Voltaire, Montesquieu e Rousseau

 


 

Voltaire, Montesquieu e Rousseau

 

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Voltaire, Montesquieu e Rousseau

 

Il problema che Voltaire principalmente si pone è l'esistenza di Dio, conoscenza fondamentale per giungere ad una giusta nozione dell'uomo. Egli vede la prova dell'esistenza di Dio nell'ordine superiore dell'universo, infatti così come ogni opera dimostra un artefice, Dio esiste come autore del mondo e, se si vuole dare una causa all'esistenza degli esseri, si deve ammettere che sussiste un essere creatore. Dunque Dio esiste e sebbene si trovino in questa opinione molte difficoltà, le difficoltà che si oppongono all'opinione contraria sono ancora maggiori. Aveva contribuito a queste sue convinzioni lo studio di Newton, la cui scienza pur rimanendo estranea, in quanto filosofia matematica, alla ricerca delle cause, risulta strettamente connessa alla metafisica teistica, implicando una razionale credenza in un essere supremo. Voltaire crede in un Dio che unifica, Dio di tutti gli uomini: universale come la ragione, Dio è di tutti.  Uno dei suoi maggior nemici fu la chiesa cattolica (che lui chiama l'infame), egli infatti tenta di demolire il cattolicesimo per proclamare la validità della religione naturale. La sua fede nei principi della morale naturale mira ad unire spiritualmente gli uomini al di là delle differenze di costumi e di usanze. Proclama quindi la tolleranza contro il fanatismo e la superstizione (che stanno alla religione come l' astrologia alla astronomia) nel Trattato sulla tolleranza (1763). Per liberare le religioni positive da queste piaghe è necessario trasformare tali culti, compreso il cristianesimo, nella religione naturale, lasciando cadere il loro patrimonio dogmatico e facendo ricorso all'azione illuminatrice della ragione. Dal cristianesimo Voltaire accetta l'insegnamento morale, ovvero la semplicità, l'umanità, la carità, e ritiene che voler ridurre questa dottrina alla metafisica significa farne una fonte di errori. Più volte infatti il parigino, elogiando la dottrina cristiana predicata da Cristo e dai suoi discepoli, addebiterà la degenerazione di questa in fanatismo, alla struttura che gli uomini, e non il Redentore, hanno dato alla chiesa. Il cristianesimo vissuto in maniera razionale, infatti, coincide con la legge di natura.
Voltaire porta avanti una doppia polemica, contro l'intolleranza  del cattolicesimo, e contro l'ateismo e il materialismo. Egli dirà che "l'ateismo non si oppone ai delitti ma il fanatismo spinge a commetterli", anche se concluderà poi che essendo l'ateismo quasi sempre fatale alle virtù, in una società è più utile avere una religione, anche se fallace, che non averne nessuna. Voltaire comunque si rifiuta di ammettere qualsiasi intervento di Dio nel mondo umano. Il Supremo ha solo avviato la macchina dell'universo, senza intervenire ulteriormente, dunque l'uomo è libero, ovvero ha il potere di agire, anche se la sua libertà è limitata. Del resto "sarebbe strano che tutta la natura, tutti gli astri obbedissero a delle leggi eterne, e che vi fosse un piccolo animale alto cinque piedi che, a dispetto di queste leggi , potesse agire sempre come gli piace solo secondo il suo capriccio".
Degna di menzione è la polemica che Voltaire porterà avanti contro Blaise Pascal, che diventerà soprattutto polemica contro l'apologetica e il pessimismo cristiano in genere. Voltaire dice di prendere le difese dell'umanità contro quel "misantropo sublime", che insegnava agli uomini ad odiare la loro stessa natura. Più che con l'autore delle "Provinciales", egli dice di scagliarsi contro quello dei "Pensees", in difesa di una diversa concezione dell'uomo, del quale sottolinea piuttosto la complessità dell'animo, la molteplicità del comportamento, affinché l'uomo si riconosca e si accetti per quello che è, e non tenti un assurdo superamento del suo stato. In conclusione si può asserire che entrambi i filosofi riconoscono che l'essere umano per la sua condizione è legato al mondo, ma Pascal pretende che egli se ne liberi e se ne distolga, Voltaire vuole che la riconosca e la accetti: era il mondo nuovo che si scagliava contro il vecchio. Le concezioni filosofiche di Voltaire sono inscindibili dal suo modo di fare storia. Infatti egli vuole trattare questa disciplina da filosofo, cioè cogliendo al di là della congerie dei fatti un ordine progressivo che ne riveli il significato permanente.
Voltaire si interessa ai popoli, ai loro costumi; prima la storia era la storia del mondo cristiano, legata ai confini europei, adesso è la storia universale del progresso umano. Progresso inteso come il dominio che la ragione esercita sulle passioni, nelle quali si radicano i pregiudizi e gli errori, infatti l'Essai presenta sempre come incombente il pericolo del fanatismo.
La filosofia deve essere lo spirito critico che si oppone alla tradizione per discernere il vero dal falso, bisogna scegliere tra i fatti stessi i più importanti e significativi per delineare la storia delle civiltà. Infatti Voltaire non prende in considerazione i periodi oscuri della storia, ovvero tutto ciò che non ha costituito cultura, ed esclude dalla sua storia "universale" i popoli barbari, che non hanno apportato il loro contributo al progresso della civiltà umana. V. vuole ricostruire la legge naturale attraverso la storia, e mettere in luce la rinascita e il progresso dello spirito umano, cioè i tentativi della ragione di affrancarsi dai pregiudizi e di porsi come guida della vita associata dell'uomo; e, giacché la sostanza dello spirito umano rimane immutata ed immutabile, il progresso consiste nella sempre miglior riuscita di questi tentativi.
La storia non è più orientata verso la conoscenza di Dio, non è questo lo scopo dell'uomo, il quale deve invece dedicarsi a capire e a conoscere sé stesso fino a che la scoperta della storia si identifichi con la scoperta dell'uomo. La storia è diventata storia dell'illuminismo, del rischiaramento progressivo che l'uomo fa di sé stesso, della progressiva scoperta del suo principio razionale. Shaftesbury aveva detto che non c'è miglior rimedio del buon umore contro la superstizione e l'intolleranza e nessuno mise in pratica meglio di Voltaire questo principio; infatti "il suo modo di procedere si avvicina a quello di un caricaturista, che è sempre vicino al modello da cui parte, ma attraverso un gioco di prospettive e di proporzioni abilmente falsate, ci dà la sua interpretazione".
L'umorismo, l'ironia, la satira, il sarcasmo, l'irrisione aperta o velata, sono da lui adoperati di volta in volta contro la metafisica, la scolastica o le credenze religiose tradizionali. Ma talvolta, questo semplicizzare ironicamente certe situazioni, lo porta a trascurare o a non cogliere aspetti molto importanti della storia.
In generale Voltaire ha rappresentato l'Illuminismo, con il suo spirito caustico e critico, il desiderio di chiarezza e lucidità, il rifiuto dei pregiudizi e del fanatismo superstizioso, con una ferma fiducia nella ragione, ma senza inclinazioni eccessive all'ottimismo e alla fiducia nella maggior parte degli individui. A questo riguardo è esemplare il romanzo satirico Candide (Candido, 1759), ove Voltaire si fa beffe dell'ottimismo filosofico difeso da Leibniz. Egli infatti accusa violentemente l'ottimismo ipocrita, il "tout est bien" e la teoria dei migliori dei mondi possibili, perché fanno apparire ancora peggiori i mali che sperimentiamo, rappresentandoli come inevitabili ed intrinseci nell'universo.

Montesquieu non è un critico del giusnaturalismo, ma la sua opera, per i principi e per il metodo che vi sono esposti, ne elimina di fatto gli assunti fondamentali, e sarà una delle cause del suo tramonto. La molteplicità delle leggi dei vari popoli, sostiene Montesquieu nello Spirito delle leggi,  non prova la loro deficienza rispetto al modello razionale e universale della legge di natura, ma il loro adattamento alle condizioni di vita di ciascuno. Esaminando le leggi, le istituzioni e le consuetudini di un popolo è dunque possibile mettere in luce lo spirito di quest’ultimo, che riconduce a unità l’insieme dei fattori che governano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime del governo, gli esempi delle cose passate, i costumi. Uno dei principali fattori che determinano il tipo di leggi adatte a un popolo è secondo Montesquieu la forma di governo a cui esso è sottoposto, che a sua volta dipende da fattori come la grandezza dello stato e il clima. Ciò che conta, in ogni forma di governo, non è tanto il numero di coloro che detengono la sovranità, ossia la sua "natura", quanto la passione fondamentale su cui si regge, ossia il suo "principio".
Questo principio è la virtù nelle repubbliche (democratiche o aristocratiche), l’onore nelle monarchie e la paura nei governi dispotici. Nella sua teoria delle forme di governo Montesquieu introduce una fondamentale novità: la distinzione fra governo moderato e dispotismo. La nozione di dispotismo risale ad Aristotele, ma è stato Montesquieu a darle la sua veste moderna e a farne una delle categorie fondamentali del pensiero politico.
Il dispotismo è il governo violento di chi (monarca o popolo) non ha leggi né poteri che lo limitino, e in cui tutti sono sottoposti all’arbitrio del despota e sono uguali solo perché non sono nulla davanti a lui.
La passione che vi domina è la paura, e questa paura costringe ogni cosa all’immobilità: tutto deve funzionare in base a due o tre idee e le idee nuove sono represse nella più feroce intolleranza. Il contrario del dispotismo, secondo Montesquieu, è il governo moderato da leggi fondamentali e poteri intermedi. Invece della paura il principio del governo moderato è la sicurezza, e quindi la libertà politica.
La libertà politica è infatti la consapevolezza individuale della propria sicurezza, cioè il "diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono", senza essere costretti a compiere nulla che la legge non ordini. Per Montesquieu condizione della libertà politica è che il potere sia limitato in modo che a nessuno sia possibile abusarne, e questo si ottiene distribuendolo, così che "il potere freni il potere". Nella teoria della distribuzione dei poteri Montesquieu si ispira in larga misura a Locke e al regime inglese della sua epoca, che Montesquieu, più di ogni altro, contribuisce a rendere un paradigma del pensiero politico. Mentre però Locke aveva teorizzato solo la separazione del potere esecutivo da quello legislativo e la subordinazione del primo al secondo, Montesquieu a questi due poteri ne aggiunge un terzo, la magistratura o potere giudiziario. Per Montesquieu nessuno di questi tre poteri è subordinato all’altro, ma tutti si controbilanciano a vicenda.

Già nel Discorso sulle scienze e sulle arti (1750) Rousseau protesta contro la degradazione dei rapporti umani presenti nella modernità, polemizza contro la corruzione degli stati moderni, denunciando il ruolo che le scienze e le arti assumono nella crisi contemporanea: “stendono ghirlande di fiori  sulle ferree catene di cui gli uomini sono gravati, soffocano in loro il sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravano nati...La necessità ha creato i troni; le scienze e le arti li hanno consolidati”.
Questo punto di vista critico sulla società  trova pieno dispiegamento nel Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (1754), in cui il filosofo cerca di ricostruire la genesi storico-teorica della ineguaglianza: egli risale ad una sorte di grado zero dell’umanità per meglio comprendere la sua natura e le origini della società. Diversamente da Hobbes per Jean Jacques lo stato di natura non ha caratteristiche negative, ma é fondamentalmente buono: gli uomini infatti  sono compassionevoli e socievoli, disponibili alla costruzione di positivi rapporti intersoggettivi. La costruzione di questo modello, ammette il filosofo, é puramente un parametro ideale col quale giudicare la società moderna giudicata invece negativamente. E’ stata la nascita della proprietà privata che ha corrotto lo sviluppo della società!
Il primo che recinse un terreno e dichiarò questo é mio, e trovò persone tanto semplici da prestargli fede, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassini, miserie e orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pioli e colmando la fossa, avesse gridato ai suoi simili: non ascoltate quest’impostore; se dimenticate che i frutti sono di tutti, e la terra di nessuno, siete perduti”.
A quest’infamia originaria sono seguite altre ingiustizie: il progressivo prevaricare dei proprietari, l’intrinseca ingiustizia delle leggi positive, la divisione del lavoro. Le istituzioni politiche dunque non correggono gli errori, anzi li aggravano. E’ necessario perciò un nuovo pensiero politico che assuma su di sé il compito della trasformazione in positivo della società; accanto ad esso Rousseau non disdegna la necessità che si possa agire anche sul singolo il quale va tutelato ed educato ad opera di un organismo che lo plasmi (Emilio).
Nel Contratto sociale il filosofo pone questa questione: “Trovate una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune le persone e i beni di ciascun associato, e mediante la quale, ciascuno, obbedendo a tutto, obbedisca tuttavia soltanto a se stesso e resti libero come prima”. Il modello sociale che si vuole costruire, come in Hobbes, istituisce una netta discontinuità con lo stato di natura: é un organismo ex novo, artificiale, che rompe completamente con la tradizione precedente.
C’è però una netta differenza rispetto ad Hobbes: mentre  questo privilegia il patto  di soggezione, Rousseau invece privilegia il momento della partecipazione. Al “Leviatano” si contrappone la Volontà generale che rimanda direttamente al protagonismo dei soggetti umani entro il quadro della vita associata. Come Hobbes tuttavia Jean Jaques vuole raggiungere l’uguaglianza, non si accontenta della libertà personale di Locke, e per raggiungere tale traguardo é necessario ciò: “Ciascuno di noi mette in comune la propria persona e tutto il proprio potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi accogliamo inoltre ciascun membro come parte indivisibile del tutto”. Avviene in questo modo “l’alienazione totale di ciascuno associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità”. I critici di Rousseau hanno messo in evidenza come in questo modo l’individuo si annulli dinanzi a istanze sociali superiori, ma per il filosofo é proprio nello stato che si realizza la più intima natura razionale  e morale dell’uomo, che diviene citoyen. “L’uomo, che fino allora aveva considerato solo se stesso, si vede forzato ad agire secondo altri principi e a consultare la ragione prima di ascoltare le sue tendenze” La comunità assume le caratteristiche di un corpo organico unitario e compatto, di cui i soggetti umani - trasformati da individui in cittadini - sono le indispensabili membra componenti.
Il  corpo morale e collettivo della comunità é il popolo, che possiede la sovranità, che è la sovranità. Tale sovranità é inalienabile e indivisibile, diversamente dal balance of powers di Locke e Montesquieu: data l’importanza che attribuisce al concetto di sovranità, Rousseau non può infatti accogliere interamente la teoria della distribuzione dei poteri di Montesquieu; per lui in uno Stato dev’esserci un solo potere supremo e illimitato, quello sovrano, altrimenti lo Stato cessa di essere uno. Tuttavia, egli ammette una separazione dei poteri: proprio perché la volontà sovrana che stabilisce le leggi deve essere generale, il suo potere legislativo deve essere distinto dal potere esecutivo, vale a dire dal governo, che mette in pratica con atti particolari questa volontà
Rousseau ammette che la gestione degli affari pubblici possa essere affidata ad appositi individui, anche se essi “non sono i padroni del popolo, ma i suo i ufficiali, e il popolo può stabilirli e destituirli quando gli piace”. Sembra qui prefigurata una sorta di democrazia diretta, in cui ogni cittadini è al tempo stesso governante e governato, in cui non si accetta il principio della delega e della rappresentanza, che facilmente può determinare il non rispetto della volontà popolare ad opera di una élite di professionisti della politica.
La libertà per Rousseau perde la sua connotazione individuale per diventare comprensione della razionalità dell’ordine comunitario e come autonoma accettazione della volontà generale e della legge.

Caratteristica delle due grandi rivoluzioni del secolo è l’idea della sovranità popolare, che i rivoluzionari connettono con quella dei diritti innati e inalienabili dell’uomo. La Rivoluzione americana si richiama soprattutto alla riflessione di Montesquieu, del quale applica la teoria della distribuzione dei poteri. La novità principale rappresentata dal dibattito americano è il grandissimo rilievo che vi assume l’idea dello Stato federale (discussa soprattutto sul Federalist) che combina la potenza garantita da un grande Stato con la libertà e la democrazia possibili in uno piccolo. Nella Rivoluzione francese (che subisce in modo determinante l’influenza di Rousseau) l’idea che sta al centro della riflessione e del conflitto ideologico è invece quella di uguaglianza: la libertà è partecipazione al potere legislativo, dunque democrazia e uguaglianza di fronte alla legge. Ma l’ineguale distribuzione delle ricchezze comporta anche un’ineguaglianza di poteri, e questo produce fatalmente un’ineguaglianza nella partecipazione politica. Di fronte a queste due ineguaglianze, l’uguaglianza davanti alla legge può bastare? e non finirà per soccombere insieme a quella economica e a quella politica?

 

fonte: http://www.liceoumberto.eu/word/illuministi.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

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