuori dalla partecipazione alla vita politica dello stato italiano, dopo il Non Expedit e il fallimento del tentativo di conciliazione del 1887. Alcuni studiosi cattolici proponevano di accettare il fatto compiuto, e per bilanciare il forte anticlericalismo del governo e dello stato, proponevano una conciliazione tra Stato e Chiesa basato sul reciproco riconoscimento, cosa che avrebbe potuto portare alla creazione di un forte partito cattolico conservatore, magari per dar voce ai conservatori laici più moderati. A questo disegno si era opposto però il Vaticano e i cattolici intransigenti, che mal vedevano la commistione tra i cattolici moderati con lo Stato Laico e la destra anticlericale italiana, ma al tempo stesso avvertivano l'urgenza di una presenza cattolica nello scontro sociale padroni - operai e proprietari terrieri - braccianti, che non lasciasse tutta difesa dei lavoratori ai soli socialisti:  per questo motivo diedero vita a livello ecclesiastico all'Opera dei Congressi, in cui si cercava di associare il maggior numero di cattolici, strettamente dipendente dal Papa, che si preoccupava di costituire associazioni capaci di difendere i lavoratori cattolici  sul terreno economico e sociale, dapprima con associazioni operaie di mutuo soccorso, e con la speranza di associare padroni e operai, uniti dalla comune matrice cattolica,  riducendo lo scontro sociale e spingendo ad una mutua comprensione. Soprattutto con Giuseppe Toniolo si affermò più compiutamente un pensiero sociale cattolico, che avversava l'individualismo dell'economia borghese e teorizzava una specie di corporativismo che smussasse le asprezze della lotta di classe, con lo Stato  che doveva intervenire per dare garanzie ai lavoratori con provvedimenti simili a quelli voluti dai socialisti, come il riposo festivo, le garanzie per le donne e gli adolescenti, il contenimento dell'orario di lavoro, la difesa dell'agricoltura contro l'invadenza industriale, difendendo la piccola proprietà e affermando la necessità di terreni demaniali affidati ai comuni, per favorire la popolazione rurale nullatenente. Così la Rerum Novarum di Leone XIII del 1891 raccoglieva queste istanze, insistendo che i lavoratori cattolici, come i socialisti, si organizzino per difendere gli interessi materiali. Così nel 1894 fu elaborato un programma sociale cattolico, che rifiutava la rivoluzione proposta dai socialisti, ma voleva le riforme economiche attraverso interventi straordinari dello Stato e mediante l'organizzazione di autonomi sindacati cattolici.

 

Dall'autoritarismo al Giolitti.
Gli ultimi anni del secolo furono segnati da una svolta autoritaria e dura in politica interna : Crispi represse duramente con l'intervento dell'esercito i Fasci Siciliani nel 1894, in Sicilia e Toscana, con condanne esemplari all'ergastolo per i braccianti agricoli, si fece conferire poteri eccezionali dal parlamento limitando la libertà di stampa, sciolse il partito Socialista e arrivò a perseguitarne gli esponenti, privando ben 100.000 cittadini del diritto di voto, perché rivoluzionari. Seguì un incolore governo Di Rudinì, che comunque promosse un'amnistia per i condannati dai tribunali militari, anche se non riuscì a fronteggiare una grave crisi monetaria e l'esplosione di una miseria impressionante, con morti per fame in Sardegna, con saccheggi dei granai municipali, scioperi e agitazioni di ogni genere, come anche le usuali ingiustizie nei rapporti di lavoro, lo sfruttamento dei fanciulli e la forte emigrazione verso l'America. Maturò così nella classe dominante e nella corte la determinazione a risolvere la situazione di agitazione mediante una sorta di colpo di stato legale da attuarsi con l'appoggio del parlamento, a cui il re Umberto I aveva dato il suo assenso. Così nel 1898, si ebbero forti disordini a Roma, Parma e Firenze. Il governo, tramite l'esercito, represse la rivolta facendo arrestare gli esponenti delle organizzazioni popolari. A Milano, nel mese di maggio, una dimostrazione di popolani che protestavano contro l'aumento del prezzo del pane, seguito alla guerra tra Spagna e Stati Uniti, il generale Bava Beccaris caricò con l'esercito i dimostranti, provocando un centinaio di morti, e lo stesso re Umberto decorò il generale, mentre i tribunali speciali erogarono condanne  enormi, furono chiuse le Camere del Lavoro e le Università, furono arrestati decine di esponenti cattolici e socialisti. Successe al Di Rudinì il generale Pelloux, con il compito di portare a termine la svolta autoritaria, che tentò di far passare alla Camera le leggi che avrebbero esautorato il parlamento e rafforzato il potere del Re. Di fronte ad un pericolo così grave, la Sinistra Socialista e radicale, capendo il pericolo, non esitò ad allearsi con i liberali più democratici, quali Giolitti e Zanardelli, e con l'ostruzionismo parlamentare impedirono l'approvazione di queste leggi. Il Pelloux, volendo forzare la mano, sciolse la Camera, ma nel giugno del 1900 gli elettori sconfessarono il Pelloux, con l'aumento dell'opposizione parlamentare. Il nuovo governo, presieduto da Saracco, ritirò le leggi liberticide, ma nel mese di luglio l'anarchico Gaetano Bresci, per vendicare i caduti di Milano, uccise a Monza Umberto I. Il nuovo Re, Vittorio Emanuele III, abbandonò le velleità autoritarie del padre, professando fedeltà alle istituzioni liberali. Così nel 1901 chiamò al governo Zanardelli, con Giolitti ministro degli interni,  che operò una radicale svolta politica per i tempi, favorendo il decollo industriale del paese, ma solo nel Nord d'Italia, mentre il Sud e il Mezzogiorno erano costretti ad acquistare i prodotti industriali del Nord a prezzi molto alti e a vendere i prodotti agricoli a prezzi molto inferiori, per cui il prezzo dell'industrializzazione fu pagato soprattutto dal Meridione, con una incredibile emigrazione verso i paesi più sviluppati dell'occidente e verso le Americhe. Tuttavia il governo favorì l'ingresso in Italia di capitali stranieri, specialmente tedeschi, nel settore industriale, la nascita di numerose centrali idroelettriche, e attraverso sovvenzioni alle industrie e alle banche cercò di finanziare lo sviluppo, non sempre con successo. Giolitti esercitò nel ministero Zanardelli una funzione dominante. Il governo Zanardelli - Giolitti, tuttavia, non attuò una riforma fiscale vera e propria, abolendo i dazi comunali, rivedendo le imposte di successione ed elaborando un sistema di imposte dirette, ma procedette a rimedi finanziari contingenti, attuando una politica finanziaria di riduzione sì delle imposte indirette, ma compensandole con l'aumento delle tasse sulla circolazione dei titoli industriali.

 

Giovanni Giolitti.
Le prime dichiarazioni programmatiche del Giolitti, una volta assunto il suo secondo ministero, furono l'annuncio che il governo doveva restare fuori dai conflitti sociali tra imprenditori e operai, padroni e braccianti agricoli, riconoscendo che lo Stato non aveva alcun vantaggio nella difesa delle classi ricche del paese, ma che tutte le masse popolari, e le anime cattolica e socialista, avevano il diritto di manifestare le loro opinioni, di rivendicare i loro diritti con mezzi democratici e avere le proprie rappresentanze, e che ruolo della politica economica dello Stato dovesse essere quello di rivedere le imposte, abolendo i dazi, e propugnando una riforma tributaria che portasse ad un imposta progressiva diretta sulla ricchezza, arrivando alla riduzione delle imposte dirette, oltre alla necessità di aumentare i salari e non cercare di mantenerli bassi, per incentivare i consumi, perché una manovra impoverente le classi povere portava al paradosso che chi non spendeva  non consumava e quindi tutto si ritorceva a danno dell'industria. Il suo compito fu quello di inserire nel gioco democratico queste forze,  e già con il suo primo governo dopo Zanardelli (1903-1905) tentò di ampliare le basi dello Stato, invitando il leader dell'ala riformista socialista, Filippo Turati, ad entrare nel governo, cosa "rivoluzionaria" per i tempi, ma Turati rifiutò per non compromettere il Partito Socialista nella collaborazione con un governo borghese che non avrebbe riscosso l'approvazione delle masse. Il vero intento del Giolitti era quello di ridurre il socialismo al gioco parlamentare, per svuotarlo dei suoi contenuti rivoluzionari. Tuttavia, lo statista non mutò i suoi atteggiamenti politici, ma proseguì lungo la linea della tutela della libertà nell'ambito della legge, cosicché gli operai potettero rafforzare le proprie organizzazioni sindacali e sboccare con gli scioperi una soluzione salariale insostenibile. Lo Stato, grazie a Giolitti, si presenterà da ora in poi come semplice tutore delle leggi, lasciando che, nel libero gioco dei loro contrasti, le forze sociali trovassero l'equilibrio: attraverso i prefetti il governo si limitava ad un'azione generalmente mediatrice, negando al padronato i servizi invocati della polizia e dell'esercito e rendendo meno difficile la lotta dei lavoratori. In questo periodo, Giolitti riuscì a varare la nazionalizzazione delle Ferrovie, assecondò lo sviluppo economico ricercando sempre più la stabilità monetaria, promosse una notevole massa di lavori pubblici, tra cui il traforo del Sempione (1906), una grande rigorosità amministrativa, mantenendo il pareggio del bilancio. Nel terzo governo (1906-1909) ridusse la rendita dei titoli di Stato, che permise la riduzione del costo del denaro, mentre nel quarto governo (1911-1914) promosse la monopolizzazione statale delle assicurazioni, i cui utili furono devoluti alla previdenza e invalidità dei lavoratori, e il varo del suffragio universale maschile, cosa che, portando gli elettori dell'epoca a 9 milioni, estendeva i diritti politici alle classi popolari. Questo fatto costrinse la forze cattoliche a doversi impegnare almeno indirettamente nella competizione elettorale, limitando i socialisti, così che tra le rappresentanze liberali e l'Unione elettorale cattolica fu stretto il Patto Gentiloni, in forza del quale i cattolici si impegnarono a votare per quei candidati liberali graditi per le idee più vicine alle loro. In questo modo i cattolici, che già nel 1904 avevano visto cadere il "Non expedit", iniziarono ad integrarsi maggiormente nello Stato. Giolitti capì l'importanza della mobilitazione del mondo cattolico in chiave antisocialista, dopo che i socialisti non avevano accettato di essere totalmente assimilati alla democrazia liberale, mantenendo ideali rivoluzionari, anche se in chiave più riformista. Il Suffragio universale consentì, anche se in modo inadeguato, la rappresentanza parlamentare delle masse cattoliche e socialiste, ed è il capolavoro dello statista di Dronero. In politica estera Giolitti fu più moderato del Crispi, ed anche se restò fedele alla Triplice Alleanza, tuttavia concepì il patto sempre più in chiave difensiva, preparando, attraverso la via diplomatica, per accontentare i nazionalisti, l'occupazione della Libia, impresa fortemente criticata per la sua sostanziale inutilità di benefici. Tuttavia Giolitti, cedendo alle pressioni nazionalistiche, in forte espansione nella penisola, perseguì questo scopo dichiarando nel settembre 1911 guerra alla Turchia, ma la conquista si rivelò meno facile del previsto, perché l'esercito non riuscì a venire a capo della guerriglia interna, oltre al fatto che Germania ed Austria avevano impedito, per il placet alla missione, di colpire i punti nevralgici dell'impero Turco: tuttavia, nella primavera del 1912, la flotta si impadronì del Dodecanneso ed effettuò una scorreria dimostrativa nei Dardanelli. Con la pace di Losanna del 1912 l'Italia ottenne la sovranità sulla Libia, impegnandosi a rispettare la libertà religiosa della popolazione mussulmana, e si impegnava a restituire il Dodecanneso non appena la Turchia avesse ritirato le sue truppe dalla Libia. Ma la clausola non entrò mai in vigore, cosicché l'Italia mantenne il Dodecanneso fino al termine della Seconda Guerra Mondiale. Ma la guerriglia libica fu stroncato solo nel 1931 con il ricorso a stragi ed atrocità disonoranti. Così, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, nel marzo 1914, Giolitti è costretto a cedere il testimone al governo Salandra.

 

Valutazione dell'opera del Giolitti.
Il giudizio storico su Giovanni Giolitti è uno dei giudizi più controversi a livello storico. Definito sbrigativamente da Salvemini "ministro della malavita", perché nelle zone depresse e meno politicizzate, specie nel Mezzogiorno, ricorse ai più spregiudicati metodi di pressione per assicurare il successo ai candidati filogovernativi, in realtà lo statista piemontese non creò l'atmosfera di intimidazione nella quale si svolgevano le elezioni nel mezzogiorno, ma fu responsabile nel non impegnarsi a modificarla. Nel complesso, l'impegno del Giolitti fu rivolto all'industrializzazione del paese, al superamento dell'ideologia preindustriale della parsimonia ("chi non consuma non produce") e all'inserimento del proletariato urbano nelle strutture dello Stato Liberale, cose che potevano essere realizzate solo con una solida maggioranza parlamentare, che probabilmente non si poteva ottenere senza il ricorso a quei metodi che nelle zone depresse erano consuetudine, altrimenti lasciando spazio alle forze reazionarie. Lo stesso Salvemini, rivedendo successivamente il suo giudizio, giudica che la non collaborazione tra i socialisti e Giolitti fu la causa della vittoria dei gruppi militari nazionalisti e reazionari. Tuttavia, il Governo Giolitti, anche se fu innovatore per i suoi tempi, fu un governo moderato, che si muoveva sostanzialmente nell'ottica del liberalismo, e non fu un vero e proprio governo "riformatore". Le stesse riforme furono sostanzialmente moderate, poco innovative, anche grazie alla non collaborazione socialista, e di stampo borghese. I governi da lui presieduti non risolsero il problema del meridione d'Italia, anzi accentuarono il divario Nord-Sud, e soprattutto discutibile appare l'impresa di Libia. Merito di Giolitti fu comunque quello di aver favorito lo sviluppo industriale e con la politica del "non intervento" la nascita delle organizzazioni sindacali e partitiche, socialiste e cattoliche, e aver democraticizzato la vita del paese.

 

Autore: non indicato nel documento di origine
Fonte: http://www.parrocchiapoggiosannita.it/documenti/utili/STORIA/L%27ETA%27%20GIOLITTIANA.doc

 

GIOVANNI GIOLITTI, LE RAGIONI DELLA NEUTRALITA’

Alle discussioni che si facevano nei corridoi della Camera io allora partecipai, manifestan­do apertamente le mie opinioni e dandone le ragioni. I fautori della guerra sostenevano al­lora l'urgenza di prendervi parte, ritenendo che essa sarebbe stata di breve durata; teme­vano che, venendo a finire senza il nostro intervento, si perdesse una magnifica occasione per compiere l'unità nazionale ed affermavano che l'intervento nostro, rompendo l'equi­librio delle forze, avrebbe fatto finire la guerra in tre o quattro mesi. E che anche il gover­no prevedesse allora una guerra brevissima è provato da molti indizi, e soprattutto dal testo del patto di Londra, col quale l'Italia si obbligava di entrare in guerra. In quel patto infat­ti per la parte finanziaria, si era stipulato solamente l'obbligo dell'Inghilterra di facilitare all'Italia un prestito di cinquanta milioni di sterline, somma inferiore a quanto abbiamo poi speso in ogni mese di guerra; inoltre in quel patto non si era fatto accordo alcuno per i no­li marittimi, né per gli approvvigionamenti di carbone, ferro, grano, e di altre materie che a noi mancano, e che erano indispensabili per una guerra che non fosse brevissima. Anche i provvedimenti finanziari interni erano stati ordinati solo per alcuni mesi; ed alcuni di­spacci diplomatici, pubblicati nel libro verde distribuito al Parlamento alla nostra entrata in guerra, e che preannunciavano come imminente l'uscita dell'Austria dal conflitto e la sua pace separata con la Russia, mostravano, pel fatto stesso della loro pubblicazione in quel momento, che il governo pensava che qualunque ritardo potesse essere pericoloso. Io avevo invece la convinzione che la guerra sarebbe stata lunghissima, e tale convinzione manifestavo liberamente a tutti i colleghi della Camera coi quali ebbi occasione di discor­rerne. A chi mi parlava di una guerra di tre mesi rispondevo che sarebbe durata al­meno tre anni, perché si trattava di debellare i due imperi militarmente più organizzati del mondo, che da oltre quarantanni si preparavano alla guerra; i quali, avendo una popola­zione di oltre centoventi milioni potevano mettere sotto le armi sino a venti milioni di uo­mini; che l'esercito dell'Inghilterra, di nuova formazione, sarebbe stato in piena efficienza, come dichiarava lo stesso governo inglese, solamente nel 1917; che il nostro fronte, sia ver­so il Carso, sia verso il Trentino, presentava difficoltà formidabili. Osservavo d'altra parte che atteso l'enorme interesse dell'Austria di evitare la guerra con l'Italia, e la piccola parte che rappresentavano gli italiani irredenti  in un impero di cinquantadue milioni di popolazione, si avevano le maggiori probabilità che trattative bene condotte finissero per portare di'accordo. Di più consideravo che l'impero austro-ungarico, per le rivalità fra Austria ed Ungheria, e soprattutto perché minato dalla ribellione delle nazionalità oppresse, slavi del sud edel nord, polacchi, czechi, sloveni, rumeni, croati ed italiani, che ne formavano la maggioranza, era fatalmente destinato a dissolversi, nel qual caso la parte italiana si sarebbe pacificamente unita all'Italia.


Inoltre, ricordando le peripezie della Russia durante la guerra col Giappone (1905) e la violenta rivoluzione scoppiata dopo quella guerra, a me pareva dubbio che ad una guerra di molti anni quell'impero potesse resistere. All'intervento degli Stati Uniti di America, che fu poi la era determinante di una più rapida vittoria, allora nessuno pensava, né poteva pensare. Ciò che era facile prevedere erano gli immani sacrifici d'uomini che avrebbe imposti la guerra per la terribile sua violenza dati i nuovi, potenti e micidiali mezzi di offesa e di difesache la scienza e la tecnica moderna avevano inventati e che allora erano già messi in opera sul fronte francese e sul fronte russo; come era facile prevedere che un conflitto così tremendo avrebbe segnata la totale rovina di quei Paesi ai quali non avesse arriso una completa vittoria. Oltre a ciò una guerra lunga avrebbe richiesto colossali sacrifici finanziari, specialmente gravi e rovinosi per un Paese come il nostro, ancora scarso di capitali, con molti bisogni e con imposte ad altissima pressione. Consideravo ancora che la guerra assumeva già allora il carattere di lotta per la egemonia del mondo, fra le due maggiori Potenze belligeranti, mentre era interesse dell'Italia l'equilibrio europeo, a mantenere il quale essa poteva incorrere solamente serbando intatte le sue forze.
G. Giolitti, Memorie della mia vita, Garzanti, Milano 1967, pp. 322-323.

Fonte: http://antoniolionello.files.wordpress.com/2007/11/giolitti.doc

 

Giovanni Giolitti

 

 

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