Il sessantotto 1968

 


 

Il sessantotto 1968

 

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1968: UN ANNO DI SCONVOLGIMENTO MONDIALE

 

Gli anni sessanta - settanta, scanditi dallo ormai mitico ‘68, hanno rappresentato forse il periodo più significativo, sicuramente il più innovativo della storia di questo secolo. Sono stati anni di trasformazioni profonde e di grandi speranze collettive che hanno coinvolto in un unico movimento tantissime persone di origini sociali molto diverse, accomunate da parole d’ordine in cui accanto alla lotta di classe si parlava anche di qualità della vita.
Il '68! Un vento di filosofica follia si trasmette dalla costa californiana al mondo: sono i valori borghesi del secolo, le caparbie filosofie del benpensantismo, l'abbigliamento, la musica, la cultura tradizionale, la superbia e altezzosità da ufficio, a venire lacerati, dissacrati e travolti in un'ondata di provocatoria, ubriacante e irritante giovinezza.
Una follia che fece però venire a galla la fragilità della cultura collettiva e la grande insicurezza di molte ideologie schiacciate dagli eventi passati e recenti che avevano impedito di far maturare i popoli negli ultimi anni. Erano quei giovani dei "folli" ma con lampi di intelligente genialita', pari ai lampi di stupidita' dei "saggi", arroccati nell'immobilismo dentro le loro oscurantistiche torri d'avorio, o seduti a dottoreggiare e pontificare nelle aule, nel Parlamento, nelle sedi dei Partiti e perfino dentro le Curie.

 

 


 Si e' scritto che dopo il '68 il mondo non fu piu' quello di prima. E se non fu proprio molto diverso, certamente non era piu' uguale dopo la "primavera abbagliante" vissuta dai giovani di questa generazione. Non piu' uguale perche' si ando' ben oltre la contestazione studentesca che viene sempre ricordata. E di crepe dentro il "sistema" ce ne furono molte, e alcune, ma forse tutte, furono epocali, di diritto entrate nelle pagine della storia recente e saranno sempre in evidenza in quella futura.
"Si inizia un giorno a esser rivoluzionario e non si finisce piu' di esserlo, perche' ogni giorno la conoscenza si arricchisce, le idee si chiariscono, lo spirito si rafforza e nessuno puo' dire che era piu' rivoluzionario ieri di oggi o che domani sara' meno rivoluzionario di oggi" scriveva Fidel Castro.
Allen Ginsberg dira' vivendo questo periodo: "Noi siamo tutti dei personaggi transitori. Noi teniamo troppo del passato per essere avvenire. Ora ci eclisseremo per far posto alle genti a cui appartengono veramente l'avvenire e la nuova società".
E' dunque un anno detonatore per tutto il mondo. Quando, dove e come parti' la scintilla della rivolta studentesca nessuno lo sa. Forse parti' nelle universita' americane quando iniziarono a reclutare per mandare in Vietnam gli studenti con i voti scadenti. Forse in Francia a Nanterre. Forse a Roma. Forse a Pechino. Forse ad Atene. A Praga. A Tokio. In Brasile oppure in Messico, dove, li' non si ando' tanto per il sottile, l'esercito affronto' gli studenti con i bazooka provocando stragi con centinaia di morti nella grande Piazza delle Tre Culture (!).
Il fenomeno fu planetario, pieno di espressioni di animosita', le une e le altre non reciprocamente influenzate e ispirate, perche' contemporanee a diverse latitudini, dunque al di fuori di ogni razionalita' e di ogni studio psicologico, sociologico e politico. Accadde nei Paesi democratici, in quelli fascisti e in quelli comunisti.
Quel che e' certo e' che ogni rivolta fu guidata da capi intellettualmente freschi e provocatori dentro un contesto generazionale costituito da seguaci e altrettanto non stagionati agitatori. Per rimanere in Europa alcuni nomi significativi, tutti poco più che ventenni: DANIEL COHN BENDIT in Francia, RUDI DUTSCHKE in Germania, MARIO CAPANNA in Italia. Una contestazione giovanile che si propago',contagiando il pianeta, in tutta l'Europa, e sembro' travolgere le vecchie strutture e i sistemi di pensiero acquisiti.
E' l'anno della "rottura" anche in Italia. Riformismi malaccorti, cedimenti a interessi corporativi e comportamenti anche irrazionali poggianti su un utopistico marxismo- maoismo, andranno a determinare una generale atmosfera antindustriale e provocheranno notevoli mutazioni psicologiche nelle realta' sociali, di cui le principali erano spinte dalle mutate motivazioni scuola-lavoro. L'organizzazione scientifica del lavoro con il taylorismo (la catena di montaggio) sta crollando; la demotivazione fabbrica-cottimo non era stata prevista a tempi cosi' brevi e la grande industria conosce la sua crisi fra scioperi, sabotaggi, occupazioni, con mobilitazioni e forti contestazioni, dove e' purtroppo carente una globale strategia sindacale, contestata alla base e quindi affannosamente essa stessa alla ricerca di una unita' meno dipendente dai partiti: troppo legata a vecchie concezioni del tipo "operaio-proletario" dunque meno attenta all'evoluzione in atto del nuovo tipo, cioè il "lavoratore sociale".
Ma Wiener lo aveva gia' annunciato nel 1950. "Gli uomini non diventeranno mai formiche.... La condizione umana modellata su quella della formica e' dovuta a una fondamentale ignoranza e incomprensione sia della natura della formica che della natura dell'uomo".
Sta cambiando l'Italia e il suo modello di sviluppo, quella che si appoggia ancora in buona parte su una massa proletaria analfabeta (i padri dei sessantottini) con la sua misera "scuola" di classe, tagliata su misura dai ricchi, e difesa dai conservatori rimasti arroccati dentro le loro fortezze istituzionali, non concedendo aperture e riforme nemmeno davanti alle proteste, che sono subito liquidate dai media: "ragazzate", "studenti svogliati", " queste cose da giovani le abbiamo fatte anche noi, ma ora basta, andate a casa". Invece c'era ben altro.
E' insomma nato il SESSANTOTTO, un singolare "INVOLUCRO".
Chauteabriand scriveva "Tutto accade grazie alle idee; le idee producono i fatti, che servono loro soltanto d'involucro". E aggiungeva Nievo: "dove tuona un fatto, siatene certi, li' ha lampeggiato un'idea".
E Arendt a proposito dei "tuoni" del '68: "E' stato fatto dipendere da tutti i tipi di fattori sociali e psicologici - da un'eccessiva permissivita' della loro educazione in America e da una reazione a un eccesso di autorita' in Germania e in Giappone, da una mancanza di liberta' nell'Europa orientale e da troppa liberta' in Occidente......tutte cose che appaiono localmente abbastanza plausibili ma che sono chiaramente contraddette dal fatto che la rivolta degli studenti e' un fenomeno mondiale. Un comune denominatore sociale del movimento sembra fuori discussione, ma e' anche vero che psicologicamente questa generazione sembra dappertutto caratterizzata dal semplice coraggio, da una sorprendente volonta' di agire e da una non meno sorprendente fiducia nella possibilita' di cambiamento. Ma queste qualita' non sono cause, e se ci si domanda che cosa ha effettivamente provocato questa evoluzione del tutto inaspettata nelle Universita' di tutto il mondo, sembra assurdo ignorare il piu' ovvio e forse il piu' potente dei fattori, per il quale, per giunta, non esistono precedenti ne' analogie: il semplice fatto che il "progresso" tecnologico porta in molti casi direttamente al disastro, cioe' che le scienze, insegnate e apprese da questa generazione, sembrano non soltanto incapaci di modificare le disastrose conseguenze della propria tecnologia ma hanno anche raggiunto un livello tale di sviluppo per cui non e' rimasta neanche una maledetta cosa che uno possa fare e che non possa venire trasformata in guerra" (Arendt, Politica e menzogna, Milano, 1985).
E ancora: "L'idea non e' affatto quella di impadronirsi del potere, ma di costruire spazi di libera espressione e comunicazione, che consentono di diventare soggetti di decisione e azione. Spazi fisici: strade e piazze ... ma anche altri luoghi in genere gia' pubblici, che vengono trasformati e adattati anche al privato: ma contemporaneamente spazi espressivi, nei mezzi di comunicazione di massa, attraverso parole e immagini; e naturalmente spazi politici all'interno dell'organizzazione e del sapere e subito dopo in punti nevralgici del sociale, come i rapporti tra le classi lavoratrici e gli strati intellettualizzati della societa'. (Passerini, Il ‘68 nella storia dei processi di comunicazione).
I partiti comunisti, le sinistre europee e mondiali, ma anche tutti gli altri partiti democratici, guardarono interdetti, ma non ancora traumatizzati, la "violenza espressiva" del movimento studentesco che li aveva colti di sorpresa, con la guardia abbassata proprio mentre in ogni Paese, era in atto un convulso travaglio ideologico. E come l'occidente capitalista, anche l'oriente marxista entro' in una crisi di profonda riflessione.
Fortunatamente per i teorici dei vecchi equilibri, l'ondata rivoluzionaria in Italia si spense in fretta con l'ultimo "botto" a fine anno, a mezzanotte, alla Bussola: a sparare ad altezza d'uomo fu un ufficiale di pubblica (!) sicurezza; e, al declinare dei fermenti di lotta, molti tirarono un sospiro di sollievo. Ma si erano sbagliati: si era appena all'inizio. Non si erano per nulla approfondite alcune realta' che erano invece state partorite mostruosamente (e antevedute da Pasolini) nel corso di questo intero anno: inizialmente nelle occupazioni delle Universita', poi nelle mobilitazioni sul lavoro; e perfino (anche qui molta cecita') in quelle nel mondo religioso che vedono la luce proprio a Firenze pochi giorni prima dell'ultimo "botto" studentesco a Marina di Pietrasanta.
Alla fine del '68, dove c'e' una realta' molto diversa dal '48, c'e' un anomalo traghettamento a sinistra della DC compiuto da Moro; c'e' un forte dissenso cattolico dentro la Chiesa; e si stanno muovendo in un modo quasi a tutti incomprensibile i moti studenteschi; le strutture anti insurrezionali diventano così molte (21 di numero), piu' sofisticate, clandestine come nel '48; anzi peggio, perchè non rispondono piu' ai potenti leader politici o al potere esecutivo ma sono gestite, alcune di queste strutture, da personaggi autonomi, pur essendo loro stessi dentro le istituzioni; ma nonostante questo darsi da fare, tutti sono impreparati e incapaci, convinti di trovarsi davanti a moti di piazza del tipo 1948; invece i gruppi autonomi prendono ora precisi ordini da "professori" , da "generali", da "colonnelli", da "capitani" o ex capitani , e iniziano a operare con l'autodecisione, in quella che si chiamera' poi "strategia della tensione".

 

Il ’68 in Italia

Il sessantotto italiano inizia con qualche mese di anticipo sul calendario e si prolunga ben oltre il 31 dicembre. Il profondo sommovimento iniziato in quell'anno durerà infatti oltre un decennio, e coinciderà con una radicale modernizzazione complessiva del paese. Ad accendere la miccia sono gli studenti universitari. Nell'autunno del 1967 occupano gli atenei di tutte le principali città del centro-nord, con la sola esclusione di Roma.
Nel mirino della contestazione ci sono soprattutto la connotazione classista del sistema dell'istruzione, denunciata anche da una parte del mondo cattolico a partire da don Lorenzo Milani, autore del severo atto d'accusa Lettera a una professoressa, e l'autoritarismo accademico, interpretato come addestramento a un consenso e a una passività globali, per nulla limitati allo specifico universitario.
La critica del movimento studentesco, i cui principali testi teorici vengono elaborati nelle università di Pisa, Torino e Trento, si appunta tanto contro il sistema capitalistico quanto contro le organizzazioni della sinistra, accusate di aver rinunciato a qualsiasi ipotesi di trasformazione radicale dell'esistente.
Di fronte al dilagare delle occupazioni i rettori chiedono l'intervento della polizia. Occupazioni, sgombri e nuove occupazioni si susseguono. A Torino, Palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche, viene sgombrato e rioccupato più volte in un braccio di ferro che si concluderà con un diluvio di denunce ai danni degli occupanti. Il 2 febbraio viene occupata l'università di Roma, la più grande d'Italia. Alla fine del mese, il rettore D'Avack fa intervenire la polizia.
Il giorno dopo, primo marzo, un corteo di protesta arriva a Valle Giulia, sede della facoltà di architettura, e forza i blocchi della polizia. Gli scontri durano per ore. L'eco è enorme. I giornali, in edizione straordinaria, parlano di "battaglia". Con i fatti di Valle Giulia il movimento studentesco si sposta definitivamente dal piano di una protesta universitaria a quello della contrapposizione frontale con l'intero assetto sociale.
Nella cultura del movimento confluiscono i diversi filoni di pensiero critico e di protesta sociale che avevano costellato gli anni '60; l'elaborazione delle riviste della sinistra non istituzionale e quella dei vari gruppi cattolici dissenzienti; la critica alla società dei consumi elaborata dalla Scuola di Francoforte e da Herbert Marcuse nel suo celebre "L'uomo a una dimensione" e i fermenti terzomondisti innescati dalle lotte di liberazione dei popoli ex coloniali e dalla guerra nel Vietnam; l'"antipsichiatria" praticata da Franco Basaglia nell'ospedale di Gorizia e il movimento libertario giovanile sviluppatosi negli anni del "beat italiano".
Inizialmente meno visibile, ma destinata ad affermarsi sempre di più negli anni successivi, sino a mettere in discussione l'intera impostazione politica del movimento, è l'originale versione del femminismo impostata da alcune pensatrici italiane.
L'inequivoco schieramento all'estrema sinistra del movimento studentesco scatena i neofascisti. Il 16 marzo, guidati dai deputati del Msi Anderson e Caradonna assaltano la facoltà di lettere a Roma. Messi in fuga si barricano nella facoltà di legge tirando dalle finestre banchi e armadi. Il leader del movimento studentesco Oreste Scalzone resta gravemente ferito.
La protesta degli studenti non trova alcun ascolto nel quadro politico di governo.
Da cinque anni l'Italia è guidata da una maggioranza di centro sinistra, basata sull'alleanza tra Dc e Psi, che ha rapidamente accantonato le iniziali promesse riformiste. Offrono invece una sponda al movimento i partiti di sinistra, il Pci e il Psiup. Si tratta però di un flirt di breve durata.
Il Pci guarderà infatti prima con crescente sospetto, poi con aperta ostilità a un movimento che rifiuta di riconoscerne la leadership. Nelle elezioni politiche che si tengono in maggio, il Pci registra una lieve avanzata e il neonato Psiup, che raccoglie la maggior parte dei voti del movimento, coglie un notevole successo. Crollano invece i socialisti, che perdono oltre cinque punti percentuali, mentre la Dc mantiene le sue posizioni pressoché invariate.
Il vento della protesta arriva, senza ancora investirle in pieno, anche nelle grandi fabbriche del nord. In aprile, a Valdagno, gli operai tessili della Marzotto si scontrano con la polizia e abbattono la statua di Gaetano Marzotto, fondatore della dinastia e dell'azienda. In estate un aspro conflitto operaio si accende al Petrolchimico di Porto Marghera. In ottobre, alla Pirelli di Milano, nasce il Cub, comitato unitario di base, prima struttura autonoma operaia svincolata dalla leadership dei sindacati. Fatto ancor più rilevante, il 7 marzo uno sciopero generale indetto dai sindacati registra per la prima volta da anni una massiccia adesione degli operai Fiat, la principale industria del paese.
In estate, con le università chiuse, la contestazione si sposta sul terreno delle istituzioni culturali. Artisti e studenti interrompono la Biennale e la mostra del cinema di Venezia. In autunno la palla passa agli studenti medi che occupano ovunque gli istituti e riempiono le piazze con grandi cortei. Il 3 dicembre a Roma sfilano 30.000 studenti medi. Alla protesta contro l'assetto scolastico si somma quella contro la polizia, che il giorno prima, ad Avola, Sicilia, ha aperto il fuoco contro una manifestazione di braccianti uccidendone due.
Il 1968 si chiude nel sangue. La notte del 31 dicembre gli studenti pisani contestano un veglione di lusso di fronte al locale versiliese "La Bussola". Viene ferito il sedicenne Soriano Ceccanti, che resterà paralizzato. Nel '69 sono gli operai a impedire che il movimento degli studenti declini come nel resto d'Europa. Tra maggio e giugno, alla Fiat, una serie di scioperi spontanei e improvvisi, proclamati al di fuori del controllo sindacale, paralizza la produzione per oltre 50 giorni. In prima fila ci sono gli operai meno qualificati e meno sindacalizzati, spesso immigrati dal meridione, che danno vita a un'assemblea congiunta con gli studenti. La radicalità dello scontro si rivela in pieno quando il 3 luglio, in occasione di uno sciopero generale cittadino, gli operai torinesi affrontano per 24 ore la polizia.
Il conflitto riprende su larga scala in autunno, quando arrivano a scadenza i contratti di lavoro che riguardano oltre 5 milioni di operai. L’ '"autunno caldo" segna il momento di massimo scontro sociale nell'Italia del dopoguerra. Gli operai rinnegano la suddivisione della forza lavoro in fasce diversamente qualificate e chiedono che il salario sia svincolato dalla produttività. Nascono in questi mesi i principali gruppi della sinistra extraparlamentare, mentre i sindacati, in un primo momento colti di sopresa dalle dimensioni dell'agitazione operaia, danno vita a strutture unitarie di base, i Consigli di fabbrica.
In un clima di asprezza senza precedenti, il 12 dicembre a Milano una bomba deposta nella Banca nazionale dell'agricoltura uccide 12 persone. E' l'inizio della strategia della tensione, una sanguinosa catena di stragi che si ripeteranno per tutti gli anni '70 e i cui colpevoli non verranno mai scoperti. Sull'onda della strage di Milano, della quale viene accusato un gruppo di anarchici poi assolti, i contratti vengono firmati prima della fine dell'anno. Lo scontro sociale però non si interrompe neppure così. Negli anni '70 si allargherà ulteriormente, sino a coinvolgere oltre agli operai e agli studenti, praticamente tutti i settori della società civile.

 

Movimento U.S.A.

La lotta degli studenti universitari americani è sin dai suoi albori indistricabilmente collegata al movimento pacifista e a quello per i diritti civili.
I militanti che qualche anno dopo dirigeranno i primi scioperi studenteschi si erano formati nelle manifestazioni contro la guerra fredda e contro la minaccia di distruzione nucleare dell'inizio del decennio e nella pericolosa battaglia contro il segregazionismo negli stati del sud, con le spedizioni dei Freedom Riders, studenti bianchi e neri, per lo più provenienti dal nord e dall'ovest, che si recavano negli stati del sud per "desegregare" materialmente i luoghi pubblici, spesso a rischio della vita.
Le università più sensibili a queste tematiche sono quelle private d'élite e il gruppo etnico più massicciamente rappresentato è quello dei giovani radicals provenienti dalla comunità ebraica.
Verso la metà del decennio queste correnti, corroborate dalle speranze accese dalla Nuova Frontiera kennediana e formalizzate nel Manifesto di Port Huron del '62, stilato dai leaders dell'Sds, si incontrano con la spinta antiautoritaria e antirepressiva.
Il controllo sulla circolazione notturna tra aree femminili e maschili dei campus e i divieti opposti dalle autorità accademiche ai tentativi di fare politica nelle università, portano nel '64 alla rivolta di Berkeley e alla nascita del Free Speech Movement che guida quella rivolta.
Il '64 è il vero anno chiave nella vicenda del movimento americano per numerosi altri motivi. Il coinvolgimento nel conflitto tra Vietnam del nord e del sud, avviato già da Kennedy con l'invio dei primi "consulenti", fa nel '64 il passo decisivo verso l'impegno bellico.
La rivolta di Harlem, in estate inaugura il ciclo delle sanguinose rivolte nei ghetti. Entrambe le vicende incidono in modo determinante sul movimento studentesco. A partire dal '65 non sarà più possibile, infatti, tracciare una precisa linea di divisione tra lotta studentesca e impegno contro la guerra e i bombardamenti.
Tutti i principali momenti di lotta nei campus, dai grandi scioperi alle occupazioni, prenderanno infatti di mira la guerra nel sud est asiatico. Direttamente, con la cacciata dei reclutatori dalle università e con le manifestazioni contro gli uomini del governo in visita, e, più spesso, indirettamente, denunciando il coinvolgimento delle università nello sforzo bellico, soprattutto a livello di ricerca tecnico-scientifica, e chiedendo l'interruzione dei rapporti, spesso strettissimi, tra grandi università e istituzioni militari o paramilitari.
La solidarietà con la rivolta dei ghetti è anch'essa un fatto saliente e le rivolte della Columbia, a New York, e Berkeley in California, le due capitali del movimento, saranno spesso collegate al movimento dei neri. L'effetto delle insurrezioni delle comunità nere, tuttavia, è ovviamente assai più forte tra gli studenti neri.
Tutti i leader del Black Power provengono infatti dalle università e l'Sncc, l'associazione degli studenti neri diventata separatista a metà del decennio, è quel che più si avvicina alla struttura organizzativa di un movimento.
Il '68 segna non solo la radicalizzazione del movimento, ma anche l'inizio del suo allargamento, dai campus privati frequentati dall'élite alle università statali, nelle quali fino ad allora avevano prevalso i falchi. Si tratta di un processo che proseguirà per tutto il biennio successivo, per raggiungere la fase di massima espansione nel 1970, in seguito all'invasione della Cambogia e all'uccisione di quattro studenti nella Kent State University dell'Ohio, appunto una università statale.
Nello stesso biennio, tuttavia, svanisce il sogno di unità tra i gruppi etnici all'interno del Movement. La guerra nel Vietnam è infatti di gran lunga il fattore di mobilitazione più sentito dalla massa degli studenti bianchi. Si crea così una frizione crescente con il Black Panther Party, che dal '68 ha assunto la guida del movimento nero.
Nel '68/’69 le pantere avevano cercato con i gruppi radicali bianchi un collegamento rifiutato fino allora dal Black Power. Ma, dovendo subire una repressione di violenza inaudita, le pantere resteranno profondamente deluse dalla mobilitazione dei bianchi, assai meno massiccia e decisa di quella contro la guerra. A questo si deve poi aggiungere la tensione tra neri ed ebrei, soprattutto in seguito alla situazione in medio oriente. All'interno del movimento bianco, si registravano, inoltre, nel biennio che va dalla fine del '68 al '70 divisioni crescenti tra i vari gruppi nei quali si divide il movimento.

 

Movimenti nell’America Latina

 

Il 1968 latinoamericano non rappresenta una data spartiacque, come invece accade in Europa e negli Stati Uniti. I dodici mesi di quell'anno non vedono il sorgere di nuovi soggetti sociali, nuove tematiche e nuovi protagonisti (anche se il tratto unificante con altri '68 può essere individuato nel ruolo degli studenti e in quello del passaggio dalla centralità delle campagne alla centralità delle aree urbane).
Non c'è un "prima" e un "dopo", quanto piuttosto la continuazione di processi che si erano radicati in America Latina all'inizio del decennio Sessanta: guerriglie, autoritarismo militarista e rivolte studentesche, ma anche un tumultuoso sviluppo di una cultura critica (dalla letteratura al cinema, alle scienze sociali), percorrono in modo trasversale quasi tutti i Paesi più importanti di quest'area.
Il terzomondismo sessantottino è una acquisizione europea che tende a collocare la contraddizione più rilevante del capitalismo-imperialismo di quella fase nei Paesi sottosviluppati e in via di emancipazione (Algeria, Vietnam e Cuba sono tre realtà-simbolo che mettono per la prima volta al centro della politica mondiale quanto accade in Africa, Asia e America Latina).
Il primo episodio rilevante di quell'anno, segnato dal culmine di una straordinaria fioritura letteraria che aveva accompagnato tutto il decennio, è il Congresso culturale che si svolge a L'Avana dal 4 all'11 gennaio. Per una settimana si riuniscono nella capitale cubana intellettuali e rappresentanti dei movimenti di liberazione provenienti da tutto il mondo. L'appuntamento si apre con la lettura di un messaggio del filosofo francese Jean-Paul Sartre e si conclude con una risoluzione in cui si fissano i compiti delle donne e degli uomini di cultura al servizio delle rivoluzioni emergenti nel Terzo mondo.
Il Congresso "saluta nel comandante Ernesto Che Guevara l'esempio dell'intellettuale rivoluzionario dei nostri tempi che, abbandonando incarichi e onori, va a combattere per qualsiasi popolo oppresso della Terra".
È la conferma che Cuba costituisce in quel periodo un punto di riferimento per l'intera America Latina. La rivoluzione del 1959, che si è dichiarata "socialista" nel 1961, è l'evento clou che caratterizza il decennio fino al lento deflusso verso l'alveo dell'Unione Sovietica e del "socialismo reale" che seguirà inesorabilmente alla morte di Guevara in Bolivia (9 ottobre 1967).
Ma il '68 cubano è anche quello dell'inatteso appoggio all'invasione sovietica di Praga che sancisce la fine di una fase, quella della ricerca di un'autonoma strategia per sé e per altri Paesi latinoamericani.
Con la rivoluzione cubana si delinea per la prima volta in America Latina la possibilità di assumere il socialismo come alternativa alla vecchia idea dominante nei partiti della sinistra che ritenevano necessario il compiersi di una rivoluzione borghese prima di pensare a obiettivi più avanzati.
Ai movimenti di guerriglia che in molte realtà cercano di imitare quanto hanno fatto Fidel Castro e Ernesto Guevara con il Movimento 26 luglio a Cuba, si contrappone la strategia degli Stati Uniti che fin dal 1962 - con l'Alianza para el progresso varata dal presidente John Fitzgerald Kennedy - recuperano il pieno controllo dell'area latinoamericana vincolando investimenti economici e finanziari al proprio predominio politico.
Quasi tutti i movimenti guerriglieri, in risposta a Washington, si rifanno alle idee di Guevara e a un testo teorico scritto nel 1967 dal francese Regis Debray, "Rivoluzione nella rivoluzione?": la tradizionale fragilità democratica e borghese dell'America Latina viene individuata come chance e non più come handicap; il metodo d'azione prescelto è quello della lotta armata.
La morte del Che nel 1967 fa intravedere cosa sarebbe accaduto nel periodo successivo: la sconfitta in Bolivia chiude simbolicamente la speranza di un rapido propagarsi di vittoriose guerriglie in altri Paesi latinoamericani (Guevara pensava di passare dalla Bolivia al Perù all'Argentina) che avrebbero potuto evitare il ripiegamento cubano verso Mosca e accrescere le possibilità di riscatto di questa parte del mondo.
Come era avvenuto negli anni precedenti (dittatura militare in Brasile a iniziare dal 1964), il braccio di ferro tra guerriglie e repressione sotto forma di golpe e di sottomissione dei pochi governi civili alle indicazioni delle oligarchie legate a Washington si protrarrà fino alla data simbolo dell'11 settembre 1973, quando il colpo di Stato del generale Augusto Pinochet a Santiago del Cile dimostrerà che il socialismo non è perseguibile in modo indolore né con le teorie del foco guerrigliero né con i metodi elettorali seguiti dal presidente Salvador Allende.
Se si rilegge la cronologia del 1968 latinoamericano, gli episodi più significativi sono un indicatore di quel braccio di ferro senza esclusione di colpi.
Il 16 gennaio, a Città del Guatemala un gruppo di guerriglieri del movimento Far uccide due ufficiali del comando americano presente in quella capitale: gli Stati Uniti sono additati come i responsabili dell'assassinio di almeno quattromila guatemaltechi in pochi anni. La risposta all'azione guerrigliera è lo stato d'assedio in tutto Paese
A giugno la rivolta scoppia in Argentina, mentre il governo festeggia l'anniversario del colpo di stato del generale Juan Carlos Onganía: nella sola Buenos Aires vengono effettuati cinquecento arresti.
Il 13 giugno Pacheco Areco, presidente dell'Uruguay, decreta la limitazione delle libertà civili: il movimento dei Tupamaros abbandona la legalità e sceglie la guerriglia, scontri a fuoco e azioni dimostrative si protrarranno nel corso dell'intero '68.
Il 28 luglio scoppia la rivolta studentesca a Città del Messico, la polizia replica con bazooka e carri armati. Il 21 settembre, nella capitale messicana, divampano nuovi scontri: vengono arrestate 736 persone. Il 30 settembre viene occupata l'Università di Vera Cruz in Messico.
Il 3 ottobre, in Perù, viene deposto dai militari il governo civile del presidente Belaunde Terry. Lo stesso giorno, a piazza delle Tre culture di Città del Messico, 10 mila studenti vengono attaccati dalla polizia che apre il fuoco con le mitragliatrici: i morti sono oltre 300.
Il 12 ottobre un colpo di Stato depone a Panama il presidente Arias.
Il 14 dicembre il governo militare in Brasile compie un ennesimo giro di vite (un golpe nel golpe): 3 mila persone sono arrestate e private dei diritti politici, il presidente Costa e Silva sospende le garanzie costituzionali. Il 1968 latinoamericano presenta tutti i segnali di ciò che avrebbe segnato la sconfitta delle idee di Guevara: emergenza di un nuovo militarismo (istituzionale e non caudillesco), isolamento delle guerriglie nazionali, divisione della sinistra tradizionale e comunista su cui pesa l'ombra della rottura del movimento comunista internazionale in seguito allo scisma tra Mosca e Pechino.
L'Avana, inoltre, dopo la morte del Che ripiega e istituzionalizza la sua rivoluzione allentando i rapporti con i movimenti insurrezionali.
Ma in questa parte del mondo si evidenzia anche il sorgere di una questione cattolica che produce la cosiddetta "teologia della liberazione" e unifica aspirazioni rivoluzionarie marxiste e di origine cattolica, come avviene emblematicamente nella figura del prete guerrigliero Camilo Torres (è il risultato dell'impatto modernizzante del Concilio vaticano II sull'America Latina).
Con una piccola forzatura si può sostenere che il 1968 latinoamericano reca con sé i segni evidenti dell'incombente sconfitta, mentre l'onda lunga del 1968 europeo si protrarrà per tutto il decennio Settanta e riuscirà perlomeno a provocare una "rivoluzione passiva" (cambiamento degli stili di vita e delle culture dominanti).
In America Latina gli anni Settanta e Ottanta sono soprattutto decenni "neri", nonostante la rivoluziona sandinista che vince in Nicaragua nel 1979.
Il capitalismo-imperialismo tornerà a dominare l'intera area, pur non riuscendo a piegare la resistenza isolata di Cuba che sopravviverà con l'aiuto di Mosca in una sorta di ghetto dorato, grazie agli ingenti aiuti economici che verranno dai Paesi del "socialismo reale" e che permetteranno di reggere all'embargo decretato in modo unilaterale da Washington nel 1962.

 

Il Vietnam nel ‘68

 

Il Vietnam non fu una delle tante guerre coloniali. Per i giovani che nel '68 si ribellavano, in tutto il mondo, contro i poteri dominanti, il Vietnam fu molto di più. Fu il primo atto della presa di coscienza dei limiti dell’Occidente democratico.
La resistenza tenace e i sacrifici di quel remoto popolo contadino mostrarono ai giovani dell'Occidente che la grande democrazia Usa non era abbastanza democratica da consentire che qualcuno, in una lontana provincia dell'Asia, scegliesse di percorrere una strada diversa dalla sua.
Il Vietnam ebbe ovunque valore d'esempio perché mostrava che la più grande potenza militare, tecnologica e finanziaria mondiale non riusciva ad aver ragione d'un popolo che combatteva per la propria indipendenza e libertà. Dopo la vittoria del 1975, le asprezze della politica vietnamita e i conflitti per l'egemonia nell'area delusero le aspettative di chi per il Vietnam libero si era battuto.
Ma il Vietnam resta comunque l'esempio unico di una guerra che fu combattuta non solo nella giungla e nelle risaie, ma nelle strade, nelle piazze e nelle università di tutto il mondo. Fu lì che si consumò la vera sconfitta degli Stati Uniti. In Vietnam il '68 inizia con quella che passerà alla storia come l'offensiva del Tet. Per il Tet, il capodanno lunare che si festeggia alla fine di gennaio, Van Thieu, presidente del Sud Vietnam, aveva annunciato una tregua di 48 ore. Il 27 gennaio iniziava la tregua di una settimana proclamata dal Fnl (Fronte nazionale di liberazione).
Ma il 30 gennaio, di sorpresa, l'Fnl e l'esercito nordvietnamita lanciano la grande offensiva del Tet: i guerriglieri spuntano dalla giungla e attaccano simultaneamente 140 centri grandi e piccoli, i quartieri generali dell'esercito di Saigon, otto comandi di divisione su undici, trenta aeroporti e quattordici basi aeree. E' l'attacco più massiccio nella storia della guerra vietnamita.
Nel Vietnam gli americani avevano rimpiazzato il colonialismo francese, sconfitto nel 1954 a Dien Bien Phu dall'esercito del Viet Minh, guidato dal generale Giap. Il Viet Minh era stato fondato nel 1941 per volontà del Partito comunista indocinese, presieduto da Ho Chi Minh.
Contro il regime fantoccio di Diem, insediato nel Sud del Vietnam con l'appoggio americano, si costituì nel dicembre del 1960 il Fronte nazionale di liberazione del Vietnam del Sud.
Già l'anno successivo i guerriglieri occupavano buona parte delle campagne, mentre nelle città si andava sviluppando la protesta buddista: nel 1963 il primo monaco, a Saigon, si dà fuoco; al rafforzarsi dell'opposizione e della guerriglia il regime di Diem, e poi di Van Thieu, risponde con una spietata repressione.
Nel frattempo cresce in modo progressivo e costante l'impegno Usa per sostenere il regime sudvienamita. Durante la presidenza Kennedy (1960-1963) si sostituisce al piano di guerra speciale una forma di intervento più massiccia: consiglieri militari Usa dirigono sul campo l'esercito sudvietnamita, comincia l'impiego delle bombe al napalm contro i villaggi dei contadini, e l'uso massiccio dei diserbanti e dei defolianti, che hanno compromesso per lungo tempo i raccolti e la salute dei sudvietnamiti.
Nel 1964 il presidente Johnson inizia l'escalation, con l'uso dei megabombardieri B52 per colpire il territorio del Vietnam del Nord. Alla fine del 1965 le truppe Usa arrivano a 175mila unità. Ma in Usa e nel mondo si rafforza l'opposizione contro la guerra, e un gruppo di grandi intellettuali di diverse nazioni (tra cui Lelio Basso, Guenther Anders, Jean-Paul Sartre, Bertrand Russell), dà vita a quello che sarà noto come il Tribunale Russell, per processare i crimini Usa nel Vietnam.
Nel 1967 Che Guevara lancia la parola d’ordine "Creare due, tre, molti Vietnam", mentre negli Stati Uniti partono le grandi manifestazioni contro la guerra (con lo slogan "Stop the bombing", fermate i bombardamenti sul Nord Vietnam) e la protesta dei soldati e dei giovani di leva.
L'offensiva del Tet fu un tentativo di attacco generale ad altissima valenza simbolica (un commando riuscì persino a penetrare nell'ambasciata Usa a Saigon) ma non fu un grande successo da un punto di vista militare. Non riuscì a conquistare stabilmente obiettivi importanti e non trovò grande riscontro nelle città, dove non ci furono quelle insurrezioni che i partigiani si attendevano.
Militarmente gli americani riuscirono a riconquistare quasi tutte le postazioni che in un primo tempo avevano perso, compresa l'antica capitale del Vietnam, Huè. L’offensiva del Tet fu però un grande successo politico, e segnò nella guerra del Vietnam un vero e proprio punto di svolta: mostrò all'opinione pubblica americana e mondiale che una vittoria sul campo degli Stati Uniti non era raggiungibile in tempi brevi, e forse era del tutto impossibile.
Nel mese di marzo si combatte ancora duramente: le truppe Usa lanciano una controffensiva nel delta del Mekong, iniziando quella che sarà ricordata come la battaglia delle risaie.
Intanto prosegue, da parte delle forze di liberazione, l'assedio alla base americana di Khe Shan, che era iniziato con l'attacco del 21 gennaio. Continuano i pesanti bombardamenti Usa su Hanoi, capitale del Vietnam del Nord. Il 7 marzo si contano ad Hanoi centinaia di vittime tra i civili.
Il 16 marzo, anche se la notizia non si diffonderà immediatamente, è per gli Stati Uniti il giorno del disastro morale: guidati dal tenente Calley i berretti verdi occupano il villaggio di Mylai e, non trovando nessun vietcong, sterminano più di cento tra donne, bambini e vecchi. Dopo vari tentativi di insabbiamento, le cronache del crimine arriveranno sulle prime pagine dei giornali solo verso la fine dell'anno.
Ma la pressione dell'opinione pubblica e dei movimenti di protesta spinge il presidente Johnson a imboccare la via della trattativa finalizzata al ritiro delle truppe americane dal Sud Vietnam. Dopo aver tolto il comando delle truppe in Vietnam al generale Westmoreland, il 31 marzo del '68, con un drammatico discorso televisivo, Johnson annuncia che non si ricandiderà alla presidenza nelle elezioni di novembre, lasciando la candidatura al senatore Hubert Humphrey e che interromperà i bombardamenti sul Vietnam del Nord.
Il 9 aprile Hanoi dà il suo assenso alla apertura delle trattative con gli Stati Uniti; il 3 maggio Usa e Vietnam del Nord raggiungono un accordo per l'inizio di una pre-trattativa che comincerà a Parigi il 10 maggio. Per condizionare i colloqui, il 5 del mese il Fronte di liberazione lancia una nuova, imponente offensiva. L'attacco colpisce 122 località, ma si concentra soprattutto sulla capitale del Sud, Saigon.
I vietcong occupano il quartiere industriale e commerciale di Cholon, che viene bombardato dagli aerei Usa. I combattimenti a Saigon continuano fino ai primi di giugno, quando i governativi riprendono il quartiere di Cholon, mentre, nei palazzi del potere di Saigon, si scontrano la linea del presidente Van Thieu e quella più dura del vicepresidente Cao Ky.
Il 27 giugno, dopo mesi di assedio, i marines abbandonano Khe Shan, rompendo l'accerchiamento. E' una pesante sconfitta, che spinge gli americani ad intensificare per rivalsa i bombardamenti sul Nord Vietnam, che erano stati ridotti in maggio e giugno. Ormai però la via verso il tavolo delle trattative è aperta.
Il 7 novembre Nixon, repubblicano, succede a Johnson alla Casa Bianca L'8 dicembre arriva a Parigi la delegazione sudvietnamita, composta da sessanta membri e guidata dal numero due del regime, Cao Ky. La delegazione americana è guidata da Cyrus Vance. Dopo lunghissimi preliminari la trattativa vera e propria comincia solo il 18 gennaio 1969: al tavolo siedono i due governi vietnamiti, gli Usa e il Fronte di liberazione, che incassa così il definitivo riconoscimento politico-diplomatico.
Le trattative, interrotte da fasi di violenta ripresa del conflitto, porteranno agli accordi di pace firmati il 27 gennaio 1973, che prevedono il ritiro delle forze Usa, la cessazione delle ostilità e la riunificazione del paese. Van Thieu prosegue la guerra, ma nel 1975 Saigon viene liberata.

 

Il Maggio Francese

 

La vitalità della gioventù francese si esprime nelle fabbriche (come si vede nel gennaio 1968 alla Saviem di Caen), nei concerti rock e pop, in determinate organizzazioni politiche (l'Uec, il Ceres, i gruppi di estrema sinistra), ma soprattutto nelle università.
La massificazione dell'insegnamento, durante gli ultimi anni (50 mila universitari nel 1936, 250 mila nel 1960, 500 mila nel 1968) non resta senza conseguenze.
L'università è uscita dalle mura delle città, ha costruito dei campus in campagna o sui terreni abbandonati della periferia di Parigi, senza però abbandonare le sue tradizioni: corsi solenni, dominio dei mandarini, trasmissione autoritaria del sapere, costumi conformisti (soprattutto nelle relazioni sessuali).
Nel 1968, i giovani sono cresciuti nell'abbondanza priva di uguaglianza della società dei consumi.
Non hanno l'assillo di trovare un lavoro e possono indulgere alle suggestioni culturali dell'epoca, scegliendo liberamente il proprio corso di studi e infiammandosi per le ideologie più radicali.
La rivendicazione di maggior libertà in una società rigida, il terzomondismo, la contestazione della guerra americana in Vietnam e, per gli studenti liceali, la minaccia della selezione al momento di entrare nell'università: ecco i temi capaci di mobilitarli.
Le prime scintille nascono dalla mistura tra rivendicazioni riguardanti le relazioni tra ragazze e ragazzi nelle residenze studentesche e militanza contro la guerra nel Vietnam.
Il 22 marzo si crea un movimento di solidarietà a favore di un compagno di studi, attivista trotzkista, arrestato per qualche ora dopo un attentato alla sede parigina dell'American Express, simbolo degli Stati Uniti. In questa occasione, si ha la conferma di un leader: Daniel Cohn-Bendit, di famiglia tedesca ma residente in Francia, di ascendenze anarchiche, notevole oratore.
Dopo aver occupato simbolicamente la facoltà di Nanterre, i giovani "arrabbiati" (è così che si definiscono) partecipano, il 29 marzo, malgrado la presenza guardinga delle forze di polizia, all'occupazione della Sorbona, il prestigioso bastione dell'università francese.
La scena sarà recitata di nuovo in primavera, con le stesse caratteristiche ma in crescendo: da parte degli studenti, un misto di audacia, improvvisazione e creatività, soprattutto negli slogan, i manifesti, i discorsi; da parte delle istituzioni - che si tratti del potere, delle autorità universitarie o della sinistra ufficiale - una incomprensione dello stato d'animo giovanile, la preoccupazione di evitare la diffusione dell'incendio e di non creare martiri, il timore dello straripamento irresponsabile.
L'incendio temuto si produrrà comunque a partire dal 3 maggio, in seguito al fermo per il controllo dell'identità di qualche centinaio di studenti, tra i quali alcuni leaders ancora sconosciuti al grande pubblico, in particolare Jacques Sauvageot, dell'Unef, il trotzkista Alain Krivine e Daniel Cohn-Bendit. Nella sorpresa generale, gli studenti si mobilitano numerosi contro "la repressione poliziesca", al grido di "Crs=SS".
È la prima giornata di disordini nel quartiere latino, contraddistinta dalla violenza degli scontri tra manifestanti e poliziotti.
La condanna di quattro studenti al carcere senza condizionale rilancerà la spirale degli scontri, allargando l'area dei contestatori (che include lo SneSup di Alain Geismar).
Si lasciano le assemblee generali di facoltà per andare a sfilare in corteo a Parigi, sfidando le forze di polizia dietro barricate improvvisate, sotto gli sguardi stupiti e, in una prima fase, complici del pubblico.
Le radio trasmettono in diretta le cronache del grande scompiglio e i parigini corrono ad assistere allo spettacolo dei dibattiti che sostituiscono i corsi universitari, dei faccia a faccia (e successive rincorse) tra manifestanti e poliziotti, in mezzo al fumo delle automobili incendiate e delle granate lacrimogene.
La notte del 10 maggio segna l'acme degli scontri. E fa sì che i grandi sindacati, in particolare la Cgt e la Cfdt, fino ad allora cauti o diffidenti, entrino in scena con l'annuncio di uno sciopero generale di 24 ore e di una manifestazione il 13 maggio.
Di ritorno da un viaggio ufficiale in Afghanistan, il primo ministro Georges Pompidou entra anche lui nella danza, che, per quanto riguarda gli altri responsabili del governo, Louis Joxe, Christian Fouchet, Alain Peyrefitte, somigliava a un valzer delle esitazioni. Pompidou decide misure di pacificazione (gli studenti imprigionati sono liberati; la polizia, dopo averla occupata, sgombra la Sorbona) e si prepara al negoziato sulle questioni sociali.
Il mondo del lavoro prende la staffetta della contestazione studentesca, già sostenuta nell'ambiente culturale (il festival del cinema di Cannes si è autodisciolto).
Molte fabbriche vengono occupate dagli operai, in pochi giorni la Francia è paralizzata dagli scioperi e dall'interruzione del rifornimenti di energia. In mancanza della benzina, la gente passeggia nelle strade, si parla, si aiuta a vicenda, partecipa alla ricreazione generale in una specie di euforia primaverile.
Con l'immagine della "carnevalata"(chienlit: così ne parlò il generale De Gaulle), sono questi i ricordi del maggio 1968 - crisi violenta il cui bilancio non è, miracolosamente, molto sanguinoso - che resteranno nella memoria.
Il potere, che non dispone più dei suoi abituali strumenti di comunicazione giacché la televisione pubblica (la sola esistente allora) è in sciopero, fatica a trovare una soluzione politica. De Gaulle promette un referendum sul tema della partecipazione, ma non convince.
Pompidou organizza un grande negoziato con il padronato e i sindacati, mentre non si trova niente di meglio che proibire il soggiorno in Francia a Cohn-Bendit. Tutto inutile.
Le manifestazioni a carattere insurrezionale - da segnalare il tentativo di incendiare quel tempio del denaro che è la Borsa di Parigi - riprendono il 23 e il 24 maggio, nella capitale e in molte città di provincia.
Il progetto di accordo prospettato dai negoziati di Grenelle è subito respinto dalla base operaia, malgrado le conquiste che esso prospetta (e che saranno accettate più tardi). I partiti di sinistra non cavano alcun profitto dalla situazione e anche il ricorso a una personalità circondata di rispetto come Pierre Mendès-France va a vuoto.
Il massimo dello scompiglio è raggiunto il 29 maggio con la sparizione, durata qualche ora, del generale De Gaulle: il potere vacilla, ma coloro che vorrebbero prenderlo, non ne sono in grado; e coloro che potrebbero impadronirsene, non lo desiderano.
La situazione cambia all'improvviso quando De Gaulle, rincuorato, riprende le redini dello Stato, che Pompidou ha tenuto con sangue freddo.
Il 30 maggio, in un discorso radiofonico, De Gaulle annuncia, col tono deciso e solenne che gli è consueto, la sua intenzione di restare al potere, ripristinare l'autorità, sciogliere l'Assemblea nazionale per sottoporsi alla verifica democratica delle elezioni.
Una imponente manifestazione gollista in quello stesso giorno a Parigi, seguita presto da altre in provincia, segna una svolta, ratificata di lì a poco dagli scrutini del 23 e del 30 giugno, anche se, per buona parte del mese, si protrarranno scioperi e scontri di piazza.
La Quinta Repubblica continua, la società francese ritrova i suoi valori e i suoi week-end, che provocano ben più morti sulle strade, ma i semi di numerosi cambiamenti sono gettati.
De Gaulle si ritirerà l'anno seguente, dopo la sconfitta del suo referendum-test.
La ricomposizione della sinistra socialista diventerà possibile, anche se non facile, e il declino del Pcf si accentuerà.
L'università sarà riformata e il mondo del lavoro trarrà qualche beneficio dalla crisi. L'eredità del Maggio si tradurrà soprattutto nella rapida evoluzione dei costumi, accolta sul piano legislativo, e dall'affermarsi nel dibattito pubblico e nella sensibilità comune dell'idea che, grazie a una ispirazione più libera e inventiva, esista un altro modo di vivere la propria vita e altri mezzi per cambiarla.                                                                                                                                                                                                                            

Fonte: http://www.liceomasci.it/old/Progetti/Anni60_70/68sconvolgimento_mondiale.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

LA RIVISTA   PER IL SESSANT8

 

La rivista "Per il Sessant8" è una pubblicazione non professionale, nata nel 1991 e della quale sono usciti sino a oggi 16 fascicoli. Inizialmente si presentava come un "bollettino" prodotto da un piccolo collettivo di persone, di città diverse e di differenti collocazioni politiche e culturali, unite da una profonda insoddisfazione per il modo con il quale l'"evento" '68 era stato trattato, in occasione del ventennale del sessantotto, nel 1988.
La proposta venne lanciata da Attilio Mangano, che in una lettera aperta "a un immaginario redattore e collaboratore", scriveva:

"Ci si poteva attendere che quella parte della generazione 'sessantottina' che occupa già da anni posizioni di rilevo nel campo della ricerca storica e lavora nelle università e nelle fondazioni o negli istituti di storia assumesse come impegno specifico... il compito di organizzare e rielaborare la memoria storica del `68 alla luce delle più aggiornate metodologie di ricerca. Ma così non è stato; gli stessi che se ne sono occupati... hanno dato certo un contributo attivo per consigli e suggerimenti e ipotesi, ma non hanno manifestato intenzione di proseguire la ricerca al di la dell'occasione del 'ventennale'"

A partire da queste riflessioni, e con la volontà di avviare una discussione storiografica che andasse al di là delle ricorrenze e delle celebrazioni, imposte dal calendario, ma fosse di stimolo in primo luogo all'approfondimento della ricerca, si aggregò dunque un primo nucleo redazionale, composto - insieme a Mangano - da Giuseppe Muraca, Diego Giachetti, Aldo Giannuli e Nicola Schiavulli. Dopo una prima fase di assestamento, a partire dal terzo numero la rivista fu "adottata" e stampata dal Centro di Documentazione di Pistoia, che ne cura anche la distribuzione agli abbonati e in libreria. Ma in larga parte la distribuzione è rimasta affidata alla vecchia (e sempre valida, nelle more del mercato) "vendita militante" da parte dei redattori, nel frattempo aumentati per numero e per distribuzione geografica. Ed è motivo di soddisfazione, che questa "rivistina" abbia potuto in questi anni, in assoluta povertà e indipendenza, non solo durare, ma realizzare in effetti (almeno in parte, e con quali risultati non sta a noi dirlo) ciò che si riprometteva: riflessione, studi, ricerche bibliografiche, ricupero di documenti.

Quando l'evento diventa un problema

Le interpretazioni relative al `68 sono inversamente proporzionali alle ricerche storiche e sociologiche sull'argomento, nel senso che, soprattutto a partire dalla celebrazione del ventennale della ricorrenza, nel 1988, il bisogno di sintesi, di lettura globale dell'evento, il suo inserimento in una trama epocale, mondiale, ha letteralmente preso la mano alla maggior parte degli studiosi a scapito della ricostruzione dell'evento stesso. Oggi, a trent'anni di distanza, viviamo una situazione che per molti aspetti ha del paradossale: dovendo parlare di `68 siamo in grado di produrre un discorso abbastanza raffinato e compiuto per quanto riguarda i possibili significati da attribuirgli (con relativa copiosa bibliografia)  mentre abbiamo meno parole da spendere (e meno titoli da citare) quando dobbiamo indicare i passaggi storici, la concatenazione degli avvenimenti, il loro inquadramento nel contesto sociale e geopolitico, le trasformazioni strutturali, culturali e del costume di cui l'evento fu il prodotto e che contribuì a produrre.
In altre parole, il rapporto tra narrazione e interpretazione, che costituisce uno degli elementi più delicati del discorso storiografico, è in questo caso completamente saltato. Si fa un rapido riferimento, quasi rituale, ad alcuni episodi significativi (Palazzo Campana, Trento, Valle Giulia, la Statale, eccetera), o all'impressionante dimensione planetaria delle agitazioni studentesche, e poi via, si parte con grandi discorsi d'insieme, grandi tesi, grandi interpretazioni. Il '68 è diventato, per certi aspetti, un mito, sul quale si esercitano le opposte schiere degli agiografi e dei demonizzatori, gli uni e gli altri interessati più a fornire suggestive ( e a volte immaginifiche) chiavi di lettura generali, che a operare ricostruzioni e sintesi di fatti e di contesti storici. Cosicché quell'anno "fatale" può essere letto, a piacere, come la spinta decisiva verso la modernizzazione delle società industriali, oppure come rivolta antimoderna, rifiuto della civiltà occidentale, prima avvisaglia di un'età post-industriale, evento che contiene in sé tutte le anticipazioni politiche e culturali possibili (dalla fine del socialismo reale, alla critica dello statalismo in nome dell'autonomia), oppure - al contrario - come l'ultima espressione delle culture politiche tradizionali del Novecento; come la fine di tutte le ideologie o come il peggio di tutto l'ideologismo rivoluzionario accumulato negli ultimi cento anni. Tutto è possibile, perché tutto è indipendente da riscontri puntuali, da dati, da ricerche, da verifiche sui documenti (che pure esistono, e numerosissimi: i movimenti degli anni Sessanta sono i primi ad aver lasciato tracce tanto copiose di sé).

Lo scorporamento dell'evento `68 dal prima e dal dopo storico.

Negli anni Sessanta emergeva una generazione di giovani fortemente suggestionata da avvenimenti interni (la lotta contro Tambroni nel luglio del 1960, i fatti di Piazza Statuto a Torino nel 1962, la ripresa delle lotte operaie) e internazionali (rivoluzione algerina, cubana, manifestazione contro la guerra nel Vietnam, morte di Che Guevara in Bolivia nel 1967, rottura Cina-Urss, rivoluzione culturale cinese).
Contemporaneamente, sul piano dei comportamenti e dei costumi, si stava verificando una vera e propria rottura generazionale, che recepiva le suggestioni provenienti dal movimento giovanile americano, dai campus universitari, si nutriva della musica rock, introduceva la contestazione del conformismo e del perbenismo piccolo borghese da parte dei "capelloni". Nella formazione culturale e pratica di questa generazione, dalla quale provengono i leaders del movimento studentesco, l'importanza dell'esperienza politica vissuta nei partiti di sinistra PCI, PSI, PSIUP e nelle riviste del dissenso cattolico e marxista è determinante:

"I giovani degli anni Sessanta non scoprirono la sinistra, ma vi crebbero dentro. Quando si pose loro il problema non fu se stare a sinistra, ma come e per quale sinistra. Quella passione politica precedette, preparò e aspettò il Sessantotto, come ci si augura un temporale ristoratore che si sente nell'aria.... Non fu dunque la politica a insediarsi, come un parassita opportunista, nei sonnecchiamenti della rivolta giovanile. Essa fu politica all'origine, e fu di sinistra... Dilatò a dismisura la politica, riconobbe rapporti di potere in condizioni che non ne volevano e se ne credevano al riparo, nella scuola, nella famiglia, nelle competenze produttive e scientifiche"

Il movimento non viene dal nulla, nè può essere ridotto ad un mero fatto di costume, ad una festa antiautoritaria e comunitaria che si svolse dentro le università liberate con le occupazioni, con una caratteristica "poco politica", come Guido Viale riconsidera oggi l'occupazione di Palazzo Campana a Torino nel novembre del 1967. Al di là di qualche nobile eccezione, cosa sappiamo in fondo oggi del movimento studentesco del nostro paese, di come si sviluppa e cresce nel biennio 1967-68, quali sono le sue caratteristiche e le specificità nella varie città e università italiane? Cosa lo accomuna e cosa lo differenzia dai movimenti che si sviluppano contemporaneamente in altre parti del mondo, da Praga a Parigi alla Germania Occidentale? Esistono ricerche e studi comparativi? Se ci chiedono di indicare un libro, facilmente reperibile e fruibile, sul maggio francese, sul movement americano, sulla primavera di Praga, sulle manifestazioni contro la guerra nel Vietnam in Italia, siamo in grado di rispondere prontamente e in modo esauriente? Come reperire facilmente i testi e le analisi prodotti dal movimento studentesco durante le occupazioni delle varie facoltà? Rispetto all'Italia, per esempio, mancano ricerche svolte usando fonti documentaristiche prodotte dal movimento stesso (volantini, ciclostilati, articoli vari e documenti pubblicati all'epoca sulle riviste della nuova sinistra), oggi in parte raccolte presso istituti, centri di ricerca e di documentazione i quali però sono consultati da pochi giovani laureandi e dottorandi, mentre nel frattempo

"continuano a uscire interventi su questi argomenti basati sulla memoria di chi scrive o sulle testimonianze di alcuni protagonisti a loro volta basate sulla memoria di chi racconta"

La maggior parte di queste rievocazioni accende potenti riflettori sul `68 per lasciare in ombra il prima e il dopo evento. Il `68 viene ridotto ad una piccola cosa, durata pochi mesi, terminata subito e che, soprattutto, non ha nulla a che vedere con quanto è accaduto in seguito. Si tratta di una lettura forte e consolidata, ripresa ancora di recente da Goffredo Fofi, il quale scrive: "il `68... è durato solo pochi mesi. Diciamo dall'occupazione di Palazzo Campana a Torino di fine ottobre 1967 all'estate autunno `68". Dopo questa breve esistenza di sette-otto mesi circa "tutto cambiò di segno, il movimento fu depauperato del meglio e divenne riserva di caccia dei gruppi". Così, ad esempio, anche uno dei più celebri saggi sull'anno degli studenti, comparso in occasione del ventennale del `68, quello di Peppino Ortoleva, traccia immediatamente una delimitazione in senso tematico e cronologico che ha profonde implicazioni metodologiche e interpretative. Scrive infatti nell'introduzione:

"Qui l'analisi si ferma: il 1968 finisce, e comincia la storia di diversi movimenti politici di nuova sinistra, a carattere strettamente nazionale, o locale, e caratterizzati da una base sociale in parte diversa da quella che era stata propria del movimento studentesco".

Sui mesi seguenti, quelli che videro in qualche modo l'incontro tra il movimento degli studenti e la classe operaia, si cala un velo di pietoso silenzio che incuriosisce, visto che buona parte dei principali protagonisti delle lotte del movimento studentesco li ritroviamo, di lì a qualche tempo, nei gruppi nascenti della nuova sinistra rivoluzionaria: Unione dei Comunisti, Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia, Movimento Studentesco della Statale, Lega dei Comunisti e altri ancora.
Tre fatti storici segnano il passaggio dal `68 agli anni seguenti: l'ondata di scioperi dell'inverno `68-’69, durante i quali consistenti gruppi di studenti partecipano ai picchetti davanti ai cancelli delle fabbriche; l'entrata in lotta degli studenti medi; la pesante ondata repressiva che comincia ad abbattersi sul movimento. In tale contesto si determinano processi di disgregazione e di nuova aggregazione:

"quel settore che aveva partecipato al movimento delle occupazioni con una coscienza unicamente democratico-borghese, e che aveva visto le lotte universitarie come possibilità di aprirsi nuovi spazi, di svecchiamento, di rinnovamento, di democratizzazione, riconosce a questo punto che il suo ruolo politico è finito... e da quel momento in poi scompare dalle assemblee, dai picchetti, dalle manifestazioni, per ritrovarsi dentro le biblioteche, dentro gli istituti, dentro i seminari, cominciando a far funzionare l'istituzione universitaria in modo rinnovato, introducendo un modo di insegnamento più democratico e partecipativo, dai contenuti di studio più attuali e più attenti a quel che succede nella realtà... Un altro settore, invece, confluisce in quella nuova esperienza che è l'esplosione di massa delle organizzazioni rivoluzionarie".

Se non si libera il "sessantotto dalla catena evento" che lo imprigiona non si riesce a penetrare nell' "impressionante vuoto sugli anni Settanta", anni di "effervescenza della società civile, caratterizzati da grandi lotte sociali, politiche, sindacali, dalla presenza di movimenti, idee nuove, culture giovanili, che si intrecciano (e non sono qualcosa di separato) con la nascita, lo sviluppo e le elaborazioni dei vari gruppi politici della nuova sinistra, per rappresentare una continuità con le lotte studentesche del `68 e quelle operaie del `69.
Continuità rintracciabile, facilmente ricostruibile e dimostrabile, non rottura, non cesura netta, non "tradimento" di un movimento buono, sincero e generoso da parte della politica "cattiva", ma interazione fra effervescenza della società civile, elaborazione politica e ricerca di nuove forme di organizzazione politica e sindacale. Negli anni seguenti la società italiana fu percorsa da movimenti sociali antagonisti (sindacato dei consigli, comitati spontanei di quartiere, sindacato degli inquilini, collettivi femministi e studenteschi, movimento dei disoccupati organizzati, movimenti per i diritti civili, per la democratizzazione delle forze armate, della psichiatria, della magistratura, della medicina) tutti portatori di istanze di cambiamento, coscienti in buona parte che la loro realizzazione richiedeva una trasformazione profonda della struttura sociale capitalistica e del potere in senso lato. Insomma alla fine, che piaccia o no, bisognerà trovare il coraggio di ammettere che gli anni Settanta non possono essere liquidati come "irresponsabile esplosione di demagogia e di ideologia".

L'uso pubblico della storia senza gli storici

Secondo la bella definizione di Marco Grispigni (che parafrasa Habermas) il ventennale del `68 ha visto da un lato gli storici discutere nel chiuso del mondo accademico, tra seminari e convegni, e dall'altro i mass media, giornali, rotocalchi e televisione, che riversavano pagine e pagine di inserti e metri e metri di pellicole su un pubblico eterogeneo di lettori e di spettatori. L'uso pubblico dell'evento `68 accentua l'aspetto della sua mitizzazione e dello scorporamento da ogni tentativo di lettura del ciclo storico in cui esso si inserisce.
Lascia ampio spazio all'autocelebrazione di "una generazione in gran parte oggi egemone nel mondo dei media", alla riproposizione delle solite foto di copertina, dei soliti cortometraggi, delle solite interviste ai soliti leader, sempre più propensi a ricordarsi come giovani universitari in formazione coinvolti in una serie di comportamenti e azioni rilette, oggi, come rivolta generazionale, rottura edipica col padre, tipica di quella fase, comune a tutti gli esseri viventi, che segna il passaggio da una generazione all'altra. L'anno diventa l'anno degli studenti, destoricizzato, incapace di essere letto nel lungo e nel breve periodo. Per quanto riguarda l'Italia, in particolare, è stridente (e grida vendetta!) il silenzio e l'omertà che regnano rispetto al nesso fra il `68 e l'esplosione delle lotte operaie del 1969.
Difficile risulta leggere queste vicende all'interno della storia repubblicana, alla quale un simile uso pubblico del `68 sembra non appartenere, così come non appartiene più alla stagione di conflittualità che si apre negli anni Sessanta e si chiude con gli anni Settanta, né riesce ad inserirsi nella storia delle subculture giovanili nel nostro paese.

L'evento ritorni fatto concreto

Il decreto legge 2314, voluto dal ministro della pubblica istruzione Gui, fu la causa dell'inizio delle lotte universitarie nell'anno accademico 1966-67. Esse, e soprattutto quelle che verranno nell'anno seguente, non si spiegano senza fare riferimento alle trasformazioni profonde che avevano interessato l'università italiana.
La popolazione studentesca universitaria, rimasta pressoché stazionaria durante i primi quindici anni del dopoguerra (gli studenti in corso erano aumentati appena dell'1,1% dal 1945 al 1960), a partire dal 1960 aumentava vistosamente: nel 1966 del 72%, nel 1967 del 93%, nel 1968 del 117%. Diminuiva l'incidenza degli studenti provenienti dalle classi medio-alte e aumentava quella degli studenti provenienti dalla piccola borghesia e dal proletariato.
Dentro le università si creava una situazione nuova: da un lato la vecchia struttura didattica appariva incapace di rispondere ai nuovi bisogni ideologici e formativi indotti dalla trasformazione neocapitalistica della società, dall'altra i sistemi di selezione, i disagi materiali di varia natura, l'oppressione ideologica e il dispotismo dei baroni, diventavano sempre più intollerabili alla nuova massa di studenti.
Se le prime lotte dell'anno 1966-67 non erano paragonabili a quelle dell'anno successivo, si differenziavano però già da quelle precedenti. Per la prima volta dal dopoguerra, infatti, la polizia era intervenuta per sgomberare l'università occupata a Pisa nel febbraio del 1967 e a Trento nel marzo dello stesso anno.
Inoltre, rispetto al passato, emergevano tematiche nuove, che rappresentavano un vero e proprio salto di qualità. La prima era la tematica antimperialista, che aveva come riferimento principale la guerra del Vietnam; la seconda emergeva dalle elaborazioni svolte nel corso dell'occupazione di varie facoltà di Architettura (Milano, Venezia, Torino) e della facoltà di sociologia di Trento circa il ruolo professionale del laureato dentro i rapporti capitalistici di produzione; la terza, emersa durante l'occupazione dell'Università di Pisa dal 7 all'11 febbraio del 1967, riguardava la figura sociale dello studente, ripresa e analizzata nei dettagli dalle famose Tesi della Sapienza.
Le lotte studentesche portavano anche al superamento della tradizionale richiesta di riforma democratica della scuola. Negli anni precedente le varie organizzazioni giovanili universitarie si erano limitate a chiedere l'ammodernamento e la riqualificazione degli studi, la realizzazione della cogestione dell'Università, l'attuazione del diritto allo studio, secondo i principi sanciti dalla carta costituzionale.
Durante le occupazioni, invece, diventava sempre più chiaro il rapporto esistente fra il sistema scolastico e i più generali rapporti economici e sociali capitalistici. Il movimento studentesco nascente prendeva coscienza del fatto che un obiettivo di riforma della scuola, concepito all'interno dei margini di cambiamento consentiti dal sistema, non avrebbe prodotto altro che un rafforzamento del sistema capitalistico nel suo complesso.
Nell'anno accademico 1967-68 l'agitazione nelle università assunse dimensioni e caratteristiche mai viste prima. Dal novembre 1967 al giugno del 1968 vi furono 102 occupazioni di sedi o facoltà universitarie; almeno 31 sedi universitarie su 33 furono totalmente o parzialmente occupate almeno una volta; le facoltà in cui fu più viva l'agitazione furono: Lettere (almeno 18 facoltà occupate su 22), Scienze (in particolare fisica: almeno 16 facoltà occupate su 22); le facoltà di Ingegneria furono invece le meno toccate dall'agitazione, solo 2 su 11 furono occupate.
Le lotte coinvolgevano la massa degli studenti perché avevano due caratteristiche importanti:
1) partivano da rivendicazioni concrete contro l'aumento delle tasse scolastiche (all'Università Cattolica di Milano), contro la selezione, dai disagi materiali provocati dalla carenza di strutture;
2) erano reazioni ad atti autoritari dell'istituzione o alla repressione poliziesca.
Il movimento studentesco si consolidava perché nel corso delle occupazioni riusciva a coinvolgere larghi strati di studenti nei lavori di commissioni, controcorsi, gruppi di studio.
Con la primavera del `68 e il maggio francese si raggiungeva l'apice della protesta studentesca. Dopo l'estate si sviluppava un dibattito tra le avanguardie del movimento studentesco per determinare le linee di una strategia rivoluzionaria supportata da una serie di misure organizzative e di iniziative di lotta da condurre assieme ad altri strati sociali oppressi.
Il movimento studentesco cercava di proiettarsi all'esterno dell'università con manifestazioni di piazza e dando inizio al cosiddetto lavoro operaio; presso molte università si erano costituite le commissioni operaie o commissioni fabbriche allo scopo di articolare e coordinare l'intervento studentesco presso le fabbriche.

Dopo il `68 viene il `69 e altro ancora

Scrive Sidney Tarrow che l'Italia era destinata a diventare un caso particolare non per il "ruolo dei giovani nel suo ciclo di protesta, ma per il numero e l'intensità dei conflitti nell'industria". Un problema di natura storiografica si pone immediatamente appena si prova a passare dal movimento del `68 alle lotte operaie del `69. Se l'evento `68 è stato di volta in volta enfatizzato, ripreso, vivisezionato, documentato, testimoniato dai protagonisti, filmato dalla TV ed è divenuto materia per le facili e veloci penne dei rotocalchi, non così si può dire del `69 operaio. Qui vi è come una congiura del silenzio, una zona oscura impenetrabile, tutta da dimenticare e da rimuovere.
Durante il decennio Settanta non c'era articolo o intervento politico che non cominciasse partendo dalle lotte operaie e studentesche, dal binomio `68-‘69; oggi invece l'evento è stato del tutto scorporato. Così facendo non solo si compie un'operazione di "revisionismo storiografico", ma si perde quella che fu "la specificità del `68 italiano rispetto ad analoghi movimenti in altri paesi"; specificità che consistette "proprio in quel nesso".
Si tratta, dicevamo, di un serio problema storiografico che ha avuto immediatamente due ripercussioni. La prima conseguenza dello scorporamento del movimento del `68 dalle lotte operaie del `69 è stata la riduzione del movimento studentesco stesso ad una serie di "storie giovanili", ad un conflitto di tipo "generazionale" , spogliandolo così dei suoi contenuti eversivi e anticapitalistici. Si perde in questo modo anche la capacità di cogliere il legame e l'intreccio fra le forme di lotta studentesche e quelle nelle fabbriche, date dall'analisi e critica dell'autoritarismo nella scuola e nella fabbrica e nelle altre strutture della società; dalla sottolineatura della condizione studentesca come forza lavoro in formazione.
Lo smascheramento di istituzioni e modi di agire portava con sè l'invenzione o la reinvenzione di strumenti di organizzazione e di lotta: i controcorsi o la limitazione del rendimento, i delegati di assemblea o di gruppo omogeneo, le interruzioni delle lezioni e i cortei interni .
La seconda è data dall'incapacità di penetrare e di cominciare a capire gli anni Settanta in Italia, anni di conflittualità di classe e di protagonismo sociale che non ha riscontri nella storia del nostro paese.

"Il più importante problema storiografico che emerge a sinistra è rappresentato dal vuoto di storia politico-sociale a partire dal biennio `68-69.
Non si tratta solo di una rimozione psicologica. Si tratta di una perdita di disponibilità, di categorie, di criteri, di concetti, di punti di vista capaci di guidare e di orientare una ricostruzione, una spiegazione dotata di senso, degli "svolgimenti" storici succeduti alla grande ondata del movimento" .

Da tutto ciò, da questo complesso di torsioni e di mutilazioni interpretative che il '68 ha subito, deriva - in ultima analisi - una più generale difficoltà storiografica a collocare la "stagione dei movimenti", cioè il ventennio `60-'70, nella storia dell'Italia repubblicana. Per la verità, non c'è storico di questo dopoguerra che non renda omaggio al carattere di "svolta" del '68, della nascita del movimento studentesco e dell'esplodere, l'anno seguente, dell'autunno caldo; ma, al tempo stesso, è proprio qui che la carenza di studi analitici, ricostruttivi, anche a carattere locale o settoriale, pesa maggiormente, e impedisce ancora (a nostro giudizio) di conoscere appieno e dunque di considerare adeguatamente il ruolo delle lotte sociali e di tutto quell'insieme di gruppi, riviste, associazioni a carattere extra-istituzionale ed extra-partitico che in quelle lotte trovavano la propria ragione d'essere.
E' in questo senso, allora, che una ricerca e un dibattito storiografico sul '68, slegati dal puro e semplice "evento" (per quanto straordinario, e straordinariamente radicato nell'esperienza di tutta una generazione), e volti invece a indagare e ricostruire tutta la trama dei legami con un prima e con un dopo, possono risultare elementi decisivi per l'intera storia - politica, sociale, economica e culturale - dell'Italia repubblicana.    

 

Fonte: http://www.liceomasci.it/old/Progetti/Anni60_70/rivista68.doc                                                              

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

Il sessantotto 1968

 

 

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