Storia moderna riassunti

 


 

Storia moderna riassunti

 

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Colombo scopre l'America

 

Colombo e le "capitolazioni di Santa Fé" 

 

Cristoforo Colombo, navigatore genovese, si stabilì nel 1491 nell'accampamento di Santa Fé, dove si trovava l'esercito spagnolo che assediava Granada. Lo scopo di Colombo era ottenere il beneplacito reale per un viaggio nell'Atlantico con l'obiettivo di raggiungere l'India e la Cina o di scoprire nuove terre. Colombo, nato a Genova nel 1451, nel 1476 si era stabilito in Portogallo; aveva compiuto numerosi viaggi in Inghilterra e in Africa. Nel 1480 aveva sottoposto alla monarchia portoghese un progetto per raggiungere l'Oriente navigando verso ovest.


Ma il Portogallo era interessato all'esplorazione dell'Africa e aveva respinto le proposte di Colombo. Questi illustrò il proprio disegno all'Inghilterra e alla Francia, ma non ebbe miglior fortuna. Il ricorso alla corte dei re cattolici era dunque la sua ultima carta.


Nell'aprile 1492 le insistenze di Colombo convinsero Ferdinando e Isabella a concedere le capitolazioni di Santa Fé. Il navigatore, in cambio dei suoi servigi, era nominato dai re cattolici viceré, ammiraglio e governatore di tutte le terre che avrebbe scoperto; gli si riconosceva il privilegio di trattenere una quota dei guadagni ricavati dal commercio d’oro, pietre preziose, spezie e altri prodotti che avrebbe trovato. Il documento stabiliva infine che Colombo fosse elevato al rango di nobile e che tutti i suoi titoli e privilegi fossero trasmessi ai suoi eredi.

 

La posizione dei re cattolici 

La relativa facilità con cui Colombo ottenne tanti titoli e riguardi dimostra che i re cattolici non consideravano importante l'impresa. Ferdinando e Isabella avevano condotto una dura battaglia per limitare l'indipendenza dell'aristocrazia spagnola, ma concedendo le Capitolazioni di Santa Fé pensavano di correre pochi rischi. Infatti i finanziamenti provennero solo in minima parte dalla corona, che si limitò ad imporre alle corporazioni di Cadice di fornire a Colombo le imbarcazioni. Fu quest'ultimo a trovare i fondi necessari all'impresa chiedendo denaro in prestito agli stessi genovesi che avevano finanziato la conquista delle Canarie.

 

L'evoluzione della navigazione e del commercio  

Il viaggio che Colombo si accingeva a compiere era possibile, nonostante i rischi, per i progressi tecnici compiuti nel campo della navigazione. L'aumento demografico verificatosi nell'Europa occidentale aveva fatto aumentare la domanda di prodotti alimentari e la produzione locale non era più in grado di soddisfarla. Occorreva quindi trasportare attraverso lunghe distanze prodotti di valore relativamente scarso, ma molto pesanti (grano, sale, vino).
I grandi porti ricevevano i rifornimenti dal mare e Genova, per esempio, importava prodotti alimentari non soltanto dai paesi mediterranei, ma anche dal mar Nero e dal mare del Nord. La conclusione dell'epoca della Reconquista rese inoltre possibile navigare attraverso lo stretto di Gibilterra: le navi univano pertanto il mar Mediterraneo, l'Atlantico e il mare del Nord.


L'evoluzione si sviluppò anche per motivi politici. I re e i principi che comandavano le spedizioni militari in Terrasanta affittavano in Italia imbarcazioni capaci di trasportare soldati e cavalli. Venezia e Genova si specializzarono nella costruzione di grandi imbarcazioni in grado di trasferire in Palestina centinaia di uomini e cavalli senza compiere scali eccessivamente numerosi. La crociata del 1204, partita da Venezia, e quella di Luigi di Francia (1284) raggiunsero difatti Costantinopoli su navi veneziane, genovesi e marsigliesi.

 

Le nuove tecniche di navigazione

I costi dei trasporti marittimi rimanevano comunque elevati e per abbassarli e navigare su lunghe distanze, lontano dalle coste, apparvero e si svilupparono nuovi tipi di imbarcazioni e si modificarono sensibilmente le tecniche di navigazione.
La galera subì trasformazioni radicali. Questo tipo di nave era d'origine romana, ma nonostante la forma allungata, stretta, poco sporgente dall'acqua, leggera e molto maneggevole, era inadatta alla navigazione in mare aperto e con condizioni climatiche avverse. La galera era spinta da due o tre file di rematori e non era quindi in grado, fra l'altro, di trasportare carichi pesanti. Questa imbarcazione divenne più alta e più larga, capace di trasportare carichi pesanti navigando soprattutto a vela.
Ma, nonostante le modifiche, la galera rimaneva poco solida: non riusciva a difendersi dagli attacchi dei pirati ed era perciò raro che potesse compiere navigazioni solitarie. Si formavano perciò convogli di cinque o sei galere che, nel caso di Venezia, godevano della protezione dello stato. La città lagunare organizzava flotte composte di galere che partivano a scadenze fisse verso l'Egitto, la Siria, Bisanzio, la Spagna, il Portogallo, le Fiandre e l'Inghilterra.
L'uso della galera fu tuttavia ridimensionato da un altro tipo di imbarcazione messo a punto dai genovesi: la nave propriamente detta. Essa aveva dimensioni colossali, era alta e larga sull'acqua, disponeva di due o tre ponti e aveva tre alberi e un gran numero di vele. La nave poteva navigare con il brutto tempo e non temeva gli attacchi nemici perché era, in sostanza, un vero e proprio "castello" fortificato; inoltre, a parità di equipaggio, era in grado di trasportare un carico molto più pesante di quello stivato sulle galere.
I prezzi erano abbastanza contenuti e i mercanti potevano inviare le loro merci in luoghi lontani correndo bassi rischi. Fu così che i marinai genovesi e veneziani diffusero nella penisola iberica, e poi in tutto l'Occidente, le tecniche della navigazione in alto mare, perdendo di vista le coste per diversi giorni e orientandosi col solo ausilio della bussola, del Sole e delle stelle.

 

I moventi delle scoperte geografiche 

Le origini delle grandi scoperte geografiche furono di natura demografica, religiosa ed economica. L'Europa occidentale cercava nuove terre da coltivare e nuovi popoli da convertire al cristianesimo; voleva infine impadronirsi di miniere d'oro e di ricchezze asiatiche senza passare attraverso le terre musulmane.
Marco Polo era arrivato in Cina viaggiando per l'Asia centrale, a nord dei paesi islamici. Per le rotte marittime verso l'India e l'Estremo Oriente si presupponeva  invece che occorresse circumnavigare l'Africa oppure inoltrarsi verso ovest, attraverso l'Atlantico, facendo così, in pratica, il giro della globo. I navigatori utilizzarono per le esplorazioni imbarcazioni a vela molto più piccole delle navi e adottarono così la caravella, un efficiente veliero avvantaggiato dal peso ridotto.

 

Il primo viaggio di Colombo 

Proprio con tre caravelle, Colombo partì da Palos nel 1492. Il 12 ottobre 1492 Colombo raggiunse un'isola delle Bahamas, ne prese possesso in nome dei re cattolici e le diede il nome di San Salvador. Non fu comunque Colombo il primo europeo ad approdare in America. Verso la fine del X secolo i vichinghi, partendo dalla Groenlandia disabitata, avevano raggiunto le coste del Labrador.
Ma gli scandinavi non stabilirono legami regolari con il nuovo continente e, fino all'epoca di Colombo, l'America non figurava su nessuna carta geografica cristiana o musulmana.
Gli indigeni di San Salvador erano genti assai primitive, probabilmente "ferme" al Neolitico, e accolsero con curiosità i nuovi arrivati. Gli europei offrirono loro manufatti di poco valore ed essi ricambiarono con pappagalli, balle di cotone filato e lance.
Gli "indiani", come da subito li chiamò Colombo, portavano anelli d'oro: il navigatore genovese credette di aver raggiunto le miniere d'oro di cui si favoleggiava da secoli in Europa. Dopo essersi fermato per qualche giorno a San Salvador, il genovese riprese l'esplorazione ed approdò a Cuba e a Espanola. In entrambe le località trovò amerindi adorni di ninnoli d'oro, il che sembrò confermare la sua ipotesi di aver trovato quello che cercava. Colombo fondò un villaggio sulla costa di Española, vi lasciò alcuni dei suoi uomini e fece rotta verso l'Europa. Raggiunse Palos il 15 marzo 1493.

 

Il trattato di Tordesillas 

Colombo, una volta tornato in Spagna, descrisse le sue scoperte magnificando ed esaltando le ricchezze che vi aveva trovato: come prova portò con sé un vasto assortimento di oggetti d'oro. La regina Isabella decise che Colombo avrebbe dovuto proseguire nell'impresa dopo che fosse stata legittimata dal papa.
Papa Alessandro VI, che era spagnolo, promulgò alcune bolle che riconoscevano agli spagnoli tutte le terre che si trovassero oltre la linea immaginaria tracciata cento miglia a ovest delle Azzorre.
I portoghesi contestarono la risoluzione papale che, di fatto, li escludeva dalle nuove scoperte, e ottennero una revisione del riconoscimento accordato agli spagnoli. Nel 1494 venne a tale scopo concluso il trattato di Tordesillas. Fra gli imperi spagnoli e portoghesi venne fissata una linea di demarcazione a circa 370 miglia a ovest delle Azzorre.

 

 

La conquista del Sudamerica

 

L'espansione coloniale 

L'espansione coloniale europea nei secoli XVI, XVII e XVIII si orientò soprattutto verso l'America centromeridionale, dove, fino alla scoperta di Colombo (1492), erano fiorite le maggiori civiltà del nuovo continente. Scoperta che fu preceduta da una serie di esplorazioni geografiche per opera di navigatori portoghesi e di altre nazionalità ma al servizio dei re del Portogallo.
Il ciclo dei grandi viaggi si concluse con l'impresa di Vasco da Gama, che, sulle orme di Bartolomeo Diaz, doppiò il Capo di Buona Speranza approdando a Calcutta (1497-1499), con le esplorazioni sudamericane di Amerigo Vespucci (1499-1502), da cui il nome di America, e col giro del mondo compiuto da Magellano (1519-1522).

 

La spartizione del Sudamerica tra spagnoli e portoghesi

Nei primi decenni del secolo XVI iniziò la conquista dei nuovi mondi. Per quanto riguarda le Americhe (Indie occidentali), ci fu una vera e propria spartizione tra spagnoli e portoghesi. Visto che la stessa ondata di scoperte del secolo XV era nata non tanto per desiderio di conoscenze geografiche quanto per motivi economico-commerciali (controllo del mercato delle spezie, corsa all'oro e apertura di nuove rotte per l'Oriente), a sua volta la "conquista" ebbe queste caratteristiche.
L'incredibile facilità con cui gli spagnoli, soprattutto, s'impadronirono in circa un trentennio di sconfinati territori nell'America del Sud, mise a nudo il volto vero della colonizzazione europea: una rapina a tutti gli effetti, perpetrata con la complicità della Santa Sede.
Il papa Alessandro VI, infatti, nel 1493, con cinque bolle (documenti in pergamena chiusi da particolari sigilli in oro o piombo, da cui, appunto, il nome di bolla) concesse ai sovrani cattolici, per le terre conquistate al di là dell'oceano, "piena potestà, autorità e giurisdizione". Gli stessi diritti che, pochi decenni prima, papa Callisto III aveva concesso ai portoghesi in Africa, riconoscendo la loro potenza marittima.
Di questo documento gli spagnoli si servirono per escludere i navigatori stranieri dai loro territori, rafforzando, così, un'egemonia coloniale che le altre potenze europee mai avrebbero potuto eguagliare.
Questa, senz'altro, non fu cosa gradita. Nel 1494 il trattato di Tordesillas, secondo le indicazioni fornite dalle bolle papali, stabilì una spartizione in forza della quale alla Spagna spettava tutto il territorio posto a 170 leghe (370 miglia) a ovest delle isole Azzorre, mentre al Portogallo quello a Oriente.

 

Le tappe della "conquista" 

Dato lo scarso numero dei "conquistatori", la loro impresa ha quasi del miracoloso. Fernando Cortés, sbarcato in America nel 1519 con soli seicento uomini, due anni dopo abbatté l'impero azteco di Montezuma. Dieci anni dopo, Francesco Pizarro, alla testa d'un contingente di poco meno di duecento soldati e una trentina di cavalli, pose termine, tra il 1531 e il 1533, al dominio degli incas. Bisogna dire, comunque, che a facilitargli la vittoria contribuirono le contese dinastiche che dilaniavano il Perú tra i due pretendenti Huascar e Atahualpa.
Altri coloni spagnoli, nel frattempo, sottomisero i territori dell'America Centrale (gli attuali Nicaragua, Guatemala e Honduras), dove incontrarono, però, la forte resistenza delle popolazioni maya. Era la prima volta, quella, che delle tribù indigene (araucani, charrúa, fuegini) si alleavano contro gli invasori bianchi.

 

La penetrazione commerciale del Portogallo 

A differenza di quello spagnolo, il sistema coloniale portoghese ebbe un carattere prevalentemente commerciale. A partire dal 1500, dopo alcuni tentativi spagnoli e francesi in Brasile, la penetrazione portoghese procedette a tappe serrate nella regione chiamata Brasile, dal nome d'una specie di legno da tintura (brasil).
Raggiunto per la prima volta dal navigatore Pedro Alvarez Cabral e suddiviso, già dal 1533, in dodici regioni politico-amministrative, il Brasile tuttavia non fu, almeno nei primi decenni dopo la scoperta, completamente colonizzato.
I portoghesi, infatti, ovunque arrivarono, crearono una fitta rete di piazzeforti e scali commerciali, porti e cittadelle, soprattutto lungo la costa e nell'immediato entroterra (São Vicente, Bahia, Pernambuco).
Solo nella seconda metà del secolo XVI impiantarono delle grandi piantagioni di canna da zucchero, alle quali sarà legato il destino politico e socio-economico del paese.

 

Questioni dottrinali intorno alla colonizzazione

 

Il diritto di scoperta, il consenso della Santa Sede e l'accordo tra le due potenze della penisola iberica, furono, insomma, i fondamenti giuridici della colonizzazione d'America. Le origini medievali di questi princìpi, che privilegiavano due grandi nazioni, guarda caso cattoliche, a danno delle altre, nel corso del tempo non mancarono d'essere attaccati.
Scoppiarono, per esempio, interminabili polemiche di tipo dottrinale sul cosiddetto "testamento d'Adamo", in base al quale solo Spagna e Portogallo potevano spartirsi il nuovo mondo.
La cosa peggiore, però, è che nessuno tenne conto degli eventuali diritti delle popolazioni indigene, o, semplicemente, di quel che pensavano al riguardo.
La rapidità e la durezza delle conquiste ispano-portoghesi, del resto, erano normali per quei tempi, anche in Europa, dove nessun sovrano avrebbe pensato di ascoltare il parere degli abitanti delle regioni conquistate dalle sue truppe. Gli spagnoli, per giunta, nella loro opera di conquista in America videro anche il compimento pratico e ideale di un'altra guerra, la guerra nazional-religiosa contro i mori, che si era conclusa nella madrepatria proprio in quegli anni.

 

La violenza e la rapidità della conquista

 

Mori o indios, per la cattolicissima Spagna, erano pur sempre infedeli. Così, il fanatismo religioso di quel loro spirito missionario finì per mescolarsi con la sete di guadagno e di riscatto sociale che animava i primi gruppi di "conquistadores" sbarcati in America. Sotto i loro colpi caddero, uno dopo l'altro, non solo tribù di "selvaggi", ma anche interi stati di grande civiltà come quello degli aztechi o degli incas. A distruggerli furono pochi uomini di umili origini, ex contadini o militari e avventurieri usciti dalle file di una piccola nobiltà impoverita.
Questo, infatti, spiega la foga e in certi casi l'audacia con cui essi si gettarono nell'impresa. Una conquista, come si diceva, incredibilmente facile: dopo i primi insediamenti caraibici di Cristoforo Colombo, di Nicolas de Ovando e Diego Velásquez du Cuéllar, i quali crearono le prime forme di organizzazione giuridico-economica in quei territori importandovi manodopera servile dall'Africa (iniziò proprio allora la "tratta dei neri"), in pochissimi anni venne assoggettato l'intero continente americano. Cortés, infatti, con poco più di trecento uomini, riuscì a sottomettere in soli tre anni, dal 1519 al 1522, il vasto impero atzeco, nel Messico centrale.
Pizarro e Almagro, invece, con un numero di uomini ancora più irrisorio, furono in grado di assoggettare, tra il 1531 e il 1530, l'impero inca, nonostante la complessa struttura sociale che comprendeva oltre 10 milioni di individui.

 

Le cause del crollo degli imperi precolombiani 

Sebbene la conquista ispano-portoghese non si sia sviluppata subito e vittoriosamente dappertutto, in genere, come abbiamo visto, imperi grandi e potenti si dissolsero al primo contatto con gli invasori. Uno dei motivi, secondo gli storici, è la loro inferiorità militare: nello scontro con la civiltà del metallo, quella della pietra avrebbe per forza avuto la peggio e gli indigeni non potevano che venir sconfitti sul campo di battaglia, perché alle spade d'acciaio potevano opporre le lance d'aossidiana (vetro d'origine vulcanica usato dalle popolazioni preistoriche), alle armi da fuoco gli archi e le frecce e al cavallo, fino allora sconosciuto, i contingenti di fanteria.
A dire il vero, però, le armi da fuoco dei primi "conquistadores" eran poche e molto lente nel tiro e il loro effetto psicologico sugli indigeni poteva funzionare solo all'inizio. Oltretutto essi erano di gran lunga superiori numericamente (poche decine di cavalli contro migliaia di uomini che si muovevano completamente a loro agio in quel territorio) e in grado di adattarsi alla nuova situazione.
Si sono cercate, dunque, altre spiegazioni, come l'abilità con la quale Cortés e Pizarro riuscirono a inserirsi nelle discordie interne ed esterne dei popoli da sottomettere. In Messico, per esempio, i tlaxcalani, ribellatisi a Montezuma, si allearono con gli spagnoli, consentendo a Cortés d'attendere, al riparo da ogni pericolo, l'arrivo dei rinforzi da Cuba.
Allo stesso modo Pizarro, trovandosi nella regione di Cuzco in piena guerra civile, si alleò subito con uno dei partiti in armi che si contendevano l'eredità dell'ultimo inca, Huayna Capac.
Al di là, però, della condotta opportunistica e spregiudicata di questi personaggi, efficacia ancor maggiore ebbero le gravi epidemie provocate dal semplice contatto tra gli indios e i bianchi: basti pensare alle devastazioni causate in Messico dal vaiolo, prima che Cortés iniziasse a cingere la città d'assedio.


Due concezioni del mondo a confronto  
La rapida caduta degli stati indigeni del Centro e Sudamerica può infine aver avuto cause psicologiche e religiose: all'iniziale sgomento per la presunta natura divina degli spagnoli s'univa la concezione rituale che gli indios avevano della guerra, il cui scopo non era l'uccisione dei nemici in combattimento, ma la loro cattura per poterli poi sacrificare agli dei. Questa convinzione, comunque, non impedì che nell'America precolombiana nascessero stati e addirittura imperi, quasi come in Europa.
Spesso, dunque, i messicani, pur di catturare gli spagnoli, non sfruttarono in pieno la propria superiorità sul campo: la condotta dei "conquistadores" doveva sembrargli a dir poco scandalosa, tanto più che nella maggior parte dei casi la guerra si concludeva con un trattato di pace che garantiva agli sconfitti il diritto di conservare usi e costumi, dietro il pagamento di un tributo.
In un certo senso, allora, la visione che gli indigeni avevano del mondo contribuì alla disfatta e poi alla definitiva scomparsa della loro civiltà.

 

L' asservimento e la cristianizzazione forzata 

Che il vero obiettivo, per quanto inconsapevole, degli invasori europei fosse la distruzione delle civiltà indigene, lo si vide nel giro di pochi decenni quando, da un lato il loro sistema di colonizzazione e dall'altro la continua e massiccia immigrazione di missionari cattolici, avviarono un processo di asservimento economico e cristianizzazione forzata delle popolazioni indigene.
L'introduzione del cristianesimo in America era stata affidata al patronato delle Indie, che agiva sotto la direzione dei re spagnoli. Il processo di cristianizzazione fu portato avanti con violenza e avversò, usando gli stessi sistemi dei colonizzatori, tutto ciò che era in contrasto con la sua intransigenza dogmatica.

 

La popolazione dell'America meridionale

 

Secondo i calcoli attendibili, ma certo non del tutto precisi, degli studiosi, il numero di abitanti dell'America Latina variò sensibilmente, a seconda delle regioni e dell'origine etnica, tra la fine del XVI secolo e la metà del secolo successivo.
Da notare subito l'importante fenomeno degli incroci razziali che soprattutto nell'America meridionale finì per dare vita a intere e nuove popolazioni di sangue misto: i meticci, figli di padre europeo e di madre indiana, o, molto di rado, l'inverso; i mulatti, figli di padre europeo e di madre africana; gli zambos, figli di padre africano e madre indiana.
Se poi si considera la popolazione americana complessiva, calcolata in alcune decine di milioni di persone, in gran parte concentrate, all'epoca della sua scoperta, nelle zone centromeridionali del continente, non è difficile capire gli effetti della "conquista" europea: in corrispondenza con l'arrivo dei "conquistadores", vi fu un calo evidente di popolazione indigena.
Insomma, la colonizzazione europea significò subito per gli indios il loro sterminio, anche se il numero di bianchi presenti in America Latina fino al Seicento restò piuttosto basso, superato da quello dei neri reclutati come schiavi sulle coste africane.

 

Carlo V imperatore

 

L'eredità di Carlo d'Asburgo 

Nel 1516, in Spagna, Carlo V salì sul trono del nonno materno Ferdinando, già re d'Aragona e poi di Spagna. A lui, infatti, si doveva l'unificazione della Spagna, realizzata attraverso le nozze con Isabella, regina di Castiglia. L'erede Carlo d'Asburgo si trovò pertanto a dominare, oltre alla Spagna, Napoli, la Sicilia, la Sardegna e l'America, sulla quale, dal 1492 (anno della scoperta di Cristoforo Colombo), la Spagna stava estendendo il suo controllo.
Quando nel 1519 Massimiliano I morì, si affermò, anche se a fatica, la candidatura di colui che era già re di Spagna. Carlo era infatti un successore pericoloso, avendo ereditato dal nonno paterno tutti i domini allora in mano agli Asburgo (i territori austriaci e ciò che restava dell'ex ducato di Borgogna) che il re di Francia Luigi XI aveva incorporato nel suo stato. In quel momento le Fiandre erano saldamente in mano agli Asburgo. Carlo V ebbe comunque la meglio sul re di Francia Francesco I nella corsa alla corona imperiale, sia perché i principi tedeschi non volevano un imperatore francese sia perché gli Asburgo esercitarono pressioni economiche sui principi elettori.

 

La difficoltà di mantenere unito l'impero 

Ottenuta la corona, Carlo V cercò di rafforzare l'autorità imperiale sia all'interno - contro le spinte autonomistiche di alcuni paesi - sia all'esterno, contro il re di Francia. Inoltre considerandosi, in linea con la tradizione medievale, il capo della cristianità, il sovrano cercò di unire i paesi occidentali contro il pericolo turco. Non riusci però a pacificare l'Europa e l'avanzata turca fu inarrestabile.
Nonostante le alleanze e le significative parentele (la zia Caterina d'Aragona, moglie del re d'lnghilterra Enrico VIII, e tre sorelle mogli dei re di Danimarca, di Portogallo e d' Ungheria), il sovrano non riuscì mai a tenere unito l'impero. I suoi interessi in Italia urtavano con quelli della Francia, in stretti rapporti con i mercanti fiamminghi, che a loro volta rifornivano di oro Carlo V.
In Castiglia, nel 1520, dopo la sua partenza, scoppiò la rivolta dei comuneros, ossia gli abitanti dei comuni, contro i funzionari fiamminghi e la nobiltà spagnola. Nel 1522 la rivolta fu domata nel sangue. Comunque, a parte queste difficoltà, alla quale si aggiunse anche l'impatto della Riforma protestante, a Carlo V senz'altro non mancavano le risorse per dominare l'Europa.

 

Le risorse di Carlo V 

La montuosa Castiglia forniva la fanteria, non inferiore, per addestramento, a quella dei Cantoni svizzeri. In Germania, poi, si addestravano milizie mercenarie dette lanzichenecchi. Vi si aggiungevano una potente artiglieria (grazie alle fonderie di Innsbruck, in Austria) e la marina spagnola.
Dal punto di vista economico, vanno ricordati inoltre i finanzieri tedeschi Fugger e Welser e le banche fiamminghe, che controllavano l'oro e l'argento in arrivo dall'America.

 

Le origini del conflitto tra l'impero e la  Francia 

Per comprendere il conflitto franco-asburgico, che costituì uno dei fronti più temibili per Carlo V, occorre risalire alle vicende politiche della fine del XV secolo, che ebbero per protagonisti la monarchia francese e gli stati italiani. Nell'estate 1494 il re di Francia Carlo VIII (1483-1498), succeduto a Luigi XI, scese in Italia senza incontrare alcuna resistenza. I principi italiani, infatti, come Ludovico il Moro a Milano, s'affrettarono ad allearsi con lui e i signori di Venezia cercarono di approfittare del conflitto franco-aragonese.
In meno di un anno il re di Francia s'impadronì di Napoli (febbraio 1495). Solo allora i piccoli stati italiani si resero conto della gravità della situazione e si riunirono in una lega nella quale entrò anche la Spagna.
Così Carlo V, rimasto isolato, si ritirò dall'ltalia e nel giro di due anni gli spagnoli schiacciarono ogni resistenza francese nel regno di Napoli. Ormai il danno era fatto: Francia e Spagna avevano iniziato a intervenire in Italia direttamente e gli stati italiani, da parte loro, avevano visto l'utilità di alleanze con le potenze europee, rompendo, di volta in volta e ognuno a proprio favore, l'equilibrio esistente.

 

I fase della guerra: la contesa del ducato di Milano 

Gli interessi francesi in Italia non cambiarono neppure quando a Carlo VIII succedette Luigi XII. Questa volta, però, l'oggetto della contesa fu Milano.
Il pretesto per la nuova rivendicazione dei territori furono i diritti ereditari di Carlo d'Orléans, imparentato con i Visconti, che i francesi opponevano agli Sforza. Così, l'esercito francese nel 1500 entrava nel ducato di Milano, mentre un accordo franco-spagnolo stabiliva che il regno di Napoli doveva essere diviso tra le due potenze. La spartizione avvenne nel 1501, ma tre anni dopo gli spagnoli presero nuovamente il sopravvento. Nel frattempo Venezia cercò di estendere il proprio dominio sulla Romagna, approfittando del disordine esistente nello stato pontificio.
Papa Giulio II, per difendere le terre pontificie, creò la lega di Cambrai (1508) che riunì, oltre agli stati italiani, Spagna, Francia e gli Asburgo: insomma, quasi tutta l'Europa. Venezia fu sconfita ad Agnadello (1509) e perse tutti i suoi domini di terraferma.
Una volta riottenute le sue terre, tuttavia, il pontefice iniziò a preoccuparsi anche dell'espansionismo francese. Nel 1511 nacque la lega Santa: Venezia, Spagna e Impero costrinsero i francesi a ritirarsi dall'ltalia. A Milano tornarono gli Sforza con Massimiliano, figlio di Ludovico il Moro.
Quando, poi, sul trono di Francia salì Francesco I (1515-1547), la situazione cambiò di nuovo. I francesi riuscirono di nuovo a occupare il ducato di Milano e Massimiliano Sforza fu cacciato (battaglia di Marignano, 1515). Con la pace di Noyon (1516) Francia e Spagna si spartirono i territori italiani: a una andava il ducato di Milano, all'altra il regno di Napoli, con Sicilia e Sardegna.
Morto Massimiliano d'Asburgo, salì al trono, come si è visto, Carlo V. Uno dei suoi obiettivi fu la riconquista delle regioni occupate dai francesi, come la Borgogna e il Milanese, che era un antico feudo imperiale.

 

La sconfitta di Francesco I a Pavia 

Alleati del nuovo imperatore furono Enrico VIII d'lnghilterra, ancora cattolico, e il pontefice Leone X, che in cambio del suo appoggio sperava di ottenere Piacenza, Parma e Ferrara. L'esercito ispano-pontificio occupò il ducato di Milano (estate 1521) e ne affidò il governo a Gerolamo Morone, per poi ristabilirvi il duca Francesco II Maria Sforza, secondogenito di Ludovico il Moro. I francesi tentarono i reagire, ma le truppe guidate da Lautrec furono sconfitte alla Bicocca (1522). Così anche Genova aprì le porte a Carlo V.
Nel frattempo, il potere imperiale s'era rafforzato con la morte di Leone X (1 dicembre 1521) e l'elezione di papa Adriano Vl (1522-1523), ex vescovo di Utrecht nonché maestro di Carlo V. Come se non bastasse, il comandante francese Carlo, duca di Borbone, ordì una congiura contro il re per aver perso i feudi familiari, e, scoperto, passò al servizio dell'imperatore. Quando, però, l'ex cardinale Giulio de' Medici fu eletto papa con il nome di Clemente VII (1523-1534), l'alleanza ispano-pontificia s'indebolì.
Il re di Francia scese direttamente in campo, occupò il Piemonte e la Savoia e rientrò a Milano. Le truppe imperiali si ritirarsi a Pavia, dove furono assediate, finché dalla Germania non arrivarono i rinforzi e a Pavia i Francesi furono travolti dalle truppe del marchese di Pescara e del duca di Borbone. Francesco I fu fatto prigioniero e portato a Madrid. In cambio della libertà, il 14 gennaio 1526 firmò un trattato con cui rinunciava a ogni possesso in Italia e in Fiandra, e cedeva la Borgogna.

 

II fase della guerra: la lega di Cognac 

Tornato in Francia, nonostante due suoi figli fossero ancora in ostaggio, Francesco I non riconobbe il trattato di Madrid. Anzi, grazie al timore suscitato negli alleati dalla strapotenza di Carlo V, fondò nel 1526 la lega di Cognac: essa riuniva l'Inghilterra, il papa Clemente Vll, Firenze, la repubblica di Venezia e il duca di Milano Francesco II Sforza.
A capo di queste truppe fu posto Francesco Maria Della Rovere, ex duca di Urbino, e il suo braccio destro fu Giovanni de' Medici, detto dalle Bande Nere. Nonostante Carlo V fosse impegnato a fermare l'avanzata dei Turchi - vittoriosi a Mohács, in Ungheria (1526), e giunti fino alle porte di Vienna - il condottiero scese in Italia con un esercito di 14 000 lanzichenecchi.
Sconfitto e ucciso Giovanni dalle Bande Nere a Borgoforte, presso Mantova, il 6 maggio 1527, i lanzichenecchi entrarono a Roma e la saccheggiarono, mentre il papa si barricava in Castel Sant'Angelo. A Firenze, intanto, i nobili cacciarono i Medici e restaurarono la repubblica aristocratica (16 maggio 1527), mentre gli Estensi occuparono Ferrara, Parma e Piacenza e Venezia si impossessò di Cervia e di Ravenna.
Le truppe francesi tornarono a spingersi fino a Napoli, ma durante l'assedio furono decimate da una pestilenza e il loro stesso comandante Lautrec morì. La situazione francese peggiorò ulteriormente con il passaggio dell'ammiraglio genovese Andrea Doria e di tutta la sua flotta dalla parte di Carlo V. Dopo una nuova sconfitta a Landriano (1529), la Francia si trovò costretta a firmare due trattati di pace.

 

I trattati di pace 

Il primo (trattato di Barcellona) fu concluso tra Carlo V e papa Clemente VII: I'imperatore s'impegnava a restituire allo stato della Chiesa le città occupate e a porre il governo di Firenze nelle mani di Alessandro de' Medici, figlio di Lorenzo d'Urbino e nipote dello stesso Clemente VII. In cambio, il pontefice lasciava a Carlo V il regno di Napoli e il ducato di Milano, e permetteva alle sue truppe di attraversare il territorio della Chiesa. Era il 29 giugno 1529.
Alcune settimane dopo (5 agosto 1529) veniva firmato il trattato di Cambrai, detto delle Due Dame perché a firmarlo furono, per Carlo V, Margherita, la zia, reggente dei Paesi Bassi, e, per Francesco I, Luisa di Savoia, la madre.
Con questo trattato, il re di Francia si vedeva finalmente restituire i figli dati in ostaggio e conservava la Borgogna, rinunciando, però, a ogni pretesa sull'Italia.

 

La ripresa della guerra e la tregua di Nizza  

Non si trattava tuttavia di quella pace definitiva auspicata da Carlo V, peraltro preoccupato per la Riforma protestante in Germania e per la minaccia turca che gravava addirittura su Vienna, dopo la sconfitta degli Ungheresi: i francesi, infatti, non intendevano rinunciare al ducato di Milano. Così, nel 1536, Francesco I strinse alleanza col turco Solimano il Magnifico.
La scintilla che fece scoppiare il nuovo conflitto con Carlo V fu la morte del duca di Milano Francesco II Sforza (1° novembre 1535) e l'annessione diretta del ducato da parte dell'imperatore. Nel 1536 Francesco I invase la Savoia, togliendola al duca Carlo III.
Dalla parte della Francia questa volta si schierarono, oltre ai turchi, Enrico VIII d'lnghilterra, in conflitto con l'imperatore e con la Chiesa di Roma. Carlo V, invece, fu appoggiato da Venezia e da papa Paolo III (1534-1549), che in cambio si aspettava dei territori per il figlio Luigi Farnese.
Truppe imperiali occuparono la Provenza, ma alla fine nessuno dei due contendenti ebbe la meglio. Di questo equilibrio approfittò il pontefice, facendo giungere i contendenti alla tregua di Nizza (giugno 1538) che lasciava le cose come stavano: la Savoia restò in possesso dei francesi. Indi si formò una lega santa tra il papa, Carlo V e Venezia allo scopo di far fronte alla minaccia turca.
I membri della lega, dopo essersi impadroniti di Nauplia e di Malvasia, si diressero contro la fortezza veneziana di Corfù. A settembre, le truppe cristiane fermarono l'avanzata del Solimano.

 

La tregua guerreggiata fino alla pace di Crépy 

La tregua tra Francia e impero, della durata di dieci anni, conobbe numerose interruzioni. Il conflitto si riaccese nel 1542 sull'onda dei fallimenti politici di Carlo V (il mancato accordo tra cattolici e protestanti nella dieta di Ratisbona del 1541; il fallimento della spedizione ad Algeri) dei quali approfittò Francesco I. L'alleanza tra la Francia e la Scozia spinse l'Inghilterra a schierarsi con Carlo V, che nel 1544 portò le sue truppe fino alle porte di Parigi.
Il successo ottenuto non fu tuttavia sufficientemente sfruttato dall'imperatore, preoccupato dall'aggravarsi della situazione religiosa in Germania. Si pervenne, dunque, alla pace di Crépy (settembre 1544), che lasciava invariata la situazione. Nel frattempo, comunque, Enrico III si era impossessato, in Francia, della città di Boulogne.

 

Le congiure in Italia contro l'impero 

Quanto all'Italia, vi furono diverse congiure per liberarsi dal dominio imperiale. A Firenze, dopo l'omicidio del duca Alessandro de' Medici, gli esuli fiorentini tentarono di riportare la città sotto i francesi. Ma fu subito rieletto il legittimo successore di Alessandro, Cosimo, e i fiorentini vennero sconfitti dalle truppe imperiali a Montemurlo.
Fu invece filospagnola la congiura contro Pier Luigi Farnese, figlio di Paolo III e duca di Parma e di Piacenza (1545-1547), che aspirava a liberarsi dalla dominazione imperiale. La congiura, appoggiata da Ferrante Gonzaga, governatore di Milano, consegnò Piacenza a una guarnigione imperiale. Parma, invece, restò a Ottavio Farnese. Altre congiure ebbero carattere antispagnolo: quella di Francesco Burlamacchi a Lucca (1546) e di Gian Luigi Fieschi a Genova (1547), contro i Doria.
Alle congiure vanno aggiunte le rivolte che si verificarono in Lunigiana e a Napoli, contro il viceré don Pedro Toledo (il quale aveva fra l'altro introdotto nel regno l'Inquisizione spagnola).

 

La guerra continua con Enrico II 

Nel 1547 moriva il re di Francia Francesco I; la guerra contro l'Impero continuò tuttavia anche con il suo figlio e successore Enrico II (1547-1559).
La situazione per la Francia era di nuovo favorevole: sul trono d'lnghilterra era salito il minorenne Edoardo VI (1547-1552) e la Chiesa anglicana ormai si stava avvicinando al calvinismo.
Enrico II appoggiò subito i principi protestanti in Germania, sconfitti dalle truppe imperiali a Mühlberg (24 aprile 1547). Nel 1552 occupò i vescovati di Metz, Toul e Verdun, di lingua francese ma sottoposti al dominio imperiale. Poi la guerra si estese all'Italia. La flotta franco-turca fece scoppiare una rivolta antigenovese in Corsica mentre a Siena fu cacciato il presidio spagnolo. I senesi, sostenuti dagli esuli fiorentini antimedicei, marciarono contro Firenze.
La città, infatti, era sotto la signoria di Cosimo I de' Medici, fedele alleato di Carlo V, che passò al contrattacco e dopo un anno d'assedio sconfisse i senesi. Nonostante questo, Piero Strozzi, capo della ribellione, continuò a resistere, con un manipolo di uomini, per ben quattro anni, assediato sulla rocca di Montalcino. Carlo V, comunque, non riuscì mai ad avere la meglio sui francesi e sui principi ribelli.

 

La pace di Augusta e l'abdicazione di Carlo V 

In Germania si arrivò così alla pace di Augusta (3 ottobre 1555), grazie alla quale la religione protestante ottenne definitiva ratifica. Per quanto riguarda la Francia, l'imperatore firmò la tregua di Vaucelles (1556), indi rinunciò alle sue corone ritirandosi nel convento di San Justo nell'Estremadura, dove morì il 21 settembre 1558.
Il suo dominio fu diviso in due parti: il regno di Spagna (comprendente anche Milano, Napoli, la Sicilia, la Sardegna, i Paesi Bassi e le colonie americane) fu affidato a Filippo II, mentre le terre ereditarie dell'Austria e dell'impero passarono al fratello di Carlo, Ferdinando I, re di Boemia e di Ungheria.

 

La pace di Cateau-Cambrésis 

La guerra, tuttavia, non era finita. Il re di Francia, Enrico II, con l'appoggio del papa Paolo IV (1555-1559), che sperava di ottenere in cambio i territori dell'ex repubblica di Siena, attaccò la Spagna. Questa nazione, nel frattempo, s'era rafforzata grazie alle nozze di Filippo II con la regina d'lnghilterra Maria la Cattolica (1553-1558).
Le truppe spagnole in Italia, guidate dal duca d'Alba, invasero lo stato pontificio. Nell'Artois, poi, Emanuele Filiberto di Savoia sconfisse i soldati francesi a San Quintino (10 agosto 1557).
Enrico II, invece, riuscì a strappare agli inglesi Calais (1558). Infine, i due contendenti firmarono la pace di Cateau-Cambrésis (3 aprile 1559).
L'armistizio riaffermava una volta per tutte il dominio spagnolo in Italia.
In particolare, Siena passava a Cosimo I di Toscana, ma sulla costa tirrenica la Spagna teneva le roccaforti di Talamone, Orbetello, Porto Ercole, Porto Santo Stefano e Monte Argentario. Alla Francia, che lasciò il ducato di Savoia, restava solo il marchesato di Saluzzo. Al di fuori dell'ltalia, la Francia, oltre a Calais, conservava Metz, Toul e Verdun: poca cosa, certo, rispetto alle colonie americane della Spagna.
L'impero coloniale di quest'ultima, dopo la conquista di Cortés e Pizarro, comprendeva il Messico e l'America centrale, Antille comprese, Colombia, Perù e Venezuela, alle quali, alla metà del secolo, s'aggiunsero anche la Florida e le Filippine.

 

Martin Lutero e la Riforma

 

L'età della Riforma 

Un altro evento che contribuì a scuotere le coscienze nel corso del XVI secolo fu la Riforma protestante, che determinò lo scatenarsi sia di "guerre di fede" sia di scontri veri e propri fra stati. Per inquadrare l'età della Riforma è necessario accennare all'evoluzione che la Chiesa cattolica aveva subito negli ultimi decenni. Dopo lo scisma d'Occidente, il papato aveva rafforzato il proprio apparato in senso assolutistico: il papa aveva il potere di convocare il concilio e nessuno poteva appellarsi all'assemblea conciliare per opporsi alle decisioni del capo della Chiesa.
Contestualmente, il dilagare della corruzione e del nepotismo e la sempre maggiore politicizzazione del papato spingevano molti intellettuali, nonché il clero fedele ai princìpi del cristianesimo primitivo, nella direzione di una riforma della Chiesa. D'altro canto, la Riforma protestante venne inserendosi in un clima politico e sociale caratterizzato dal sorgere dello spirito di nazionalità.
In particolar modo in Germania, al confuso quadro politico determinato dalla politica di Massimiliano I, che fallì nella sua opera di centralizzazione del potere a causa delle spinte centrifughe rappresentate dalla nobiltà minore e dai contadini, corrispondeva un altrettanto complesso panorama sociale, caratterizzato dal malcontento dei contadini, gravati da tasse molto onerose, e del clero tedesco che imputava alla Chiesa romana il continuo prelievo di denaro per gestire i benefici ecclesiastici e per pagare le imposte. Sul piano culturale, poi, la Germania aveva accolto il pensiero dell'umanista olandese Erasmo da Rotterdam, che esercitò una notevole influenza sull'orientamento culturale e religioso delle élite al potere nel primo Rinascimento.

 

Martin Lutero e le Sacre Scritture 

In questo clima di rinnovamento si inserisce l'esperienza religiosa personale del monaco agostiniano Martin Lutero. Spirito religioso che visse drammaticamente il problema della salvezza umana, Lutero non fu un riformatore politico e sociale sebbene la sua opera abbia dato frutti anche in quell'ambito. In seguito agli studi di teologia condotti sui testi di Sant'Agostino e di San Tommaso, Lutero esaminò la dottrina di Occam, che sosteneva l'impossibilità di dimostrare l'esistenza di Dio tramite la ragione umana, individuando quindi nella fede la sola via di salvezza per l'uomo.
Sulla scia di quella che Lutero chiamò la "teologia della croce", posta a fondamento dei princìpi della Chiesa luterana (la negazione della funzione del sacerdozio, della gerarchia ecclesiastica, del primato papale, del sistema penitenziale), fu riconosciuta nella Bibbia l'unica autorità in materia religiosa e teologica, negando pertanto alla Chiesa la sua funzione di interprete della Scrittura.
Così, per renderla comprensibile a tutti, Lutero tradusse il testo biblico in tedesco, a partire tuttavia non dal latino, però, come prima di lui avevano fatto Wycliff e Huss, ma direttamente dal greco.

 

Lo scandalo delle indulgenze 

L'occasione che diede a Lutero l'opportunità di far conoscere il proprio pensiero fu lo scandalo delle indulgenze, scoppiato nel 1517. La Chiesa cattolica aveva teorizzato la dottrina secondo la quale Gesù e i santi avevano costituito un "tesoro" di indulgenze alle quali il papa e il clero potevano far accedere i fedeli. In cambio di una prestazione in denaro, che finiva naturalmente per alimentare le finanze pontificie, potevano essere rimessi (ossia perdonati) non solo i propri peccati ma anche quelli delle anime dei defunti in purgatorio.
Forte di questa consuetudine, nel 1514 Alberto di Hohenzollern, vescovo di Magdeburgo e desideroso di annettere anche l'arcivescovado di Magonza, aveva ricevuto da Roma il permesso (del tutto eccezionale) di acquistare entrambe le cariche in cambio di una tassa di 10 000 ducati. Per raccoglierli, promise l'indulgenza a chi avesse offerto denaro per la costruzione della basilica di San Pietro. Una parte della somma gli sarebbe servita a pagare il debito con i suoi finanziatori tedeschi, i banchieri Fugger.

 

Le novantacinque tesi di Lutero 

Della predicazione nelle diocesi dell'Hohenzollern si occupò il domenicano Giovanni Tzezel, secondo il quale aveva diritto all'indulgenza solo il peccatore pentito: l'unica eccezione era tuttavia rappresentata dalle indulgenze acquisibili in favore dei defunti.
Udita l'opinione di Tzezel, Lutero gli oppose pubblicamente le sue novantacinque tesi, già proposte, peraltro, all'esame dei maestri di teologia. In una lettera d'accompagnamento (31 ottobre 1517) al superiore, Lutero affermava: "Nessun vescovo può rendere sicuro un uomo della propria salvezza, se questi non è sicuro di riceverla dalla grazia di Dio". In quello stesso giorno fece affiggere le tesi alla porta della cattedrale di Wittenberg. L'arcivescovo incaricò della risposta i teologi di Magonza e fece denunciare il monaco a Roma. Intanto, però, il testo luterano si diffondeva in Germania, grazie anche alla condanna in esso contenuta delle tasse e del commercio di oggetti sacri promossi dalla Chiesa.

 

La scomunica e la messa al bando 

Nel 1520 Leone X scomunicò Lutero, che nello stesso anno pubblicò il testo Della libertà del cristiano. Grazie alla condanna per eresia, I'imperatore Carlo V d'Asburgo, dichiaratosi difensore dell'ortodossia cattolica, trovò un valido motivo per perseguire Lutero. I principi tedeschi lo fecero giudicare dalla Dieta imperiale, riunita a Worms nel 1521. Lutero, però, riaffermò la sua dottrina e l'imperatore, emettendo l'editto di Worms, lo mise al bando e lo condannò al rogo.
Provvide a salvarlo il principe di Sassonia, nascondendolo nel suo castello di Wartburg. Altri principi, poi, si rifiutarono di pubblicare l'editto e lo stesso Carlo V, impegnato nella guerra contro la Francia e nel tentativo di sedare la rivolta dei comuneros in Spagna, lasciò la Germania per nove anni; pertanto il bando non venne applicato e la Riforma luterana si estese senza difficoltà. L'appoggio dato a Lutero da gran parte della nobiltà tedesca si spiega tramite il forte sentimento antiromano diffuso in Germania.

 

I principi tedeschi e la Riforma 

Quanto ai problemi dottrinali posti dalle novantacinque tesi di Wittemberg, la corruzione e, spesso, l'ignoranza del clero ne ostacolavano la risoluzione. Degli aspetti pratici della Riforma, poi, Lutero, almeno per il momento, scelse di non interessarsi. Così, furono le autorità civili, non quelle ecclesiastiche, a realizzarli. Lutero, in effetti, non ebbe mai veramente intenzione di fondare una nuova Chiesa: voleva che i fedeli fossero liberi di organizzarsi in comunità, senza interventi dall'alto.
I principi e i governi cittadini privarono la Chiesa delle sue proprietà e annullarono l'autorità dei vescovi affidando il culto ai sacerdoti passati dalla parte di Lutero. Spesso, naturalmente, le stesse autorità lo appoggiarono solo per motivi d'ordine politico o economico, e non fu del tutto disinteressato neppure l'appoggio di certe classi sociali. In particolare, la piccola nobiltà dei cavalieri approfittò della situazione per ribellarsi allo strapotere della grande nobiltà d'origine laica o ecclesiastica, impadronendosi dei suoi beni.

 

La rivolta dei cavalieri 

Nel 1522 gruppi di cavalieri, guidati da Franz von Sickingen e Ulrico von Hutten, cercarono di occupare le terre del vescovo di Treviri, del Württemberg e della Baviera, trovando, però, la resistenza dei principi e delle città che, considerandoli briganti, li affrontarono con determinazione e li sterminarono. Quanto a Lutero, non li aiutò, dichiarando che il Vangelo non ammette l'uso della violenza. Sickingen perì sul campo di battaglia e von Hutten dovette rifugiarsi a Zurigo, dove poco dopo morì.
D'altro canto, Lutero non fu mai un rivoluzionario: mantenne sempre un atteggiamento moderato, convinto del fatto che voler cambiare l'ordine esistente andasse contro la volontà di Dio.

 

La rivolta dei contadini 

Tuttavia, le masse dei contadini trovarono nella sua dottrina una risposta alle loro esigenze. Il malcontento, se non addirittura lo stato di rivolta, contro le dure condizioni imposte dal sistema feudale, specie nel sud della Germania, era largamente diffuso e poté rafforzarsi grazie a princìpi dottrinali del luteranesimo quali la libertà e l'uguaglianza di ogni cristiano. Inoltre, tra gli stessi seguaci di Lutero, e malgrado le sue intenzioni, non mancò chi si attendeva dalla Riforma un radicale cambiamento della società. Pertanto, ci fu chi appoggiò il movimento dei contadini non limitandosi a simpatizzare con loro, ma incitandoli a farsi giustizia.
Scoppiò quindi la rivolta dei contadini (1524), che coinvolse l'intera Germania e in seguito alla quale Lutero sentì la necessità di porre a capo del movimento di riforma un'autorità e una sorta di gerarchia organizzata. Nacque allora la Chiesa luterana; Lutero preparò i testi dottrinali (Piccolo e Grande Catechismo), atti a insegnare a tutti i fedeli la medesima dottrina.

 

Il movimento rivoluzionario dei contadini

 

L'esempio più importante è quello di Tommaso Muntzer, capo della rivolta dei contadini scoppiata tra la Foresta Nera e il lago di Costanza nel 1524 e allargatasi a macchia d'olio in tutta la Germania meridionale, dalla Renania alla Svevia fino all'Austria. Muntzer, prima a Zwickau (1520), poi ad Allstetd (1523), aveva creato comunità di liberi credenti finendo per trovarsi a capo di un movimento rivoluzionario il cui scopo era realizzare una sorta di comunismo di stampo evangelico.
Ormai era divampata una vera e propria guerra, con tutte le sue luttuose conseguenze. Muntzer e gli altri rivoluzionari avevano, in un primo tempo, sperato nell'appoggio di Lutero, che al contrario si schierò dalla parte della nobiltà feudale, non solo per motivi dottrinali (l'origine divina del potere), ma anche perché disgustato dalle violenze dei ribelli.
In seguito a ciò, i contadini non poterono aver ragione delle numerose truppe messe in campo dai principi e dalle città e la guerra si concluse in un bagno di sangue, con la battaglia di Frankenhauser (1525) e la condanna a morte di Muntzer.

 

La lega di Smacalda 

Dalle regioni tedesche centrosettentrionali, la Riforma, alla quale aderirono anche dei vescovi, s'estese verso oriente e nelle regioni baltiche grazie al gran maestro dell'Ordine Teutonico Alberto di Brandeburgo, che, dopo aver privato l'Ordine stesso di ogni aspetto religioso, nel 1525 si proclamò duca di Prussia. L'appoggio offerto da molti principi alla Riforma luterana condusse pertanto a scontri diretti con l'imperatore, dal momento che di fatto si era venuta a creare una sorta di "braccio armato" della Chiesa. Fu così che nel 1530 fu istituita la lega di Smacalda, nella quale si riunirono tutti coloro che non avevano accettato l'editto di Worms.

 

I riformatori in Svizzera 

Nel frattempo, movimenti riformatori indipendenti da Lutero stavano nascendo anche in Svizzera. A Zurigo, già nel 1519 il cappellano militare Ulrico Zwingli (1484-1531) aveva iniziato ad attaccare le pratiche e le tradizioni ecclesiastiche prive di connessione con testi evangelici. L'anno successivo fece promuovere dal consiglio della città alcune riforme, che poi furono imitate anche a Basilea, Brema e Strasburgo.

 

L'influenza di Erasmo da Rotterdam 

Il rigore teologico di Lutero risultava ora attenuato dalla visione umanistica di Erasmo.
Del luteranesimo Erasmo accolse i princìpi della giustificazione per sola fede (per la salvezza non servono le opere, cioè le offerte, ma è sufficiente, appunto, la fede) e della Bibbia quale unica norma valida per la dottrina e la vita di un cristiano.
Convinto che soltanto gli eletti siano predestinati da Dio alla salvezza, Zwingli andò addirittura oltre le dottrine luterane, negando ogni valore anche ai due sacramenti che Lutero aveva invece mantenuto. Infatti, secondo Zwingli, il battesimo e l'eucarestia erano soltanto cerimonie simboliche: uno rappresentava il dovere dei genitori di educare i figli cristianamente, l'altro era il ricordo dell'ultima cena di Cristo. Di Lutero, comunque, Erasmo condivideva la dottrina del sacerdozio universale dei fedeli (ogni fedele è un sacerdote, nella misura in cui fonda la sua vita sulla parola di Dio). Tuttavia, questo non bastò a fargli avere il suo appoggio: nei colloqui (settembre 1529) al castello di Marburgo, Lutero assunse una posizione nettamente ostile.
Del resto, lo stesso Zwingli uscì rapidamente di scena, ucciso nella battaglia di Kappel (1531) dalle truppe dei cantoni cattolici inviate contro quelle dei cantoni riformati. Il suo insegnamento, non andò del tutto perso: a raccoglierlo fu il francese Giovanni Calvino (1509-1564).

 

La guerra civile tra protestanti e cattolici 

Intanto, la lega di Smacalda si era rafforzata grazie a un accordo intercorso tra gli aderenti luterani e zwingliani (concordato di Wittemberg, 1536). Anche i principi cattolici, però, si unirono in una lega (lega di Norimberga, 1533): ormai la guerra civile era alle porte.
L'imperatore, impegnato in politica estera, tentò di raggiungere l'intesa favorendo incontri tra i teologi delle due parti, ma senza sortire alcun esito. Alla fine, la lega dei riformati cominciò a indebolirsi a causa dell'abbandono di uno dei capi, Filippo d'Assia, e di altri che ne seguirono l'esempio. Quando Carlo V firmò la pace con la Francia e ottenne da Paolo III la convocazione di un Concilio a Trento, ordinò ai riformati (detti d'ora innanzi protestanti) di presentarsi.
Questi non obbedirono e l'imperatore mosse l'esercito contro la lega di Smacalda, sconfiggendola sul campo a Mühlberg (1547). Tuttavia, anche dopo quella vittoria Carlo V non s'illuse di riuscire subito a restaurare il cattolicesimo.
L'anno successivo emanò una dichiarazione dal contenuto conciliante, in attesa delle decisioni del Concilio generale. In tal modo, però, finì per scontentare tutti: molti principi cattolici cominciavano del resto a tirarsi indietro preoccupati che la sua autorità diventasse eccessiva. Nel nuovo scontro franco-asburgico (1552), la Francia si alleò con i protestanti finendo per logorare le truppe cattoliche.

 

La dieta di Augusta 

Dopo la rinuncia al trono di Carlo V (1556), la corona passò al fratello Ferdinando, che si ritirò dal conflitto. D'altra parte, già nel 1555 la dieta (ossia la riunione dei rappresentanti politici dell'impero) di Augusta aveva preso atto della rottura definitiva, cercando di regolare i rapporti tra cattolici e luterani e stabilendo il principio del "cuius regio, eius religio", secondo il quale erano il principe o il governo della città a dover decidere sulla confessione ufficiale del proprio territorio.

 

Calvinisti e anglicani

 

La Riforma al di fuori della Germania 

Le teorie luterane si diffusero con alterne fortune in tutta l'Europa. In Spagna vi aderirono in pochi, perché l'Inquisizione perseguitò chiunque fosse sospettato di criticare la Chiesa cattolica.
Scarsa fu la diffusione delle dottrine luterane anche in Italia, dove, peraltro, bisogna segnalare gli stretti legami che si erano instaurati tra i calvinisti e i valdesi, che in Piemonte avevano continuato a seguire le dottrine eretiche risalenti al XII secolo.
I Paesi Bassi furono conquistati in parte dall'anabattismo, una teoria religiosa che rifiutava l'intervento dell'autorità civile in materia di fede e conferiva il battesimo ai soli adulti.
Verso la metà del XVI secolo in Europa si diffusero, mettendo profonde radici, le idee di Calvino.
La Riforma luterana arrivò anche in Francia, dove conquistò addirittura alcuni membri della famiglia reale. La reazione però non si fece attendere e fu particolarmente brutale. Il re Francesco I, tra il 1528 e il 1534, appoggiò le persecuzioni contro i protestanti, costringendoli alla fuga (come accadde per Calvino) o alla clandestinità. Poco dopo, però, il movimento che s'ispirava al calvinismo riprese vigore, tanto che intorno alla metà del secolo in Francia stava per nascere una Chiesa riformata nazionale.

 

Gli ugonotti e l'editto di Nantes 

I numerosi protestanti francesi, chiamati ugonotti, ormai con sempre maggiore insistenza chiedevano di praticare la loro confessione in piena libertà. Intanto, però, la questione religiosa andava complicandosi a causa dei contrasti politici tra la monarchia e la nobiltà.
Un gran numero di nobili era passato dalla parte dei riformati e per tutta la seconda metà del secolo la Francia fu scossa da guerre di religione fino a che, nel 1572, la monarchia arrivò a una decisa presa di posizione nei riguardi degli ugonotti.
Infatti, la regina Caterina de' Medici, vedova di Enrico II, ne ordinò il massacro a Parigi, la notte del 24 agosto, passata alla storia come la notte di San Bartolomeo. Si contarono circa tremila uccisi: fu il primo grande massacro organizzato dell'epoca moderna in Europa. La strage, che continuò nel mese di settembre in tutta la Francia, provocò una violenta recrudescenza della guerra civile.
Si tornò alla pace solo nel 1598, quando Enrico IV di Borbone, convertito al cattolicesimo, con l'editto di Nantes concesse ai protestanti libertà di professare la propria fede. Non bisogna dimenticare, comunque, che egli era stato capo degli ugonotti e aveva ottenuto la corona grazie ai suoi legami di sangue col re Enrico III, figlio di Caterina de' Medici.

 

La diffusione delle idee protestanti in Polonia 

Anche in Polonia s'erano diffusi calvinismo, luteranesimo, anabattismo e altre correnti protestanti. L'avvento al trono di Enrico di Valois, il fratello del re di Francia (1574), spinse tuttavia i nobili cattolici e protestanti a stringere alleanza tramite un patto approvato dal re. A esso si attenne anche il cattolico Stefano, principe di Transilvania, che succedette a Enrico nel 1576. Così furono evitati altri spargimenti di sangue. Negli anni seguenti si assistette, a ogni modo, alla graduale riaffermazione del cattolicesimo.

 

La dottrina calvinista 

Il francese Giovanni Calvino (1509-1564) nel 1533 abbandonò la Francia per motivi religiosi rifugiandosi prima a Basilea, poi a Ferrara, alla corte della duchessa Renata di Francia, e quindi a Ginevra, in quella che allora era una repubblica indipendente della confederazione svizzera, già libera dal dominio del duca di Savoia e conquistata alla riforma luterana.
Calvino, accogliendo le tesi principali di Ulrico Zwingli, come quella della predestinazione, e buona parte di quelle luterane, sviluppò nella Institutio religionis christianae (1536) una nuova dottrina riformata, da lui detta, appunto, calvinismo.
Il calvinismo si fonda, innanzitutto, su una diversa concezione dei due sacramenti del battesimo e dell'eucarestia. Per Calvino essi non sono dei simboli, come voleva Zwingli, né dei mezzi di salvezza che operano di per sé, al di fuori della fede, come volevano i cattolici; ma sono stati istituiti da Dio come aiuto diretto per gli uomini, in testimonianza della grazia.
Fu altresì elaborata la dottrina dell'assoluta predestinazione, secondo la quale la dannazione o la salvezza dell'umanità spettano alla volontà divina.
Secondo Calvino, Dio elegge coloro che vuole salvare e dona loro la fede, indipendentemente dai meriti e dalle buone azioni dei fedeli.
La chiesa calvinista si differenziò dalla luterana anche per l'elezione dei ministri (dotati solo di poteri di sorveglianza) da parte dei fedeli. Inoltre, organizzando la società sul modello della Chiesa, il calvinismo finì per fondere il potere politico al potere religioso.
La Chiesa calvinista si identificò fin dai primi anni con la repubblica di Ginevra e Calvino fu il capo assoluto di questa Chiesa così autoritaria, del resto, da far condannare a morte il medico spagnolo Michele Serveto, accusato di non riconoscere il mistero della Trinità (1551).
Tuttavia il calvinismo, anche se macchiato dalla vergogna di quell'assassinio, ebbe nel mondo moderno un posto ben più significativo che non la dottrina di Lutero. Infatti, nel calvinismo si colgono le radici del liberalismo e della democrazia moderna.

 

La situazione in Inghilterra 

La Riforma si era diffusa anche in Inghilterra, e, da principio, il suo espandersi non fu ascrivibile alla reazione antiromana (come invece era accaduto in Germania): i legami tra la Chiesa inglese e il pontefice erano infatti già molto deboli sin dai tempi della dinastia dei Tudor. Si sentiva, piuttosto, in Inghilterra come altrove, l'esigenza di una riforma soprattutto morale del clero. Né bisogna dimenticare, del resto, che l'lnghilterra del XVI secolo era uno dei maggiori centri dell'evangelismo umanistico; ancor prima, Wycliff vi aveva predicato le sue dottrine e dall'Olanda vi si era diffusa la setta dei lollardi.
Si poteva dunque supporre che le idee luterane e calviniste fossero destinate a una rapida propagazione. Non fu così: la Riforma ebbe un carattere prettamente politico, che si spiega con l'assolutismo dei Tudor. Il re Enrico VIII (1509-1547), all'inizio, aveva difeso la dottrina cattolica e un suo opuscolo in difesa dei sacramenti scritto contro le tesi di Lutero (1521) gli aveva fatto ricevere da papa Leone X il titolo di "difensore della fede". Nello stesso tempo, però, il sovrano era un accanito sostenitore dell'autonomia nazionale; ben presto, pertanto, si accorse dei vantaggi che il protestantesimo poteva procurargli.

 

Enrico VIII e lo scontro con papa Clemente VII 

Ad affrettare la crisi intervenne un fatto privato. Da anni, infatti, Enrico VIII aveva sposato Caterina d'Aragona vedova del fratello e zia dell'imperatore Carlo V. Dalle nozze, celebrate con dispensa papale, era nata solo una bambina, Maria. La mancanza di un erede maschio preoccupava il re, che voleva tutelare la dinastia Tudor. Alle preoccupazioni per così dire politiche del sovrano si aggiunse la travolgente passione per la dama di corte Anna Bolena. La dispensa papale che aveva reso possibili le prime nozze non poteva di nuovo venire utilizzata: così fin dal 1527 furono avviate con Clemente VII le trattative per annullare il matrimonio.
Ma il papa, timoroso di Carlo V, non soddisfece le richieste del sovrano inglese, che nel 1529 intraprese una serie di provvedimenti restrittivi contro la Chiesa locale (abolizione dei proventi, divieto di ricorrere alla giurisdizione dei tribunali stranieri) e uccise Tommaso Wolsey, arcivescovo di York e cancelliere del regno, oltre che nunzio papale in Inghilterra. Un'assemblea di vescovi inglesi a lui favorevole pronunciò la sentenza d'annullamento delle nozze con Caterina: nel 1533 Enrico VIII sposò Anna Bolena, incoronandola regina. Poi fece riconoscere erede la loro figlia Elisabetta, a danno della primogenita Maria.

 

L'Atto di Supremazia 

Infine, nel novembre 1534, il parlamento venne obbligato ad approvare l'Atto di Supremazia, nel quale si affermava che "sua Maestà è, dev'essere e sarà ritenuto unico capo supremo sulla terra della Chiesa d'Inghilterra, detta Anglicana Ecclesia". L'anno successivo furono decapitati il cardinale Fisher e Tommaso Moro, colpevoli di rifiutare il giuramento al sovrano in qualità di capo della Chiesa.

 

Il difficile cammino della Chiesa anglicana 

La riforma inglese non toccò in un primo momento il contenuto teologico del cattolicesimo, ma costituì "uno scisma senza eresia", che si limitò ad abolire il latino dai testi sacri e dalla liturgia e a porre il clero sotto la diretta dipendenza del sovrano.
I monasteri furono soppressi e i loro beni incamerati dalla corona. Quanto ai sacerdoti, restava il vincolo del celibato.
Durante il regno di Edoardo VI (1547-1533), l'erede nato dell'unione con Anna Bolena, la predicazione luterana e calvinista si diffuse in Inghilterra provocando l'introduzione, nella liturgia e nel patrimonio dottrinale della Chiesa anglicana, di alcuni elementi della Riforma che si stava diffondendo in Europa.
In seguito durante la reggenza di Maria, detta la Cattolica o anche la Sanguinaria (1553-1558), sorellastra di Edoardo e moglie del re di Spagna Filippo II, si tornò al regolare culto cattolico, restaurato con feroci repressioni e con la condanna dell'arcivescovo di Canterbury, Tommaso Cranmer.
Tuttavia, con la terza figlia di Enrico VIII, Elisabetta I (1558-1603), la Chiesa anglicana si affermò una volta per tutte. Vennero respinti gli attacchi simultanei mossi dal cattolicesimo e dal calvinismo, diffuso, quest'ultimo, nella forma presbiteriana dalla vicina Scozia.
Nel nuovo atto di supremazia (1559), al sovrano non si applicò l'antico titolo di "capo" della chiesa, bensì quello di suo "reggitore supremo". Alcune settimane dopo, l'atto di uniformità escluse i cattolici dalla vita politica inglese (divieto che durerà fino all'Ottocento).

 

La dottrina anglicana 

Per quanto riguarda la dottrina, la Chiesa anglicana ne precisò i contenuti nel 1563 con la Confessione dei trentanove articoli. Quest'atto manteneva alcuni aspetti esteriori del culto cattolico, ma accoglieva molti principi tratti dalla teologia calvinista, come la concezione dell'eucarestia e l'abolizione del celibato per i sacerdoti.

 

Il grande nemico: Filippo II 

Elisabetta I, quando nel 1570 fu scomunicata da Pio V, iniziò a perseguitare i cattolici.
La loro situazione divenne particolarmente difficile quando l'Inghilterra si trovò sotto la minaccia dell'intervento spagnolo. Infatti, il re di Spagna Filippo II  si presentava come difensore del cattolicesimo. Fu proprio in quel periodo che Elisabetta I fece decapitare Maria Stuarda, la cattolica regina di Scozia, che aveva cercato rifugio in Inghilterra perché minacciata dalla ribellione di calvinisti e nobili del suo paese.

 

La Controriforma

Le esigenze di rinnovamento della Chiesa 

La Chiesa di Roma non aveva potuto restare indifferente al diffondersi della Riforma protestante. Già alla fine del XV secolo si era avvertita l'esigenza di un rinnovamento morale della Chiesa, che fu bloccato dall'avvento dei papi mondani del Rinascimento. Tuttavia il "caso Lutero" rappresentò per molti gruppi di ecclesiastici la possibilità di attuare un cambiamento. Pertanto, alla visione mondana e politica di molti pontefici si contrappose quella del pontefice Adriano Vl (1522-1523), che nel 1523, inviando un suo legato a una delle tante diete imperiali riunitesi in quel tempo, ebbe il coraggio di consegnargli delle istruzioni che in realtà erano una confessione dei mali che stavano corrodendo la Chiesa.
In seno all'istituzione cattolica si erano quindi creati due schieramenti: l'uno, rappresentato dall'ala erasmiana, includeva un gruppo di cardinali (Jacopo Sadoleto, Gaspare Contarini, Reginald Pole) che volevano la riconciliazione con i protestanti. Questa tendenza moderata si manifestò soprattutto sotto papa Paolo III, quando una commissione cardinalizia, composta da nove membri e da lui stesso istituita, presentò un programma riformatore detto Consilium de emendanda ecclesia.
L'altro, costituito da una corrente intransigente capeggiata dal cardinale Gian Pietro Carafa, poi Paolo IV, si opponeva con determinazione al precedente partito.

 

La Chiesa militante: la Compagnia di Gesù 

Oltre a questi obiettivi di riforma morale e liturgica, infatti, si affermò anche il convincimento di dover combattere gli eretici, riconquistandoli al cattolicesimo. Si delineano così i caratteri sia difensivi sia offensivi della Riforma cattolica, pertanto chiamata Controriforma.
Tra le correnti riformiste (i teatini e i barnabiti, che s'impegnarono nell'insegnamento e in attività assistenziali), s'impose l'ordine dei gesuiti, o Compagnia di Gesù, fondato da un nobile spagnolo di origine basca, Ignazio di Loyola (1491-1556), che nel 1521, a causa di una ferita, aveva rinunciato alla carriera militare. Mentre frequentava i corsi universitari della Sorbona, a Parigi, scoprì la sua vera vocazione.
ll 15 agosto 1534, sulla collina di Montmartre, Ignazio e altri compagni pronunciarono i voti di castità e di povertà, aggiungendovi quello dell'obbedienza assoluta agli ordini del papa. Nel 1540 Ignazio ottenne l'autorizzazione papale a costituire il nuovo ordine religioso, del quale assunse la carica di primo generale. Suo compito e suo intendimento furono l'insegnamento e la difesa della giusta dottrina cattolica.
I padri gesuiti s'impegnarono nell'attività missionaria in zone non cristiane dell'Asia e dell'America (da poco scoperta) oltre che in Europa, dove crearono una rete di collegi. Com'è ovvio, soprattutto nella Germania meridionale e nei territori degli Asburgo i gesuiti svolgevano anche la funzione di frenare la diffusione del protestantesimo.
L'ordine si basava sull'assoluta obbedienza dei religiosi al superiore. Chi vi entrava, prendendo i voti doveva spogliarsi della sua stessa volontà e personalità. I gesuiti, infatti, avevano un'organizzazione quasi militare e un capo supremo, detto generale, che dipendeva direttamente dal papa.

 

La prima convocazione del Concilio di Trento 

I pontefici, che, con l'eccezione di Adriano Vl (il consigliere di Carlo V), erano rimasti sordi a ogni richiesta di riforma, cominciarono finalmente ad assumere iniziative al riguardo. Paolo III incaricò una commissione di elaborare un progetto di riforma. Il documento gli fu presentato nel 1537: vi era contenuta un'aperta denuncia delle irregolarità commesse dai suoi predecessori.
Già da un anno Paolo III aveva convocato il Concilio, ma difficoltà politiche (la guerra tra Cario V e la Francia) e le resistenze del clero ne fecero ritardare riunione a Trento fino al 1545.

 

La posizione degli intolleranti 

Il contrasto con i protestanti ormai si era aggravato e tra le stesse fila cattoliche si erano imposti gli intolleranti. Essi riorganizzarono il tribunale medievale dell'Inquisizione (1542), già creato da Innocenzo III e ora sottoposto alla congregazione del Santo Uffizio, formata da nove cardinali che agivano al di sopra dell'autorità politica e alle strette dipendenze del pontefice.
Tale iniziativa rappresentò un colpo mortale per la Riforma in Italia. Addirittura la repubblica di Venezia, da sempre indipendente da Roma, iniziò a perseguitare gli anabattisti e una rivolta popolare contro il viceré Pietro di Toledo a Napoli (1547) fu soffocata nel sangue. Il solo effetto fu che al posto dell'Inquisizione spagnola venne introdotta quella romana. Al Concilio di Trento, dunque, non presenziarono i dissidenti, e, inizialmente, a causa della guerra in corso tra l'impero e la Francia, neppure numerosi vescovi tedeschi e francesi.

 

Il difficile e discontinuo iter del Concilio di Trento 

Altre difficoltà insorsero perché il pontefice, che oltretutto temeva il risorgere delle vecchie tesi della superiorità del Concilio sull'autorità pontificia, non condivideva che la scelta della sede per l'assemblea conciliare fosse caduta su una città appartenente a un vescovato imperiale. Paolo III, dopo averne chiesto il trasferimento in Italia, arrivò anche a sospendere i lavori dell'assemblea.
Inaugurato il 13 dicembre 1545 dal cardinale Del Monte (poi papa Giulio III), il Concilio procedette a stento, tra sospensioni e riprese. Nel marzo 1547 veniva trasferito a Bologna e sospeso nel febbraio 1548 a causa dell'assenza, per protesta, di molti vescovi non italiani. Riconvocato nel 1551 a Trento, fu di nuovo interrotto, tra il 1552 e il 1562, nel decennio dominato dalle riforme di papa Paolo IV. Solo dopo la pace tra Francia e impero (Cateau-Cambrésis, 1559), infatti, i lavori poterono riprendere a Trento (gennaio 1962) con la partecipazione di un numero maggiore di vescovi. Il Concilio si chiuse il 14 dicembre 1563 e i risultati furono resi pubblici dal papa Pio IV con la bolla del 16 gennaio 1564.

 

Gli obiettivi fondamentali del Concilio 

Tra gli obiettivi fondamentali vi furono la riforma disciplinare e la revisione dei punti della dottrina messi in discussione dal protestantesimo.
Si affermò il principio della capacità dell'uomo, illuminato dalla grazia divina, di scegliere tra il bene e il male e quindi di meritare la salvezza.
Per quanto riguarda i sacramenti, l'assunto definitivo fu che fossero sette e non due soltanto, e che potevano essere impartiti solo dai sacerdoti consacrati dalla Chiesa cattolica (fatta eccezione per il battesimo, che poteva essere amministrato da chiunque). La Chiesa era ordinata in modo gerarchico e al vertice sedeva il papa, al quale spettava il diritto di confermare i decreti dei concili.
Quanto ai problemi disciplinari, essi furono risolti obbligando gli ecclesiastici a risiedere nelle sedi assegnate alla loro cura pastorale. Così, fissando le pratiche liturgiche, si vietava il cumulo di benefici (possesso di più di una carica ecclesiastica). Ogni diocesi doveva mantenere scuole apposite per l'istruzione del clero (seminari); conventi e monasteri, poi, dovevano vivere secondo la disciplina imposta dall'ordine al quale appartenevano (regola).
Infine, l'esigenza di riorganizzare la ripartizione delle cariche e la corretta dottrina cattolica fece escludere quasi dei tutto i laici (chi non rivestiva cariche sacerdotali) dalla partecipazione attiva alla vita della Chiesa. A essa i fedeli dovevano obbedire senza riserve. Per evitare qualsiasi deviazione dalla norma, si proibì ripetutamente di tradurre la Bibbia nelle lingue nazionali.

 

Gli effetti del Concilio 

La Chiesa, insomma, si era data un aspetto strettamente clericale: questo sforzo di definire e di riaffermare la sua dottrina finì per isolarla, per tutto il Seicento, in una posizione di forte conservatorismo.
Nonostante l'atteggiamento di intransigente ortodossia, manifestatosi in forme repressive contro la cultura popolare (caccia alle streghe) e caratterizzato dall'intolleranza con la quale l'Inquisizione perseguitava anche i semplici sospetti di eresia e condannava o distruggeva i libri che minacciavano o sembravano minacciare la dottrina o i costumi cattolici, i risultati immediati della Controriforma non furono negativi.
Migliorarono costume e il grado d'istruzione del clero in ogni classe sociale si risvegliò un'intensa vita spirituale e si moltiplicarono le attività assistenziali.

 

L'intolleranza e il fanatismo della Chiesa di Roma 

L'intolleranza fu nondimeno un aspetto tipico della mentalità dell'epoca, secondo la quale per il mantenimento dell'ordine la religione non poteva che essere una sola. Per quanto riguarda i cattolici, un vento di terrore si levò quando fu eletto papa, col nome di Paolo IV (1554-1559), lo stesso Carafa. Intollerante e fanatico, il pontefice colpì non solo gli eretici ma anche molti cardinali accusati di essere troppo moderati.
Il cardinale Morone, futuro presidente del Concilio di Trento, colpevole di ispirarsi alla dottrina di Erasmo, fu imprigionato in Castel Sant'Angelo.
Il successivo pontefice, Pio IV, subì l'influenza del nipote, Carlo Borromeo, al quale si deve la pubblicazione del primo Indice dei libri proibiti (1559). Lo scopo era di impedire ai cattolici la lettura di opere pericolose per la purezza della fede. Per tenere aggiornato tale indice, il nuovo papa, Pio V, istituì la Congregazione dell'Indice. Intanto, i valdesi italiani Pietro Carnesecchi (1567) e Aonio Paleario venivano condannati al rogo.

 

Le monarchie nazionali
L'Europa perde l'antico primato 
Il panorama della storia moderna era radicalmente cambiato: nuove potenze avevano fatto il loro ingresso nel nuovo mondo e gli interessi coloniali finirono per condizionarne la politica.
Così l'Europa cominciò lentamente a perdere il suo antico primato.
Infatti, gran parte degli interessi economici, politici e militari ruotava ancora intorno a essa, che costituiva l'osservatorio privilegiato per poter cogliere la progressiva evoluzione dell'umanità almeno per due motivi.
Innanzitutto, posto come premessa il fatto che le nazioni "colonizzatrici" di quasi tutto il resto del mondo erano europee, proprio nel vecchio continente si registrarono in questo periodo la nascita dello stato moderno e la rivoluzione industriale. Vedremo come al primo fenomeno s'intrecceranno le vicende politiche e militari che si svolsero in Europa nell'arco di tempo compreso tra la metà del secolo XVII e la fine del XVIII.

 

La nascita dello stato moderno 

La formazione dello stato moderno, di solito, viene fatta coincidere con l'assolutismo regio del re di Francia, Luigi XIV. In realtà, però, le cause di un fenomeno così complesso van cercate ben oltre quest'importante momento storico. In alcuni grandi paesi europei, Francia compresa, almeno da un secolo vi era la tendenza a limitare i poteri signorili con un forte potere centrale, strettamente collegato, per il suo apparato burocratico, alla nascita d'una classe borghese di commercianti e professionisti.
Sia tra il 1450 e il 1550, in pieno sviluppo agricolo e boom delle nascite, sia nel periodo di crisi successivo, infatti, s'erano affermate un po' ovunque (Francia, Spagna, Inghilterra, Impero) nuove istituzioni che iniziavano a configurare la realtà dello stato moderno.
Le guerre europee e quelle coloniali, condotte con una grande quantità di mezzi, sia navali sia terrestri, avevano richiesto la presenza di un'organizzazione statale permanente che non si era mai vista prima d'allora.
Le esigenze finanziarie, accresciute dai tempi di Carlo V in poi, avevano reso indispensabili nuovi istituti di tipo fiscale e amministrativo, dando vita a una vera e propria burocrazia.

 

La burocrazia statale 

I membri della burocrazia (ufficiali, intendenti, magistrati) crebbero col passare del tempo, intervenendo, fin dal secolo XVII, a tutti i livelli della vita nazionale, nell'esercizio di funzioni già un tempo ricoperte solo dalla nobiltà feudale o del tutto nuove. Questi "uomini nuovi", aumentando di numero, naturalmente, assunsero maggior autorità, al punto che in Francia si cercò di farli rientrare nei ranghi dell'aristocrazia (la cosiddetta nobiltà di toga), mentre in Olanda e in Inghilterra il ruolo da essi svolto fu riconosciuto.
Si trattava di persone diverse: accanto a militari di carriera, lontani ormai dal vecchio modello cavalleresco, c'erano segretari, contabili, esattori, alcuni dei quali ricoprirono importantissime cariche nei consigli di governo; e poi legali, giudici, notai, appaltatori e gestori delle dogane e della finanza regia.
Insomma, vi erano varie figure professionali e numericamente in crescita intorno alle corti europee del XVII e del XVIII secolo. Si trattò di un fenomeno esteso dagli stati grandi a quelli piccoli, dai grandi regni nazionali alle repubbliche marinare e ai principati italiani.

 

Le differenze tra stato e stato 

In alcuni casi, soprattutto in Spagna e in Italia, il peso di un secolare feudalesimo sembrò aver la meglio sulla neonata borghesia, la quale, tuttavia, s'affacciò ovunque, dalle colonie d'America al mondo slavo, per certi versi, ancora così arcaico. A questa trasformazione contribuirono senza alcun dubbio lo sviluppo della tecnica e della produzione, degli scambi e della cultura stessa.
Gli esiti furono, prevedibilmente, diversi a seconda delle diverse realtà economico-sociali e delle tradizioni istituzionali nelle quali tale processo venne a inserirsi.
In Spagna, per esempio, un ruolo decisivo giocarono l'immenso impero coloniale e la necessità collegata a esso di un nuovo tipo d'amministrazione a base "policonsiliare".
In Polonia, lo sforzo di dar vita a uno stato centralizzato si scontrò inesorabilmente con le tendenze autonomistiche e feudali di una potente casta di magnati.
Nello stato inglese, invece, il particolare equilibrio esistente tra la camera dei comuni e la corona, che fu raggiunto attraverso due rivoluzioni, garantì un funzionamento efficace e democratico della macchina statale.
Negli stati di Russia e di Prussia, inoltre, la forte personalità di alcuni dei loro sovrani consentì, anche se all'interno di società arretrate, la nascita di potenti apparati burocratici e un'effettiva centralizzazione dei poteri.
In Francia, infine, l'assolutismo regio che era stato contestato dalle Fronde e successivamente restaurato dal sovrano Luigi XIV segnò la definitiva affermazione dello stato moderno.

 

I presupposti filosofici dell'assolutismo in Francia

 
Il regime assolutistico di Luigi XIV fu il culmine di un percorso teorico iniziato dall'inglese Thomas Hobbes (1588-1679), autore del Leviatano (1651). Nella sua teoria politica Hobbes ha indicato questa soluzione per ottenere uno stato ideale dove vivere in pace e in sicurezza: è necessario un potere che tenga in soggezione tutti gli uomini, per obbligarli a mantenere un comportamento corretto.
Tale potere si può creare se ognuno si impegna a riconoscere qualsiasi ordine emanato da un individuo (o da un'assemblea) deputati al mantenimento della pace e della difesa di tutti. Un sovrano così eletto ha poteri assoluti ed è responsabile solo davanti a Dio. In Francia col Bossuet, prelato della corte di Versailles (1627-1704), la dottrina di Hobbes si trasformò in quella, cattolica, della monarchia d'origine divina. L'assolutismo di Luigi XIV - come quello di molti altri sovrani in seguito - per quanto moderno si fondava insomma su una concezione medievale (già messa in dubbio in Inghilterra) per cui il re era responsabile dei suoi atti solo davanti a Dio. Così, veniva innanzitutto condannata ogni rivolta dei sudditi ma anche limitata la potenza della nobiltà, con un governo forte e centralizzato e un nuovo apparato burocratico amministrativo. Quest'ultimo fu il risultato, "rivoluzionario", della politica di Luigi XIV.

 

I mezzi adottati per garantire il potere assoluto

 
Con abilità, infatti, egli riuscì a dividere, indebolendoli, gli stessi nobili, grazie alla donazione di cariche pubbliche e alla formazione di una nuova nobiltà, la nobiltà di roba, vista di malocchio dagli antichi signori, i cosiddetti nobili di spada. D'altra parte, alla crisi della nobiltà avevano già contribuito l'avvento del capitalismo e di una borghesia che si occupava di quelle attività vietate ai nobili dai pregiudizi del tempo.
Il re, dopo le tristi esperienze della Fronda principesca, riuscì ad assicurare il suo primato ottenuto nel paese: invitò i signori feudali nella nuova reggia di Versailles (1682) trasformandoli in cortigiani.
Privati degli antichi privilegi e dell'abitudine di risiedere nelle rispettive governatorìe, dove avevano clienti e truppe personali pronte a seguirli in caso di rivolte, staccati dalle loro terre, essi perdevano ogni potere, ricevendo dal re solo qualche beneficio economico.
Quanto ai ministri, questi furono ridotti a semplici "commessi" dello stato, anche quando si trattava di grandi personalità, come Lionne, Le Tellier, Louvois.
Luigi XIV, infine, per modellare la stessa vita della nazione a suo piacimento attraverso un moderno organismo statale, creò l'istituto degli intendenti.
In origine semplici sorveglianti e ispettori, gli intendenti durante il suo regno si moltiplicarono, assumendo il controllo, il governo e l'amministrazione delle singole province, a danno dei nobili locali e delle stesse autorità municipali.

 

La Spagna di Filippo II

Il regime centralizzato e assolutistico di Filippo II 

La storia politica della seconda metà del Cinquecento, dunque, fu dominata dalla figura di Filippo II di Spagna (1556-1598). In lui, v'erano un misto di assolutismo politico e fanatismo religioso, al punto che come reggia si fece costruire il palazzo dell'Escorial per avere, secondo le sue parole, "un tempio per Dio e un sepolcro per me".
Tra gli obiettivi di Filippo II vi furono la lotta all'eresia e all'espansionismo turco nel Mediterraneo oltre che la protezione dei traffici spagnoli con l'impero coloniale. Il re cercò di realizzarli gestendo personalmente tutti gli affari di stato e imponendo pesanti tasse con un rigido sistema burocratico nelle regioni del suo dominio, strettamente dipendenti dal centro. In Spagna Filippo II portò a compimento l'opera di unificazione tra le istituzioni delle regioni che un tempo erano state regni distinti.
Così, le autonomie locali un po' alla volta lasciarono il posto a un regime monarchico centralizzato e assolutistico. Sotto il suo regno si moltiplicarono i tribunali dell'Inquisizione e gli autodafé (i roghi dei libri messi all'indice).
Intollerante con gli ebrei (marrani) e i musulmani (moriscos), provocò la rivolta di questi ultimi a Granada, da dove li trasferì, a forza, in Castiglia (1570). Nel 1580 egli riuscì anche a realizzare la completa (ma non definitiva) unificazione della penisola iberica, ricevendo la corona del Portogallo.

 

Le imposizioni di Filippo II ai Paesi Bassi  

Dove la politica intollerante di Filippo II ebbe le conseguenze peggiori per le sorti della stessa monarchia furono i Paesi Bassi.
Queste terre erano allora tra Vecchio e Nuovo Continente, di vitale importanza per la sopravvivenza della Spagna. Infatti, grazie alla loro posizione geografica e allo sviluppo mercantile delle città, i Paesi Bassi regolavano l'andamento dei viaggi atlantici, che rifornivano le casse del re di oro e argento americano. Inoltre, erano punto di passaggio obbligato per i convogli, che approvvigionavano la popolazione e gli eserciti spagnoli coi cereali prodotti nelle regioni baltiche.
Anche nei Paesi Bassi, dunque, il re introdusse un ordinamento rigidamente accentrato, attraverso la figura di un governatore che lo rappresentava. In tal modo, non veniva  affatto rispettata la lunga tradizione di autonomia locale. Oltre a questo, però, egli decise di imporre il cattolicesimo anche a quei rappresentanti della borghesia mercantile e della nobiltà che avevano già aderito al calvinismo. Col permesso di Roma, creò nuove diocesi e vi fece insediare truppe spagnole, poi, diede l'annuncio che vi avrebbe introdotto l'Inquisizione.

 

 

Storia moderna riassunti

 

La rivolta antispagnola 

Fu allora che il diffuso sentimento anticlericale e calvinista si integrò con l'indipendentismo dei Paesi Bassi, finché, in occasione d'una carestia, nel 1566, non scoppiò una vera e propria rivolta.
Filippo II vi inviò il duca d'Alba che, al comando di un esercito, soffocò la ribellione nel sangue. Essa, però, continuò in mare, dove i ribelli si erano dati ad azioni di pirateria contro porti e navi spagnole. Infine, il re concesse un'amnistia generale, spinto soprattutto dalla grave offensiva turca nel Mediterraneo. Nei Paesi Bassi, tuttavia, continuarono a covare, anche tra i cattolici, forti risentimenti antispagnoli. A provocarli furono, oltre che le violenze dei soldati, le pesanti tasse imposte per mantenere le truppe d'occupazione.
La rivolta scoppiò nuovamente, questa volta limitata alle province del Nord (Olanda e Zelanda), dove i calvinisti erano particolarmente numerosi. Quando intervenne l'esercito, con nuove stragi e saccheggi, la ribellione si estese, capeggiata da Guglielmo d'Orange, il maggior rappresentante della nobiltà locale. Cattolici e calvinisti si allearono, firmando un patto, a Gand, nel 1576.

 

L'indipendenza delle Province Unite 

L'accordo non durò a lungo: nel 1579 le province cattoliche del Sud si staccarono e giurarono fedeltà al re di Spagna. Quelle del Nord, invece, diedero vita alla Repubblica delle Province Unite e affermarono la propria indipendenza dalla Spagna.
Scoppiò, così, una lunga guerra, che, dopo alterne vicende, si concluse con la vittoria di quella nuova repubblica, ribattezzata Olanda.

 

Lo scontro con l'Inghilterra 

Un ruolo decisivo ebbe l'Inghilterra, che per motivi religiosi e commerciali mirava all'indebolimento della Spagna. La politica antispagnola era iniziata col regno di Elisabetta I (1558-1603), succeduta alla cattolica Maria Tudor, detta la Sanguinaria, che, come già detto, aveva sposato Filippo II.
Elisabetta I, condannando a morte Maria Stuarda col pretesto della religione cattolica, ma, in realtà, perché dalla vicina Scozia aveva avanzato delle pretese verso il suo stesso trono, offrì al re di Spagna l'occasione per uno scontro diretto con l'Inghilterra; oltretutto, da tempo i pirati inglesi attaccavano per consuetudine pure le coste della Spagna.
Filippo II riunì nelle Fiandre le sue truppe, comandate da Alessandro Farnese, e radunò una flotta così potente da passare alla storia col nome di Invincibile Armata. Purtroppo le navi erano troppo pesanti per approdare sulla costa della Manica: attaccate dalle veloci navi inglesi e per giunta colpite da una tempesta, in gran parte affondarono e solo pochissime tornarono in Spagna.
Il sogno di invadere l'Inghilterra s'era infranto. Comunque la guerra, con l'Inghilterra e con i Paesi Bassi, continuò, anche se la Spagna non prese il sopravvento. Anzi, il successore, Filippo III (1598-1621), nel 1609 firmò la tregua di Anversa, riconoscendo di fatto l'indipendenza dell'Olanda dalla Spagna.

 

Filippo II contro i turchi 

Il cattolicissimo Filippo II fece senz'altro miglior figura trent'anni prima con gli ottomani, che, occupata Rodi, minacciavano anche la Sicilia, detta il granaio dell'impero. Nel 1565 attaccarono Malta, che si salvò grazie alla resistenza dei suoi cavalieri e, nel 1570, l'isola veneziana di Cipro. Dopo aver occupato Nicosia, assediarono la fortezza di Famagosta.
La guarnigione veneziana, pur avendo resistito coraggiosamente, si consegnò al nemico, che non rispettò gli accordi: gli ufficiali furono uccisi e il comandante della guarnigione, Marcantonio Bragadin, scorticato vivo.
Allora, il re di Spagna entrò, al fianco di Venezia, Genova e Savoia, in una lega contro i turchi voluta da papa Pio V.
Nel 1571, infine, la flotta cristiana, comandata dal fratellastro del re di Spagna, don Giovanni d'Austria, dal veneziano Sebastiano Venier e dal condottiero romano Marco Antonio Colonna, distrusse quella turca nelle acque di Lepanto, in una battaglia durata ben cinque ore. Nonostante l'inferiorità numerica la flotta alleata catturò 117 navi, uccise 30 000 soldati turchi e liberò 12 000 schiavi cristiani. Morirono nella battaglia lo stesso Alì Pascià e il Barbarigo, uno dei comandanti della Lega.

 

Il significato della vittoria di Lepanto 

Rappresentò un'importante vittoria, sebbene insufficiente per spezzare il dominio turco sul mare Mediterraneo. Venezia, ormai in declino, dovette accettare una mezza pace che non le restituiva nulla dei territori persi.
Alla Spagna premeva soprattutto proteggere dai pirati fiamminghi e dai concorrenti inglesi (il celebre Francis Drake) le rotte atlantiche e i suoi traffici con le colonie americane. In fondo, gli interessi di Filippo II non erano immediatamente minacciati dall'espansionismo turco, che era diretto soprattutto verso la penisola balcanica.

 

Filippo II e le guerre di religione in Francia 

 

Oltre a queste, Filippo II fu coinvolto nelle guerre di religione. In particolare, in Francia, s'inserì nel conflitto tra calvinisti e cattolici, che come punto di riferimento avevano rispettivamente le famiglie reggenti dei Borboni (in Navarra) e dei Guisa (in Lorena).
Infatti, i successori del re Enrico II, i figli Francesco II (1559-1560) e Carlo IX (1560-1574), entrambi minorenni, dipendevano da un consiglio di reggenza.
Quanto a Filippo II, il difensore della Controriforma, era imparentato con la stessa madre e reggente dei due giovani sovrani, Caterina de' Medici, che, per evitare la guerra civile, cercò sempre una mediazione tra le opposte fazioni. Quando i Guisa condannarono a morte il Borbone Luigi di Condé, spaventata, sostenne la nomina a cancelliere del regno di Michel de l'Hôpital, il quale nel 1562 con un editto concesse ai calvinisti (ugonotti) libertà di culto fuori delle mura cittadine.
La reazione dei Guisa non si fece attendere: il 1° marzo 1562 gli ugonotti furono massacrati a Vassy.
Dal 1562 al 1598 scoppiarono tre guerre di religione: la prima si chiuse nel 1563 con l'uccisione di Francesco di Guisa da parte degli ugonotti; la seconda (1567-1568) fu provocata da un incontro tra Caterina de' Medici e Filippo II; nella terza (1569-1570), per la prima volta, a fianco a quelle regie intervennero anche delle truppe spagnole. Ma gli ugonotti, comandati dall'ammiraglio Coligny, vinsero e con un nuovo editto ebbero piena libertà di culto.

L'inasprimento del conflitto 

In agosto, nel 1572, i loro capi s'erano riuniti a Parigi per le nozze tra Enrico di Borbone, re di Navarra, e Margherita di Valois, sorella del re Carlo IX, quando le truppe regie, la notte di San Bartolomeo, li massacrarono.
Alla morte di Carlo IX (1574), salì al trono Enrico III (1574-1589), privo di discendenti; oltretutto, l'ultimo discendente dei Valois, il duca di Alençon, morì nel 1584. Restava aperto, insomma, il problema della successione, al quale s'aggiungeva la questione religiosa. Infatti, a quel punto, l'erede legittimo era l'ugonotto Enrico di Navarra.
Il conflitto interno s'inasprì e le potenze straniere, tra cui naturalmente la Spagna di Filippo II, intervennero in modo diretto. Ad aggravare la situazione, poi, contribuirono certe teorie elaborate in ambienti cattolici, soprattutto tra i gesuiti, che affermavano il diritto del popolo di uccidere il re nel caso fosse eretico o venisse a patti con gli eretici.

 

La guerra dei tre Enrichi e l'editto di Nantes 

Nel 1588 scoppiò una nuova guerra tra il re Enrico III, Enrico duca di Guisa e il re di Navarra Enrico di Borbone.
Quando Enrico di Guisa si alleò col re di Spagna Filippo II per portare sul trono di Francia il cardinale di Borbone, Enrico III riunì a Blois gli Stati Generali per avere il sostegno della nazione. Subito dopo, fece uccidere Enrico di Guisa.
La reazione dei cattolici, a Parigi, fu durissima ed egli, che ormai non poteva contare sull'appoggio di Caterina de' Medici, morta nel 1589, chiese aiuto a Enrico di Navarra, per poi essere a sua volta ucciso, qualche mese dopo, dal monaco Jacque Clément (2 agosto 1589). Quando Enrico di Navarra, nominato successore, si preparò a salire sul trono, la cattolica Parigi gli si oppose, e, nello stesso tempo, Filippo II, indicando come successore dei Valois una sua figlia, fece occupare la Francia dalle truppe di Alessandro Farnese.
Intanto, l'alleato Carlo Emanuele I, duca di Savoia, entrava con un suo esercito nella Provenza. Il re Enrico IV, comunque, riuscì a sconfiggere gli spagnoli a Ivry (1590), assediò Parigi e, con una mossa intelligente, si convertì alla fede cattolica. Così, dopo essersi fatto consacrare a Chartres, entrò senza difficoltà anche nella capitale.
A quel punto il papa Clemente VIII, non avendo alcun motivo religioso per combattere il re di Francia, uscì dalla lega antifrancese. A Filippo II non restò che confermare, con quello di Vervins, il precedente trattato di Cateau-Cambrésis, ponendo fine alla guerra.
Per giunta Enrico IV (1594-1610), promulgando l'editto di Nantes, concedette agli ugonotti libertà di culto e di accesso ai pubblici impieghi: un'ulteriore sconfitta per la Controriforma e il suo paladino, Filippo II.
Morendo, nel 1598, egli lasciò la Spagna in gravi difficoltà, determinate soprattutto dagli effetti della rivoluzione dei prezzi

 

La rivoluzione dei prezzi

 

In tutta l'Europa, a partire dalla metà del XVII secolo, i prezzi, che già avevano cominciato ad aumentare nel secolo precedente, subirono aumenti addirittura vertiginosi. Un fenomeno che si spiega col parallelo aumento delle nascite, dovuto alla fine delle grandi epidemie e a un tenore di vita in costante miglioramento.
Fu, insomma, una vera e propria "rivoluzione dei prezzi", che nel giro di pochi decenni interessò prima i cereali, aumentati di oltre dieci volte, poi i prodotti dell'allevamento del bestiame, i metalli e i tessili.
La causa principale, secondo gli studiosi, di questo sostenuto incremento fu la gran quantità di metallo prezioso in arrivo dalle colonie americane dopo il 1492. Infatti, quando non c'è troppa circolazione di denaro e la domanda non supera l'offerta, cioè in condizioni normali, i prezzi tendono a mantenersi stabili. Lo straordinario ampliamento dei mercati con le scoperte geografiche e i nuovi imperi coloniali portoghese e spagnolo, avrebbe aumentato la circolazione monetaria. E di fatto i prezzi salirono rapidamente non appena l'oro e l'argento americano giunsero in Europa.
Questo non basta però a spiegare un aumento che era iniziato, seppure con velocità costante, già nel Cinquecento. A quei tempi, tuttavia, l'aumento non era stato uguale in tutti i settori produttivi, anzi vi era una grande differenza tra i prezzi agricoli da una parte e quelli industriali e i salari dall'altra. La causa principale, dunque, va ricercata nella fase di incremento demografico (ossia la fase di aumento delle nascite) in cui era entrata l'Europa: col numero di abitanti, aumentarono il fabbisogno, la domanda, e quindi anche i prezzi.

 

Le attività produttive in un'Europa in crisi  

Tra i prodotti agricoli, l'aumento del prezzo dei cereali favorì un ritorno a questo tipo di produzione, con nuovi investimenti per bonifiche e dissodamenti. Allo stesso modo si sviluppò la produzione manifatturiera, soprattutto di tipo domestico.
Il principale motore dell'economia restava comunque il commercio, che, anzi, si rafforzò grazie ai nuovi mercati e i mercanti internazionali iniziarono a far sentire la loro influenza anche sulle vicende politiche. Lo spostamento delle vie del traffico e la pirateria turca, però, danneggiarono i porti mediterranei, i quali, privati anche dei collegamenti con l'Oriente, risultarono ridotti a scali locali. Al contrario, furono favoriti i porti del Nord e due potenze marinare come l'Olanda e l'Inghilterra che sui nuovi traffici fondarono i loro futuri imperi commerciali.
Durante il XVI secolo, anche la Spagna e il Portogallo ebbero ben ampie aree di commercio.

 

L'attività bancaria 

I patrimoni accumulati rilanciarono anche l'attività bancaria, nella quale i grandi uomini d'affari del Nord presero il posto occupato nel XIV secolo dai banchieri italiani.
Tra questi, si devono ricordare almeno i Fugger. Agli inizi del XV secolo essi erano fabbricanti di panni ad Augusta; poi si dedicarono al commercio della lana, del cotone e delle spezie che ormai arrivavano in Occidente seguendo le rotte di circumnavigazione dell'Africa. Nei primi decenni del Cinquecento, i Fugger passarono all'attività finanziaria, accumulando ricchezze tanto ingenti da concedere prestiti ad alti prelati, a principi fino addirittura a diventare i finanziatori degli Asburgo, dai quali ottennero i diritti di sfruttamento delle miniere di argento e rame del Tirolo, della Boemia e dell'Ungheria.
Come si è visto, proprio i Fugger fornirono a Carlo V la somma necessaria per la sua elezione a imperatore: 544 000 fiorini d'oro. Anche i re dell'epoca fecero progredire l'attività finanziaria, con una politica internazionale basata sulle armi, in particolare quelle delle truppe mercenarie.

 

Il mondo contadino 

Invece, per quanto riguarda i rapporti di produzione, non ci furono rilevanti cambiamenti rispetto al passato. Infatti, la crisi del XIV secolo aveva spinto i signori ad aumentare le imposte ai contadini per mantenere intatta la propria rendita.
Nel XV secolo, nell'Europa dell'Est tutti i contadini erano ridotti in stato servile, mentre in Occidente il sistema feudale veniva lentamente superato, sebbene ne restassero delle tracce ancora nel XVI secolo, per esempio, in Italia, dove imperarono l'affitto e la mezzadria e i proprietari terrieri esercitarono controlli addirittura sui matrimoni dei contadini e sull'uso delle abitazioni.
La stessa struttura agricola del podere, che richiedeva il lavoro di tutta la famiglia, imponeva legami di tipo patriarcale (ossia dominati dalla figura del capofamiglia) e faceva sì che l'individuo dipendesse strettamente dal suo gruppo di appartenenza.

 

L'economia urbana e i salari operai 

Per quanto riguarda l'economia urbana, l'attività commerciale e industriale avevano un forte carattere di monopolio, in un ordinamento di tipo corporativo che tendeva a escludere chi non vi apparteneva. Insomma, il feudalesimo sopravviveva anche nelle città.
Per quel che concerne le attività produttive, i salari (le paghe) nel XVI secolo aumentarono, ma non quanto i prezzi dei generi alimentari, che risultarono raddoppiati o triplicati rispetto ai primi anni del secolo. La capacità d'acquisto, di conseguenza, si era ridotta di due o tre volte per la forte crescita dei prezzi dei cereali. Si ebbe dunque un grave impoverimento tra le classi cittadine e i contadini più deboli.
Dilagò il vagabondaggio, al quale le autorità cercarono di rimediare aprendo grandi ospizi dove i poveri erano raccolti e mantenuti con la beneficenza o con lavori, retribuiti con paghe ben al di sotto della norma. Quei poveri venivano così a formare delle riserve di lavoro e, in tal modo, contribuivano a mantenere basso il livello dei salari. L'internamento obbligatorio dei vagabondi negli ospizi rendeva questi ultimi simili a delle carceri, piuttosto che a degli istituti di assistenza. Le incongruenze di quest'economia, comunque, non avrebbero tardato a manifestarsi nuovamente: dopo i primi due decenni del XVII secolo, iniziò un periodo di rivolte di contadini e manovali delle città.

 

Carestie, epidemie e calo del tasso di natalità 

Il tasso di natalità (ossia il numero delle nascite) ricominciò a scendere, anche a causa delle carestie e delle epidemie che colpirono non solo paesi poveri come l'Italia e la Spagna, ma anche la Francia (1649-1652, 1661-1662 e 1693-1694).
Le ondate epidemiche furono almeno 10, tra peste e vaiolo, nel Seicento, tra le quali la più famosa fu quella del 1630, descritta dal Manzoni nei Promessi Sposi. A queste s'aggiunsero poi le devastazioni provocate dalla guerra dei trent'anni.
Gli unici paesi dove la popolazione aumentò furono l'Inghilterra e la Russia. Sta di fatto che l'economia entrò di nuovo in crisi un po' in tutto il vecchio continente.
I paesi che avevano un commercio e un'industria più sviluppati, come l'Inghilterra, l'Olanda e in parte la Francia, ne uscirono prima, avviandosi a un'economia di tipo capitalistico. Altrove, come in Spagna, in Italia (un po' meno in Germania), dove le strutture politiche e sociali si erano dissolte, la situazione economica rimase critica.

 

Le cause della crisi economica e sociale 

Tra le molte e diverse cause di questa crisi senz'altro vanno considerati i limiti dello sviluppo agricolo, mercantile e finanziario del secolo precedente, nel corso del quale, come abbiamo visto, il nuovo sistema capitalistico non era riuscito a sostituirsi all'organizzazione ancora feudale dell'economia.
Un certo incremento delle industrie e del commercio, insieme alle accresciute dimensioni del nuovo stato moderno (eserciti permanenti, burocrazia, pubblica amministrazione), avevano favorito lo sviluppo delle città nel secolo XVI e nei primi decenni del XVII. Vi si concentravano molti abitanti, che avevano abbandonato le campagne e le attività agricole ma continuavano ad aver bisogno dei prodotti della campagna.
Le città, però, a causa del sistema di produzione agricola ancora feudale, non erano più in grado di soddisfare la richiesta di beni alimentari. Inoltre, la sempre maggiore instabilità dei prezzi rendeva difficili gli approvvigionamenti, sia nelle annate favorevoli sia in quelle di crisi per avversità climatiche o peggio ancora per carestie.
Di tali squilibri soffrirono gli abitanti delle città e i contadini, i quali furono esposti al succedersi di scontri quasi ininterrotti per tutta la prima metà del XVII secolo. Tra i conflitti che funestarono gli inizi del XVII secolo, un posto a parte merita la guerra dei trent'anni.

 

La guerra dei trent'anni

L'ultima guerra di religione 

La guerra dei trent'anni scoppiò per i problemi religiosi che dai tempi della pace di Augusta (1555) sembravano essere stati superati, almeno nei territori dell'impero. Da quell'anno, tuttavia, gli imperatori della casa d'Asburgo non si erano molto interessati di religione, né avevano imposto il principio di uniformità all'interno dei loro domini.
In particolare, i successori di Carlo V, Ferdinando I (1556-1564) e Massimiliano II, alle prese con la minaccia ottomana, attuarono una politica di tolleranza, al punto che i protestanti annullarono la clausola della pace di Augusta (reservatum ecclesiasticum) per cui ogni detentore di benefici, passato alla Riforma dopo il 1552, doveva restituire beni e cariche alla Chiesa cattolica. La situazione cambiò ai primi del XVII secolo, sotto Rodolfo II (1576-1612).

 

Le leghe politiche in Germania 

Tanto per cominciare, in Germania arrivarono i calvinisti, che scelsero come loro roccaforte l'elettorato del Palatinato (1564). Il mondo protestante, dunque, s'indebolì, dividendosi tra l'elettorato di Sassonia, roccaforte luterana, e quello, appunto, del Palatinato. Quanto ai cattolici, dalla Baviera essi ripresero l'iniziativa, riempiendo la Germania di collegi retti da gesuiti. Nel paese si costituirono due leghe politiche: l'unione evangelica, con a capo l'elettore palatino Federico V, e quella cattolica, con Massimiliano, duca di Baviera.
La prima si alleò con la Francia di Enrico I; la seconda, naturalmente, con la cattolicissima Spagna.
La Boemia allora colse l'occasione per ribellarsi all'autorità imperiale e nel 1609 ottenne da Rodolfo II libertà di religione per tutti i suoi abitanti (lettera di maestà). Comunque, il successore Mattia (1612-1619) portò avanti il centralismo politico e la Controriforma cattolica nei territori dell'impero e il cugino Ferdinando, duca di Stiria, candidato alla successione, fu ancora più intollerante nei suoi dominidi Stiria, Carinzia e Carniola.
A un certo punto, però, il controriformismo dell'imperatore si scontrò con le potenze protestanti del Baltico e dal centralismo addivenne a una politica apertamente espansionistica. Era l'inizio della guerra dei trent'anni.

 

Lo scoppio della guerra 

L'occasione fu offerta dalla Boemia: la guerra scoppiò nella città di Praga il 23 maggio 1618, quando, per protesta contro la chiusura di due chiese protestanti ordinata dall'imperatore Mattia, furono gettati dalle finestre del palazzo reale i due magistrati imperiali (defenestrazione di Praga). L'anno successivo, la rivolta si trasformò in un conflitto generale.
Morto l'imperatore, gli succedette Ferdinando II (1619-1637); ma i boemi non lo riconobbero e al suo posto elessero come sovrano il capo dell'unione evangelica, Federico V, elettore del Palatinato. A quel punto, l'impero si divise in due parti: i principati protestanti (Brandeburgo, Palatinato e Sassonia) da una parte e dall'altra gli arcivescovati cattolici (Colonia, Treviri, Magonza).
Al fianco dei boemi si schierarono gli ungheresi, guidati dal re transilvano Bethlen Gabor (1620).

 

La fase boema della guerra 

In palio tra Ferdinando II e Federico V non c'era solo la sorte del cristianesimo, ma lo stesso trono imperiale. Quanto a Ferdinando II, che ebbe anche l'aiuto del duca di Sassonia, per lui combatterono il generale genovese Ambrogio Spinola e il generale belga della Baviera de Tilly.
Le truppe imperiali e bavaresi sconfissero i boemi alla Montagna Bianca (8 novembre 1620) e invasero il Palatinato. Federico V venne messo al bando e il suo stato fu diviso tra l'imperatore e il duca di Baviera.

 

Il ruolo della Francia 

Sciolta l'unione evangelica, cominciarono ad arrivarvi funzionari austriaci e padri gesuiti. Intanto, a rafforzare gli Asburgo d'Austria contribuì l'appoggio degli Asburgo di Spagna col nuovo re Filippo IV (1621-1665) e il suo bellicoso ministro, il conte duca d'Olivares.
La Francia non poteva restare ancora neutrale. Dopo le guerre di religione, Enrico IV e il ministro Sully s'erano preoccupati soprattutto di risanare le casse dello stato. Alla morte di Enrico IV, avvenuta per mano di Francesco Ravaillac (1610), un ex frate fanatico, proprio quando stava per muovere le sue truppe contro gli Asburgo, la regina vedova, Maria de' Medici, reggente per il figlio Luigi XIII (1610-1643), abbandonò ogni ostilità, al punto da unire in matrimonio il figlio con Anna d'Austria, figlia di Filippo III di Spagna.
Una decisione, naturalmente, sgradita agli ugonotti e all'alta nobiltà francese, contro la quale si schierò il principe di Condé, parente dell'ucciso Enrico IV. La reggente, poi, col ministro fiorentino Concino Concini, maresciallo d'Ancre, dopo gli avvenimenti della notte di San Bartolomeo era odiata da molti sudditi.
Fu Luigi XIII a por fine ai malumori, liberandosi della tutela della madre, sotto la guida del nuovo ministro Armand-Jean du Plessis de Richelieu, e facendo uccidere il Concini (1617). Ora, dunque, la Francia era pronta a riprendere il ruolo che le spettava nel contesto europeo.

 

La fase danese della guerra e il generale Wallenstein 

Il primo a scendere direttamente in campo fu il re di Danimarca, Cristiano IV, che nel 1623 divenne capo della lega protestante.
Contro di lui, però, l'imperatore mosse le truppe del generale boemo Alberto di Wallenstein, che dopo una serie di sconfitte lo costrinse alla pace di Lubecca (1629). Così, Ferdinando II impose a Ratisbona l'editto di restituzione, rese, cioè, di nuovo operativa la famosa clausola della pace di Augusta (reservatum ecclesiasticum), ordinando ai protestanti di restituire alla Chiesa i beni ecclesiastici di cui erano venuti in possesso dopo il 1552.
Intanto, Alberto di Wallenstein con le sue truppe minacciava i territori protestanti del Nord, anzi, ricompensato col ducato di Meclemburgo, mirava a costituire un suo dominio a spese dei paesi baltici.

 

La fase svedese della guerra 

La Svezia prese allora il posto della Danimarca in questa lotta del mondo protestante contro l'impero. Il re di Svezia Gustavo II Adolfo, succeduto al padre Carlo IX, riprese la sua politica aggressiva, togliendo ai russi la Finlandia, la Carelia e la regione di San Pietroburgo (1617), e ai polacchi la Livonia. Infine, nel 1630, le truppe di Gustavo II Adolfo entrarono in Germania, unendosi a quelle del Brandeburgo e della Sassonia. Sconfitto l'esercito imperiale a Lipsia (1631), occuparono Monaco e marciarono direttamente su Vienna.
Il Wallenstein non riuscì a vincerli a Lützen, nel 1632, dove però gli svedesi fecero prigioniero il loro re. Il comando passò nelle mani del cancelliere, mentre lo stesso Wallenstein, due anni dopo, sul punto di tradire, fu ucciso per comando dell'imperatore.
A Nördlingen, lo stesso anno, gli svedesi furono definitivamente sconfitti e nel 1635 firmarono la pace di Praga, con la quale gli stati germanici si sottomettevano all'impero.

 

L'ultima fase della guerra 

La guerra non era ancora finita. Si formò, infatti, una coalizione tra gli stati di Francia, Svezia, e Olanda; in Italia, si allearono il ducato di Savoia, sotto Vittorio Amedeo I, il ducato di Mantova, sotto Carlo I di Gonzaga-Nevers, e il ducato di Parma, sotto Odoardo Farnese.
All'inizio gli imperiali ebbero il sopravvento e truppe spagnole s'accamparono alle porte di Parigi (1636). Nel 1640 in Catalogna e in Portogallo scoppiò una rivolta contro la Spagna, e il viceré Giovanni duca di Braganza proclamò l'indipendenza autonominandosi sovrano.
Dopo questi avvenimenti, nonostante la morte di Richelieu (1642) e di Luigi XIII (1643), le forze imperiali iniziarono a perdere terreno: la flotta olandese vinse alle Dune (1637), le truppe francesi di Condé a Rocroi (1643) e Lens (1648) e il nuovo imperatore Ferdinando III (1637-1657), rimasto senza alleati, dovette firmare i due trattati della pace di Westfalia (24 ottobre 1648).
Finiva in questo modo la guerra dei trent'anni, ma non il conflitto franco-spagnolo. Nel continente europeo, da un punto di vista religioso, si tornava infatti alle condizioni che erano state previste dalla pace di Augusta.
L'ascesa della borghesia

 

La crisi dei domini spagnoli alla metà del Seicento 

Tra il 1640 e il 1660 si svilupparono in Europa alcuni imponenti processi storici che porteranno poi all'avvento della borghesia. Si trattò di rivolte popolari o di vere e proprie rivoluzioni che, là dove riuscirono, assicurarono alla classi borghesi europee una salda base per la conquista dell'egemonia sul piano politico-sociale. Occorre tuttavia distinguere le varie spinte che, per esempio, intorno al 1640, animarono i primi tentativi di rivolta, nel Mediterraneo, nella penisola iberica e nel napoletano.

 

Il separatismo della Catalogna 

Nella Catalogna, insorta contro la politica centralistica e il militarismo del conte duca di Olivares, ai contadini si affiancò subito gran parte della borghesia, insieme alla stessa nobiltà catalana, la quale, naturalmente, con l'indipendenza sperava di riguadagnare il suo antico potere e non aveva certo tra le sue ambizioni di migliorare le condizioni di vita dei contadini.
A complicare la situazione, poi, intervenne il re di Francia, chiamato dagli stessi ribelli che in cambio del suo aiuto addirittura gli offrirono il titolo di conte di Barcellona. In un primo momento, infatti, essi videro di buon occhio l'estendersi della rivolta anche in Aragona, dove le classi dirigenti locali appoggiarono la causa indipendentista per non pagare le tasse imposte da Filippo IV.
Successivamente, i borghesi di Barcellona iniziarono a preoccuparsi per i progetti nostalgici della nobiltà e per la tutela francese, provocando in pochi anni il fallimento del tentativo separatista.

 

La lotta per l'indipendenza in Portogallo 

Una simile rivolta scoppiò in Portogallo, nel 1640: dal separatismo, però, qui si passava alla richiesta di una vera e propria indipendenza nazionale.
L'unione con la Spagna, infatti, attuata sessant'anni prima con la forza, aveva scontentato un po' tutte le classi, in particolare quelli che avevano visto danneggiati gran parte dei loro interessi commerciali con le colonie. Grazie all'aiuto di due potenze come la Francia e l'Inghilterra, che in Europa e sui mari si trovavano in contesa con la Spagna, il Portogallo riuscì ad avere l'indipendenza sotto i duchi di Braganza (trattato di Lisbona, 1668).
Questo fatto, naturalmente, sortì grandi effetti in campo coloniale, perché, sottraendo alla Spagna il controllo del Brasile, completamente restituito ai portoghesi, infranse tutti i sogni d'egemonia che la Spagna accarezzava sulle rotte meridionali dell'Atlantico e sulle Americhe.

 

La rivolta di Masaniello a Napoli 

Le cose andarono meglio in Italia dove, per finanziare i suoi sforzi militari, la Spagna aveva imposto alla popolazione una serie di tasse insostenibili. Nel 1647, però, scoppiarono due rivolte, in Sicilia, con Giuseppe Alessi, e nel napoletano, appunto, con Tommaso Aniello, detto Masaniello, il quale, una settimana dopo che era salito al potere fu ucciso dai suoi stessi compagni, spinti contro di lui dal viceré spagnolo.
Al suo posto salì l'armaiolo Gennaro Annese, che proclamò la repubblica e si pose sotto la protezione della Francia. Dopo il tentativo di Tommaso di Savoia di arrivare fino a Napoli con le sue truppe, il Mazarino vi mandò il duca Enrico di Guisa, che, in quanto erede degli Angiò, si fece proclamare capo della città insorta ed estese il suo dominio su altri centri della provincia. Questo periodo francese, comunque, si chiuse nell'aprile 1648 con una reazione della nobiltà, appoggiata dalla Spagna.

 

La vivacità degli stati dell'Europa del Nord 

Intorno alla metà del XVII secolo alcuni stati europei, a differenza di quelli mediterranei, erano in piena fase di rinnovamento economico e amministrativo. Non è un caso, forse, che questi paesi fossero ricchi di fermenti, anche da un punto di vista religioso: i vari gruppi seguaci della Riforma, spesso divisi al loro interno, intrattenevano rapporti molto vivaci tra loro. Le diverse posizioni in cui si dividevano, inoltre, non di rado nascondevano precisi interessi di tipo economico e sociale.

 

La repubblica delle Sette Province Unite 

Un esempio è la nuova repubblica delle Sette Province Unite, che fino alla metà del XVII secolo ebbe una vita molto difficile. Quando, però, dalla Spagna le fu riconosciuta l'indipendenza - dapprima solo in parte (1609) e poi definitivamente (1648) - essa partecipò al clima di rinnovamento attraverso il contrasto che divideva in due ali storiche la sua classe dirigente. In questo caso non si ebbero rivolte indipendentistiche o veri e propri atti rivoluzionari, solo uno scontro politico e sociale molto duro tra borghesia e nobiltà al quale neppure l'Olanda poteva sottrarsi.
Anzi, esso era in atto a livello istituzionale, visto che la borghesia mercantile e la nobiltà terriera erano rappresentate rispettivamente dal Gran Pensionario d'Olanda, specie di governatore o amministratore, e dallo Stadtholder generale, un capo militare: ebbene, queste due alte cariche dello stato entrarono spesso in un conflitto anche di tipo ideologico.
La comune adesione al calvinismo, dunque, ben presto assunse due coloriture opposte: da una parte i borghesi, repubblicani, difensori delle autonomie provinciali e dell'espansione dei commerci, ne accolsero la versione per così dire attenuata del teologo Arminio, predicata a Leyda, e dall'altra i sostenitori della casa d'Orange e del centralismo aristocratico, invece, ne difesero l'ortodossia, secondo quanto veniva insegnato nella stessa università dal Gomar. In un primo momento ebbero la meglio questi ultimi e al fianco di Maurizio d'Orange, non vi erano solo nobili, ma anche marinai, artigiani, gente del popolo. Poi, però, verso la metà del secolo i borghesi presero il sopravvento e, sotto il governo del Gran Pensionario Giovanni de Witt (1653-1672), instaurarono un regime economicamente tra i più stabili d'Europa. In quegli anni, inoltre, grazie alla tolleranza anche religiosa messa in pratica da de Witt, molti intellettuali stranieri (tra i quali Cartesio) scelsero l'Olanda come sede del loro esilio.

 

L'opera di Richelieu e Mazarino in Francia 

In Francia, la politica assolutista del cardinale Richelieu aveva lasciato un'eredità molto pesante. L'opprimente regime fiscale, imposto dal primo ministro per far fronte alle esigenze della guerra, aveva provocato le rivolte popolari della Normandia e della Loira e il malcontento della nobiltà che si vedeva privata di parte dei suoi privilegi. In un clima di tensione generale, gli "intendenti" (commissari straordinari per l'esazione delle imposte) di Richelieu esautorarono le competenze dei titolari di uffici di finanza e di giustizia. Di questi problemi si fece carico il successore di Richelieu, il cardinale italiano Giulio Mazarino, nominato primo ministro durante la reggenza di Anna d'Austria (1643), madre del futuro re Luigi XIV, allora solo un bambino. I conti dello stato in passivo, le pesanti tasse che colpivano soprattutto i contadini e il ricorso inaspettatamente prolungato alla paulette (quota versata annualmente allo stato da chi ricopriva cariche pubbliche) avevano prodotto nel paese, intorno al 1648, una situazione di permanente disagio. Di conseguenza i parlamenti (uffici di controllo giudiziario e finanziario) prima e molti principi poi avevano giocato la carta antiassolutistica e s'erano opposti alla monarchia.

 

La "Fronda" 

La guerra civile che seguì non fu limitata solo a Parigi, ma si estese a tutta la Francia, prendendo il nome da un gioco per bambini, la "Fronda".
Vita brevissima ebbe la Fronda parlamentare, ossia l'opposizione da parte di quella sorta di corti supreme di giustizia (presenti nelle maggiori città del regno) che in Francia avevano il compito di registrare gli editti del re secondo le leggi del paese. La prima Fronda, per esempio, ebbe per guida nel 1649 i parlamenti di Parigi e Bordeaux, fortemente appoggiati dalle rispettive borghesie cittadine, ma la loro ribellione, grazie all'intervento delle truppe del principe di Condé, fu subito stroncata. Fu lo stesso Condé, che, due anni dopo, appoggiato dai nobili e addirittura da Gastone d'Orléans - un principe del sangue - diede vita alla Fronda principesca (1651-1652) che, dopo quello borghese, rappresentò il tentativo degli aristocratici di ridurre l'autorità raggiunta in Francia dalla monarchia. Questa, però, nel momento in cui Luigi XIV, detto il re Sole, divenne maggiorenne, cominciò a risollevare le sue sorti grazie agli importanti successi che riscosse in campo internazionale.

La Francia di Luigi XIV

 

Gli artefici della monarchia assoluta 

Luigi XIV salì sul trono all'età di cinque anni e vi rimase per quasi tre quarti di secolo (dal 1643 al 1715). Fino al 1661, però, il potere fu di fatto esercitato dal cardinale Mazarino, nei panni di tutore. Solo quando questi morì, il re, ancora giovane, espresse la volontà di assumere personalmente il governo dello stato, scelse i propri consiglieri e gli esecutori della propria volontà, soppiantando i precedenti ministri, ai quali era stata lasciata troppa autonomia. La creazione di uno stato assoluto si fondò non solo sulle doti personali del re ma soprattutto su un esercito e una burocrazia ben organizzata. Nella costruzione di una solida monarchia, il re si avvalse dell'opera di abili ministri: Lionne in campo diplomatico, Jean-Baptiste Colbert in quello finanziario e Le Tellier, con il figlio François, creato marchese di Louvois, in quello militare.

 

Il "colbertismo" 

Da Colbert (1619-1683), in particolare, il controllore generale, dipesero l'economia e le finanze della Francia tra il 1669 e il 1683. Non per nulla la politica economica di quegli anni è ancora nota come colbertismo, un aspetto del mercantilismo consistente nello sviluppo delle industrie attraverso un sistema protezionistico di barriere doganali e favori regi. Partendo dal principio che la ricchezza consiste nel lavoro e si deve risolvere in un aumento di moneta metallica, Colbert cercò soprattutto di limitare le importazioni, che avrebbero richiamato all'estero capitali pregiati (oro e argento). Insomma, egli sperimentò un vero e proprio sistema d'autarchia.
Il secondo punto del suo programma, poi, fu il risanamento finanziario, con la redazione di bilanci annui, la soppressione di molte pensioni di favore, l'aumento delle imposte dirette e la lotta alla corruzione in campo tributario. Conseguenza di questa politica furono l'espansione coloniale e il rafforzamento della flotta francese, di cui s'è già parlato. La scelta mercantilista induceva alla creazione di industrie manifatturiere che, seguendo il modello inglese e olandese, producessero manufatti di pregio. Per lo sviluppo di queste attività Colbert aveva indotto il governo a favorire prestiti, istituire monopoli e barriere doganali, facilitando l'immigrazione di operai specializzati (soprattutto tessili) da paesi di buona tradizione industriale come l'Olanda e l'Italia settentrionale. Tuttavia i prodotti stranieri continuavano a essere contrabbandati mentre i detentori di capitali preferivano investire nell'acquisto di terre.

 

I nemici dell'assolutismo 

Un settore in cui l'assolutismo ottenne risultati vistosi fu quello religioso.
Intorno al 1660 il calvinismo francese contava numerosi seguaci. Luigi XIV aveva inizialmente riconfermato l'editto di Nantes, ma dal 1675 intraprese una politica di repressione nei confronti di questa minoranza (esclusione dagli uffici pubblici, chiusura dei centri culturali) finché nel 1685 con l'editto di Fontainebleau revocò quello di Nantes, cacciando gli ugonotti dal paese.
Il provvedimento costò al paese la perdita di quegli operai, tecnici e intellettuali che, emigrando in paesi protestanti, contribuirono al loro sviluppo economico e culturale. Oltretutto all'estero si formarono gruppi di questi esuli pronti ad allearsi con le nazioni in lotta contro la Francia di Luigi XIV, finché, quando iniziò il suo declino, non scoppiò una guerra civile nella regione montuosa delle Cevenne.
Ai loro intrighi, infine, s'aggiunsero gli scritti, come quelli di Jurieu (1637-1713), che contro l'assolutismo di Luigi XIV affermò il diritto per il popolo di annullare il contratto che lo lega al sovrano, se costui supera certi limiti. Concezione liberale del "contratto" di Hobbes, questa, simile a quelle del tedesco Pufendorf in De jure naturae et gentium (Del diritto della natura e dei popoli, 1672) o dell'olandese Spinoza, autore del Tractatus theologico-politicus (Trattato teologico-politico, 1670).

 

La lotta ai giansenisti e all'ultramontanismo 

Insieme ai calvinisti, poi, il governo perseguitò i dissidenti cattolici giansenisti, ossia i seguaci del fiammingo Giansenio, che aveva sviluppato i concetti di grazia e predestinazione di Sant'Agostino.
Le tesi di Giansenio, giudicate eretiche dalla Chiesa cattolica, miravano a ridare un ruolo centrale alla fede e all'interiorità opponendosi ai comportamenti dei gesuiti, colpevoli di aver ridotto la vita religiosa a pratiche meccaniche e vuoti rituali.
Il re nel 1710 fece demolire il monastero parigino di Port Royal e tre anni dopo il papa Clemente XI condannò i giansenisti con la bolla Unigenitus.
Un' altra battaglia religiosa fu combattuta da Luigi XIV contro la Chiesa cattolica, quando già dal 1682 appoggiò le tendenze autonomistiche della Chiesa francese (gallicanesimo). Il re si schierò contro l'ultramontanismo (tesi che vedeva la Chiesa nazionale francese sottomessa alle direttive della Chiesa romana) di Innocenzo XI (1676-1689) per sottrarre a Roma il controllo del patrimonio ecclesiastico nazionale e rivendicare la nomina dei titolari di benefici.
Il re di Francia, comunque, già tra il 1662 e il 1664 era venuto in conflitto con un papa, quando occupò militarmente Avignone per far riconoscere da Alessandro VII (1655-1667) certi diritti dell'ambasciatore francese a Roma.

L'assolutismo e la Chiesa gallicana 

L'assolutismo di Luigi XIV fu quindi ben diverso da quello di un altro re cristianissimo come Filippo II: egli non era la spada posta al servizio della causa religiosa, ma al contrario la religione stessa posta al servizio della monarchia. Col gallicanesimo, dunque, il re di Francia poteva controllare anche la chiesa cattolica francese mantenendo il diritto di designazione dei vescovi, mentre la Chiesa nazionale continuò a sostenere che gli editti del papa non avevano automatica applicazione nel paese.
La crisi, iniziata con la Dichiarazione dei quattro articoli della Chiesa gallicana (1682), preparata da un'assemblea di ecclesiastici presieduta da Bossuet, continuò con i successori di Innocenzo XI fino alla vittoria papale del 1691.

 

Critica all'assolutismo

 

Sebbene la situazione politico-sociale a cui si era giunti con l'avvento dei regimi assoluti si fosse rivelata sostanzialmente positiva per un gran numero di paesi, modernizzandone alcuni e aiutandone altri a uscire dall'isolamento politico in cui si trovavano, non mancarono, però, come si è già potuto analizzare in precedenza, critiche e opposizioni a partire dalla metà del XVII secolo. A livello teorico, anzi, una serie di nuove dottrine misero in dubbio il diritto del re a esercitare il suo potere in modo illimitato. Si andava dal giusnaturalismo (diritto di natura) del filosofo olandese Spinoza e del tedesco Pufendorf, al deismo dell'inglese John Toland e alla corrente cattolica dei giansenisti, così chiamati dal nome dell'olandese Cornelis Jansen (1585-1638), che nell'Augustinus affermava la teoria della salvezza per grazia.
A essa s'ispirò Pascal, un loro continuatore, nemico dell'assolutismo, di ogni gerarchia ecclesiastica e dell'esteriorità del culto.
Partendo da queste posizioni ideologiche già prima del Settecento si cominciarono a elaborare i moderni concetti di tolleranza religiosa e di democrazia.
Non a caso, del resto, proprio in Inghilterra con John Locke (1688-1690), considerato il padre del liberalismo europeo per i suoi scritti sulla tolleranza e sul governo civile, alla vigilia della gloriosa rivoluzione nacque la principale opposizione teorica all'assolutismo.

 

Le guerre di Luigi XIV 

Durante il regno del re Sole, allo splendore della vita intellettuale (sotto di lui fiorirono Racine e Molière, Bossuet e Boileau, Lulli e La Fontaine, La Bruyère e Pascal) s'aggiunsero, però, le guerre e le numerose rivolte popolari ferocemente represse, scoppiate, tra il 1662 e il 1675, a Bordeaux, a Boulogne, nel Vivarais, a Rennes e in Bretagna.
Luigi XIV, infatti, tra il 1667 e il 1714, l'anno prima di morire, trascinò il proprio paese in un vortice ininterrotto di conflitti: la guerra di devoluzione (1667-1668), per il possesso delle Fiandre spagnole; quella franco-olandese (1672-1678), contro il monopolio commerciale dell'Olanda; la guerra della lega d'Augusta (1688-1697), contro la coalizione antifrancese di spagnoli, inglesi, svedesi, imperiali; e infine, la guerra di successione spagnola (1701-1714), conclusasi con i due trattati di Utrecht e Rastatt, i quali assicurarono il trono spagnolo al candidato del re Sole (il suo pronipote Filippo V di Borbone), modificando, però, in maniera radicale e certo non favorevole alla Francia, la carta geopolitica dell'Europa e dei domini coloniali.

 

Gli obiettivi della politica estera 

Gli obiettivi di Luigi XIV in politica estera furono soprattutto due: fissare i confini naturali lungo il corso del Reno e ottenere l'egemonia sull'Europa per i Borboni, grazie ai suoi diritti ereditari di marito della principessa spagnola Maria Teresa. L'espansionismo francese, all'inizio, fu possibile perché gli Asburgo erano alle prese con le continue rivolte dei contadini ungheresi e con la minaccia turca; quanto all'Olanda, essa per la seconda volta era in guerra con l'Inghilterra (1664-1667) in seguito all'atto di navigazione e quest'ultima, sotto Carlo II, uno Stuart, era alleata della Francia. Il re inglese, infatti, volendo dei finanziamenti ma senza renderne conto al parlamento, aveva venduto Dunkerque (1672) in cambio di una pensione dai francesi.

 

La guerra di devoluzione 

Luigi XIV, morto il suocero, reclamò i Paesi Bassi spagnoli per Maria Teresa dal figlio di secondo letto Carlo II (1665-1670), in base al diritto di devoluzione in vigore nel Brabante, per cui la successione era riservata al figlio di primo letto: scoppiò la guerra detta appunto di devoluzione. Quando, però, il suo esercito ebbe invaso la Franca Contea e il Belgio, si formò contro di lui la lega dell'Aja (Svezia, Olanda e Inghilterra, queste due riconciliatesi con la pace di Breda del 1667 in cui l'Olanda riconobbe l'atto di navigazione, cedendo Nuova Amsterdam all'Inghilterra). Luigi XIV, allora, accettò la pace di Aquisgrana con la Spagna (1668), ricevendo solo Lilla, Charleroi e Douai nelle Fiandre.

 

La guerra contro l'Olanda 

Il sovrano francese non rinunciò ai suoi progetti bellicosi spinto dal successo della politica mercantilista e, alleandosi con la Svezia, dichiarò guerra all'Olanda (1672-1678) dopo essersi assicurato la neutralità dell'Inghilterra, e dei principi tedeschi.
Per arginare l'offensiva francese, gli olandesi aprirono le dighe e allagarono le loro terre. Il comando della difesa fu affidato a Guglielmo III d'Orange che capovolse le sorti della guerra promuovendo una nuova coalizione composta da Spagna, Austria, Danimarca e alcuni principati tedeschi come il Brandeburgo del Grande Elettore Federico Guglielmo. Carlo II d'Inghilterra, invece, preferì restare neutrale. Nel frattempo il Gran Pensionario Giovanni de Witt, ritenuto responsabile di non aver compreso la strategia politica di Luigi XIV, fu assassinato. Gli svedesi furono sconfitti a Fehrbellin (1675) dai tedeschi, mentre la flotta francese vinse su quella ispano-olandese a Lipari e ad Augusta. In quello stesso momento i nobili di Messina si ribellavano agli spagnoli (1675-1678), consegnando la città ai francesi.

 

La pace di Nimega e la massima espansione francese 

Con la pace di Nimega (1678), la Spagna riotteneva Messina, cedendo, però, a Luigi XIV le fortezze fiamminghe e la Franca Contea. Iniziò un decennio (1678-1688) di massima espansione per la Francia, grazie alla politica detta delle camere di riunione. Il re, infatti, nominò alcune commissioni con il compito di fissare le pertinenze degli acquisti territoriali ottenuti dalla Francia sul Reno nell'ultimo trentennio. Grazie a un'interpretazione estensiva e spesso arbitraria dei trattati precedenti (secondo la quale le terre cedute comprendevano le rispettive dipendenze presenti e passate) la Francia si appropriò dell'Alsazia e della città di Strasburgo (1681), senza che l'Austria, impegnata nella guerra contro gli ottomani, si opponesse minimamente.
In Italia, poi, Luigi XIV acquistò nel 1681 dal duca di Mantova e del Monferrato Casale e, tre anni dopo, la sua flotta bombardò Genova.

 

La guerra contro la lega di Augusta 

Ormai, però, la situazione internazionale non era favorevole alla Francia: l'Inghilterra aveva abbandonato la neutralità, alleandosi con l'Olanda, e l'Austria s'era liberata della minaccia turca. La lega d'Augusta contro Luigi XIV riunì l'Olanda, l'inghilterra, la Svezia, la Spagna, l'impero e alcuni principi, tra i quali Vittorio Amedeo II duca di Savoia. La guerra scoppiò nel 1688 e conobbe sorti alterne, finché non si giunse alla pace di Ryswick, che obbligava la Francia a riconoscere Guglielmo III legittimo re d'Inghilterra e a rinunciare alle conquiste fatte dopo la pace di Nimega, fatta eccezione per Strasburgo. La pace definitiva, comunque, era ancora lontana.

 

La guerra di successione spagnola 

A complicare la situazione contribuirono i problemi legati alla successione spagnola. L'ultimo rappresentante degli Asburgo, Carlo II, re di Spagna, stava morendo senza lasciare figli. Sicché, a causa dei legami di parentela stretti con una serie di matrimoni, l'intera eredità spagnola era contesa tra Filippo d'Angiò, nipote di Luigi XIV, e l'arciduca Carlo d'Asburgo, figlio dell'imperatore Leopoldo I. Inoltre gli interessi commerciali di Olanda e Inghilterra e le pretese del principe elettore di Baviera, Massimiliano, favorivano l'ipotesi di una spartizione della Spagna.
Ma quando Carlo II nominò suo erede Filippo d'Angiò (1700), salito al trono col nome di Filippo V, si riaccese il conflitto. Contro la Francia e la Spagna, stavolta, si coalizzarono nella Grande Alleanza l'Inghilterra, l'Olanda, l'impero e la Prussia, mentre il duca di Savoia Vittorio Amedeo II, fino al 1703 al fianco dei francesi, passò dalla parte degli alleati.
Fu una specie di guerra mondiale, che si propagò dalla Spagna all'Italia e al Portogallo (1703), dalla Germania ai domini coloniali. Nella prima fase del conflitto (1701-1704), due eserciti d'Oltralpe marciarono su Vienna, quello del duca di Vendôme passando per la Padania e quello del maresciallo Villars per la valle del Danubio.
Dopo la vittoria di Friedlingen, però, essi furono sconfitti, nel 1703, a Hochstädt. Nella seconda fase del conflitto i francesi mantennero le loro posizioni in territorio nemico, subendo però l'iniziativa degli alleati che, forti delle diserzioni del re del Portogallo e del duca di Savoia, entrarono in Spagna, cercando di far salire al trono Carlo d'Asburgo (1705). Sconfitti di nuovo a Hochstädt (1704), e poi a Ramillies (1706) e a Torino, le truppe francesi si ritirarono in patria. Nella terza fase (1706-1713), gli alleati marciarono su Parigi, mentre a Villa Viciosa (1710) furono sconfitti. La coalizione francese si infranse per le vicende della successione austriaca.

 

I trattati di Utrecht e Rastadt 

La morte dell'imperatore Giuseppe I (1711), succeduto a Leopoldo I nel 1705, poneva sul trono l'arciduca Carlo d'Asburgo, ex pretendente alla corona spagnola. Temendo che l'unificazione della corona di Spagna e d'Austria avrebbe ricreato un impero simile a quello di Carlo V, gli inglesi preferirono firmare la pace con la Francia (trattato di Utrecht del 1713).
L'anno seguente la fine della guerra fu riconosciuta dall'imperatore austriaco Carlo VI con il trattato di Rastadt. Con questi due trattati fu riconosciuto re di Spagna Filippo V, a patto che rinunciasse alla corona francese; quanto alla Spagna, cedette Gibilterra e Minorca all'Inghilterra, la quale a sua volta ottenne il diritto di introdurre ogni anno nelle colonie spagnole 4000 schiavi africani (asiento) e di inviarvi ogni anno una nave mercantile di 500 tonnellate carica di merci inglesi (vascello di permissione).
La Spagna cedette all'Austria i Paesi Bassi, Milano, la Sardegna, Napoli e lo Stato dei Presidi e a Vittorio Amedeo II di Savoia, che fu riconosciuto re, la Sicilia. La Francia cedette Terranova e Acadia all'Inghilterra e Casale ad Amedeo di Savoia in cambio di Barcellonetta. Infine, anche all'elettore del Brandeburgo, cui fu ceduta la Gheldria, venne riconosciuto il titolo di re di Prussia.
I veri vincitori del conflitto, dunque, furono l'Inghilterra, la Prussia e la Savoia.

 

L'Inghilterra di Cromwell

La "rivoluzione" inglese 

Tra le rivolte scoppiate intorno alla metà del XVII secolo, quella inglese è senza dubbio la più importante. Non a caso, gli storici parlano di una vera e propria "rivoluzione", non solo per la sorte toccata al sovrano legittimo (Carlo I Stuart, giustiziato dai rivoltosi nel 1649), ma anche perché, di conseguenza, si affermò la borghesia: un avvenimento decisivo per l'Inghilterra e per il resto del mondo.

 

Le tensioni tra Giacomo I e il parlamento  

Nel 1603 era morta la regina Elisabetta I e con lei era finita la dinastia dei Tudor. Il malcontento contro l'assolutismo della monarchia emerse sotto il regno di Giacomo I, figlio della regina di Scozia Maria Stuarda. L'unione di tre paesi diversi come Irlanda, Scozia e Inghilterra e il puritanesimo che si stava affermando all'interno della Chiesa anglicana, infatti, avevano finito per indebolire il nuovo re.
Ne approfittò il parlamento, cercando di controllarne la politica. Contro Giacomo I vi furono subito varie congiure, tra le quali, nel 1605, la "congiura delle polveri", a opera della nobiltà cattolica e così chiamata perché un ordigno sarebbe dovuto esplodere in parlamento nel corso di una seduta reale. La reazione del sovrano non tardò: bandì dalla vita politica i cattolici, fece dimettere gli oppositori puritani e affermò l'origine divina del proprio potere.
Ciò, naturalmente non riuscì gradito al parlamento, ma, dopo lunghi contrasti, esso fu addirittura sciolto (1614), con conseguenze anche sulla politica estera, che il re, a quel punto, non era in grado di finanziare, non potendo per legge imporre nuove tasse. Oltretutto egli affidò il governo all'amico lord Buckingham, il quale finì presto per rovinare le finanze dello stato. Il disagio economico fu una delle prime cause della prima rivoluzione inglese.

 

La politica assolutistica di Carlo I 

A Giacomo I Stuart succedette il figlio Carlo I (1625-1649), che continuò la politica assolutistica del padre, perseguitando i puritani inglesi e i presbiteriani scozzesi e appoggiando, in Francia, gli ugonotti contro Richelieu. Quando, però, volle spedire delle truppe in aiuto all'assediata La Rochelle, dovette riconvocare il parlamento per avere i finanziamenti. Una volta riunite le due camere (lords e comuni), con una petizione dei diritti, chiese che si restaurassero tutte le garanzie costituzionali (1628) violate precedentemente dal re con l'imposizione di un prestito forzoso.
Il re acconsentì, ma poco dopo lo risciolse, dando pieni poteri al conte di Strafford e a Guglielmo Laud, arcivescovo di Canterbury. Finché nel 1640 egli non lo riconvocò, per imporre nuove tasse che servivano a finanziare la lotta contro i ribelli presbiteriani in Scozia. Si ebbe, allora, il breve parlamento, così detto perché restò in funzione solo dal 13 aprile al 5 maggio 1640, quando il re, di fronte alla sua opposizione, dovette scioglierlo nuovamente.

 

Il braccio di ferro tra il Carlo I e il lungo parlamento 

I conti dello stato erano veramente in grave perdita, se lo stesso re per la terza volta convocò quello che è passato alla storia come lungo parlamento (1640-1653), costituito in gran parte da proprietari terrieri e, poi, da giuristi e mercanti. Costoro misero in moto una procedura d'accusa nei confronti del ministro Strafford, costringendo il sovrano ad arrestarlo e giustiziarlo insieme a Laud.
Il parlamento, forte dell'appoggio dei londinesi, dichiarò la propria indissolubilità, preparò una denuncia di 204 articoli contro il governo di Carlo I (grande rimostranza) e addirittura armò un esercito, suscitando le paure della componente moderata. Il re, avendo invano tentato d'imprigionare gli oppositori rifugiatisi nella city, il cuore di Londra, lasciò la città. Quando i parlamentari si allearono con gli scozzesi, nel 1642, scoppiò la guerra civile.

 

La guerra civile: i vari schieramenti 

Le tensioni nazionali entravano così in quella che fino ad allora era stata solo una rivolta antistuardista, nella quale una parte della nobiltà finì per schierarsi a fianco dei borghesi ribelli. Le vicende della rivoluzione inglese, come si è detto, nascondevano interessi d'ordine soprattutto economico: da una parte i commerci e l'industria, insofferenti di ogni regolamentazione regia, dall'altra i possedimenti della corona, sui quali aveva gettato gli occhi la piccola nobiltà campagnola.
A complicare l'agitato panorama inglese, inoltre, intervennero nuovi gruppi politici, come per esempio i leveller (livellatori), democratici guidati da Giovanni Liburne, i quali volevano l'abolizione della camera dei lords e libertà di religione per tutti.
Ancor più radicali erano i digger (scavatori), che nelle Midlands occuparono le terre per coltivarle in comune. Meno avanzati dal punto di vista sociale erano gli indipendenti, puritani e repubblicani.
Dalla parte di Carlo I si schierarono i cavalieri, conservatori che provenivano dai territori del Nordovest, mentre il parlamento era appoggiato dalle teste rotonde, chiamati così per il taglio corto dei capelli, opposto alle lunghe capigliature dei nobili-puritani provenienti da Londra e dintorni oltre che dai porti e dalle zone industriali dello Yorkshire e del Lancashire.

 

Il protettorato di Cromwell 

A determinare l'esito di questa prima lotta di classe, però, fu un gentiluomo di campagna, Oliviero Cromwell (1599-1658), il capo degli indipendenti e fondatore, nel 1654, del New Mode Army, che il 14 giugno 1645 a Naseby sconfisse Carlo I, il quale cercò di rifugiarsi in Scozia.
Nel frattempo, gli indipendenti si unirono ai leveller, facendo approvare dal Parlamento, nel 1647, l'accordo del popolo: vi si affermavano il principio della sovranità popolare (il potere nelle mani del popolo), l'elezione annuale del parlamento a suffragio universale (diritto di voto per tutti i cittadini), tranne gli operai e i poveri, e la libertà di religione. Quanto a Carlo I, fu fatto prigioniero dagli stessi scozzesi tra i quali cercava rifugio e fu consegnato al parlamento in cambio di duecentomila sterline. Sui dubbi dei parlamentari moderati e sull'estremismo dei militari ebbe di nuovo la meglio Cromwell con la sua fermezza: portò Carlo I a giudizio e la corte lo condannò a morte, sentenza eseguita il 9 febbraio 1649.
Una volta morto il sovrano Carlo I, quello che allora si chiamò Rump Parliament (troncone di parlamento), proclamò la repubblica dopo aver eliminato i suoi membri moderati. Il ruolo che i parlamentari vi avevano, però, era subordinato all'esercito del Cromwell, il quale, alla prima occasione, sciolse il parlamento (1653) e si fece nominare lord protettore d'Inghilterra, Scozia e Irlanda, un vero e proprio dittatore, insomma, fino alla morte (1658).

 

La potica interna e estera di Cromwell 

Tra i problemi che si trovò ad affrontare due erano particolarmente urgenti: l'opposizione della cattolica Irlanda e della Scozia, che gli si ribellò nominando re, col titolo di Carlo II, il figlio di Carlo I.
I due paesi furono comunque sconfitti, Carlo II dovette rifugiarsi all'estero e molti protestanti dalla Scozia si trasferirono in Irlanda, dove furono loro assegnate delle terre. Poi, il lord protettore privò la nobiltà agraria di molti privilegi d'origine feudale, dando nuovo impulso allo sviluppo agricolo del paese. Risolti i problemi interni, Cromwell, che già s'era alleato con la Francia contro la Spagna impossessandosi di Dunkerque e della Giamaica, cercò di incrementare la potenza marittima inglese con nuove flotte.
Il rafforzamento venne reso possibile anche da quegli ex rifugiati religiosi (puritani) d'oltreoceano perseguitati dagli Stuart e ora mutatisi in agenti commerciali dell'Inghilterra.
Fu inoltre decisiva l'alleanza con il Portogallo (1654), che mise a disposizione degli inglesi il porto di Lisbona. Nel 1651, poi, con l'atto di navigazione, Cromwell rese obbligatoria l'esportazione di merci inglesi su navi inglesi, colpendo gli interessi mercantili degli olandesi.

 

L' "Habeas Corpus" e il ripristino della monarchia 

Al di là della durata del protettorato di Cromwell, comunque, questi anni lasciarono un segno indelebile non solo in Inghilterra grazie a opere come il Leviatano di Hobbes (1651), che pur non abbandonando la teoria assolutistica del potere ne negò l'origine divina.
Ormai i nuovi principi s'erano definitivamente affermati e in piena restaurazione lo stesso Carlo II dovette approvare una legge che proibiva l'arresto immotivato dei sudditi (Habeas Corpus Act). Morto Cromwell, a favorire la restaurazione monarchica contribuì non solo la debolezza del figlio Riccardo, ma anche il riconoscimento, da parte di Carlo II, dei diritti del Parlamento e della libertà di coscienza.
In tal modo risultavano tutelati sia gli interessi terrieri della gentry sia quelli commerciali della city.

 

La vittoria del parlamento 

Gli ultimi sussulti di assolutismo regio, con il cattolico duca di York, Giacomo Stuart, fratello di Carlo II, suscitarono una nuova protesta del paese contro la sua politica filopapale e a favore di Luigi XIV, oltre che per il ripristino del regime parlamentare.
All'atto di indulgenza (1672) che dava libertà di culto ai cattolici e ad altri dissidenti, il Parlamento rispose con il Test Act (1673), che proibiva ai cattolici di ricoprire cariche pubbliche e fare carriera politica.
Giacomo II, divenuto re nel 1685 perché, pur esonerato da ogni incarico, riuscì a mantenere il diritto di successione, cercò di revocare il Test Act, restaurando l'atto d'indulgenza, ma i sudditi non lo seguirono, finché, alcuni decenni dopo, scoppiò la gloriosa rivoluzione o seconda rivoluzione (1688-1689), una rivoluzione pacifica che portò al trono Guglielmo d'Orange insieme alla moglie Maria, figlia del predecessore Giacomo II.
Le restaurate garanzie costituzionali, insieme alle nuove libertà concesse ai sudditi e all'abolizione dei privilegi feudali, comunque, favorirono soltanto la classe dei proprietari, mentre aumentarono il divario esistente tra le classi ricche e quelle povere.
La Seconda rivoluzione si chiuse con il Bill of Rights: erano lord e comuni, rappresentanti di tutte le classi sociali, a eleggere il nuovo sovrano.
Finiva così la monarchia di diritto divino e il potere del sovrano aveva origine e limiti nella volontà del parlamento.

 

Nuove potenze mercantili

I rapporti di forza sul terreno coloniale 

I cambiamenti nei rapporti di forza tra le grandi potenze in Europa tra XVII e XVIII secolo, naturalmente si proiettarono sullo scacchiere extraeuropeo, soprattutto americano, dove si erano rivolti gli sforzi dei colonizzatori.
Ancora agli inizi del XVIII secolo, però, tutte le regioni centromeridionali del Nuovo Mondo erano saldamente in mano a spagnoli e portoghesi.

 

L'impero coloniale spagnolo 

In America, l'impero coloniale spagnolo, per esempio, che aveva uguali leggi, uguale sistema amministrativo, la medesima lingua e religione, si differenziò dalla madrepatria solo per le caratteristiche geografiche e ambientali delle sue regioni.
Nei vicereami della Nuova Spagna (Messico) e del Perú, dove oltre alla popolazione creola v'erano indiani "docili" per natura o resi tali e quindi utilizzabili come manodopera a basso costo, i coloni spagnoli riuscirono a sfruttare in modo intensivo le risorse agricole e minerarie locali.
Al contrario, dove non mancavano risorse o la popolazione resisteva a questo tipo di sfruttamento, dovettero limitarsi a un controllo puramente formale, tollerando entro un certo limite gli esperimenti "comunistici" dei missionari gesuiti (che si traducevano nell'assenza della proprietà privata) realizzati, a partire dal secolo XVII, in Paraguay. In quelle zone di frontiera, essi cercarono di raccogliere in grandi villaggi (reducción) diverse comunità di indios allo stato nomade, sottraendoli alla caccia degli schiavisti bianchi per ottenerne, alla fine, la conversione religiosa.
Così facendo, però, i gesuiti ne garantirono la loro sopravvivenza fisica, etnica e culturale.

 

Le colonie portoghesi 

Per quel che riguarda i portoghesi, essi riuscirono a mantenere il controllo sulle loro colonie, impedendo l'ingresso di alcuni contingenti commerciali e militari francesi e soprattutto olandesi, tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo, nelle zone costiere del Brasile.

Le nuove compagnie commerciali 

Nuove nazioni col mutare degli equilibri politici e degli orientamenti commerciali, dopo gli anni dell'emigrazione religiosa dei dissidenti (dall'Inghilterra degli Stuart o dalla Francia, dopo la notte di San Bartolomeo) si affacciarono sulla scena coloniale: in particolare l'Olanda, la Francia e l'Inghilterra, attraverso le loro compagnie commerciali.

La Compagnia olandese delle Indie Orientali 

La prima compagnia commerciale era nata in Olanda nel 1602 col nome di Compagnia Olandese delle Indie Orientali.
Gli olandesi iniziarono a solcare le rotte oceaniche dopo la rovina di Anversa e la chiusura dei porti di Spagna e Portogallo imposta da Filippo II alle loro navi. Nel 1594 Barents cercò invano una nuova rotta a nord-est l'anno dopo Houtman doppiò il Capo di Buona Speranza fino al Madagascar, la Malacca e le isole della Sonda. Tra il 1598 e il 1600 Van Noort ripeté la circumnavigazione del globo compiuta da Magellano e tra il 1605 e il 1644 i navigatori olandesi scoprirono l'Oceania e l'Australia, chiamata fino al 1817 Nuova Olanda; nel 1642 Abele Tasman scoprì la Tasmania e la Nuova Zelanda ed esplorò la costa orientale australiana.
Queste furono esplorazioni finanziate da potenti organizzazioni come, appunto, la Compagnia delle Indie Orientali, che sostituì alle basi portoghesi in India le sue nella penisola indiana, a Ceylon, nella Malacca, nel Siam, in Indonesia, nel Giappone, nelle isole della Sonda e fondò Batavia nell'isola di Giava.

Le altre Compagnie 

A questa poi s'aggiunsero la Compagnia del Levante, nel Mediterraneo, quella del Nord, per la pesca delle aringhe e la caccia alle balene e infine la Compagnia delle Indie Occidentali (1618-1674), che installò i suoi empori nel Nordamerica, dove nel corso del 1626 comprò l'isola di Manhattan e vi fondò la città di Nuova Amsterdam, la futura New York.

La Banca dei Cambi olandese 

Nello stesso periodo l'Olanda costituì il proprio sistema bancario, a partire dalla Banca dei Cambi, fondata nel 1609 ad Amsterdam, da allora il principale centro finanziario europeo, nonostante i contrasti tra militaristi (gli Orange) e moderati (i borghesi d'Olanda e Zelanda) e tra calvinisti più o meno intransigenti.
Le iniziative fuori dal controllo delle compagnie commerciali (in stretto contatto con banche come questa dei Cambi) furono ben poche: da segnalare, tra esse, lo stabilimento nei pressi del Capo di Buona Speranza, nel 1652, d'un gruppo di coloni bianchi d'origine contadina (boeri).

Lo scontro tra Olanda e Inghilterra 

L'Olanda, con la sua espansione coloniale, non poteva che scontrarsi prima o poi con la rivale Inghilterra. Uno scontro già vivo sul piano dottrinale, agli inizi del XVII secolo tra il giurista olandese Ugo Grozio e l'inglese Giovanni Seldan.
Il primo pubblicò nel 1609 una specie di manifesto a favore della borghesia olandese dal titolo Mare liberum, in cui affermava il principio della libertà di navigazione. L'altro gli rispose con Mare clausum, difendendo il monopolio del suo paese. L'epilogo di questo conflitto teorico è assai noto: l'atto di navigazione di Cromwell (1651) e la guerra vinta dagli inglesi (1652-1654).

Le Compagnie commerciali francesi 

Anche la Francia organizzò le proprie compagnie per il commercio, come quella del Nord, operante nel Baltico, quella del Sénegal, quella del Levante e le due compagnie francesi delle Indie Orientali e Occidentali, quest'ultima voluta da Colbert (1619-1683), il ministro finanziario di Luigi XIV, e sciolta nel 1674.
Una aprì in India le basi di Pondichéry e di Chandernagor, entrando in conflitto col monopolio olandese e inglese. L'altra, a sua volta, estese i suoi stabilimenti in Canada, attorno alla baia del San Lorenzo, nelle valli dell'Ohio e della Louisiana, nell'arcipelago delle Piccole Antille e nel golfo del Messico.
Sebbene una vera e propria politica coloniale in Francia abbia avuto inizio molto tardi, soprattutto in confronto ai due stati che avevano mostrato una spiccata vocazione coloniale, già nei primi anni del Seicento, dunque, (i primi stanziamenti in Guiana risalgono al 1604), si assistette allo sforzo francese di dar vita a insediamenti e basi commerciali oltreoceano, soprattutto su terre americane non ancora occupate da spagnoli e portoghesi.

L'impero coloniale francese 

Intorno alla fine del XVII secolo, poi, l'iniziativa privata in campo coloniale iniziò a esaursirsi. Così, queste e le altre colonie di Guadalupa, Martinica e Haiti tra le isole Antille, il Sénegal e il Madagascar in Africa, Pondichéry e Chandernagor in Asia, tutte colonie di popolamento, divennero possedimenti reali. Si trattava, cioé, di un vero e proprio impero coloniale, verso la metà del Settecento; nulla di paragonabile, comunque, a quanto creato da spagnoli e portoghesi nell'America del Sud.
Le colonie caraibiche di San Cristoforo, della Martinica, di Tobago, della Guadalupa, o quella, caratterizzata dal clima inospitale, della Guiana, erano preziose per i prodotti che facevano arrivare nella madrepatria (le piantagioni, nelle quali si facevano lavorare gli schiavi, garantivano un rifornimento continuo di zucchero, tabacco e spezie), ma non potevano certo rendere la Francia competitiva rispetto a quelle due antiche potenze coloniali.

La pirateria inglese e le rivalità nei Caraibi 

Nella zona delle Antille non erano attivi solo i francesi. Vi avevano messo piede anche gli olandesi e gli inglesi, trasformando quelle che erano state in origine le basi e i covi dei pirati (filibustieri e corsari elisabettiani per anni avevano attaccato i galeoni spagnoli e portoghesi in rotta per l'Europa).
Se i francesi presto avevano dovuto cedere i loro possessi caraibici proprio alla Francia (conservando però Sant'Eustachio, Curaçao, e gran parte della Guinea), gli inglesi avevano esteso il proprio dominio su alcune grandi isole (Giamaica) e sugli arcipelaghi delle Bermude, delle Bahamas e delle Barbados, che avevano caratteristiche economiche e produttive simili a quelle delle vicine colonie francesi.

L'impero coloniale inglese 

Al pari della Francia, del resto, anche l'Inghilterra, dagli anni della regina Elisabetta alla pace di Utrecht (1713), fondò un impero coloniale comprendente, sulla costa atlantica del Nord America, a ridosso degli sterminati territori indiani e delle regioni del Canada francese, tredici colonie (alcune fondate da rifugiati per motivi religiosi come il Massachusetts, altre, come il Maryland, direttamente dalla corona o conquistate, come Nuova Amsterdam). Le perle di quest'impero rimasero, per molto tempo, almeno agli occhi della madrepatria, le colonie ricche di piantagioni di cotone nel Sud come la Virginia, la Carolina del Nord, la Carolina del Sud e la Georgia.
A rendere l'impero britannico tanto diverso dagli altri, però, sarebbero state le meno considerate colonie del Centro e del Nord (Nuova Inghilterra), dove il clima inadatto a un'economia di piantagione sconsigliò la tratta degli schiavi dall'Africa.
Oltre alle colonie nordamericane, i possedimenti dell'impero inglese comprendevano anche importanti avamposti, come Calcutta e Madras in Asia, dove proprio una compagnia inglese, la Chartered Company (Compagnia Inglese delle Indie Orientali) finì per monopolizzare il commercio in India fino al 1858.

La peculiarità del sistema coloniale inglese 

Nella Nuova Inghilterra si costituirono popolose comunità di lingua e cultura inglesi, che progredirono rapidamente non solo grazie all'adozione delle leggi democratiche del paese d'origine, ma anche per il suo sistema di governo coloniale, il quale, a differenza di quello francese e di quello ispano-portoghese, concedeva ai coloni una grande autonomia e una specie di diritto ad autogovernarsi.
Qui, tra l'altro, non esistette mai una classe di lavoratori indigeni né si verificò, come nell'America meridionale, alcun incrocio tra coloni, popolazioni indigene e schiavi fatti venire dall'Africa. Molto più che nel Canada francese, dove peraltro la popolazione europea era cresciuta tra il 1700 e il 1750 di 55 000 unità (da 15000 a 70000 bianchi), nelle colonie inglesi dell'America centrosettentrionale si ebbe un fortissimo aumento di abitanti e nacque un vero proletariato europeo. Anche grazie al clima temperato fiorirono in questa regione villaggi e città, con i mercati e gli arsenali navali, alimentati da un'agricoltura e da un commercio prosperi.
Molti coloni arrivarono dall'Irlanda, dalla Scozia e dal resto d'Europa, finché l'intera popolazione angloamericana nel 1763 non ebbe raggiunto i due milioni e mezzo di abitanti e la frontiera non cominciò a spostarsi oltre gli Appalachi, nella valle dell'Ohio.
Alla fine del secolo, poi, sul punto di raggiungere la propria indipendenza, le colonie inglesi d'America rappresentavano nel Nuovo Mondo il miglior esempio di società europee ricche e progredite.

 

La Prussia e la grande Russia

Le nuove potenze europee  

Le lunghe guerre che tra la fine del XVII secolo e la metà del XVIII avevano determinato l'espandersi del potere francese - gravato tuttavia dagli sforzi finanziari per sostenere la guerra e dalle rivolte sociali - e il consolidamento della monarchia inglese, aprivano nuove prospettive all'evoluzione della storia europea e mondiale per l'affacciarsi di nuove potenze che avrebbero modificato gli equilibri raggiunti.
In particolar modo si assiste all'espansione militare e territoriale della Prussia e della Russia, sostituitasi alla Svezia. L'impero asburgico consolida i propri domini nei Balcani mentre la Polonia perde la propria indipendenza.

L'ascesa della Prussia I 

Il principio del potere degli Hohenzollern risale ai tempi nei quali ottennero in feudo la Franconia. Successivamente l'imperatore Sigismondo diede loro la marca del Brandeburgo (1411).
In seguito, un ramo cadetto ricevette il ducato di Cleves e quando Alberto, il gran maestro dell'ordine teutonico, si convertì al luteranesimo, nel 1525, passò sotto il controllo degli Hohenzollern anche il ducato di Prussia. Tra il 1614 e il 1618, i tre ducati, sia pur divisi territorialmente e diversi politicamente (i primi due erano di concessione imperiale e il terzo uno stato vassallo della Polonia), vennero riuniti sotto il ramo principale della famiglia. Questi territori, spopolati e in gran parte ricoperti di foreste e di paludi, rinacquero sotto il Grande Elettore Federico Guglielmo (1640-1688)

L'operato di Federico Guglielmo 

Federico Guglielmo unificò leggi e ordinamenti e, grazie alla bonifica dei terreni paludosi, attirò molti coloni olandesi e calvinisti francesi (ugonotti). Quindi, formò una classe di funzionari dello stato (Junker), di stampo autoritario, e un esercito di ben 300 000 uomini, facendo della Prussia il primo principato dell'impero. Tanto che, con una piccola flotta, essa fondò una colonia in Guinea. Fu in Europa, comunque, che poté manifestare la sua potenza, durante la prima guerra del Nord, e ottenere una maggiore autonomia dalla Polonia, alla quale era stata legata da vincoli di dipendenza feudale prima ancora della pace di Oliva, nel 1657.
La svolta decisiva, arrivò, come abbiamo visto, con le guerre di Luigi XIV e la vittoria sugli svedesi a Fehrbellin (1675).

La Prussia di Federico I e di Federico Gugliemo I 

A continuare l'opera del Grande Elettore Federico Guglielmo pensò il figlio Federico I (1688-1713), il quale, dopo la guerra di successione di Spagna ottenne il titolo di re. In quanto tale, aveva bisogno di una capitale e così trasformò la piccola Berlino in una delle maggiori città europee, fondandovi l'Accademia delle scienze, quella del filosofo Goltfried Wilhhelm Leibnitz (1646-1716).
Il figlio Federico Guglielmo I (1713-1740), al contrario, fu detto "re sergente" per l'indole militare e burocratica: infatti, risanò le finanze e diede un grande impulso all'agricoltura e all'industria. Durante il suo regno venne  fondato lo stato militare prussiano, dotato di un esercito permanente di 83 000 uomini comandati da ufficiali scelti tra le fila della classe nobile.

Le origini delle Russia 

Per secoli la Russia fu una specie di mondo a parte rispetto allo scacchiere politico internazionale. A rompere l'isolamento dall'Europa non riuscirono i principi russi che nel XIV secolo avevano sconfitto i tartari e neppure quelli di Mosca un secolo dopo, quando Ivan III il Grande (1462-1505) cominciò a riunire i principati della Russia orientale cui conferì un'organizzazione militare unica, ancora di stampo feudale.
L'impresa non riuscì neppure a Ivan IV il Terribile (1533-1584) che, col titolo di zar, portò i suoi confini fino ai territori cosacchi del Volga a Oriente, e alla Livonia (1588) sul Baltico, da dove, tuttavia, i russi furono ricacciati dai polacchi e dagli svedesi.
In quegli anni la Russia iniziò a colonizzare la Siberia e gli Stroganov, famiglia di mercanti, nel 1587 vi fondarono la città di Tobolsk. Quando l'ultimogenito di Ivan il Terribile mori in circostanze misteriose, si accusò Boris Godunov, fratello della zarina madre, d'averlo ucciso per salire sul trono; egli infatti regnò dal 1598 al 1605. Iniziò così un periodo di lotte per il potere finché, nel 1613, non salì sul trono la dinastia dei Romanov.

La società russa 

La Russia, comunque, era ancora molto lontana dall'Europa. In guerra contro gli svedesi e i polacchi, tra il 1654 e il 1658, tentò d'espandersi sul Baltico e verso i confini meridionali della Polonia, territori ricchi e popolosi, a differenza di quelli russi, la popolazione dei quali, scarsa, era sottoposta a un regime di tipo feudale.
Nei possedimenti russi infatti, i nobili (boiari), in nome dello stato, amministravano le terre di loro proprietà rivendicando pieni poteri anche sui contadini che vi lavoravano.
A quei latifondisti, e a una borghesia formatasi in quegli anni, lo sbocco al mare (Baltico) serviva per i commerci. Se da una parte, però, era la nobiltà a ispirare e motivare la politica estera degli zar, dall'altra non mancò di rivendicare la propria autonomia. Quanto ai contadini, erano in condizione di estremo disagio, come del resto il piccolo clero ortodosso delle campagne. Fu la borghesia mercantile in quegli anni a rinnovare il volto del paese, nelle nuove città di Pskov, Novgorod e Mosca stessa o nelle fiere di Tikvin, Brjans e Makariev.
Per la neonata borghesia russa, i commerci, in concorrenza con i boiari, si riducevano all'usura ed essa prese parte alle tante rivolte popolari di contadini e di soldati scoppiate durante il regno dello zar Alessio, figlio di Michele. Alcune sommosse s'ebbero pure a Mosca, nel 1648 e nel 1662, quest'ultima, soffocata nel sangue, fece contare ben ventimila vittime.
A turbare quello che ormai consisteva in un impero esteso dal basso Volga al Dnjepr pensarono poi i cosacchi del Don, guidati da Stenka Razin, ribellandosi tra il 1667 e il 1671, quando furono sconfitti a Simbirsk.

L'espansionismo degli zar 

Gli zar, comunque, cercarono di estendere il dominio russo verso l'Ucraina (Kiev e Smolensk) e al di là degli Urali, nell'Asia centroccidentale, fino alle coste del Pacifico.
La loro espansione fu facilitata, tra l'altro, dalla sconfitta dei turchi, terminato  l'assedio di Vienna nel 1683, grazie all'intervento del re di Polonia Giovanni Sobieski, capo delle truppe slave e tedesche. Infine, la pace di Carlowitz (1699) assegnò all'Austria i possessi d'Ungheria, della Croazia e della Transilvania.
Quanto ai suoi non meno estesi territori, lo zar mise al loro servizio la nascente burocrazia e la chiesa ortodossa la quale, infatti, fece la stessa fine di quella dell'impero bizantino: dopo uno scontro tra lo zar e il patriarca di Mosca, nel 1666 il concilio ortodosso proclamò il primato del potere imperiale su quello ecclesiastico. L'emanazione del nuovo codice civile (1649) aveva istituzionalizzato la servitù della gleba scatenando continue rivolte contadine.

Pietro il Grande  

Lo zar che volle fare della Russia una potenza occidentale fu Pietro il Grande (1681-1725), salito sul trono insieme a un fratellastro sotto la tutela della sorella Sofia, e poi - con un colpo di stato (1689) - diventato capo effettivo dell'impero già sceso in guerra con la lega austro-polacco-veneta contro i turchi nel 1683. Figlio dello zar Alessio, in gioventù egli aveva frequentato a Mosca il quartiere tedesco. S'era quindi già appassionato alla cultura occidentale quando salì sul trono e, sconfitti i turchi, nel 1697 partì in viaggio d'istruzione che lo portò in Germania, in Olanda, in Inghilterra e in Austria.
Tornato in patria con un buon numero di tecnici europei, avviò l'opera di modernizzazione, non prima d'aver sanguinosamente represso la rivolta degli Strelzy (la guardia) scoppiata nel 1698 durante la sua assenza. In quest'opera di riforma, del resto, egli non fu meno crudele, ripudiando e chiudendo in convento la moglie e facendo uccidere Alessio, il figlio ed erede, colpevoli solo di non condividere le nuove idee importate dall'Occidente.

La modernizzazione e l'assolutismo di Pietro il Grande 

Il vero scopo di Pietro il Grande, pur col pretesto di una modernizzazione, era di creare uno stato assoluto. Così, a cambiamenti come il nuovo calendario (col quale l'inizio dell'anno, prima fissato al 1° settembre, veniva spostato al l° gennaio) o l'obbligo del taglio della barba per i boiari, s'aggiunse un sistema amministrativo interamente nuovo. Lo stato poté disporre di una classe burocratica e di cancellerie ministeriali; il paese fu diviso in governatorati, in province e in comuni.
Per formare i nuovi burocrati, si aprirono scuole di tipo europeo e si diede sviluppo alle accademie scientifiche. Poi fu riordinato il sistema fiscale e ricostituito l'esercito, immancabile strumento di ogni regime assoluto.
Lo zar Pietro il Grande, dunque, da buon assolutista sciolse subito la Duma, l'assemblea dei boiari e istituì un senato subordinato ai suoi voleri. Dopo essersi sbarazzato dei boiari, sostituì il patriarca della Chiesa ortodossa con un collegio di prelati (santo sinodo) dominato dal procuratore dello zar.
Il rafforzamento dei potere statale non impedì la sopravvivenza di un istituto feudale come la servitù della gleba. Questa, regolamentata non solo nell'agricoltura ma anche nell'industria da leggi precise che lo zar si guardò bene dal modificare, restò la base del sistema produttivo russo. Insomma, Pietro il Grande, nel suo tentativo di creare un'economia di tipo mercantilistico e protezionistico, non riuscì a coinvolgere le masse di contadini (ben otto milioni di servì della gleba su dodici milioni di abitanti nel XVIII secolo), respinti dalle nuove e vecchie classi dirigenti.

La decadenza della Svezia e della Polonia 

Con tutti i suoi problemi, comunque, la Russia ormai era una potenza internazionale, proprio mentre decadevano due potenti vicini come la Polonia e la Svezia. Un declino iniziato dopo le morti di Giovanni Sobieski (1696) e di Carlo XII (1718), ma provocato anche dal mancato consolidamento dello stato in questi paesi.
Dei due sovrani, l'ultimo (1697-1718) era salito sul trono ancora giovane, nel 1697, e il suo regno era già in crisi per la perdita dell'alleato francese impegnato in Spagna. Nel corso del XVII secolo la Svezia era divenuta lo stato più potente dell'Europa settentrionale, grazie alla politica espansionistica di Gustavo Adolfo e ai trattati con i quali si erano concluse la guerra dei trent'anni e la prima guerra del nord.
Tuttavia l'egemonia conquistata nel Baltico spingeva i tradizionali nemici (Danimarca, Russia, Polonia) a riconquistare i territori perduti avvalendosi anche dell'appoggio di Olanda e Inghilterra, impossibilitate a esercitare liberamente il commercio marittimo con l'Europa settentrionale e orientale. Quando nel 1697 l'elettore di Sassonia fu incoronato sovrano della Polonia con il nome di Federico Augusto II, si diede vita a una coalizione antisvedese formata da Danimarca, Russia e Polonia.

La Russia e i conflitti tra gli stati del Nord 

Per lo zar quella era anche un'occasione per vendicarsi della sconfitta subita dai russi in Livonia (1621) a opera del re Gustavo Adolfo. Il giovane Carlo XII, comunque, con inaspettata rapidità sconfisse i danesi e, a Narva (23 novembre 1700), i russi e cacciò Federico Augusto II dalla Polonia, inseguendolo per la Slesia fino ad arrivare in Sassonia, dove lo batté a Lipsia (1700).
In Polonia, intanto, era salito sul trono un suo alleato, il nobile polacco Stanislao Leszczynski (1704). I russi non erano del tutto vinti, anzi, nel 1703 Pietro il Grande aveva fondato la nuova capitale, Pietroburgo, al confine con l'Occidente.
Un segno di sfida, subito raccolto da Carlo XII che s'alleò con i cosacchi del Don, guidati da Mazeppa. Alle sue truppe i russi opposero una ritirata strategica, finché non le sconfissero a Poltava (8 luglio 1709). Il re cercò rifugio in Turchia, ma il sultano, che dai russi aveva riottenuto Azov, non l'accolse. La guerra era persa: in Polonia Federico Augusto II aveva ripreso il posto di Leszczynski (1709) e contro gli svedesi eran scese in campo anche la Prussia e l'Inghilterra.
Morto Carlo XII a Fredrikstad, nel 1718, si arrivò alla pace di Stoccolma (1720) e alla pace di Nystadt (1721): Federico Augusto II Elettore di Sassonia fu riconosciuto re di Polonia; alla Russia andarono la Carelia, l'Estonia con parte della Finlandia e la Livonia; alla Prussia, la Pomerania e Stralsunda; alla Danimarca, lo Schleswig, e infine all'Inghilterra i due porti di Brema e di Verden.

 

Le guerre di successione

 

L'Inghilterra alla vigilia delle guerre di successione 

In Inghilterra, dopo la rivoluzione del 1688, si erano succeduti molti regnanti: Guglielmo III d'Orange, morto senza figli, rispettoso dell'atto di stabilimento che escludeva il ramo cattolico degli Stuart dalla successione, aveva lasciato il trono alla cognata Anna Stuart, moglie del re di Danimarca (1702-1714), la quale unì le corone d'Inghilterra e di Scozia nel Regno Unito di Gran Bretagna (atto di unione del 1707).
Alla sua morte, il parlamento elesse Giorgio I di Hannover, principe elettore tedesco (1714-1727), contro il quale insorse la Scozia. I rivoltosi furono ben presto sconfitti e rafforzarono il potere del partito dei whig (difensori della tolleranza religiosa e dei diritti parlamentari), i quali governarono il paese sostenuti dall'opera di sir Robert Walpole (1715-1717 e 1721-1742). Eletto primo ministro, egli rafforzò il regime parlamentare costituzionale teorizzato da Locke e alla consuetudine dei ministri nominati direttamente dal sovrano sostituì la nomina da parte della maggioranza parlamentare. I due nuovi schieramenti, quello dei whig e dei tory, contribuirono al rinnovamento economico e all'egemonia internazionale inglese.
I primi erano direttamente coinvolti nel rinnovamento dell'agricoltura del paese e godevano dell'appoggio della nuova classe di industriali e capitalisti.
I secondi rappresentavano la classe dei nobili di campagna, meno propensi a sostenere la politica commerciale e finanziaria inglese e più attenti a mantenere posizioni di conservatorismo sociale  e religioso.

 

La Francia dopo il "re sole" 

Nello scacchiere delle potenze europee furono invece relegate a un ruolo di secondo piano la Francia e la Spagna. La morte di Luigi XIV (1715) aveva lasciato in Francia una situazione di incertezza data la minorità dell'erede Luigi XV. Pertanto la reggenza del paese fu affidata a Filippo, duca d'Orléans, che fu coadiuvato da numerosi consigli gestiti dall'aristocrazia di corte.
Il reggente aveva il difficile compito di risanare le finanze dello stato dopo gli sforzi bellici intrapresi dalla politica assolutista di Luigi XIV. Per raggiungere lo scopo, si avvalse dell'opera del finanziere scozzese John Law, che istituì la Banca generale e la Compagnia d'Occidente per risanare il debito pubblico. Tuttavia l'impresa fallì e condusse il paese sull'orlo della bancarotta.
Alla morte del duca d'Orléans (1723) la direzione dello stato passò nelle mani del cardinale Fleury, che si preoccupò di evitare al paese gravosi impegni militari e di conservare sul piano diplomatico l'alleanza con l'Inghilterra.

 

La Spagna di Filippo V 

In Spagna il re Filippo V dovette far fronte alla crisi di un paese privo di industrie e con una flotta ridotta in condizioni disastrose. Consolidato il potere, il sovrano si impegnò in un'attività riformatrice sotto il profilo burocratico e finanziario. L'azione diplomatica del cardinale italiano Giulio Alberoni mirò a ridare prestigio al paese, sfruttando le alleanze con la Francia e l'Inghilterra, ma senza conseguire successi rilevanti.
A complicare le cose per la Spagna (e anche per la Francia) s'aggiungevano, all'agguerrita concorrenza d'oltremanica, le nuove potenze dell'Austria, della Russia e della Prussia.
Infine la Spagna aveva in comune con la Francia la casa di Borbone, vincolo dinastico destinato a stringersi ulteriormente col passaggio di Napoli e del ducato di Parma, Piacenza e Guastalla sotto il diretto dominio dei due figli del re di Spagna, don Carlos e don Filippo.

 

La causa delle guerre di successione 

Tutti questi cambiamenti in parte furono provocati dalle guerre di successione che coinvolsero le potenze europee tra il 1733 e il 1748. La ricerca di un nuovo equilibrio territoriale, principio affermato nel trattato di Utrecht del 1713, fu il motivo delle guerre scoppiate in Europa nella prima metà del XVIII secolo.
Dati i complicati intrecci dinastici esistenti, i successori ai troni d'Austria e di Polonia dovevano soddisfare le esigenze di due opposti blocchi: da una parte la Spagna di Filippo V, la Francia di Luigi XV e l'Inghilterra, che, assente, all'inizio, dai campi di battaglia, era la vera potenza egemone; dall'altra, l'Austria, la Prussia e la Russia. Quanto all'Italia, rimasta isolata dal resto d'Europa dopo la pace di Cateau-Cambrésis, stava per diventare terreno di scontro delle potenze europee.

La guerra di successione polacca 

La prima guerra di successione fu quella polacca (1733-1738). Alla scomparsa di Giovanni Sobieski (1674-1696), il vincitore dei turchi, gli austriaci avevano fatto salire sul trono Federico Augusto II, elettore di Sassonia, che il re svedese Carlo XII invano aveva tentato di spodestare. Alla sua morte, avvenuta nel 1733, la Francia di Luigi XV candidò al trono polacco Stanislao Leszczynski, suocero del re francese.
Ma l'intervento militare della Russia e dell'Austria consegnò la Polonia a Federico Augusto III, figlio del precedente sovrano. La Francia colse l'occasione per dichiarare guerra all'Austria, riprendendo la politica di espansione in Italia. Grazie all'alleanza franco-spagnola, sottoscritta con il primo patto di famiglia borbonico (1733), Luigi XV, non volendo scontrarsi con l'Inghilterra, evitò di attaccare i Paesi Bassi austriaci e rivolse i suoi sforzi sull'Italia - dove, con l'alleato Carlo Emanuele III, occupò la Lombardia, conquistando anche Parma e Guastalla - e sulla Germania, dove sconfisse le truppe imperiali del principe Eugenio di Savoia.
Quanto agli spagnoli, essi occuparono Napoli e la Sicilia. A questo punto i francesi, pur di non provocare gli inglesi, firmarono la pace di Vienna (18 novembre 1738)

 

Le clausole della pace di Vienna del 1738 

La pace stabilì, in Polonia, la successione di Federico Augusto III di Sassonia e, in cambio, la cessione al candidato francese Stanislao Leszczynski della Lorena e del ducato di Bar.
A sua volta, lo spossessato duca di Lorena Francesco Stefano, marito della futura imperatrice d'Austria Maria Teresa, riceveva nelle sue mani il granducato di Toscana, dove nel 1737 era morto Gian Gastone, l'ultimo discendente dei Medici. Carlo Emanuele III di Savoia, poi, a spese dell'Austria, otteneva Novara, Tortona e le Langhe.
Al figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, Carlo di Borbone, andavano il regno di Napoli e di Sicilia. Quanto all'Austria, essa conservava la Lombardia e otteneva l'ex ducato di Parma e di Piacenza, dove i Farnese erano senza successori.

 

La Russia nel conflitto e la pace di Belgrado 

All'ultima fase del conflitto partecipò anche un'altra potenza: la Russia, che nel 1736 entrò in guerra con la Turchia al fianco dell'Austria riconquistando Azov in Crimea. L'avanzata russa fu bloccata dalla Francia, alleata della Svezia, e s'arrivò alla pace di Belgrado (1739), con la quale vennero annullate le conquiste territoriali riconosciute nel precedente trattato di Passarowitz (1718): Belgrado e i territori a sud della Sava e del Danubio tornavano ai turchi, che lasciarono agli avversari solo una parte della Crimea.
In cambio della sua mediazione, la Francia riacquistò il monopolio commerciale nell'impero ottomano (capitolazioni) e il protettorato sugli istituti cattolici della Terra Santa.

 

Gli Asburgo e la Prammatica Sanzione 

In Austria, il prestigio politico e l'espansione territoriale che gli Asburgo avevano conseguito dopo la guerra di successione spagnola avevano spinto l'imperatore Carlo VI ad attuare una riforma dello stato nel tentativo di risolvere i problemi tra l'amministrazione centrale e gli organi periferici di un così vasto impero. La politica estera, volta a sfruttare i successi conseguiti nella zona dei Balcani e a rafforzare il potere in Italia e nei Paesi Bassi, riguardava anche i tentativi di inserirsi nel grande commercio internazionale e coloniale.
Tuttavia la casa d'Asburgo dovette ben presto rinunciare a simili interessi per risolvere i problemi di politica interna (la successione al trono) ed estera (la guerra di successione polacca). Infatti, l'imperatore Carlo VI (1711-1740) aveva avuto solo due figlie femmine e per dare il trono alla primogenita, Maria Teresa, aveva annullato la legge salica, il divieto per una donna di ricevere in eredità il trono del padre, facendo invece approvare dalle nazioni europee la Prammatica Sanzione (1713), ed escludendo le pretese di lontani parenti, come il duca di Baviera.

 

La guerra di successione austriaca 

Alla morte di Carlo VI, tuttavia, il re di Prussia e duca di Brandeburgo Federico II invase la Slesia, regione ricchissima dell'impero. Poco più tardi si formava una coalizione antiaustriaca composta dalla Spagna, dalla Francia, dalla Prussia, dalla Sassonia e dalla Baviera. Il conflitto che si aprì (1740-1748) fu caratterizzato da alcune alleanze strategiche che riflettevano interessi non soltanto europei, ma mondiali e atlantici.
Dapprima le truppe franco-bavaresi avanzarono fino in Boemia e in Moravia, facilitando l'elezione sul trono imperiale di Carlo Alberto di Baviera, mentre l'imperatrice Maria Teresa si rifugiò in Ungheria e in sua difesa si schierò l'Inghilterra, con Carlo Emanuele III passato dalla parte degli Asburgo. Contro di lui, in Italia, francesi e spagnoli ebbero inizialmente la meglio alla Madonna dell'Olmo (1744), quindi furono sconfitti dai sardi all'Assietta (1747) e gli austriaci occuparono Genova, per poi andarsene a causa d'una rivolta (5 dicembre 1746) scoppiata per il gesto di un giovane, Giovan Battista Perasso, detto Balilla.

 

La pace di Aquisgrana del 1748 

Questa guerra di successione finì con la pace di Aquisgrana (18 ottobre 1748), che riconobbe l'impero a Maria Teresa d'Austria e Francesco Stefano di Lorena.
L'Austria, però, cedeva la Slesia a Federico II re di Prussia; Voghera, Vigevano e l'Alto Novarese a Carlo Emanuele III di Savoia e infine il ducato di Parma, di Piacenza e di Guastalla a don Filippo, figlio del re di Spagna.

 

La guerra dei sette anni

 

Il rovesciamento delle alleanze 

Il periodo compreso tra il 1748 e il 1756 fu caratterizzato da un'intensa attività diplomatica fra le grandi potenze europee e si concluse con una serie di alleanze strategiche che modificarono gli equilibri politici precedenti. In particolar modo, il ministro austriaco Kaunitz fu il fautore del cosiddetto rovesciamento delle alleanze.
La concorrenza coloniale fra Francia e Inghilterra spinse le due potenze a infrangere quel tacito patto di non belligeranza, frutto della politica di Walpole e di Fleury. Il conflitto che aveva per posta il controllo delle colonie in India e in America settentrionale venne a sommarsi al tentativo di Maria Teresa di impadronirsi nuovamente della Slesia. Nel nuovo scontro, la Francia si alleò con l'Austria in una coalizione che comprendeva anche la Russia, la Svezia, la Polonia e la Sassonia.
L'Inghilterra, invece, strinse un'alleanza con il re di Prussia.

Teatri di guerra: l'Europa e le colonie 

Teatro della guerra dei sette anni (1756-1763) furono l'Europa - dove i prussiani invasero la Sassonia (vittorie di Liegnitz e di Torgau), finché i russi e gli austriaci non entrarono nel Brandeburgo e nella stessa Berlino (1761) - e le colonie, dove la flotta inglese sconfisse quella francese.
Il ritiro dalla coalizione della Russia, determinato dalla morte della zarina Elisabetta (1741-1762), e la successione degli zar Pietro III (1762) e Caterina II (1762-1796), favorevoli entrambi alla Prussia, consentì a Federico II di firmare la pace.
Nel primo trattato di Parigi (10 febbraio 1763), la Francia smilitarizzò le colonie indiane e cedette all'Inghilterra Minorca, il Senegal e le colonie americane; la Spagna, che era entrata nel conflitto nel 1762, in cambio delle Filippine e dell'Avana cedette la Florida. Con la stipulazione del trattato di Hubertusburg la Slesia continuò a far parte dello stato prussiano.

La spartizione della Polonia 

Con la guerra dei sette anni, l'Europa si assicurò un periodo di relativa stabilità, sebbene sul piano politico internazionale le mire espansionistiche di Federico II di Prussia e di Caterina II di Russia minacciassero i delicati equilibri raggiunti.
In particolare, l'appetito territoriale di Austria, Russia e Prussia si volse in direzione della Turchia e della Polonia.
Nel 1764 l'alleanza stipulata fra Caterina II e Federico II portò la guerra in Polonia, dove era morto il re Federico Augusto III. Al suo posto fu eletto Augusto Stanislao Poniatowski (1764-1795), che con le sue riforme, soprattutto in campo religioso (pari diritti per le diverse religioni), provocò la rivolta delle fazioni dei nobili avversi al dominio russo.
Nel 1768 la questione si complicò ulteriormente quando l'impero ottomano dichiarò guerra alla Russia. Nelle prime fasi del conflitto la Turchia, appoggiata dalla Francia, fu sconfitta a Cesmè (1770). Nel 1772 la Russia sembrava vicina alla vittoria contro gli ottomani e, apertasi una strada verso il mar Nero, rappresentava un ostacolo per la potenza asburgica. Al fine di sventare il rischio di uno scontro austro-russo, la Prussia distolse i contendenti dai territori ottomani e mise a punto un piano di spartizione della Polonia.

 

La Polonia scompare dalla carta politica dell'Europa 

Col trattato di Pietroburgo (1772), il re Poniatowski cedette alla Russia una parte della Lituania; all'Austria, la Galizia e la città di Leopoli e alla Prussia, la Prussia occidentale. Infine, il conflitto con la Turchia fu risolto dal trattato di Cuciuk Kainargi, che assegnò alla Russia Azov e un diritto di protezione sulla chiesa ortodossa.
Nel 1793 si assistette a una spartizione della Polonia, alla quale non partecipò l'Austria. Approfittando di un conflitto tra Russia e Turchia, nel paese era nato un partito nazionalista che si proponeva il compito di cambiare la costituzione e di far rinascere lo stato dopo la crisi politica nella quale era caduto sotto il Poniatowski.
Nel 1795, dopo una rivoluzione capeggiata da Taddeo Koßciuszko, si riformò l'alleanza austro-russo-prussiana e si ebbe l'ultima spartizione dello stato polacco che scomparve dalla carta politica dell'Europa: alla Russia andò la Volinia, la Podolia e la Curlandia; alla Prussia, Varsavia e all'Austria, la Galizia occidentale.

 

L'Illuminismo

 

I lumi della ragione contro la fede e l'autorità 

L'espansione coloniale, i mutamenti tecnologici, il rinnovamento delle strutture economico-sociali cambiarono notevolmente gli scenari politici europei nei rapporti di forza all'interno di ciascun paese e nella gerarchia tra gli stati. Ma il quadro risulterebbe ancora incompleto se non si valutassero i risvolti che la diffusione di una nuova cultura, con caratteri ben diversi da quelli della mentalità tradizionale e del vecchio ordine sociale, ebbe in questo processo di rinnovamento. Si tratta del pensiero illuminista, che rispecchia la fiducia nei lumi della ragione, considerata il nuovo ed elettivo strumento cui rivolgersi per analizzare la realtà senza dipendere dai princìpi fondati sulla fede e sull'autorità. Sebbene l'Illuminismo abbia avuto sfumature di pensiero e sviluppi molteplici, a seconda dei paesi e degli ambienti culturali nei quali nacque e si sviluppò, tuttavia è possibile evidenziare almeno un aspetto comune: l'esaltazione dello spirito critico, di una mentalità scientifica tramite la quale conoscere e diffondere le verità, oggetto di indagine sperimentale e di argomentazioni postulate e dedotte razionalmente.

 

Le origini dell'Illuminismo 

L'Illuminismo nasce dalla tradizione culturale risalente ai principi della "nuova scienza" da Bacone a Newton, ma si alimenta soprattutto dello sviluppo delle dottrine di pensatori che gravitarono nell'area della cultura inglese e olandese.
In particolar modo, le idee del filosofo inglese Locke, sostenitore di una concezione politica liberale fondata sulla tolleranza in ambito politico e religioso, costituirono lo spunto per una riflessione di più ampia portata.
La nuova cultura si scagliò contro la superstizione, il fanatismo e il potere clericale in nome di una religione "naturale" che escludesse tutte le religioni rivelate (cristianesimo, islamismo, ebraismo ecc.), cariche di aspetti rituali e quindi irrazionali, per sostenere la presenza di un creatore di un universo ordinato razionalmente, così come avevano dimostrato le nuove scoperte scientifiche. Tuttavia anche nell'ambito etico-religioso si raggiunsero posizioni di estremismo professando apertamente l'ateismo o forme di materialismo. Un'altra caratteristica della nuova corrente di pensiero era la fiducia nel progresso dell'umanità e nelle capacità dell'uomo.

 

L'intellettuale cosmopolita 

Lo spirito illuminista finì per produrre atteggiamenti di apertura nei confronti delle culture europee e non, idealizzando la figura dell'intellettuale cosmopolita ("cittadino del mondo"), capace di recepire gli stimoli derivanti da esperienze di viaggio e dalla conoscenza di nuovi paesi. Il nuovo clima culturale si traduceva anche nella volontà di un impegno concreto in campo politico e sociale che spinse a una riflessione storica e alla presa di coscienza di quelle forze che, come vedremo, contribuirono ad abolire l'antico ordine sociale.

Le teorie politiche  

Senza dubbio le dottrine politiche alle quali si ispirarono i pensatori illuministi non furono sempre originali, derivando spesso dalla tradizione filosofica maturata nel XVII secolo.
Tuttavia, esse trovarono applicazione pratica e si arricchirono di sviluppi teorici grazie all'opera di illustri intellettuali, quali Voltaire, Rousseau e Montesquieu.

Voltaire 

Voltaire (1694-1778), filosofo e polemista, si distinse per il suo impegno contro la fede, il pregiudizio e le religioni, in particolare quella cattolica, in nome della tolleranza e di una fede naturale comune a tutti gli uomini dotati di ragione.
Grazie alla sua vena polemica, alla semplicità ed efficacia delle sue idee, Voltaire riscosse notevole seguito. In ambito politico fu uno dei più accaniti sostenitori del cosiddetto dispotismo illuminato, che prevedeva una collaborazione tra intellettuali e monarchia in funzione antifeudale e antieccesiastica. Il successo di quelle idee, realizzate, seppure in maniera non uniforme nell'Europa della seconda metà del XVIII secolo, risultò tuttavia effimero di fronte ai fermenti della rivoluzione. Voltaire, se da un lato veniva incontro alle esigenze della borghesia, dall'altro non riconosceva ugualmente a tutti i sudditi pari diritti politici.

 

L'egualitarismo di Rousseau 

Tale rivendicazione costituì I'obiettivo di un altro illuminista, il ginevrino Rousseau (1712-1778), il quale sviluppò le riflessioni sulla natura e le funzioni del potere politico fino a individuare nella proprietà privata le origini della disuguaglianza tra gli uomini. Inoltre, teorizzando il principio della sovranità popolare, pose le fondamenta del pensiero democratico moderno.
Sulla base di queste idee, Rousseau scrisse il Contratto sociale (1762), nel quale riconosceva la legittimità delle sole leggi volute da tutti ("volontà generale" come garanzia delle libertà individuali). Anticipando i princìpi, che in seguito furono messi in pratica dai rivoluzionari, il filosofo propose una "democrazia diretta" e uno "stato rappresentativo" i cui governanti fossero semplici funzionari del popolo: a differenza dei regimi assoluti e del parlamentarismo inglese, esso non avrebbe escluso nessuna categoria di cittadini.
Il suo principale intento, oltre a quello di intervenire in campo pedagogico (con l'Émile, 1762) e in quello fiscale con scritti riguardanti le leggi sull'eredità e la necessità di imporre le tasse sulla base del reddito, si risolse nella dura opposizione promossa nei confronti dell'ineguaglianza sociale, che egli giudicava dannosa anche per gli equilibri politici.

 

La modernità di Montesquieu 

Un'altra personalità di grande rilievo per il moderno pensiero costituzionalista e per la sociologia fu Montesquieu (1689-1755).
Di origine aristocratica, in aperta polemica con l'assolutismo monarchico, elaborò una teoria costituzionale a sfondo aristocratico che era basata sul principio della divisione dei tre diversi poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario.
Montesquieu contrastava le teorie del dispotismo illuminato, sostenendo che la libertà del cittadino non è garantita di per sé da alcun sistema politico, sia esso dispotico o democratico, bensì da opportuni meccanismi di controllo che hanno il compito di impedire che il potere degeneri in tirannide.

 

L'Encyclopédie  

Uno degli strumenti principali per ]a diffusione delle idee illuministe fu un'opera frutto della collaborazione di più intellettuali: al'Encyclopédie.
L'idea iniziale degli editori era quella di tradurre in francese il Dizionario universale delle arti e delle scienze pubblicato in Inghilterra dal Chambers.
Tuttavia, quando tra il 1745 e il 1746 entrarono nella redazione Diderot e D'Alembert, l'impianto originario fu modificato a favore di una collaborazione di diversi autori scelti tra coloro che davano voce alle idee più avanzate dal punto di vista scientifico. Pur includendo, per prudenza, voci piuttosto tradizionali, l'opera di Diderot e dei suoi collaboratori, tra i quali Voltaire, Montesquieu, d'Holbach, Rousseau, Quesnay, diede ampio spazio ai problemi tecnico-scientifici, affidando alle illustrazioni il compito di mostrare le novità tecnologiche costituite dai nuovi macchinari.
Sicché l'Encyclopédie divenne un formidabile strumento di  rinnovamento culturale che, con l'esaltazione dei risultati raggiunti dal progresso della ragione e dall'uomo (posto al centro dell'universo), diffondeva le idee illuministe con articoli solo apparentemente neutrali.

 

Polemiche e censure durante la stesura dell'opera 

Il primo volume dell'opera, prevista in diciassette tomi di testo e undici di tavole, ai quali se ne aggiunsero altri cinque, venne ultimato nel 1751 scatenando immediatamente la reazione delle forze tradizionaliste, che ne proibirono la pubblicazione. Tuttavia, il lavoro proseguì ininterrottamente, sia pure tra le nuove censure e in mezzo a polemiche nate tra gli stessi autori (alcuni dei quali finirono per abbandonare la redazione, come fece D'Alembert nel 1759), fino a quando nel 1772 l'opera fu conclusa.

 

La diffusione delle idee illuministe 

Oltre all'Encyclopédie, le nuove idee furono propagate attraverso associazioni pubbliche o segrete (come, tanto per fare un esempio, la Massoneria), in salotti dell'aristocrazia e all'interno di caffè frequentati da nobili e da borghesi, ove gli illuministi potevano esprimere liberamente il proprio pensiero.
Molto presto si formò un pubblico di lettori dai confini estremamente vasti, che seguiva con attenzione gli attacchi polemici alla cultura tradizionale affidati ai pamphelet brevi ed efficaci scritti in toni violentemente dissacranti.
Il movimento dell'Illuminismo si diffuse ampiamente anche fuori dai confini dello stato francese e, molto presto, si passò dalla discussione colta alle riforme economico-politiche.
In particolare il nuovo pensiero si diffuse in Germania, in Spagna e persino in Russia, grazie all'opera divulgativa intrapresa da pensatori del calibro di Lessing, Campomanes o Scertató.

 

L'Illuminismo in Italia 

In Italia, operarono intellettuali quali Vico, Muratori, Giannone, Genovesi, Ortes e Galiani, che promossero il dibattito filosofico, politico e sociale all'interno di Accademie e riviste (Accademia dei Georgofili, Accademia dei Pugni e a  "Il Caffè", giornale che venne fondato dai fratelli Verri).
Grande risonanza a livello europeo ebbe anche il testo di Cesare Beccaria, intitolato Dei delitti e delle pene, all'interno del quale l'autore condannava la tortura e la pena di morte.
I trattati di alcuni economisti, infine, fornirono ai sovrani l'ispirazione per promuovere l'attuazione di una serie di riforme nei territori della Toscana, della Lombardia e del regno di Napoli.

 

Il dispotismo illuminato

 

La collaborazione tra "philosophe" e sovrani 

Intorno al 1740-1750 l'Europa conobbe un periodo di generale sviluppo economico e demografico al quale corrispose, da parte dei sovrani, la volontà di creare un adeguato sistema istituzionale all'altezza del progresso economico raggiunto. Il successo delle idee illuministe in campo politico contribuì a definire una collaborazione tra i philosophe e i sovrani, inaugurando l'età del "dispotismo illuminato".
Si aprì, dunque, un'epoca di interventi legislativi e riformatori che miravano a rafforzare lo sviluppo economico di ciascun paese, all'interno del quale i sovrani avrebbero potuto agire creando un apparato amministrativo più efficace, imponendo una maggiore esazione delle tasse e favorendo l'allestimento di potenti eserciti. Per alcuni decenni si credette che il miglior promotore e veicolo del progresso fosse l'assolutismo regio, attraverso il quale le riforme potevano essere attuate dall'alto ottemperando ai principi illuministi che trovavano nella ragione la giustificazione per agire nell'interesse dei sudditi.

 

Le riforme in campo religioso economico e sociale 

Al di là dell'esperienza di ogni singolo paese è possibile individuare alcuni caratteri comuni alle riforme legislative della seconda metà del XVIII secolo.
Un primo aspetto riguarda l'azione promossa dai sovrani illuminati contro la Chiesa, azione condotta attraverso l'attacco alla proprietà terriera ecclesiastica e alle sue istituzioni sanitarie e assistenziali, giudicate insufficienti.
Senza dubbio fu la battaglia contro i gesuiti a colpire maggiormente le coscienze dei contemporanei. La Compagnia fu espulsa dapprima dal Portogallo (1759) e della Spagna (1767), poi dall'Italia e, infine, sciolta definitivamente da papa Clemente XIV (1773).
Un secondo fronte sul quale agì il riformismo fu quello economico. Attraverso i diboscamenti, la costruzione di strade e i tentativi di incrementare il lavoro salariato, i sovrani europei cercarono di aumentare la ricchezza interna di ciascuna nazione. Questo favorì l'accrescimento dell'assolutismo statale che rafforzò il proprio apparato abolendo tutti i tribunali che non dipendevano dallo stato, aumentando le tasse e la riscossione dei tributi.
Numerosi interventi furono attuati nei confronti della società civile favorendo una maggiore libertà di stampa e una più ampia alfabetizzazione. Tuttavia, soprattutto in Russia e in Prussia, come vedremo, i risultati del riformismo furono piuttosto limitati: non vennero infatti indirizzati verso i ceti privilegiati come l'aristocrazia, che continuava a costituire il serbatoio dell'amministrazione dell'esercito, e della quale, anzi, si consolidarono prestigio e potere.

 

Gli interventi riformatori in Europa  

Il movimento riformatore coinvolse tutta l'Europa, dal Baltico alla penisola iberica, riscuotendo ovunque risultati (sebbene più o meno duraturi).
In Svezia, Gustavo III (1771-1792) tentò di esautorare il potere della nobiltà con un colpo di stato (1792) subito fallito.
In Danimarca, Cristiano VII (1766-1808), coadiuvato dall'opera del ministro Federico Struensee, ridusse i privilegi dell'aristocrazia, abolì la servitù della gleba e procedette al riordino del sistema fiscale. In Portogallo, l'azione del sovrano Giuseppe I (1750-1777) fu rivolta contro la Chiesa. Attraverso l'opera del marchese di Pombal, che rivestiva la carica di ministro, furono cacciati dal paese i gesuiti.
In Spagna, come si è visto, le riforme di Giulio Alberoni, volte a risanare le finanze e l'esercito, proseguirono sotto il regno di Carlo III di Borbone (1759-1788), già re di Napoli (1734-1759). Fervido sostenitore della lotta contro il feudalesimo e i privilegi ecclesiastici, il re proseguì nell'opera di rafforzamento dell'economia del paese, autorizzando il libero commercio del grano. Tuttavia, fu solo la Catalogna a trarre autentici benefici dalla nuova politica economica liberista, che peraltro si risolse nell'incremento dell'industria manifatturiera.

 

Il riformismo in Italia 

In Italia, il riformismo di Carlo di Borbone interessò i regni di Napoli e di Sicilia. Nel suo programma di rinnovamento il re fu affiancato dal professore dell'Università di Pisa Bernardo Tanucci. Nel 1741 fu concluso con la santa sede un concordato grazie al quale si ridussero le immunità ecclesiastiche e furono aboliti sia il diritto d'asilo sia molti ordini monastici. Infine, furono rafforzate le amministrazioni comunali a danno della nobiltà feudale.
Quando nel 1759 Carlo di Borbone assunse la corona spagnola, affidando la reggenza del regno di Napoli al Tanucci, iniziò un intenso periodo di riforme che proseguì anche quando il nuovo re, Ferdinando IV, licenziò il ministro (1776).
In Sicilia le riforme furono attuate dal viceré, il marchese Domenico Caracciolo, deciso ad abbattere ogni privilegio feudale. Nel l788, come ministro di Ferdinando IV, si rifiutò di inviare alla santa sede il cavallo bianco (chinea) simbolo della sottomissione del re di Sicilia al papa, vincolo risalente all'epoca normanna.
Nel ducato di Parma e Piacenza, anch'esso retto dai Borboni - dapprima con Filippo di Spagna (1749-1765), poi, con Ferdinando - le idee illuministe trovarono un terreno particolarmente fertile durante la reggenza del ministro francese Guglielmo Du Tillot, responsabile del governo per conto del duca Ferdinando (1765-1803), che era ancora un adolescente.
In Lombardia e in Toscana il riformismo fu affidato alla politica degli Asburgo; in Lombardia tra il 1749 e il 1759 si compilò un censimento generale, in base a nuove misurazioni del territorio, per il riordino del sistema fiscale e delle amministrazioni locali. Promossa durante il governo dei ministri Carlo di Firmian e Cristiano Beltrame, e sotto la supervisione del toscano Pompeo Neri, l'iniziativa va sotto il nome di catasto teresiano. L'opera di riforma proseguì con l'abolizione delle corporazioni, dell'Inquisizione e dell'Indice dei libri proibiti dalla Chiesa.
Furono licenziati gli insegnanti gesuiti e abolito il diritto d'asilo per i malfattori nei luoghi di culto.

 

Il codice leopoldino 

In Toscana, le riforme furono promosse dal secondogenito di Maria Teresa, Pietro Leopoldo (1765-l730), succeduto al granduca e imperatore Francesco I di Lorena. Avvalendosi della collaborazione di Pompeo Neri, del giurista Giulio Rucellai e dell'economista Angelo Maria Tavanti, Leopoldo attuò modifiche in campo amministrativo: rese pubblico il bilancio statale e riordinò le amministrazioni locali e il sistema fiscale.
Sotto il profilo legislativo, le varie leggi furono raccolte in un corpo omogeneo, il cosiddetto codice leopoldino, mentre si procedette all'abolizione della pena di morte e della tortura. La nuova legislazione riguardante il patrimonio apportò notevoli modifiche inerenti l'abolizione del maggiorascato (eredità spettante, tra parenti di eguale grado, al maggiore d'età) e del fidecommisso (impegno a conservare intatto il patrimonio avuto in eredità), affermando l'uguaglianza dei figli nella successione patrilineare.
In campo economico, furono sciolte le corporazioni favorendo la creazione di una classe di piccoli proprietari agricoli, grazie anche all'opera di bonifica di nuove aree agricole nella Valdichiana e nella Maremma. Sul fronte della lotta contro la Chiesa, si abolirono i diritti di manomorta (beni della Chiesa non cedibili) e il tribunale dell'Inquisizione (1782). Le critiche mosse alla Chiesa romana furono confermate quando, nel 1786, il sinodo (adunanza dei sacerdoti) diocesano di Pistoia mise in discussione la superiorità del papa sul concilio.
Tuttavia, l'anno successivo il sinodo nazionale dei vescovi, riunitosi a Firenze, prese le distanze da quello pistoiese. Quando poi, nel 1790, Leopoldo abbandonò la Toscana per assumere il titolo di imperatore d'Austria a seguito della morte del fratello Giuseppe II, le riforme ecclesiastiche ebbero termine.

 

L'immobilismo di casa Savoia e dello stato pontificio 

Nella regione del Piemonte Carlo Emanuele III e Vittorio Amedeo III ereditarono uno stato solido e proseguirono nella linea di un assolutismo monarchico rafforzando sia l'esercito sia l'amministrazione dello stato. Nonostante il riformismo attuato da casa Savoia, il paese rimase chiuso a qualsiasi fermento illuminista, come del resto accadde nello stato pontificio, ove le timide riforme intraprese furono da ascriversi alla specifica personalità di alcuni papi come per esempio Benedetto XIV - che introdusse il libero commercio - e soprattutto Pio VI, che promosse la bonifica della pianura pontina e l'adeguamento del catasto fondiario.

 

Federico II di Prussia  

In Prussia, Federico II partecipò in modo assai superficiale allo spirito che animava i riformatori illuminati.
Al di là dell'aspetto "esteriore" della sua politica di sovrano amante della cultura e del mecenatismo - fu il protettore di intellettuali come Voltaire e d'Alembert, che ispirarono molte delle sue azioni politiche - le riforme intraprese risultarono piuttosto limitate.
Nel 1763 introdusse nel paese l'obbligo dell'istruzione elementare e si preoccupò, inoltre, di modernizzare l'esercito e la legislazione soprattutto per accrescere la forza dello stato.
Durante il suo regno la Prussia conobbe un notevole sviluppo in campo economico grazie all'incremento della produzione industriale della carta, del settore tessile e del vetro. Alle leggi spesso contraddittorie e confuse del diritto civile vigente fu sostituito il Corpus Federicianum, ispirato al diritto romano.
A Berlino, infine, fu riaperta l'Accademia delle Scienze, chiusa da Federico Guglielmo, e la reggia di Sans Souci divenne un luogo di ritrovo e di asilo per gli intellettuali dell'Europa intera.
Tuttavia il carattere illusorio del riformismo di Federico di Prussia appare evidente quando si rifletta sul fatto che la condizione di servitù dei contadini rimase intatta. Sebbene fossero stati aboliti i tribunali feudali, i privilegi degli Junker permasero a lungo inalterati.

 

Caterina II di Russia  

La via delle riforme fu intrapresa anche da Caterina II di Russia (1762-1796), la colta principessa tedesca moglie dello zar Pietro III, ucciso da una congiura di palazzo. Pur fregiandosi dell'amicizia di Diderot, di Voltaire e di D'Alembert, il riformismo che caratterizzava la zarina non colpì affatto la nobiltà che, come accadeva in Prussia, costituiva l'unico sostegno della monarchia. Anzi, i privilegi di quella classe furono confermati con la Carta del 1785.
Nel complesso, la stessa commissione riunita nel 1767 per realizzare il rinnovamento legislativo del paese, pur procedendo sulla base delle Istruzioni (redatte dalla stessa Caterina, che vi illustrava i princìpi della cultura illuminista), non pervenne a nessun sostanziale cambiamento, essendosi arenata sul problema dell'abolizione della servitù della gleba. Ogni volontà di rinnovamento fu poi definitivamente abbandonata dopo la violenta rivolta di contadini e di cosacchi, capeggiati da Pugacëv (1773-1775), che sconvolse le regioni orientali e meridionali della Russia.

 

Maria Teresa d'Austria e Giuseppe II  

Anche i domini degli Asburgo furono terreno per numerose riforme sociali. L'imperatrice Maria Teresa (1740-1780), avvalendosi dell'opera del ministro Kaunitz, abbatté i privilegi dei nobili e del clero e riformò la pubblica amministrazione, centralizzandola, così da arginare le spinte disgregatrici insite in un impero comprendente paesi tra loro profondamente diversi. Il figlio Giuseppe II (1780-1790), che aveva già collaborato nella gestione del governo a fianco della madre, ne continuò l'operato.
In un primo tempo intraprese una serie di provvedimenti contro i signori feudali, abolendo la servitù della gleba e le corvée (prestazioni di lavoro non retribuite, di origine feudale).
In seguito rese possibile alla classe medioborghese l'accesso alla carriera militare ed eliminò i privilegi fiscali di alcune classi sociali, favorendo una più equa distribuzione dei tributi. In campo religioso, con la promulgazione dell'editto di tolleranza concesse la libertà di culto ai protestanti e agli ortodossi che vivevano nell'impero.

 

Il "giuseppismo" 

In particolar modo il sovrano si oppose alla Chiesa cattolica applicando i principi del giurisdizionalismo, che sotto il suo regno prese il nome di "giuseppismo" o "febronianesimo" (termine derivato dallo pseudonimo di Giustino Febronio con il quale, nel corso del 1763, il vescovo Hontheim aveva pubblicato un'opera nella quale criticava il pontefice).
Ispirandosi a essa, dunque, Giuseppe II dichiarò che l'autorità dello stato non era vincolata dal diritto canonico e, senza attendere il parere della santa sede, attuò una serie di riforme nella vita ecclesiastica (l'uso del tedesco nella liturgia, l'istituzione di seminari statali al posto di quelli vescovili per la formazione dei futuri sacerdoti, l'esproprio dei beni della Chiesa).
Nonostante l'intervento di Pio VI, l'imperatore continuò nella sua politica riformista, abolendo l'obbligo del celibato per i sacerdoti. Tuttavia, di fronte a tali provvedimenti antifeudali e antiecclesiastici insorsero soprattutto l'Ungheria e i Paesi Bassi, in aperta rivolta contro l'imperatore.
Il suo disegno riformatore, nonostante i parziali risultati, si chiuse con un fallimento che spinse il successore, Leopoldo II, ad abbandonare tale politica.

 

Francia e Inghilterra  

Nonostante fosse stato il paese degli enciclopedisti, la Francia continuò a vivere in un clima di censura, addirittura accentuatosi verso gli anni Settanta. Fallirono tutti i tentativi di eliminare i privilegi della nobiltà e del clero, che dimostrarono ancora una volta il loro potere decretando, nel 1776, il licenziamento dalla carica di ministro delle finanze di Robert Turgot, promotore di una politica di liberismo economico (il cosiddetto laissez faire).
In Inghilterra, il dibattito riguardo le riforme ebbe invece seguito minore. Il paese, infatti, si mostrava soddisfatto dei cambiamenti seguiti alla rivoluzione del 1688. Non esistevano più privilegi corporativi da abbattere né una proprietà ecclesiastica da inglobare nei possedimenti dello stato.
La libertà di commercio con l'estero vigeva ormai da tempo, a eccezione delle colonie americane per le quali si applicava l'obbligo di commerciare esclusivamente con la madre patria. Fu proprio dai territori d'oltreoceano che venne inferto un grave colpo alla monarchia costituzionale inglese, lesa soprattutto nei suoi interessi economici.

 

La rivoluzione industriale

 

Le macchine sostituiscono la fatica umana 

Nella seconda metà del XVIII secolo si verificò una serie di cambiamenti significativi identificabili con la rivoluzione industriale, che rappresenta l'evento economico più importante dell'era contemporanea. Numerose importanti innovazioni tecnologiche originarono un nuovo modo di produzione e, allo stesso tempo, comportarono sostanziali cambiamenti nell'ordine sociale, nel modo di pensare e di agire dell'uomo, nonché notevoli incrementi nel reddito pro capite. Più precisamente, il periodo è caratterizzato dal progressivo passaggio del lavoro svolto a domicilio o in piccole botteghe al lavoro in fabbrica, con una sostanziale divisione del lavoro; si verifica quindi la sostituzione del lavoro delle macchine all'abilità e alla fatica dell'uomo, la sostituzione di fonti inanimate di energia a quelle animali, nonché l'uso di nuove e più abbondanti materie prime.

 

Perché si parla di rivoluzione industriale 

Tra il XV e il XVIII secolo, nel mondo gran parte degli uomini viveva prevalentemente dei prodotti dell'agricoltura; la qualità della vita dipendeva strettamente da quella dei raccolti.
I comuni fattori climatici, dunque, spiegano il fatto che aree geografiche tra loro distanti ma a economia rurale, come l'Europa e la Cina, siano state interessate dagli stessi fenomeni: carestie, contagi, rivolte, guerre ecc. L'industria liberò in parte la produzione economica da questi fattori, innescando nuovi meccanismi che modificarono la politica economica di intere nazioni.
Si parla, pertanto, di una rivoluzione industriale. Questa compì i suoi primi passi in Inghilterra tra il 1780 e il 1830, ma lentamente si diffuse anche all'estero, determinando le vicende di tutto il XIX secolo fino al giorno d'oggi. Era lo sbocco di uno sviluppo del modo di produzione capitalistico iniziato ben prima del XVIII secolo.

 

I progressi nell'agricoltura inglese 

La stessa nascita dell'industria, nell'Inghilterra della seconda metà del XVIII secolo, non si spiegherebbe senza i cambiamenti subiti dall'agricoltura fin dal Cinquecento, quando, come in molte parti d'Europa, ma con maggiore incisività, nelle campagne si misero in discussione i rapporti di proprietà, l'organizzazione del lavoro e i metodi stessi di coltivazione propri del passato e d'origine feudale.
Fu allora che si ridussero usi civici, terreni comunali o in mano ai signori residenti nelle città e latifondi esclusi dal libero commercio perché appartenenti alla Chiesa: da queste pratiche, infatti, dipendeva un sistema agrario ormai poco produttivo. In Inghilterra, la nuova classe agricola si pose come obiettivi primari l'intensificazione delle colture, il maggior rendimento dei suoli e l'estensione dei prati, per il crescente quantitativo di foraggi richiesto dall'aumentato allevamento di bestiame.

 

Gli yeomen e le enclosures 

Nella fase del cambiamento ebbero un ruolo fondamentale gli yeomen, i proprietari per titolo feudale, di fatto liberi da prestazioni, che tra il Sei e il Settecento sostennero il peso dell'opera iniziale di svecchiamento delle strutture agricole inglesi. Anche se in via d'estinzione, a metà del XVIII secolo, essi resero possibile per l'agricoltura del loro paese, caso unico in quegli anni, il passaggio dal sistema feudale a un'organizzazione del lavoro, della proprietà e dei rapporti produttivi quasi completamente capitalistica.
Anche antiche pratiche, interpretate in senso moderno, contribuirono all'affermazione, nell'agricoltura, del modo capitalistico di produzione, come dimostra il cosiddetto movimento delle enclosure (recinzioni), le origini del quale si perdevano appunto lontano nel tempo, nei secoli XlII-XIV, ma che solo dopo il 1750-1760 conobbero un fortissimo aumento.
L'esistenza, nel passato, di estese proprietà comuni nelle quali sarebbe stato difficile o impossibile introdurre miglioramenti (bonifiche, rotazioni di colture) era stata superata da questa pratica sorta, all'inizio, sotto i Tudor e gli Stuart, per favorire l'allevamento delle pecore e la produzione laniera.
Sempre più spesso, vecchi signori lungimiranti e uomini d'affari, mercanti e funzionari dello Stato arricchiti, attraverso acquisti o vere e proprie usurpazioni rese poi legittime con qualche decreto, investirono i loro capitali per creare delle aziende, dissodando pascoli e terre incolte, rendendole produttive e sperimentando nuove tecniche agrarie. Alla concentrazione e redistribuzione delle proprietà parteciparono gli stessi yeomen, diventando grandi affittuari capitalistici grazie alla vendita dei terreni.
Il movimento delle enclosure, comunque, stabile fino alla metà del XVIII secolo, esplose letteralmente negli ultimi decenni del secolo: gli Enclosure Acts, dal 1700 al 1760, furono circa duecento, mentre, nel cinquantennio successivo, il loro numero si decuplicò, interessando fino a 320000 acri.

 

Le conseguenze della nuova organizzazione agricola 

Un così massiccio rimescolamento di proprietà e il nuovo modo di gestirle ebbe naturalmente un alto prezzo da pagare. Diminuì infatti il numero di addetti all'agricoltura: molti contadini poveri erano sopravvissuti fino ad allora unendo alle loro già scarse risorse quelle dei terreni comunali ora recintati e scomparsi. Non pochi yeomen, a loro volta, abbandonarono le campagne, trasferendosi con questa massa di rurali sradicati nelle città. Qui, però, la loro sorte fu senz'altro meno triste che per gli altri, perché essi spesso impiegarono i capitali nella nascente attività manifatturiera. Il progresso agricolo inglese fu dunque uno dei principali fattori d'industrializzazione: garantì all'Inghilterra, almeno all'inizio, l'indispensabile autonomia alimentare.
La produttività agricola raggiunta copriva il fabbisogno di una popolazione urbana e industriale in continuo aumento e i contadini emigrati nelle città trovarono posto nel nuovo mercato del lavoro, formando la futura classe operaia. Il problema della produttività agricola, comunque, non era esclusivo dell'Inghilterra e si ricollegava alle esigenze poste da un fenomeno di portata europea e ben presto mondiale verificatosi intorno alla metà del Settecento.

 

La ripresa demografica 

Fu infatti intorno alla metà del Settecento che in tutta Europa la popolazione crebbe in modo inarresstabile, specie in Ungheria (addirittura del 180%), in Germania (dove in Pomerania e nella Prussia orientale raddoppiò) e in Inghilterra. Qui, tra l'inizio e la fine del secolo, si ebbe un aumento di ben 4 milioni di abitanti e il paese, con i suoi 9 milioni complessivi, risultò tra quelli tradizionalmente più popolosi come la Francia, a sua volta passata da 19 a 25 milioni. Tranne l'Olanda, comunque, anche il resto dell'Europa era allineato su questi valori: la Norvegia aveva visto un aumento del 55%; la Svezia del 66%; l'Austria del 52%; l'Italia e il Belgio del 50% e la Spagna del 43%. Ora, l'aumento di popolazione non era solo il risultato di una crescita costante del numero delle nascite, bensì di una minore mortalità e di una maggior distribuzione della popolazione per classi d'età, senza, però, prolungamento della vita media.
A ciò contribuirono i numerosi progressi della medicina e il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e alimentari della classe subalterna, dovuto al diffondersi di alcune nuove colture come il mais e la patata.
Certamente tutti questi fattori insieme giocarono un ruolo determinante, ma isolarne uno è eccessivo.
La ripresa demografica, comunque, pur variando d'intensità, non venne mai interrotta e continuò fino ai nostri giorni. Diversi furono anche gli effetti sulla struttura economica e sociale dei paesi dove si verificò, se è vero che solo in alcuni facilitò in seguito l'avvio del processo d'industrializzazione.

 

L'Inghilterra all'avanguardia 

Del perché le trasformazioni che determinarono la rivoluzione industriale ebbero inizialmente origine in Inghilterra si è già detto; ora ci occuperemo di vederne più da vicino le cause e le modalità.
In primo luogo l'Inghilterra già a metà del XVII secolo aveva una tecnica industriale avanzata rispetto a quella degli altri paesi, in grado di conferire all'impero britannico un grande vantaggio concorrenziale; esso infatti sperimentava importanti progressi e cambiamenti che gli consentirono di incrementare il proprio sviluppo e la propria supremazia sui paesi rivali.
L'Inghilterra sfidò la Spagna costruendosi un dominio nel continente americano, e la colonizzazione del Nuovo Mondo fu decisiva nel successivo sviluppo economico inglese, giacché in America le risorse erano abbondanti mentre la forza lavoro era scarsa. Ciò favorì l'emigrazione verso le nuove terre di oltre mezzo milione di inglesi, i quali producevano un'ampia gamma di prodotti coloniali per la madrepatria; questo portò all'espansione del commercio interno e internazionale, favorendo lo sviluppo commerciale di città come Londra e di porti come Bristol e Liverpool.

 

La meccanizzazione e la produttività 

La produttività globale crebbe più rapidamente della popolazione: i salari aumentarono attorno al 35% e, nonostante l'incremento demografico, anche il reddito reale pro capite aumentò. Sorsero le società per azioni (S.p.a.), le quali, accanto alla Banca d'Inghilterra fondata nel 1694, favorirono la mobilità dei capitali e la creazione dei mercati dei titoli e delle cambiali. Fu emanata la prima legge sui brevetti che proteggeva i diritti sulle invenzioni e la proprietà privata delle conoscenze, incoraggiando quindi le innovazioni. Infine, l'inclusione dei diritti di proprietà nel diritto comune creò i presupposti istituzionali per dare al sistema giudiziario inglese la capacità di proteggere e incoraggiare le attività produttive.
Lo sviluppo della meccanizzazione fu incentivato da vari fattori: la pressione della domanda sui modi di produzione che suscitarono l'adozione di nuove tecniche; la creazione di un nuovo convertitore di energia, la macchina a vapore; lo sfruttamento sempre più intenso di un combustibile minerale particolarmente abbondante in Inghilterra, il carbone, la cui industria in rapida ascesa era connessa al progressivo aumento del prezzo della legna, dovuto al continuo sfruttamento delle foreste.

 

Le macchine e l'organizzazione del lavoro 

La combinazione vapore-carbone come energia inanimata fu decisiva, in quanto la macchina a vapore, a differenza degli operai, era infaticabile, consumava un combustibile minerale e, dato il suo costo di utilizzo relativamente basso, favoriva il rapido sviluppo e la diffusione dell'industrializzazione. Le nuove macchine e le nuove tecniche portarono incrementi nella produttività, oltre a una marcata divisione tecnica del lavoro, ovvero la separazione delle mansioni che conferiva a ogni lavoratore un compito preciso nel corso del processo produttivo.
Accanto a questi vi è un altro fattore, quello organizzativo: il sistema di fabbrica consentì di produrre una maggiore quantità di merci più a buon mercato e per le quali la domanda estera era più elastica. Infatti, tale domanda non richiedeva prodotti di lusso, né costosi né molto rifiniti, e ciò favorì l'incremento delle esportazioni.
D'altra parte, ciò comportò per l'imprenditore dell'epoca un certo distacco dalla produzione, nel senso che egli diventò più propriamente un organizzatore della produzione, acquistando i servizi del lavoro e del capitale, per poi combinarli in modo efficiente onde ottenere un dato prodotto.

 

Verso la produzione di massa 

Si verificò in tal modo un orientamento verso la produzione di massa per il mercato, più che verso la produzione su commissione dei clienti (come avveniva in passato), giacché le pressioni della domanda spingevano più alla standardizzazione che alla differenziazione, e veniva valutata maggiormente la quantità che non la qualità dei prodotti. Dapprima, il principale stimolo alla rivoluzione industriale fu lo sviluppo del consumo inglese di lana grezza, che tra il 1740 e il 1770 aumentò di circa il 40%. L'industria laniera si sviluppò anzitutto grazie alle favorevoli condizioni di produzione, poiché l'Inghilterra aveva abbondante lana grezza e la manifattura rurale seppe sfruttare al massimo questa risorsa, adattando il suo prodotto alle variazioni della domanda.
Vi furono altri importanti fattori che facilitarono il progresso industriale inglese: l'industria era immune dalle perturbazioni e dalle distruzioni provocate dalle guerre (che invece erano frequenti nel resto del continente), aveva un significativo afflusso di artigiani specializzati stranieri, poteva contare su uno sviluppato trasporto marittimo che le consentiva di raggiungere anche i mercati più lontani, non esistevano barriere doganali interne al paese, il potere d'acquisto e il tenore di vita degli inglesi erano più elevati che altrove, aveva una popolazione in aumento.

 

Le innovazioni nell'industria tessile inglese 

L'inizio vero e proprio della rivoluzione industriale si ebbe però con la trasformazione delle tecniche di filatura e di tessitura di stoffe a buon mercato, e queste innovazioni interessarono dapprima la manifattura del cotone, e non quella della lana, perché tecnologicamente il cotone si prestava meglio alla meccanizzazione. Attorno al 1760 l'Inghilterra consumava due milioni di libbre di cotone, che veniva sottoposto a una lavorazione di tipo artigianale.Nel 1785, grazie al crescente utilizzo di macchine per pulire le fibre, il consumo di cotone era salito a ventidue milioni di libbre, diventando così la seconda industria del paese dopo quella laniera. Nel cinquantennio successivo, la lavorazione del cotone mostrò un imponente sviluppo: la sua lavorazione veniva eseguita quasi interamente in fabbrica, il suo consumo ammontava a 366 milioni di libbre, la quota destinata all'esportazione superava di un terzo quella destinata al consumo interno ed era diventata la principale industria del regno.

 

Le esportazioni finanziano lo sviluppo 

 Grazie ai guadagni derivanti dal commercio di esportazione, l'Inghilterra poté contare su un'accumulazione di capitali maggiore di qualsiasi altro paese europeo (eccetto l'Olanda). Tale accumulazione consentì di applicare saggi di interesse più bassi, indispensabili per poter avviare il finanziamento  dello sviluppo e la prosperità dell'industria: infatti, la riduzione dei saggi di interesse, ovvero la diminuzione del costo del denaro che le imprese prendono a prestito dalle aziende di credito, rende i cambiamenti tecnici meno costosi e quindi più proficui.
In quegli anni la struttura finanziaria inglese era molto avanzata, anche se il credito che forniva era sostanzialmente di breve periodo, e quindi idoneo alla copertura delle transazioni commerciali. D'altra parte, l'ammontare del capitale fisso (ossia i beni durevoli delle imprese che possono essere impiegati per più cicli produttivi, per esempio gli impianti e i macchinari) era relativamente basso. L'ammontare del capitale fisso crebbe solo quando la tecnologia avanzata richiese enormi erogazioni di denaro. Per questo motivo, divenne particolarmente necessario il credito bancario, cosicché l'Inghilterra elevò il prodotto pro capite a un livello sufficiente a consentire un maggiore risparmio. Questo processo spiega lo sviluppo inglese, che non contò sul trasferimento di risorse dall'agricoltura alla manifattura: mentre generalmente l'aumento della produttività agricola produce il risparmio necessario a finanziare l'espansione industriale, tale processo non si verificò in Inghilterra, dove i progressi dell'attività agricola in quegli anni furono di modesta entità, e contribuirono al progredire dell'economia nazionale solamente a partire dal 1815.

 

Le origini dell'economia politica

 

L'agricoltura, come è già stato visto in precendenza, ebbe un ruolo decisivo nell'ambito dello sviluppo industriale dell'Inghilterra, riuscendo a soddisfare i bisogni posti dall'aumento di popolazione registrato nel Settecento.
Inoltre, la scuola di pensiero economico che in quel periodo affermava usi di tipo liberistico (abolizione del sistema feudale, libertà di scambi, iniziativa economica privata), come alternativa al mercantilismo precedente, aveva al centro della propria riflessione l'agricoltura.
I teorici francesi di questa teoria economica, chiamata fisiocrazia (François Quesnay, 1694-1774, autore del Tableau économique), avevano indicato in essa il fondamento dell'economia di un paese: i capitali andavano investiti nella terra, abolendo i vincoli del sistema feudale. Il successo di questi principi durante il Settecento contribuì all'affermazione del movimento illuminista, soprattutto perché non rimase limitato a una ristretta cerchia di intellettuali, ma si diffuse attraverso società e accademie agrarie, dove tecnici e proprietari si riunivano per studiare le migliori soluzioni possibili ai problemi agrari.
Il principale prodotto del pensiero economico settecentesco, però, fu l'opera di  Adam Smith, economista e filosofo scozzese, intitolata Ricerca sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni (1776). Con lui nasceva una nuova scienza: l'economia politica.

 

I cambiamenti tecnologici

 

Le nuove macchine 

Nello sviluppo d'un moderno sistema industriale, caratterizzato dall'aumentata produttività agricola, dall'espansione dei mercati e dalla conseguente accumulazione di capitali, l'introduzione di nuovi macchinari ebbe un ruolo decisivo. Nel settore tessile molto utili risultarono gli studi che James Watt (1736-1819) effettuò sul vapore come forza motrice, cioè in grado di produrre movimento meccanico.
Nel 1733 John Kay aveva già inventato la spoletta volante che riduceva la manualità dell'artigiano nel tessere la lana. Altri macchinari, quali le varie versioni di filatrici (spinning Jenny, 1764; frame, 1768; mule, 1779; cotton gin, 1794), avevano rivoluzionato il settore della filatura del cotone. Le novità tecnologiche finirono per investire pressoché tutti i settori industriali. In quello chimico, per esempio, vennero introdotti nuovi procedimenti di candeggiatura, di tintoria e di stampa; i materiali organici, impuri, vennero sostituiti con sostanze artificiali relativamente pure.
In campo siderurgico, le vecchie fonderie furono trasformate in altiforni, dove, intorno al 1780, il carbon fossile cominciò a prendere il posto dei carboni vegetali, permettendo la fusione dell'acciaio (secondo una tecnica inventata da Hunstman nel 1742) e una maggiore produzione di ghisa, di materiali ferrosi e, dal 1784, di laminati, base indispensabile per la moderna metallurgia.
Nel XVIII secolo la tecnologia contribuì a risolvere i problemi dell'industria connessi alla costruzione di strumenti meccanici in grado di sostituire il lavoro manuale, legati allo sfruttamento dell'energia e connessi alle lavorazioni chimiche e metallurgiche.

 

Le scoperte scientifiche 

Molte invenzioni del XVIII secolo, utilizzate dall'industria, rappresentarono il risultato di ricerche condotte sin dal XVII secolo, dopo i successi dell'inglese Isaac Newton (1642-1727), autore della teoria della gravitazione universale, e del tedesco Goffredo Leibnitz, scopritore del calcolo differenziale.
In alcuni paesi, come la Francia, dove l'industria era sotto il controllo dell'amministrazione pubblica, gli scienziati venivano inseriti in uffici statali; in generale i governi compresero l'importanza delle Accademie scientifiche, favorendone l'istituzione e i programmi anche per motivi di prestigio.
La febbrile attività di circoli e accademie (la londinese Royal Society, la Lunar Society di Birmingham, l'Académie des Sciences di Parigi) segnò l'inizio di una nuova era, definita dei lumi, che, esaltando l'idea di progresso, incise profondamente anche sulla gestione e sulle metodiche utilizzate nelle fabbriche.

 

Dall'artigiano all'operaio salariato 

Tra gli effetti della rivoluzione industriale vi fu un nuovo tipo di divisione del lavoro, determinato dalle innovazioni tecniche introdotte. Anche se a lungo nella stessa Inghilterra in molti settori industriali mancò la concentrazione del lavoro nel luogo fisico della fabbrica, sopravvivendo antiche forme di "lavoro sparso", prevalentemente a domicilio, tuttavia il nuovo modo di produzione creò una struttura sociale che tendeva a ridurre la forza lavoro, gli operai, a mera merce.
Il nuovo sistema (factory system) e l'impiego delle macchine modificarono radicalmente la natura del rapporto tra l'uomo e il lavoro, tra gli strumenti e i prodotti che ne derivavano.
Mentre, infatti, nelle antiche botteghe artigianali era l'operaio a servirsi del suo strumento, in fabbrica la macchina asserviva l'operaio, l'abilità del quale scompariva o perdeva valore. Tra gli squilibri di un tale sistema produttivo vi furono, all'inizio, gli orari di lavoro eccessivi (dalle dodici alle sedici ore giornaliere) e i salari che garantivano solo l'indispensabile per la sopravvivenza dei lavoratori, inclusi donne e bambini.
Un'intera classe, il proletariato, era completamente subordinata a un'altra classe, quella padronale, e le leggi varate tra il 1799 e il 1800 (Combination Acts) impedivano ogni forma di aggregazione che per fine avesse rivendicazioni economiche o politiche.

 

La nascita della classe operaia 

Uno dei problemi affrontati dalla storiografia ottocentesca e da quella odierna è quello che riguarda l'origine sociale della classe degli operai salariati.
Tre sono le ipotesi prevalenti: secondo la prima sarebbe la macchina la causa della proletarizzazione. Ma è solo a partire dal 1820-1830 che i bassi costi di produzione dell'industria tessile costrinsero i piccoli artigiani a chiudere le loro attività per ingrossare le fila della classe operaia.
La seconda ipotesi ci riporta al problema delle recinzioni e della produttività agricola per cui molti contadini avrebbero abbandonato le campagne per riversarsi in città.
Infine, la terza spiegazione, che investe il tema della crescita demografica, appare la più credibile se si collega alla situazione di esubero creatasi nelle campagne.
Un ulteriore passo avanti si compie quando viene legato il problema dell'origine del proletariato a quello delle condizioni di vita degli operai.
La questione investe soprattutto l'aspetto sociale e culturale del lavoro quando si rifletta sui profondi mutamenti che l'uso delle macchine impresse sulla psicologia e sul fisico del lavoratore. Il tempo era scandito dall'orologio aziendale e la politica dei bassi salari intrapresa dagli industriali costringeva gli operai a lavorare continuamente in un ambiente spesso malsano per guadagnare uno stipendio settimanale sufficiente.
A lungo andare le contraddizioni del sistema emersero evidenti.

 

Le associazioni di mestiere  

Già sul finire del Settecento le associazioni di mestiere conobbero un nuovo sviluppo per impedire ai capitalisti industriali di annullare il corpo di leggi che fin dal Medioevo proteggeva il lavoro in Inghilterra. Le norme corporative del passato, tuttavia, essendo state abolite o cadute in disuso, non potevano tutelare gli interessi degli operai salariati, soggetti alla precarietà dell'occupaz:ione, colpita spesso dalle periodiche crisi industriali.
Le difficili condizioni di vita portarono alle prime agitazioni operaie, che, soprattutto in un primo tempo, ebbero un carattere disordinato e caotico.

 

Il luddismo 

La rivolta promossa da John Ludd invitava a distruggere tutte le nuove macchine industriali. Infatti, i lavoratori inglesi avevano individuato nella meccanizzazione del lavoro la causa dello sfruttamento a cui erano sottoposti.
Tra il 1811 e il 1812 il movimento luddista si estese dal Nottinghamshire alle altre zone industriali dell'Inghilterra, finché il parlamento, accogliendo le richieste degli industriali, varò una serie di leggi molto severe contro i capi di questa atipica rivolta, riuscendo a porvi fine.

La nascita del movimento operaio 

In realtà, sebbene il progetto di eliminare i mali dell'industrializzazione colpendo le macchine fosse politicamente debole, questa prima forma di lotta proletaria aveva in sé, seppure in modo embrionale, quel complesso di rivendicazioni destinate in breve tempo a venire alla luce col moderno movimento operaio (servizi sociali, adeguamento dei salari al carovita, questione femminile, lotta alla disoccupazione, tutela del lavoro minorile, diritto di sindacato e di sciopero).
In pieno Ottocento, studiosi quali per esempio Owen, Ure e Fielden contribuirono al dibattito sociale con le loro riflessioni sul sistema della fabbrica.
Ma è solo con Marx ed Engels, autore nel 1845 dello scritto Condizioni della classe operaia in Inghilterra, che tra il proletariato maturò una coscienza di classe capace di importanti rivendicazioni politiche e sociali.

 

La nascita degli Stati Uniti

 

Il conflitto tra colonie britanniche e francesi

Uno dei teatri della guerra dei sette anni fu rappresentato dalle colonie americane di Francia e Inghilterra. La forte espansione dei coloni inglesi diretti verso ovest veniva puntualmente contrastata dall'alleanza che la Francia aveva stipulato con le tribù di pellerossa. Dopo una prima fase, durante la quale si volevano arginare i pionieri inglesi al di qua dei monti Allegheny, nel 1750 il conflitto si estese progressivamente dalla Virginia al Canada coinvolgendo le colonie britanniche centro-settentrionali (in passato fortemente restie a entrare nel merito delle controversie territoriali), la corona inglese e la Francia.
Nonostante l'intervento spagnolo a favore di quest'ultima, la superiorità navale degli inglesi si dimostrò assoluta e la pace di Parigi, che concluse la guerra, sancì la cessione del Canada all'Inghilterra e della Louisiana alla Spagna.

 

Dal malcontento alla rivolta

Il continuo pericolo rappresentato dagli pellerossa spinse il sovrano inglese Giorgio III a non ritirare le truppe di stanza presso le tredici colonie, che per la loro mancanza di unione, dovuta a diversi interessi economici e a dispute di confine, sembravano sempre pronte a disgregarsi. Differenti per popolazione, religione e risorse economiche, le colonie erano accomunate dalla stessa forma di governo, fondata su un'assemblea elettiva e sulla direzione politica esercitata da un governatore.
Sotto il profilo economico, le colonie erano sottoposte a una legislazione mercantilista che le costringeva a commerciare esclusivamente con la madrepatria, obbligo che veniva spesso disatteso con il contrabbando di merci pregiate.
Il malcontento delle colonie crebbe dopo una serie di provvedimenti varati dal governo inglese che decise di aumentare la pressione fiscale sui sudditi americani. L'imposta sullo zucchero del 1764 e quella relativa alla marca da bollo, divenuta obbligatoria su tutti gli atti pubblici, e sui giornali scatenò numerose polemiche, messe a tacere dal parlamento inglese che confermò la piena sovranità sulle colonie e il diritto di assoggettarle alla medesima legislazione fiscale vigente nella madrepatria.
L'imposizione di nuovi dazi sui prodotti di largo consumo (tè, carta) e soprattutto la polemica sulla rappresentanza all'interno del parlamento inglese, che si rifiutava di accogliere tra i propri deputati i rappresentanti delle colonie, diedero luogo a una serie di proteste che, dopo una prima fase basata sul boicottaggio, si trasformarono in una vera e propria rivolta.

 

Dai primi tumulti alla dichiarazione d'indipendenza

La rivoluzione americana ebbe inizio con alcuni episodi isolati come i tumulti avvenuti a Boston nel 1773, quando a seguito della legge che cedeva alla Compagnia delle Indie Orientali il monopolio della vendita, alcuni coloni gettarono a mare un carico di tè inglese. Solo l'anno successivo, però, a Filadelfia un congresso di rappresentanti delle colonie si riunì per decidere quali forme di lotta adottare contro la madrepatria (gli americani furono invitati al boicottaggio delle merci di provenienza inglese). La guerra contro l'Inghilterra scoppiò nel 1775 in occasione del primo scontro militare presso Lexington nel Massachusetts. La situazione politica rendeva necessaria la convocazione di un nuovo congresso, tenutosi a giugno, che nominò capo militare dei coloni un piantatore della Virginia, George Washington (1732-1799).
Il 4 luglio 1776, infine, il congresso di Filadelfia dichiarò l'indipendenza delle tredici colonie americane. Mentre nella stessa Inghilterra parte dell'opinione pubblica si schierava a favore degli insorti, alcune potenze europee non tardarono a concedere loro il proprio appoggio, sia grazie all'opera diplomatica svolta dall'infaticabile Benjamin Franklin, trasferitosi a Parigi, sia allo scopo di trarre vantaggio dalle difficoltà inglesi.

 

La guerra contro l'Inghilterra

La Francia, dapprima, e la Spagna e l'Olanda immediatamente dopo, dichiararono guerra all'Inghilterra, seguendo l'esempio dei gruppi di volontari andati in America a combattere al comando del francese Lafayette e del polacco Kosciuszko. In realtà, le potenze europee vedevano, nella rivoluzione americana, soprattutto l'occasione per ottenere una rivincita in campo coloniale nei confronti dell'Inghilterra.
I ribelli, comunque, anche grazie a questi appoggi, vinsero diverse battaglie, da quella di Saratoga (1777) a quella di Yorktown (1781), conquistando sul campo l'agognata indipendenza; questa venne in seguito riconosciuta a livello europeo nel corso dei colloqui di pace svoltisi a Versailles nel 1783.
Gli americani, dunque, poterono colonizzare anche le terre dell'Ovest, mentre Francia e Spagna recuperarono parte delle colonie cedute agli inglesi.

 

Gli Stati Uniti d'America

La nuova nazione era sorta col nome di Stati Uniti d'America e iniziava la sua esistenza all'insegna dei principi affermati dal Congresso e Dichiarazione d'Indipendenza del 4 luglio: il diritto naturale di tutti gli uomini alla libertà e alla ricerca della felicità.

 

La costituzione americana

Proclamata l'indipendenza, si poneva il problema di conciliare le spinte autonomistiche dei singoli stati con la necessità di attuare una politica comune gestita da un governo centrale.
Gli articoli di Confederazione approvati nel 1777 lasciavano poteri piuttosto limitati al Congresso, organo confederale, e agli organi centrali.
Per questo motivo, nel 1781 la prima costituzione americana riaffermò la priorità degli stati sulla confederazione, negando al congresso la possibilità di gestire la politica economica e finanziaria del paese. La crisi economica e i disordini sociali che colpirono gli Stati Uniti spinsero i delegati degli stati a riunirsi a Filadelfia nel maggio 1787. Fu studiato un progetto costituzionale poi sottoposto all'approvazione dei singoli stati.
La nuova costituzione entrò in vigore nell'autunno del 1788 con l'assenso di undici stati su tredici. I principi sui quali si basava accoglievano solo in parte l'esperienza del parlamentarismo inglese, ispirandosi in misura assai maggiore alle dottrine di Montesquieu circa la divisione dei tre poteri e a quelle di Rousseau riguardo sovranità popolare.

 

Norme e principi della costituzione americana

Il Congresso, composto da una camera dei deputati e dal senato, era titolare del potere legislativo, mentre a un presidente eletto per quattro anni spettava quello esecutivo. Non era possibile rovesciare il presidente o sciogliere le Camere senza l'approvazione del popolo.
Il potere giudiziario, infine, era affidato a una corte suprema composta da nove giudici nominati dal presidente. La costituzione conferiva allo stato federale pieni poteri nella gestione della politica economica e monetaria proibendo ai singoli stati di emmettere titoli o cartamoneta. La disparità di rappresentanza degli stati presso la camera, che era proporzionale al peso demografico di ciascuno, veniva riequilibrata in senato, all'interno del quale ogni stato disponeva di soli due senatori.
Il valore esemplare della dichiarazione d'indipendenza e i princìpi democratici che la ispiravano ebbero una diretta influenza, durante il primo ventennio del XIX secolo, nella storia delle colonie spagnole americane, mentre in Europa l'esempio americano agì solo indirettamente sul movimento rivoluzionario, nella sostanza assai più radicale e cosciente rispetto a quello d'oltreoceano.

 

La Francia rivoluzionaria


L'antico regime e i tre ordini sociali 
L'inizio della rivoluzione francese venne a coincidere con l'apertura di molti. fronti di inquietudine sociale all'interno di numerosi paesi europei, dal Belgio e dall'Olanda all'Ungheria e alla Polonia, ove il riformismo dei sovrani illuminati era entrato in crisi dopo aver cominciato a ledere gli interessi economici e sociali di alcune classi senza aver poi proseguito sulla strada dell'abolizione dei loro privilegi.
Sebbene l'Illuminismo fosse nato in Francia, tuttavia lo stato francese aveva mostrato una forte resistenza a qualsiasi iniziativa riformatrice. Allo sviluppo demografico ed economico che aveva caratterizzato il decennio dal 1760 al 1770 seguì un periodo, intorno al 1785-1789, segnato dal rialzo vertiginoso dei prezzi, che danneggiò le classi a reddito fisso e favorì i proprietari fondiari nonché la borghesia commerciale e finanziaria. Il sistema politico-sociale dell'antico regime era costituito da una popolazione suddivisa in tre ordini: nobiltà, clero e terzo stato.
La nobiltà e l'alto clero godevano dei maggiori privilegi fiscali, mentre le condizioni economiche del basso clero erano spesso molto difficili. Al terzo stato apparteneva la borghesia, anch'essa suddivisa in alta, media e piccola, quest'ultima particolarmente soggetta all'oscillazione economica legata alle variazioni del mercato e all'aumento dei prezzi. Infine la classe piu numerosa era costituita dai contadini, che ben presto si trovarono a condividere con la borghesia la lotta contro i privilegi feudali e la nobiltà.

 

La crisi finanziaria e le riforme di Necker 

Queste classi sociali, protagoniste dell'imminente rivoluzione, risentirono della crisi finanziaria che colpì la Francia nel 1781.
Dopo il licenziamento del ministro delle finanze Turgot, che era stato il promotore di una politica ispirata alle teorie fisiocratiche di Quesnay, Luigi XVI (1774-1792) nominò al suo posto il banchiere ginevrino Necker che tentò, invano, di risanare il bilancio dello stato, dissanguato dalla partecipazione alla guerra d'indipendenza americana.
Quando Necker cominciò ad attuare le prime riforme amministrative con l'intento di ripartire più equamente le imposte colpendo la nobiltà togata e la nobiltà di corte, non trovando però l'appoggio del re, fu costretto a dimettersi. Il suo progetto fu ripreso dal successore Calonne, che suggerì l'abolizione dei vincoli che regolavano il commercio del grano e della gabella sul sale.
Nel 1787 l'assemblea dei notabili, composta da esponenti della nobiltà e dell'alta borghesia, convocata per approvare le riforme, lo costrinse a dimettersi. I conti. dello stato ormai registravano ben centoventi milioni di passivo e il nuovo controllore delle finanze, Lomenie de Brienne, vista la gravità della situazione finanziaria, ripropose le medesime riforme del predecessore scatenando la ribellione della nobiltà, che chiese la convocazione degli stati generali, l'antico corpo rappresentativo della nazione non più convocato dal 1614.
Ancora una volta il re dovette cedere alle pressioni nobiliari e, provvedendo al licenziamento del ministro, conferì di nuovo la carica al Necker.

 

La convocazione degli stati generali  

La convocazione degli stati generali fu fissata per la primavera del 1789 e di fronte alle richieste del terzo stato - il quale chiedeva il raddoppio della rappresentanza all'interno dell'assemblea, ove si votava per ordine e non per testa, motivo per cui nobiltà e clero risultavano sempre matematicamente vincitori - il re cedette, nonostante l'opposizione dell'aristocrazia. I mesi che precedettero l'assemblea furono caratterizzati da un'intensa campagna pubblicista curata dalle assemblee provinciali che eleggevano il proprio rappresentante e redigettero inoltre un documento (cahier de doléance) con lamentele e petizioni da sottoporre agli stati generali.
Dopo l'inaugurazione dell'assemblea (5 maggio 1789) a Versailles, i lavori vennero subito bloccati per le richieste mosse dal terzo stato, che, volendo imporre un criterio di votazione basato sul numero dei deputati, chiese la verifica delle credenziali dei partecipanti in una seduta comune (contro la proposta di nobiltà e clero, che intendevano dar inizio ai lavori separatamente).

 

L'Assemblea costituente e la presa della Bastiglia 

Quando il 20 giugno i deputati del terzo stato trovarono chiusa la sala delle riunioni si trasferirono presso le vicine sale adibite al gioco della pallacorda e si proclamarono Assemblea nazionale costituente, accogliendo anche membri della nobiltà e del clero. Il progressivo irrigidimento del re, contrario ai provvedimenti dell'assemblea, sfociò nel licenziamento di Necker (11 luglio), sostituito con un rappresentante reazionario, e rischiò peraltro di mettere in pericolo l'assemblea dei deputati del terzo stato, minacciata dalle truppe regie che si aggiravano attorno a Versailles.
Tuttavia la borghesia di Parigi reagì decisamente, forte dell'aiuto delle classi popolari, dove il malcontento serpeggiava a causa del recente aumento del prezzo del pane.
Il 14 luglio la folla si impadronì delle armi conservate presso l'Hôtel des Invalides e, recatasi alla Bastiglia, espugnò la fortezza. Il comitato permanente, istituito presso il municipio tra il 12 e il 13 luglio per reclutare la milizia cittadina, dopo la presa della Bastiglia assunse l'amministrazione delle città e assunse il nome di Comune.
Il comando della milizia, detta guardia nazionale, toccò al generale Lafayette. Di fronte al successo dei  rivoluzionari il re richiamò il Necker, mentre la nobiltà cominciava a lasciare Parigi.


 La rivoluzione nelle campagne  
In breve, l'eco dei fatti di Parigi si diffuse in tutte le città francesi, ove le autorità comunali furono rovesciate e sostituite da governi locali rivoluzionari. Tuttavia, le ripercussioni più ampie e profonde si manifestarono nelle campagne, dove i contadini insorsero con lo scopo di abolire la feudalità.
La rivolta si estese con successo dalla Champagne in tutto il paese. In agosto, sull'onda della rivolta contadina, l'Assemblea nazionale, anche per porre termine a tante violenze ed evitare una riforma agraria tale da colpire la proprietà privata, aboli i diritti feudali.
Così, dal successo delle due fasi rivoluzionarie municipale e contadina, si arrivò all'affermazione solenne della fine dell'ancien régime ("princìpi dell'89") e alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (26 agosto 1789). In essa si affermavano i princìpi dell'uguaglianza davanti alla legge, della libertà personale per tutti i cittadini, della sovranità popolare e del diritto alla proprietà privata. Quando il sovrano si rifiutò di riconoscere sia i decreti antifeudali sia la Dichiarazione dei diritti, i costituenti ricorsero di nuovo all'appoggio del popolo, che con la forza lo obbligò a trasferirsi nella capitale con i deputati (5-6 ottobre 1789).

 

La svolta popolare della rivoluzione 

Così, Parigi ebbe l'importanza che le spettava: la sua popolazione, composta da piccoli borghesi, da artigiani e da proletari, avrebbe d'ora innanzi esercitato un ruolo decisivo nella rivoluzione democratica: l'iniziativa, insomma, passava dall'Assemblea costituente alla piazza. Tra le due i rapporti non furono idilliaci e il trattamento riservato al re non piacque, né agli aristocratici, né alla componente borghese moderata dell'Assemblea (gli "anglofili").
Il clima politico divenne incandescente e lo rimase a lungo. Al dibattito delle diverse correnti interne all'Assemblea costituente si sommò quello delle varie fazioni, che cominciarono a scontrarsi sulle pagine dei giornali e nei club, ponendo le premesse per i futuri partiti. Le associazioni democratiche più importanti furono quella dei giacobini, che si riunivano nel convento domenicano di San Giacomo, e dei cordiglieri, riuniti in un convento francescano.
Intanto, lo stesso istituto monarchico, che neppure i costituenti misero in discussione, trasformando il re nel primo funzionario dello stato, detentore dei soli poteri esecutivi, si stava estinguendo, complice lo stesso sovrano che, pur ostaggio dei parigini, non smise di ordire contro la rivoluzione. La svolta popolare, d'altra parte, spinse molti aristocratici a emigrare e tra quelli rimasti in patria e i fuoriusciti si inaugurò una strategia di complotti. A nulla valsero gli sforzi di alcuni mediatori, come il visconte di Mirabeau, che cercarono un accordo tra la Corona e i rivoluzionari.

 

Il clero si divide: costituzionali e ribelli 

La situazione peggiorò con la crisi religiosa del 1790, che divise il clero tra "costituzionali" e "refrattari" (ribelli). Nel 1789 l'Assemblea, per evitare la bancarotta, aveva deciso di nazionalizzare i beni ecclesiastici, emettendo cartamoneta (assegnato); in cambio, venivano rimborsate le spese di culto e garantita una pensione agli ecclesiastici, che in tal modo si trasformarono in funzionari pubblici; intanto la ripartizione delle diocesi fu modellata su quella amministrativa. Cambiava anche la nomina dei vescovi e dei curati: d'ora innanzi sarebbe avvenuta con l'elezione da parte di un'assemblea, senza ricorrere alla conferma ufficiale della Santa Sede; a confermare i neoeletti erano rispettivamente arcivescovi e vescovi.
Ognuno, infine, doveva giurare fedeltà alla nazione, al re e alla costituzione. Nasceva dunque la figura del "sacerdote patriota", che dal pulpito spiegava ai fedeli i princìpi della rivoluzione. Il clero regolare, invece, fu soppresso, con l'eccezione dei sacerdoti che si dedicavano all'assistenza e all'insegnamento. Con tale politica in Francia erano stati pertanto ristabiliti i princìpi del gallicanesimo, seppure in versione rivoluzionaria. Il silenzio di Pio VI non impedì che tra gli ecclesiastici francesi si moltiplicassero i refrattari e quando il papa condannò la Costituzione civile del clero (1791), provocò un vero e proprio scisma.

 

La fuga del re 

A far precipitare la situazione fu Luigi XVI allorché, nella notte del 20 giugno 1791, si avviò con la regina verso il confine con il Belgio. Riconosciuto e arrestato a Varennes, fu ricondotto sotto scorta a Parigi. L'Assemblea, allora, lo sospese dalle sue funzioni, assumendo i pieni poteri. Le sorti della monarchia erano ormai compromesse e di fronte alle proteste dei repubblicani l'Assemblea stessa, temendo lo scoppio della guerra civile, pensò di far passare il tentativo di fuga del re per un rapimento, finendo per restituire al sovrano i suoi poteri. La decisione, tuttavia, non piacque a molti parigini.
In particolar modo, il club popolare e democratico dei cordiglieri invitò migliaia di persone a manifestare presso la piazza del campo di Marte per chiedere l'allontanamento del re (17 luglio).
In quell'occasione la Costituente ordinò lo stato d'assedio e la guardia nazionale di Lafayette fece fuoco sui dimostranti. Il club dei giacobini si spaccò: i borghesi moderati fondarono il club dei foglianti, mentre il resto dei giacobini, capeggiati da Maximilien de Robespierre (1758-1794), avvocato di Arras e deputato democratico degli stati generali, si orientò per un'evoluzione democratica del processo rivoluzionario.

 

La costituzione del 1791 di stampo moderato 

Intanto, l'Assemblea costituente, dominata dai foglianti, favorendo l'alta borghesia elevò le soglie del reddito dividendo in tal modo i cittadini in attivi e passivi e impedendo a una larga parte della popolazione di votare i deputati; proseguì inoltre nell'opera di mediazione con la monarchia iniziata da Mirabeau. Del resto, la costituzione stessa, approvata alla fine del 1791, attenuava molti princìpi dell'89 conferendo pieni poteri all'Assemblea e lasciando al re soltando il diritto di veto sospensivo.
La tendenza moderata fu confermata dalla legge Le Chapelier (14 giugno 1791), che vietava gli scioperi, annullando pertanto il diritto di associazione tra operai e contadini. La rivoluzione appariva a questo punto una sorta di  rivincita borghese che permise a imprenditori e a speculatori cittadini di impadronirsi dei beni ecclesiastici nazionalizzati. Lo stato, infatti, dividendo le proprietà ecclesiastiche in lotti di terreno molto estesi, aveva escluso i contadini e i piccoli proprietari, privi di grandi possibilità economiche, dalla possibilità di acquistare la terra.

 

L'Assemblea legislativa e la guerra 

Dopo che il re ebbe approvato la Costituzione, il 30 settembre 1791 l'Assemblea si sciolse. Il suo carattere moderato aveva impedito l'intervento militare delle nazioni europee, che si erano quindi limitate a minacciare la Francia. Nell'Assemblea legislativa eletta in ottobre, tra i 745 deputati non vi era nessuno che avesse partecipato alla fase costituente. Tra gli schieramenti dei foglianti e dei giacobini si collocava una grande maggioranza di neutrali.
Un ruolo di particolarmente significativo fu svolto da Brissot, esponente della borghesia mercantile, attorno al quale si erano raccolti gli affiliati del club della Gironda. Gli equilibri interni dell'Assemblea vennero modificati quando, il 20 aprile 1792, il ministero girondino nominato da Luigi XVI dichiarò guerra all'Austria, sotto la spinta dei brissottini (desiderosi di rafforzare la propria posizione economica), della Gironda (intenzionata a muovere guerra a coloro che proteggevano gli emigrati traditori), e del sovrano stesso, intenzionato a sconfiggere la rivoluzione. Solo Robespierre e gli esponenti democratici Danton e Marat si schierarono contro tale decisione.

 

La prima coalizione antifrancese 

In Austria, al pacato Leopoldo II, fratello di Maria Antonietta, che in passato era stato più volte sollecitato dai nobili fuoriusciti a intervenire a favore della monarchia francese, subentrò il figlio Francesco II (1792-1835). Acerrimo nemico della rivoluzione, costui provvide a creare immediatamente una coalizione antifrancese coalizzandosi con Federico Guglielmo II di Prussia.
Nelle prime fasi del conflitto, le indisciplinate truppe francesi, prive di validi comandanti, furono facilmente sopraffatte. I democratici ne approfittarono per lanciare accuse di tradimento agli aristocratici e ai generali. Il timore di un'invasione austro-prussiana spinse girondini e giacobini ad allearsi anche quando, in occasione di una legge governativa in base alla quale ventimila tra nobili e preti refrattari sarebbero stati deportati in un campo alla periferia della capitale, il re si oppose licenziando i ministri girondini. Frattanto, l'azione, moderata di Lafayette e dei foglianti mirava a concludere un armistizio con la coalizione antifrancese.

 

La Comune di Parigi e la Convenzione 

Il 20 giugno i quartieri popolari di Parigi insorsero nuovamente mentre l'Assemblea decideva la confisca dei beni degli immigrati. Un comitato insurrezionale prese possesso della municipalità di Parigi chiedendo l'abdicazione di Luigi XVI.
L'assemblea rimase incerta finché, il 10 agosto, una folla di federati e di parigini, tra i quali spiccavano i sanculotti (termine derivato dall'abbigliamento tipico dei popolani, privi delle culotte, i calzoni corti indossati da borghesi e nobili), invase il palazzo reale delle Tuileries, arrestando il re che venne rinchiuso nella prigione del Tempio.
L'assemblea riconobbe la Comune di Parigi, rappresentante delle classi popolari, e la decisione sulla sorte del re fu demandata a una nuova Assemblea costituente, la Convenzione.
Frattanto fu nominato un Consiglio esecutivo provvisorio all'interno del quale ricoprì un ruolo da protagonista il democratico Georges-Jacques Danton (1759-1794). Tuttavia, l'iniziativa politica era ormai passata in mano ai sanculotti e alla Comune; quando Lafayette, crollata la monarchia, passò dalla parte degli austriaci e si diffuse la notizia della resa di Longwy e di Verdun, nel paese esplose la rabbia per il complotto aristocratico. Tra il 2 e il 5 settembre le prigioni parigine furono assaltate dai sanculotti e oltre duemila persone furono uccise.

 

Il re sul patibolo  

Il 20 settembre 1792 la Convenzione nazionale sancì la fine della monarchia.
Lo stesso giorno, mentre il re di Sardegna subiva una dura sconfitta e venivano occupate Nizza e la Savoia, a Valmy le truppe francesi di Kellermann frenavano l'avanzata prussiana e il 6 novembre il generale Dumouriez sconfiggeva gli austriaci a Jemappes, procedendo all'annessione del Belgio. Sul fronte della politica interna, la Convenzione, atta a governare il paese e a redigere la nuova costituzione, si divise in tre blocchi: il centro, la destra e la sinistra.
Il centro, "Pianura" o "Palude", politicamente moderato, riuniva la maggioranza dei delegati, ai quali i due blocchi della minoranza di volta in volta s'aggregavano.
A destra, i girondini, borghesi repubblicani, esprimevano soprattutto il sud-ovest della Francia e gli interessi degli armatori di Bordeaux e dei borghesi di provincia; essi erano per il libero scambio ma contro il centralismo della capitale.
Nel blocco di sinistra, c'erano i montagnardi di Danton e di Robespierre, che, pur non rappresentando i sanculotti né la borghesia ebbero l'appoggio popolare.
Lo scontro più aspro tra montagnardi e girondini avvenne con il processo di Luigi XVI, colpevole di essersi alleato con le potenze straniere contro la Francia. Processato dalla Convenzione, il re fu mandato a morte. Fino all'ultimo i girondini cercarono di salvarlo, ma il 21 gennaio 1793 il sovrano fu ghigliottinato nella piazza della rivoluzione.

 

La ripresa della guerra 

La morte del re coincise con la dichiarazione di guerra della Francia contro l'Inghilterra, contraria all'occupazione del Belgio. Si formò un'alleanza tra Austria, Russia, Prussia, Portogallo, Spagna, parte dei principati tedeschi e degli stati italiani. Le truppe delle potenze straniere dissolsero l'esercito francese e Dumouriez passò in campo avverso. La leva militare approntata dalla Convenzione provocò la rivolta contadina in Vandea e la propaganda controrivoluzionaria dell'aristocrazia.
Il clima di tensione si accentuò a causa della crisi economica che il paese stava attraversando. Contro l'aumento dell'inflazione protestò il movimento degli "arrabbiati", che cercò di imporre un contenimento dei prezzi (calmiere).
Negli schieramenti della Convenzione la lotta politica si inasprì portando a una frattura tra girondini e giacobini, sostenuti dal centro e dai sanculotti.
Il 31 maggio 1793 il popolo di Parigi insorse nuovamente, assediando la Convenzione e arrestando i ministri e i deputati della Gironda. Dal giugno 1793 al luglio 1794 la Francia venne guidata dai montagnardi e da Robespierre.

 

Robespierre e la Costituzione del 1793 

Il governo di Robespierre, portavoce del movimento giacobino, si impegnò nella tutela degli interessi popolari come aveva già fatto prima della rivolta vandea. Tali cambiamenti trovarono espressione in un nuovo testo costituzionale che, pur rimanendo nella pratica inattuato, rivelò un netto orientamento democratico: rispetto alla Costituzione precedente furono apportate alcune modifiche che affermavano il diritto di tutti i cittadini al lavoro, all'istruzione, all'assistenza e al voto, indipendentemente dal reddito, e decretavano nelle colonie d'oltreoceano l'abolizione della schiavitù.
Quest'operosità legislativa da parte giacobina venne frenata soltanto dai complotti del clero "refrattario" e degli aristocratici rimasti in Francia.
Le vicende della guerra e l'azione controrivoluzionaria dei girondini sconfitti - i quali raggiunsero i loro dipartimenti e vi fecero scoppiare una rivolta federalista (minacciando inoltre di unirsi ai vandeani) - contribuirono ad aumentare la tensione. Marsiglia, Lione e Tolone insorsero contro i giacobini, chiamando in aiuto gli eserciti coalizzati, finché, il 29 agosto, una flotta inglese arrivò nel porto di Tolone. Dopo l'assassinio di Marat (13 luglio), fu rinnovato il Comitato di salute pubblica, organo esecutivo già esistente ma che venne rafforzato in seguito al colpo di stato di giugno; vi entrarono Danton, Carnot e, alla fine di luglio, Robespierre.
La leva di massa, il contenimento dei prezzi e dei salari, il razionamento dei viveri e la riforma dell'ordinamento militare permisero di sedare la rivolta vandeana e di allentare, inoltre, la stretta alla quale lo stato francese era sottoposto dalla Prima coalizione.

 

Il Terrore 

Il 10 ottobre 1793, dunque, la Convenzione, con un rapporto di Saint-Just, proclamò che il governo del paese restava rivoluzionario fino alla pace, quando la nuova Costituzione sarebbe entrata in vigore. Sotto la pressione popolare fu inaugurata l'attività del Tribunale rivoluzionario, che il 16 ottobre mise a morte la regina Maria Antonietta e poi i nemici girondini.
La dittatura (il Terrore) divenne sempre più un governo personale di Robespierre. Tra i provvedimenti adottati dal regime si ricorda l'adozione del calendario repubblicano e l'istituzione del culto della ragione e dei martiri della libertà.
La crisi religiosa, aperta dai giacobini, poté chiudersi solo quando i capi del governo rivoluzionario, Danton e Robespierre, ristabilirono la libertà di culto.
Alla minaccia straniera, il Terrore rispose con la leva in massa, creando un esercito rivoluzionario di popolo.
Dall'incontro tra militari e rivoluzione, nacque una nuova generazione di ufficiali, diversi per sensibilità e per formazione democratica. La repressione giacobina puntava tutti i possibili avversari interni: gli inglesi furono sconfitti a Dunkerque, gli austriaci a Wattigne (16 ottobre 1793) e gli spagnoli vennero ricacciati dal Rossiglione.

 

La repressione dei nemici del Terrore 

Ben presto, all'interno del gruppo dirigente si crearono fratture. Danton raccolse i cosiddetti "indulgenti", ovvero rei di corruzione. Politicamente moderati, deprecavano gli eccessi del Terrore, nel timore di una dittatura.
A sinistra, invece, c'erano i montagnardi radicali che facevano capo a Hébert, un gruppo rappresentato anche nel Comitato di salute pubblica, che s'opponeva a Robespierre ritenendolo troppo cauto nella sua opera rivoluzionaria.
Quest'ultimo, dopo aver mantenuto una sorta di equilibrio tra le due fazioni opposte, intraprese un'azione volta a eliminare gli avversari. I primi a essere colpiti dal Comitato di salute pubblica furono i seguaci di Hébert. Gli indulgenti, nel frattempo, si trovavano in serie difficoltà a causa di uno scandalo che si era verificato all'interno della Compagnia delle Indie: il loro deputato Fabre d'Englantine si era lasciato corrompere e aveva falsificato il decreto d'abolizione. Robespierre, d'altro canto, venne incontro allo schieramento di Danton, sostenendolo durante la lotta contro gli hébertisti, che erano stati accusati di cospirazione e di alleanza con il nemico. I seguaci di Hébert vennero riconosciuti colpevoli di quest'accusa, e successivamente condannati alla ghigliottina il 4 germinale (24 marzo 1794).
Una volta che ebbe eliminato gli avversari di sinistra, Robespierre decise di sbarazzarsi anche degli altri. Cinque giorni dopo la fine di Hébert, Danton e i suoi compagni furono giustiziati.
L'esecuzione avvenne il 16 germinale, vale a dire il 5 aprile 1794.

 

Dal Terrore a Napoleone

 

L'isolamento di Ropespierre 

Sotto la guida di Robespierre, il Comitato di salute pubblica ingaggiò una lotta senza quartiere contro gli speculatori e gli esponenti delle classi ricche, anche se borghesi: "L'opulenza è un'infamia", tuonava dalle tribune Saint-Just.
La strenua battaglia per l'instaurazione di un regime veramente democratico ed egualitario valse a Robespierre il titolo di "incorruttibile", ma lo allontanò sempre di più dalle componenti sociali che avevano sostenuto la rivoluzione sin dai tempi della fase monarchico-costituzionale. La spinta impressa al processo di scristianizzazione assume in questo quadro il significato di un errore rivelatore: essa alienò definitivamente al governo giacobino le simpatie delle masse contadine, senza peraltro suscitare eccessivo entusiasmo nel popolo dei sanculotti. Il sempre più accentuato ricorso alla pratica del terrorismo spinse poi Robespierre in un vicolo cieco.

 

L'operato dei "tribunali rivoluzionari" 

Va ricordato che i "tribunali rivoluzionari" mandarono a morte in un solo anno più di 16000 persone: tra esse non figuravano solo nobili controrivoluzionari e teste coronate, ma anche numerosi esponenti della Gironda e tantissima gente comune. In base a leggi come quella del 22 pratile (10 giugno 1794) era sufficiente il semplice sospetto per condannare un imputato alla ghigliottina. Nella primavera-estate 1794, il governo del Terrore appare ormai come un organismo di potere del tutto isolato dal contesto dei rapporti di forza esistenti nella società francese.

La riscossa moderata 

Quando la vittoria di Fleurus (28 giugno 1794) ebbe restituito alla Francia la sicurezza all'esterno, l'opposizione moderata pensò che fosse ormai giunto il momento di porre fine all'esperienza della dittatura giacobina. Favorito dalle divisioni interne allo stesso Comitato, il 9 termidoro (28 luglio) 1794 un colpo di stato abbatteva il governo rivoluzionario. Robespierre e Saint-Just furono ghigliottinati tra la sostanziale indifferenza della popolazione parigina, sempre più stanca dell'incessante carneficina.

La reazione termidoriana 

Rispetto al carattere accentuatamente democratico (sul piano politico e sociale) del periodo giacobino, la cosiddetta reazione termidoriana si configurò come una parziale "restaurazione".
Il nuovo governo, espressione dei ceti borghesi moderati, si presentò come il garante di un ritorno all'ordine e alla legalità: i tribunali speciali vennero aboliti, le carceri svuotate, gli apparati della dittatura del Terrore smantellati.
I poteri del Comitato di salute pubblica vennero ridotti, gli esponenti girondini riammessi alla Convenzione. Anche la politica economica voluta da Robespierre fu completamente abbandonata.
La preminenza delle classi ricche fu riaffermata, fu restituita agli imprenditori la piena libertà d'iniziativa, il regime dei prezzi calmierati fu soppresso. Cionondimeno, le nuove autorità borghesi non esitarono a dare la propria copertura alle forme più indiscriminate della reazione antigiacobina.

Il terrore bianco e la fine della guerra 

Nell'inverno del 1794-1795 si scatenò in questo modo in Francia un vero e proprio terrore bianco: bande di giovani appartenenti ai ceti agiati (la cosiddetta "gioventù dorata") diedero il via, soprattutto a Parigi, a una vera caccia all'uomo, trucidando sotto gli occhi indifferenti della polizia agenti del passato governo e popolani sanculotti.
La solidità del regime termidoriano veniva intanto minacciata da tentativi insurrezionali provenienti sia dalla destra reazionaria sia dalla sinistra estrema. Nell'ottobre 1795 fu represso nel sangue un tentativo di colpo di mano monarchico. Solo la positiva conclusione della guerra con le potenze europee consentì al regime di consolidarsi. Tra l'aprile e l'ottobre del 1795, infatti, la firma di una serie di armistizi e di trattati di pace con gli stati della coalizione antifrancese (a eccezione dell'Inghilterra) poneva fine alle operazioni militari.

La costituzione del 1795 

L'attività della Convenzione termidoriana culminò nel varo della nuova costituzione dell'anno III (agosto 1795). Essa aboliva il suffragio universale, reintroducendo criteri restrittivi basati sul censo al diritto di voto.
Il pericoloso principio dell'"uguaglianza di tutti gli uomini" che figurava nella Dichiarazione del 1789 veniva riformulato nei termini della dottrina liberale classica: "L'eguaglianza consiste in ciò, che la legge è uguale per tutti".
La nuova Carta affidava inoltre a due assemblee (dette Consiglio dei cinquecento e Consiglio degli anziani) il potere legislativo e a un gruppo di cinque membri (il Direttorio) il potere esecutivo.
Attraverso il decreto dei due terzi, infine, la Convenzione, prima di sciogliersi, garantiva la propria sopravvivenza: due terzi dei membri delle future assemblee dovevano essere costituiti da ex convenzionali.
Con questo, nell'ottobre del 1795 la Convenzione si sciolse, lasciando in eredità alle nuove classi dirigenti una situazione militare rassicurante e strumenti di governo efficaci. La legalità rivoluzionaria, nella sua versione liberal-moderata, era ristabilita.
Solo ora, si può dire, la rivoluzione borghese trionfava. Paradossalmente, ma non tanto, essa si trovava a raccogliere i frutti della precedente gestione democratica, che, sia pure tra molti eccessi ed errori, aveva comunque salvato il paese dai ritorni di fiamma monarchici e dalle aggressioni esterne.
Il primo Direttorio (1795-1797) 
La concentrazione del potere nelle mani di un organismo agile come il Direttorio fu una tappa importante nel processo di consolidamento del regime borghese in Francia. Ciononostante, il paese era ben lungi dall'aver conseguito la relativa stabilità necessaria all'avvio di una vita economica e politica normale.
Per contrastare i ripetuti attacchi portati al governo dai dissenzienti di destra, il Direttorio fu costretto a mitigare il clima di ostilità antigiacobina venuto in auge dopo il 9 termidoro, consentendo una sia pur cauta ripresa dei dibattiti e dell'attività politica nella capitale.
Le vecchie organizzazioni montagnarde e i club giacobini tornarono così a operare alla luce del sole, alimentando le speranze mai sopite dei simpatizzanti del passato regime democratico. Il Direttorio non aveva però alcuna intenzione di sopportare passivamente la crescita di queste tendenze "neogiacobine".
I limiti della tolleranza del nuovo governo nei confronti degli oppositori divennero manifesti nel febbraio del 1796, allorché un giovane generale, Napoleone Bonaparte, ricevette l'incarico di spazzare via il Club del Pantheon, che era il più attivo centro di elaborazione delle posizioni neosanculotte.

Babeuf e Buonarroti e la congiura degli eguali 

Al Club del Pantheon faceva capo un gruppo di pubblicisti e agitatori che aveva le sue punte di diamante in Émile Babeuf e Filippo Buonarroti. Sulle colonne del loro giornale, il battagliero Tribun du peuple, essi combattevano un'aspra battaglia contro il nuovo ordine borghese moderato, facendosi interpreti del profondo disagio nel quale si dibattevano nel paese le classi popolari.
Il programma di Babeuf prevedeva una serie di riforme: l'abolizione della proprietà privata (in particolare della terra), la socializzazione dei mezzi di produzione, un controllo assoluto dello stato sulla distribuzione dei redditi e la soppressione dell'eredità.
Su queste basi, durante l'inverno del  1795-1796 Babeuf e Buonarroti tentarono entrambi di dare vita a una sollevazione di stampo antiborghese che restò nota come congiura degli eguali. La cospirazione, però, venne facilmente scoperta e i suoi due promotori arrestati. Babeuf nel maggio dell'anno seguente salì sulla ghigliottina, mentre Buonarroti veniva condannato a una lunga pena detentiva e deportato.
Egli tuttavia avrebbe raccolto e successivamente tramandato a tutte le future generazioni rivoluzionarie l'eredità ideologica del babuvismo, che era destinata a esercitare un'importante e profonda influenza sui successivi sviluppi del pensiero della corrente socialista e di quella comunista.

La Francia di nuovo in guerra 

La Francia aveva intanto ripreso la guerra. Il rilancio del conflitto contro le potenze europee costituiva per il Direttorio il miglior modo per scaricare all'esterno le gravi tensioni politiche, sociali ed economiche del paese; d'altro canto, l'Austria aveva rotto l'armistizio nel 1795, mentre l'Inghilterra non aveva mai deposto le armi.
Nei primi mesi dell'anno 1796 furono così allestite tre potenti armate, che avrebbero dovuto attaccare l'impero asburgico contemporaneamente su tre fronti: una avanzando attraverso l'Europa centrale, la seconda lungo il confine con la Svizzera e l'ultima passando attraverso l'Italia settentrionale.

La campagna d'Italia 

Fu proprio l'armata d'Italia, comandata dal giovanissimo generale di origine còrsa, Napoleone Bonaparte (1769-1821), a cogliere i più brillanti successi. Nel giro di un mese essa piegò la resistenza del regno di Sardegna; il 15 maggio 1796 occupava Milano. Dalla città lombarda, Napoleone, incurante delle pressioni del Direttorio (che aveva progettato di guidare l'armata d'Italia verso le città di Roma e di Napoli), procedette decisamente a est verso la regione del Veneto. Espugnata Mantova (2 febbraio 1797), si trovò la strada spianata verso Udine e Vienna. Il governo austriaco si vide costretto a firmare a Leoben un armistizio (18 aprile 1797).
Il successo rivelava le straordinarie doti di stratega del giovane Bonaparte, ma anche le sue malcelate ambizioni politiche. Il successivo trattato di pace di Campoformio (18 ottobre 1797), fu opera esclusiva di Napoleone, che agiva ormai in modo del tutto autonomo rispetto al Direttorio. Esso stabilì la seguente situazione: il Belgio, parte della Renania e la Lombardia passavano alla Francia; quest'ultima ricompensava l'Austria cedendole il Veneto.
L'antica e gloriosa Repubblica di Venezia concludeva così la propria lunga storia di stato indipendente.

 

Napoleone Bonaparte

 

Nato ad Ajaccio il 15 agosto 1769, Napoleone Bonaparte proveniva da una famiglia della piccola nobiltà corsa, che aveva lungamente combattuto per l'autonomia dell'isola.
Nel 1779 era entrato nella scuola militare di Brienne, iniziando così la sua carriera militare, proseguita poi nella scuola di Parigi: nel 1785 diviene sottotenente d'artiglieria.
Per sei anni visse nell'esercito, finché, sull'onda della rivoluzione, tentò la fortuna militare e politica in Corsica, organizzando un moto autonomistico. Precipitata la situazione nell'isola, si trasferì in Francia (1793). Incontrò il giovane Robespierre e aderì alla politica dei giacobini.
Alla fine del 1793, per i meriti conseguiti in battaglia durante l'assedio di Tolone, viene insignito del grado di generale di brigata. In seguito alla caduta del governo del Terrore visse un breve momento di difficoltà, ma nel nuovo clima termidoriano seppe ben presto mettersi in luce. Grazie al legame con Joséphine Beauharnais (sposata poi nel 1796), che era stata amante di uno dei Direttori, Barras, si guadagnò la fiducia di quest'ultimo.
Aveva appena ventisette anni quando, nel 1796, ottenne il comando dell'armata in Italia. Le vittorie militari ne fecero in breve uno dei protagonisti della scena politica nazionale.
Nel 1798 era alla testa della sfortunata spedizione in Egitto.
Nel 1799, rientrato fortunosamente in patria dall'Africa, costituisce insieme a Seyäs e Ducos il Consolato. Divenuto primo console (1799), nel 1802 riesce a trasformare la sua carica in quella di console a vita. Ormai detentore di fatto di un potere pressoché assoluto, nel 1804 viene proclamato imperatore ereditario dei francesi.

 

Il "giacobinismo" in Italia e in Europa 

Lo scontro vittorioso con l'Austria portò conseguenze importantissime per quanto concerneva l'Italia, l'assetto geopolitico del quale fu del tutto sconvolto dall'impatto delle armate napoleoniche. Queste del resto avevano trovato nella penisola un terreno già ben preparato ad accoglierle a causa dell'ampia diffusione nella società italiana degli ideali "rivoluzionari" e "giacobini". La presenza di un italiano come Filippo Buonarroti nelle vicende francesi di quegli anni non deve infatti stupire: in tutta Europa, i ceti borghesi e intellettuali avevano seguito spesso con entusiasmo lo sviluppo della rivoluzione in Francia, dando luogo alla nascita di formazioni politiche dalle aperte simpatie di tipo filogiacobino.
Nei paesi direttamente toccati dall'espansionismo francese, come il Belgio e la Renania, la Savoia e il Nizzardo, le élite repubblicane locali, sostenute dalla Francia, riuscirono in alcuni casi a dar vita a esperienze di governo ispirate a criteri rivoluzionari (fu questo il caso di Oneglia, dove Buonarroti fece le sue prime prove). Altrove, però, come in Prussia, in Russia e nell'impero asburgico, il giacobinismo fu duramente represso sul nascere.
Anche in Italia durante il biennio 1793-1794 i "patrioti" (come erano chiamati nella penisola i simpatizzanti della rivoluzione francese) furono soggetti a una dura repressione, soprattutto in Piemonte e a Napoli.

 

Le "repubbliche giacobine" italiane 

La trionfale campagna d'Italia di Napoleone ridiede slancio alle organizzazioni "patriottiche", che ben volentieri offrirono il proprio contributo all'avanzata delle armate francesi.
Tra il 1796 e il 1799 sorgevano così nella penisola, con il benestare di Napoleone, diverse "repubbliche giacobine": la prima fu la repubblica cispadana (dicembre 1796), formata da Ferrara, Modena, Reggio Emilia e Bologna. Nel giugno 1797 si costituiva poi la repubblica cisalpina, che includeva, oltre ai territori suddetti, anche parte della Lombardia, le province di Bergamo e Brescia e la Valtellina. Contemporaneamente, anche la repubblica di Genova entrava nell'orbita francese con il nuovo nome di repubblica ligure.  Il vero volto, realistico e spregiudicato, dell'espansionismo francese si rivelava però di lì a poco ai "patrioti" italiani con la firma da parte di Napoleone del trattato di Campoformio. Con esso la Francia cedeva il Veneto all'Austria in cambio del riconoscimento ufficiale dell'esistenza della repubblica cisalpina. Nel febbraio 1798, poi, anche lo stato pontificio veniva occupato dalle truppe francesi, che, cacciato papa Pio VI, vi instaurarono la repubblica romana. Nel gennaio 1799, infine, la Francia si impadroniva anche di Napoli, dando vita nel meridione italiano all'effimera esperienza della repubblica napoletana.
L'occupazione dell'Italia fu completata con l'annessione del Piemonte (febbraio 1799) e l'assoggettamento della Toscana (marzo 1799). L'intera penisola italiana cadeva così sotto il dominio francese, che organizzò le cosiddette "repubbliche sorelle" sulla base di un modello istituzionale molto simile a quello che era stato stabilito dalla costituzione del 1795 nello stato francese.
Il secondo Direttorio (1797-1799) 
Il 1797 fu un anno di crisi per la Francia. Lo stato, infatti, era fortemente indebitato. I buoni raccolti del 1796-1797 e la ripresa della circolazione della moneta metallica determinarono una brusca deflazione, che falcidiò i redditi dei produttori agricoli. Da questa situazione trasse un notevole vantaggio la destra monarchica, che nelle elezioni del marzo 1797 conseguì una decisa affermazione. I suoi successi furono sanciti dall'ingresso di numerosi deputati reazionari nei consigli; un esponente monarchico, Barthélemy, entrò nel Direttorio. Il destino delle istituzioni repubblicane apparve in serio pericolo. I tre direttori Barras, Larevellière e Reubell si risolsero allora a compiere un nuovo colpo di stato. L'unica forza disponibile a sostenere la causa repubblicana sembrava in quel momento l'esercito.

L'intervento di Napoleone e dell'esercito 

Maturò così l'idea di rivolgersi a Napoleone. Nella notte tra il 17 e il 18 fruttidoro (3-4 settembre) le sue truppe occuparono Parigi. Nei giorni successivi gli agenti governativi avviarono una drastica epurazione all'interno dei consigli, imprigionando e condannando alla deportazione molti deputati realisti. Lo stesso Barthélemy fu rinchiuso in carcere, mentre il quinto membro del Direttorio, Carnot, fu costretto alla fuga. Misure repressive venivano contemporaneamente adottate anche nei confronti dell'opposizione giacobina. In tal modo il Direttorio, ridotto ormai a un triumvirato, salvò le sorti pericolanti della repubblica; ma ne ancorò le basi alla sempre più evidente crescita di prestigio dell'esercito. Quest'ultimo, forte delle sue vittorie ottenute all'esterno, costituiva ormai chiaramente il solo fondamento davvero saldo del governo repubblicano. La "chiamata" da parte dei politici gli assegnava un ruolo sempre più decisivo nella gestione del potere all'interno del paese.

La strategia militare contro l'Inghilterra 

Nel 1798, solo l'Inghilterra era ancora in armi contro la repubblica francese. Il Direttorio affidò a Napoleone l'incarico di condurre la lotta contro l'irriducibile avversaria. La sua condizione insulare e l'assoluta supremazia navale di cui godeva rendevano però inattuabile il progetto, vagheggiato in un primo momento, di un attacco diretto al suo territorio. Fu così deciso di trasferire il conflitto su di un piano squisitamente economico. La strategia propria del Direttorio prevedeva di colpire il nemico mediante un blocco che danneggiasse sia i suoi floridissimi traffici commerciali sia la sua stessa vita economica interna. La via prescelta fu quella di spezzare i contatti tra l'Inghilterra e il suo maggiore emporio coloniale, ossia l'India. Il subcontinente indiano costituiva infatti un'area di importanza vitale per gli interessi economici inglesi: verso di essa l'Inghilterra esportava enormi quantità di manufatti industriali; da essa traeva derrate alimentari, spezie e materie prime fondamentali a basso prezzo. Nel maggio del 1798 Napoleone sbarcava così con un forte esercito in Egitto, stato vassallo della Turchia e cerniera dei traffici tra Oriente e Occidente.

La sconfitta di Napoleone in Egitto 

Sconfitte le forze locali (i mamelucchi) nella battaglia delle piramidi, i francesi entrarono al Cairo nel luglio successivo. La reazione inglese però non si fece attendere: il 1° agosto l'ammiraglio Horatio Nelson attaccava e distruggeva la flotta francese nella baia di Abukir. Privato in tal modo di ogni possibilità di contatto con la madrepatria, Napoleone rimase intrappolato con l'esercito in Egitto.

La seconda coalizione antifrancese 

L'attacco napoleonico al paese africano era risultato sgradito non solo all'Inghilterra, ma anche alla Turchia, che si affrettò a dichiarare guerra alla Francia (settembre 1798). Inghilterra, Turchia, Russia, Austria e regno di Napoli diedero vita di lì a poco a una nuova grande coalizione antifrancese (seconda coalizione, dicembre 1798). Con Napoleone trattenuto in Egitto, le truppe austro-russe comandate dal generale Suvarov misero l'esercito francese alle corde.

La fine delle "repubbliche giacobine" 

Tutta l'Italia centrosettentrionale fu strappata alla Francia, che mantenne solo Genova. Nel giugno 1799 cadeva anche la repubblica napoletana, abbattuta dalla Armata cristiana e reale della Santa Fede. I Borboni poterono rientrare a Napoli, dove mandarono al patibolo tutti i sospetti di simpatie repubblicane (almeno 120 "patrioti", come venivano chiamati in Italia i partigiani della rivoluzione francese). Non diversa fu la sorte delle altre "repubbliche sorelle" italiane, che i francesi abbandonarono al loro destino.

Il colpo di stato del 18 brumaio 

La guerriglia controrivoluzionaria prendeva vigore anche all'interno della Francia. La rivolta vandeana tra il 1797 e il 1798 aveva conquistato le regioni della Bretagna e della Normandia. Si riproponeva così una situazione simile a quella del 1793. I giacobini ne approfittarono per risollevarsi: diversi uomini occuparono posizioni di potere. Si formò un nuovo Direttorio, composto da Siéyes, Ducos e Barras. In questo clima di disordine interno e di crisi militare rientrò in patria di Napoleone (ottobre 1799): era sbarcato a Frejus, portandosi a Parigi dove fu accolto dall'entusiasmo del popolo. Contando sull'appoggio dell'esercito, i tre membri del Direttorio attuarono un ulteriore colpo di stato (9 novembre 1799). Sciolti i consigli ed esautorato il Direttorio, Siéyes e Ducos costituirono insieme a Napoleone un nuovo organismo di governo, che si assunse tutti i poteri: il Consolato.

 

Napoleone imperatore

 

Napoleone primo console 

Il primo atto del consolato fu il varo, a tempo di record, di una nuova carta costituzionale: la Costituzione dell'anno VIII. In base a essa Napoleone assumeva la carica di primo console, detentore della somma dei poteri: gli altri due consoli non avevano infatti che un ruolo puramente consultivo.
Il potere legislativo, attribuito a due assemblee, il Tribunato e il Corpo legislativo, era di fatto decisamente subordinato rispetto all'esecutivo. Formalmente veniva reintrodotto il suffragio universale: ma solo nel caso di plebisciti relativi a modifiche costituzionali. Un complesso meccanismo elettorale a più gradi conferiva inoltre al primo console ampi poteri di intervento sulla nomina dei componenti le assemblee legislative. Queste ultime erano ormai solo una pallida, sbiaditissima copia di quegli organi elettivi nei quali, lungo tutto il periodo rivoluzionario, si erano decisi i destini politici della Francia.

La politica estera 

I successi esterni contribuirono non poco al consolidamento della dittatura personale di Napoleone. Nei primi mesi del 1800, questi era riuscito a ottenere per via diplomatica il ritiro della Russia dal fronte antifrancese.
Sul versante italiano nel giugno dello stesso anno le armate napoleoniche infliggevano a Marengo una decisiva sconfitta agli austriaci. Anche l'impero asburgico usciva così dalla seconda coalizione. Il successivo trattato di Lunérville (febbraio 1801) riconfermava i termini della pace di Campoformio; l'Austria inoltre accettava di riconoscere l'esistenza di alcune repubbliche autonome filofrancesi come la repubblica batava (Olanda) e la repubblica italiana (cioè l'ex repubblica cisalpina, posta ora sotto la presidenza dello stesso Napoleone).
La pace di Amiens (1802) sospendeva infine le ostilità con l'Inghilterra, ormai stremata dalla lunga guerra. Sia i francesi sia gli inglesi poterono così finalmente dedicarsi alla sistemazione dei più pressanti problemi interni.

Le riforme del consolato 

Contemporaneamente allo svolgersi di questi fatti, Napoleone procedeva in patria all'instaurazione di un potere personale pressoché inattaccabile. Non solo: raccogliendo e omogeneizzando le iniziative riformatrici del periodo rivoluzionario e termidoriano, veniva modellando in modo definitivo il nuovo volto della Francia borghese. Erano così poste le premesse della profonda trasformazione che più tardi l'espansionismo napoleonico avrebbe successivamente imposto all'Europa intera.
Nel campo della giustizia e in quello finanziario, Napoleone portò a compimento l'opera di rinnovamento in senso liberale già avviata nel periodo del Direttorio.

Il concordato con PioVII 

In campo religioso stipulò con il nuovo papa Pio VII (1800-1823) un concordato che poneva fine all'annosa contesa con la Chiesa cattolica. In base al nuovo accordo questa riconosceva formalmente l'esistenza della Repubblica francese, la quale a sua volta si impegnava a mantenere il clero e a garantire la libertà di culto. Il cattolicesimo era riconosciuto "religione della maggioranza dei francesi" (e non religione di stato). In sostanza il concordato ribadiva la subordinazione della Chiesa francese nei confronti dello stato, che manteneva il diritto di nominare i vescovi e otteneva la sostituzione del clero refrattario.

La riforma amministrativa 

La più decisiva delle innovazioni napoleoniche, quella che più a fondo incise sul tessuto sociale e politico della Francia, fu però la cosiddetta riforma amministrativa. Suo scopo essenziale fu la realizzazione di un forte accentramento amministrativo.
Il centralismo che già aveva contraddistinto la monarchia borbonica veniva così ripristinato e accentuato. Perno della riforma fu la rivalutazione della figura del funzionario unico, dipendente soltanto dal potere centrale.
I dipartimenti nei quali era suddiviso il territorio francese furono sottoposti alla guida di prefetti di nomina governativa; le ulteriori articolazioni del sistema amministrativo francese, i circondari e i comuni, vennero affidate rispettivamente a sottoprefetti e sindaci.
Fu così costituito un complesso ma molto efficiente apparato burocratico organizzato in modo gerarchico. Il potere esecutivo disponeva ora di un efficacissimo strumento di controllo del territorio a livello periferico. Anche i servizi di polizia venivano nel contempo riordinati e affidati alla salda guida di un uomo abile anche se spregiudicato come l'ex giacobino Fouché.

Napoleone console a vita e il codice civile 

Sull'onda dei successi diplomatici e militari, e con il viatico confortante di questa profonda opera di ristrutturazione, Napoleone poté facilmente farsi proclamare console a vita (2 agosto 1802). Due anni dopo, a conclusione di un lungo lavoro di riforma legislativa, veniva promulgato il nuovo, monumentale codice civile dei Francesi, più tardi denominato Codice Napoleone. Esso era destinato a costituire la conferma e il presidio delle revisioni maturate nell'assetto politico e amministrativo della Francia.

La svolta monarchica 

Sbarazzatosi anche degli ultimi oppositori interni (i cosiddetti Chovan, appoggiati dall'Inghilterra), Napoleone ottenne quindi di trasformare la carica di console a vita in quella di imperatore ereditario dei francesi (maggio 1804). Un plebiscito abilmente pilotato dai prefetti e dalla polizia napoleonici sancì definitivamente il nuovo stato di fatto approvando a larga maggioranza la costituzione dell'anno XII.
La svolta monarchica di Napoleone poteva così dirsi compiuta.
A conferma di ciò, l'anno successivo l'imperatore assumeva la corona del regno italico (l'ex repubblica italiana), che fu affidato alla direzione del viceré Eugenio di Beauharnais, suo figlio adottivo. Con la nascita dell'impero, la Francia abbandonava alcuni dei principi del 1789, per imboccare apparentemente la strada di un'aperta restaurazione.

L'organizzazione imperiale 

Per volontà dello stesso Napoleone nacque, infatti, una vera e propria corte imperiale, con tanto di principi, dignitari, alti ufficiali; e fu creata una nuova aristocrazia, la nobiltà imperiale, tratta dalle file della borghesia, dell'esercito e della burocrazia (ma anche della vecchia nobiltà borbonica).
Ciononostante, il nuovo imperatore fu sempre attento a contemperare le esigenze di ordine e gerarchia con quelle di ascesa sociale rivendicate dai ceti borghesi. Non per nulla la maggior parte dei nuovi titoli nobiliari dell'impero toccò a esponenti della borghesia. Molte scelte del governo napoleonico conservarono così a loro modo una dirompente carica rivoluzionaria.
Questo almeno sperimentarono i paesi che, nel corso del decennio tra il 1805 e il 1814, entrarono a far parte del grande impero di Napoleone. Affidati perlopiù alla guida di membri della famiglia Bonaparte, essi furono infatti sottoposti alla regolamentazione di uno stesso corpo di leggi (quelle del codice Napoleone), che risentivano profondamente dello spirito borghese e antifeudale tipico degli anni della rivoluzione.

 

L'età napoleonica

 

La ripresa del conflitto con le potenze europee

Nel 1803, l'Inghilterra, timorosa delle mire espansionistiche di Napoleone, aveva rotto unilateralmente la tregua firmata ad Amiens: tra il 1804 e il 1805 Russia, Svezia, Austria e regno di Napoli si univano a lei nella terza coalizione antifrancese, mentre la Francia stringeva un'alleanza con la Spagna.
Le operazioni militari, condotte da Napoleone con la consueta abilità, confermarono l'assoluta preminenza delle armate francesi nelle battaglie di terra, ma anche la superiorità inglese sui mari. Il solo scontro vinto dalle forze della coalizione fu infatti la battaglia navale di Trafalgar (ottobre 1805), in cui l'ammiraglio inglese Nelson riuscì a distruggere completamente la flotta franco-spagnola prima di perdere la vita.
Sulla terraferma, però, Napoleone riuscì a sconfiggere ripetutamente le forze austro-russe, fino a cogliere una vittoria definitiva ad Austerlitz (2 dicembre 1805). L'Austria dovette così piegarsi alla firma della pesante pace di Presburgo (26 dicembre 1805).
Con essa, l'impero, asburgico rinunciava alle acquisizioni territoriali ottenute a Campoformio cedendo il Veneto, l'Istria e la Dalmazia al regno d'Italia. Inoltre, scioglieva dal vincolo formale di soggezione nei confronti dell'imperatore austriaco i due stati tedeschi del Wurttemberg e della Baviera, divenuti alleati della Francia. Nel 1806 le truppe francesi cacciavano dal meridione italiano i Borboni. Sul trono del regno di Napoli saliva Giuseppe Bonaparte, fratello dell'imperatore.
A un altro fratello di Napoleone, Luigi, veniva invece affidata la corona del neonato regno d'Olanda.

La fine del sacro romano impero germanico 

La pace di Presburgo ebbe come conseguenza immediata la definitiva dissoluzione del sacro romano impero germanico.
Nell'estate 1806 nasceva infatti sotto l'egida di Napoleone la Confederazione del Reno, che comprendeva una molteplicità di stati tedeschi in vario modo legati alla Francia. Il 6 agosto del medesimo anno lo stesso Francesco II d'Asburgo, preso atto della situazione, rinunciava definitivamente al titolo di imperatore del sacro romano impero, trasformandolo in quello di imperatore ereditario d'Austria. L'antica istituzione medievale cessava così di esistere anche sul piano formale.

La quarta coalizione antifrancese  

La formazione, nel cuore della Germania, di una confederazione di stati vassalli della Francia non poteva non suscitare l'ostilità della Prussia. Il re prussiano Federico Guglielmo III si avvicinò così al fronte anglo-russo, promuovendo la nascita della quarta coalizione antifrancese (autunno 1806).
Ancora una volta, però, Napoleone dimostrò la propria schiacciante superiorità di stratega, infliggendo alle armate nemiche una serie impressionante di sconfitte. Spezzata la resistenza prussiana nelle battaglie di Jena e Auerstadt, l'imperatore francese entrava così da trionfatore a Berlino. Nella successiva pace di Tilsit (giugno 1807) fu la Prussia a pagare il prezzo più alto della disfatta: quello che era stato il più potente degli stati tedeschi fu drasticamente ridimensionato. Una parte dei suoi territori andarono a costituire il regno di Westfalia, assegnato da Napoleone a Gerolamo Bonaparte (un altro fratello dell'imperatore). Altri ex domini prussiani vennero invece inclusi nel granducato di Varsavia, un nuovo stato satellite della Francia che in qualche modo riportava in vita lo scomparso regno di Polonia. Il titolo di granduca fu concesso a Federico Augusto di Sassonia, fedele alleato dei francesi.

Napoleone arbitro d'Europa 

Il grande impero di Napoleone era quasi giunto all'apogeo e il suo fondatore dettava ormai legge in tutta Europa, modificandone a piacimento la geografia politica.
Alla Russia, che pure era stata duramente sconfitta nelle battaglie di Eylau e Friedland (febbraio-giugno 1807), l'imperatore francese riservò invece un trattamento di riguardo. Nel 1807, infatti, Napoleone era ancora convinto di poter giungere a un'intesa con lo zar Alessandro I; magari sulla base di una ipotesi di spartizione dell'Europa in due sfere d'influenza. Per il momento la Francia si accontentava della promessa di un aiuto russo in caso di ripresa del conflitto da parte dell'Inghilterra.

Il blocco continentale  

L'Inghilterra restava ormai la sola vera antagonista di Napoleone sulla scena europea. Al fine di vincerne la resistenza, l'imperatore adottò una tattica di accerchiamento economico, decretando da Berlino il blocco dei commerci con l'isola (1806). I sudditi di tutti i paesi a vario titolo soggetti all'influenza francese, comprese Austria, Prussia e Danimarca, erano obbligati a non intrattenere alcun rapporto di scambio commerciale con l'Inghilterra.
blocco continentale non sortì gli effetti sperati dal suo ideatore: intralciando i traffici, specie di prodotti coloniali, esso colpì duramente l'economia inglese, da sempre imperniata sui commerci, ma non costituì mai quell'arma decisiva nella quale Napoleone aveva confidato.
L'Inghilterra reagì infatti da un lato con il contrabbando, dall'altro intensificando i propri rapporti commerciali con i continenti extraeuropei (Asia e Sudamerica anzitutto). La sua posizione di leader mondiale nella produzione e nella vendita di manufatti industriali ne uscì nel complesso rafforzata.
Il blocco ebbe casomai un effetto positivo sullo sviluppo dell'industrializzazione in alcuni paesi continentali, come il Belgio e la stessa Francia, costretti a potenziare la propria produzione di manufatti a causa della momentanea indisponibilità di quelli inglesi.

Gli effetti della dominazione napoleonica 

Gli interessi francesi furono sempre preposti a quelli delle nazioni che venivano via via assoggettate. Spesso, per sostenere le continue guerre, Napoleone applicò ai danni dei paesi alleati una politica di vera e propria spoliazione, che consisteva nell'imposizione di una pressione fiscale esorbitante. La stessa radicale ridefinizione della carta geopolitica europea operata da Napoleone fu fatta spesso in aperto spregio del tornaconto e delle aspirazioni dei popoli soggetti.
Ciononostante, l'egemonia napoleonica su quasi tutto il continente europeo ebbe una serie di conseguenze sia pur involontariamente positive. Dal punto di vista politico-sociale, il sistema francese, aggiornato dalle riforme di Napoleone (Codice civile, ristrutturazione amministrativa) ed esportato dalle sue armate in tutta Europa, attecchì felicemente ovunque. Molti paesi si incamminarono così sulla via dello svecchiamento amministrativo e burocratico, della laicizzazione dello stato, della tolleranza religiosa, dello stesso sviluppo in senso borghese-capitalistico sia dell'agricoltura sia dell'industria.
Il processo di rinnovamento interessò anche quelle nazioni dove l'influsso francese non si esercitò direttamente: l'efficacia e i successi materiali del modello napoleonico indussero infatti numerosi sovrani ad avviare un deciso ammodernamento degli apparati produttivi e delle strutture amministrative e di governo dei propri stati.

Il regno di Napoli e Gioacchino Murat 

Esemplare, da questo punto di vista, è la vicenda del regno di Napoli. Qui, per impulso di Giuseppe Bonaparte (1806-1808) prima, del suo successore Gioacchino Murat (1808-1815) poi, fu avviata una radicale opera di riforma destinata a modificare profondamente l'arretratissima struttura politico-sociale dello stato.
Il regime feudale fu definitivamente abbandonato; tutti i privilegi dei baroni vennero aboliti; la maggior parte dei beni ecclesiastici fu confiscata e messa in vendita; l'amministrazione pubblica fu riorganizzata secondo il modello francese; venne aperta la strada all'ascesa di nuovi quadri dirigenti d'estrazione borghese.

La nascita del patriottismo liberale 

Sul piano ideologico, l'imperialismo napoleonico diffuse in molti stati europei i germi di una coscienza patriottica e liberale destinata a decisivi sviluppi. Molti degli intellettuali che, nei decenni successivi, avrebbero animato i moti indipendentisti e costituzionali di paesi come l'Italia e la Germania si formarono proprio negli anni della dominazione napoleonica.
Scrittori come l'italiano Ugo Foscolo e filosofi come il tedesco Johann Gottlieb Fichte già allora additavano ai propri connazionali la via dell'emancipazione non solo culturale, ma anche politica ed economica, dei propri paesi.
Qualcosa di più concreto, ebbe modo di verificarsi laddove l'espansionismo francese entrò in contrasto con la suscettibilità non tanto dei sovrani, quanto dei popoli stessi che esso tentò di assoggettare: fu questo il caso della Spagna.

La penisola iberica sotto Napoleone  

I paesi che più risentirono del blocco continentale imposto da Napoleone furono il Portogallo e la Spagna. L'economia degli stati iberici era infatti fortemente legata agli scambi commerciali con l'Inghilterra; perciò i governi portoghese e spagnolo finirono per favorire un sempre più aperto boicottaggio dei divieti napoleonici.
Napoleone decise allora la conquista del Portogallo, prontamente effettuata dal generale Junot (1807). La reazione degli inglesi, che sbarcarono in forze nello stato iberico, costrinse però ben presto i francesi alla ritirata (1808).
Successivamente, Napoleone rivolse la propria attenzione alla Spagna, dove, approfittando dei contrasti sorti all'interno della dinastia regnante, impose un nuovo sovrano (10 maggio 1808) nella persona del fratello Giuseppe (già re di Napoli). Immediatamente però gli spagnoli diedero vita a una furibonda e inarrestabile guerriglia antifrancese.

La lotta antifrancese 

La nobiltà e il clero iberici ebbero buon gioco nel presentare Napoleone, oltreché come un invasore straniero, anche come un nemico del cattolicesimo, facendo così leva sulla radicata religiosità degli spagnoli. Nel gennaio del 1808, infatti, l'imperatore francese aveva ordinato l'occupazione militare dello Stato della Chiesa, i territori del quale furono in parte inclusi nel regno d'Italia, per il rimanente assoggettati al dominio diretto della Francia. Di fronte alle rimostranze di papa Pio VII, Napoleone aveva fatto imprigionare il pontefice a Fontainebleau (1809).
D'altro canto, gli occupanti francesi potevano contare in Spagna sul totale sostegno di un ampio schieramento di forze liberali (i cosiddetti afrancesados), che vedevano nel regime napoleonico un valido strumento di rinnovamento delle arretrate strutture politico-sociali spagnole.
Riuniti nelle Cortés di Cadice, questi elementi progressisti vararono una serie di importanti riforme (abolizione dei diritti feudali, confisca di molte proprietà ecclesiastiche), culminate nella promulgazione di una carta costituzionale assai avanzata, modellata su quella francese del 1791 (la celebre costituzione di Cadice del 1812). Ben presto, però, buona parte dei liberali spagnoli abbandonò il fronte degli afrancesados in nome della lotta a favore dell'indipendenza nazionale.
Dopo la sconfitta subita dalle forze di occupazione francesi a Bailen (luglio 1808), Napoleone fu costretto a intervenire personalmente in Spagna alla testa di una potente armata.
Ma il suo intervento non bastò a stroncare definitivamente la guerriglia spagnola, che, validamente sostenuta dagli inglesi, avrebbe costituito negli anni successivi una vera e propria spina nel fianco per l'impero napoleonico.

La quinta coalizione  

L'impegno delle armate napoleoniche contro la rivolta spagnola favorì la costituzione di una quinta coalizione antifrancese comprendente Austria e Inghilterra (1809).
Ancora una volta, Napoleone ebbe rapidamente ragione degli austriaci, sconfitti a Wagram. L'Austria fu così costretta a firmare la pace di Schönbrunn, che le imponeva ulteriori perdite territoriali (Galizia settentrionale; Carinzia e Carniola; Trieste e Fiume). L'imperatore asburgico Francesco II dovette inoltre acconsentire alle nozze della figlia Maria Luisa con Napoleone, che nel frattempo aveva divorziato da Giuseppina Beauharnais.
Con questo matrimonio l'imperatore francese otteneva di imparentare la propria famiglia con uno dei più antichi e nobili casati europei. Inoltre Napoleone, che dalla prima moglie non aveva avuto neanche un figlio, riusciva finalmente a dare al trono imperiale un successore: Francesco Carlo Napoleone, nato nel 1811 e insignito dal padre del titolo di re di Roma.

La campagna di Russia  

All'inizio del 1812, Napoleone era all'apice della sua fortuna. Pressoché l'intero continente europeo obbediva ormai ai suoi ordini; quelli che erano stati i suoi più acerrimi nemici (Prussia, Austria) erano ormai asserviti; l'Inghilterra, impegnata all'interno nella repressione dei moti luddisti, all'esterno nel conflitto con gli Stati Uniti (1812-1815), appariva del tutto fuori causa. L'imperatore francese pensò pertanto che fosse giunto il momento propizio per sbarazzarsi del suo ultimo rivale sul continente, ossia lo zar Alessandro I. Da tempo, questi, in spregio dell'alleanza precedentemente stretta con la Francia, aveva cominciato a muoversi alla ricerca di un'intesa in funzione antinapoleonica con diversi sovrani europei. Nel giugno 1812 Napoleone, alla testa di una formidabile armata composta di circa 700 000 uomini di varie nazionalità, apriva la campagna di Russia.

La disfatta dell'armata napoleonica 

L'avanzata francese procedette rapidissima, anche perché l'esercito russo evitò lo scontro in campo aperto, limitandosi a ritirarsi e applicando ai danni del nemico la tattica della "terra bruciata". In settembre Napoleone occupava Mosca; ma la città, nel frattempo, era stata incendiata dai patrioti russi e il governo zarista non diede alcun segno di voler intavolare trattative di pace. Intanto il terribile inverno russo si avvicinava. Rimasto privo di rifornimenti, l'imperatore francese dovette ordinare allora una ritirata che era destinata a trasformarsi in una tragica disfatta. Sfiancata dalla continua guerriglia orchestrata dall'esercito russo, decimata dal freddo e dalla fame, la grande armata napoleonica, quando attraversò la Beresina (novembre 1812), era ormai ridotta a poco più di 20 000 uomini. Il 5 dicembre, inoltre, Napoleone abbandonò quanto restava delle sue truppe per fare precipitosamente ritorno a Parigi, dove una cospirazione organizzata dal generale Malet e dall'opposizione cattolica minacciava il suo potere.

La caduta di Napoleone 

A questo punto, però, gli antichi avversari della Francia colsero la reale possibilità di smantellarne per sempre la potenza. Si costituì così una nuova coalizione antifrancese, la sesta, comprendente Russia, Prussia, Austria e Inghilterra. L'imperatore francese riuscì ad allestire in tutta fretta una nuova armata di circa 400 000 uomini, ma questa volta la fortuna non gli arrise. Sconfitto a Lipsia (battaglia delle nazioni, 16-19 ottobre 1813), Napoleone assistette al repentino sfacelo dell'impero da lui creato. Gli stati che lo componevano crollarono a uno a uno sotto l'incalzare degli eserciti alleati. Ben presto, lo stesso suolo francese fu invaso. Il 31 marzo 1814 Parigi veniva occupata da truppe russe e prussiane. Il senato francese si affrettò a dichiarare decaduto Napoleone e a nominare un governo provvisorio, presieduto da Charles Maurice de Talleyrand.
Il successivo trattato di pace di Fontainebleau (11 aprile 1814) attribuiva all'ex imperatore la sovranità sull'isola d'Elba e alla moglie Maria Luisa d'Austria i ducati di Parma e Piacenza, mentre sul trono francese tornavano i Borbone nella persona di Luigi XVIII, fratello di Luigi XVI, ghigliottinato nel 1792.

 

I "cento giorni"  

Il 26 febbraio 1815 Napoleone riusciva a fuggire dall'Elba e a sbarcare sul territorio francese, raggiungendo Parigi il 21 marzo. La capitale, abbandonata il giorno prima da Luigi XVIII, accolse ancora una volta il còrso con grandi manifestazioni di entusiasmo popolare.
Era l'inizio dell'ultima, effimera esperienza di governo napoleonico, detta dei "cento giorni" a causa della sua durata (marzo-giugno 1815).
Durante questo breve periodo, Napoleone si affrettò a modificare la costituzione imperiale al fine di guadagnare consensi tra le file dei liberali moderati e a manifestare, verso le potenze europee, solo propositi di pace.
I ministri dei paesi vincitori, riuniti a Vienna, si guardarono bene dal prestar fede a simili promesse e costituirono immediatamente una nuova coalizione antinapoleonica.
Napoleone fu pertanto costretto a prendere di nuovo le armi, ma le sue ultime speranze si infrangevano di lì a poco sul campo di battaglia di Waterloo in Belgio (18 giugno 1815). Definitivamente sconfitto dagli anglo-prussiani, fu segregato sull'isoletta atlantica di Sant'Elena, dove morì sei anni più tardi (5 maggio 1821).

La sconfitta di Gioacchino Murat 

Contemporaneamente giungeva a conclusione anche l'avventura italiana di Gioacchino Murat. Nel marzo 1815 aveva dichiarato guerra all'Austria, nell'estremo tentativo di conservare la corona del Regno di Napoli.
Da Rimini lanciò invano un proclama agli italiani, invitandoli a sostenere la lotta in nome dell'unità e dell'indipendenza nazionali. Poco dopo l'esercito napoletano fu sconfitto dagli austriaci a Tolentino e i Borbone tornarono definitivamente sul trono di Napoli.
Nell'ottobre successivo Murat sbarcato in Calabria, cercò di suscitare una rivolta delle popolazioni locali; ben presto però fu catturato dalla polizia borbonica e condannato a morte.

 

La frontiera americana

Gli Stati Uniti sulla scena mondiale 

Nel corso dell'Ottocento un intero continente del tutto "nuovo" si è ormai definitivamente imposto sulla scena internazionale come soggetto politico autonomo: quello americano. La storia, si può dire, dilata i propri confini, divenendo veramente "mondiale".
All'interno di tutto il continente americano, ormai da tempo pervenuto alla pressoché totale emancipazione politica, furono in particolare gli Stati Uniti ad assumere il ruolo di paese guida.
L'assetto istituzionale del nuovo stato fu in buona misura il risultato delle aspre lotte politiche che segnarono la sua storia all'indomani della vittoriosa lotta per la conquista dell'indipendenza (1776-1783). Gravi erano i problemi sul tappeto: si trattava di stabilire quale forma di governo e di amministrazione dare non solo alle tredici ex colonie britanniche, ma anche ai territori di nuova acquisizione (come la Louisiana, comprata nel 1803 da Napoleone, o gli altri ex domini francesi, o ancora i nuovi stati dell'Ovest sorti oltre i monti Allegheny: Kentucky, Tennessee, Ohio).

Federalisti e democratici 

L'opinione pubblica statunitense si divise in due schieramenti contrapposti: quello dei federalisti, guidato da Alexander Hamilton, e quello dei democratici, capeggiato da Thomas Jefferson. I primi, che potevano contare fra i loro esponenti anche George Washington, presidente degli Stati Uniti dal 1789 al 1797, sostenevano la necessità di avere un forte governo centrale; i secondi (che venivano chiamati anche repubblicani) propendevano piuttosto per un ampliamento delle prerogative dei singoli stati e per l'attribuzione di poteri molto limitati al governo federale.
L'iniziale alleanza tra i ceti imprenditoriali delle città del Nord e i grandi proprietari terrieri del Sud era sfociata nel varo di una costituzione che dava ampio spazio alle rivendicazioni federaliste: al presidente della repubblica, capo del governo centrale, erano infatti riconosciuti ampi poteri in materia di politica estera, militare, commerciale e fiscale. I rapporti di forza tra federalisti e democratici si invertirono però negli anni successivi. La rottura della provvisoria alleanza tra borghesia nordista e latifondisti del Sud aprì la strada a una decisa affermazione dei democratici.
Il partito federalista in breve tempo scomparve, mentre la guida del paese veniva assunta dal democratico Thomas Jefferson. Durante la sua lunga presidenza (1801-1809), una serie di leggi approvate dall'ampia maggioranza repubblicana ridusse consistentemente i poteri del governo federale, soprattutto in campo fiscale e finanziario.

Il consolidamento della nuova nazione 

Una parziale inversione di tendenza, rispetto al deciso decentramento voluto da Jefferson, si ebbe però sotto il suo successore, James Madison (1809-1817), pure appartenente allo schieramento repubblicano. Durante la sua presidenza gli Stati Uniti ingaggiarono una guerra con la Gran Bretagna (1812-1815) nel tentativo di strapparle il Canada. Sotto il profilo dell'ingrandimento territoriale, il conflitto si concluse con un nulla di fatto, ma i legami tra gli stati dell'Unione ne uscirono fortemente rafforzati. La nuova nazione veniva così acquisendo gradualmente una propria ben definita identità. Lo scontro con la ex madrepatria ebbe poi un'altra positiva conseguenza: il lungo embargo dei manufatti industriali, imposto dal governo inglese nel corso delle operazioni militari, stimolò potentemente lo sviluppo dell'industria statunitense.
Alla fine degli anni Venti, gli Stati Uniti erano così già diventati la massima potenza industriale del continente americano. Un' ampia disponibilità di manodopera a basso costo era del resto garantita agli industriali statunitensi dall'imponente flusso migratorio proveniente dall'Europa (Irlanda e Germania soprattutto): la popolazione complessiva del paese passò da 4 milioni nel 1790 a oltre 10 milioni nel 1820.

La Frontiera  

L'estensione territoriale del giovane stato intanto cresceva rapidamente. A ridosso della fascia atlantica delle tredici ex colonie originarie si aprivano infatti gli sterminati territori vergini della cosiddetta Frontiera, alla conquista dei quali mosse fin dai primi anni del secolo un fiume inesauribile di pionieri. Sospinti sempre più a ovest in direzione del Pacifico, alla ricerca di nuove terre da coltivare, i colonizzatori bianchi entrarono però ben presto in conflitto con i primitivi abitatori di quelle regioni, spregiativamente chiamati indiani, pellirosse. Incapaci di comprendere la loro diversa cultura e incoraggiati dal governo, i pionieri non esitarono a procedere al sistematico sterminio di quelle popolazioni ai loro occhi selvagge.
Il cammino verso il mitico far west, proseguito inarrestabilmente per tutto il XIX secolo, comportò così quello che oggi appare come un vero e proprio genocidio, perpetrato con il beneplacito delle autorità governative e l'aiuto dell'esercito regolare. Esso determinò la pressoché totale scomparsa dell'elemento indigeno, i costumi e la civiltà solo molto più tardi rivalutati.
La conquista dell'Ovest, con tutte le sue luci e le sue tragiche ombre, fu ad ogni modo un fattore formativo decisivo della vita americana. In essa andrebbero cercate le radici di quell'innato spirito d'iniziativa individuale, di quell'amore per la libertà e per l'uguaglianza, di quelle propensioni democratiche che apparterrebbero al carattere del cittadino americano. Ingigantito dall'apporto di sempre nuove masse migratorie, il popolo dei pionieri abbandonò per tempo la prima storica frontiera posta alle sorgenti dei fiumi al di là degli Allegheny. Già verso l'inizio del XIX secolo i bacini del Mississippi e dell'Ohio si stavano tramutando nelle nuove basi dalle quali partire alla conquista di altri territori.

La crescita economica 

Tra le principali conseguenze di questo processo si ebbe anche, dopo il 1812, lo smisurato aumento della superficie disponibile per la coltivazione del cotone. Questo tipo di coltura si era rapidamente diffuso nei territori dell'Ovest, espandendosi lungo il corso inferiore del Mississippi fino al Texas. Non si trattava certo di un processo di secondaria importanza, anche perché ben si sposava con il rapido sviluppo delle industrie tessili del Nord.
Queste ultime avevano conosciuto uno straordinario incremento produttivo in seguito all'introduzione e alla rapida diffusione di una nuova macchina per sgranare il cotone brevettata da Eli Whitney nel 1794. Ben presto la coltivazione del cotone, basata sul sistema della grande piantagione e sull'ampio ricorso al lavoro di schiavi di colore, superò nel sud quella di altri generi come, per esempio, il tabacco e lo zucchero, pure assai ricercati.
Il trentennio di pace pressoché ininterrotta goduto dagli Stati Uniti a partire dal 1815 ne favorì insomma, sotto ogni profilo, una crescita dai ritmi straordinari.
Una riprova di ciò è costituita dal costante aumento della popolazione, giunta nel 1840 a sfiorare la cifra record di 17 milioni di abitanti.

La politica estera degli Stati Uniti 

Anche in campo internazionale, gli Stati uniti cominciarono ad assumere un ruolo da grande potenza. Nel 1823 il presidente James Monroe (1817-1825) stabiliva i principi di una concezione che per circa un secolo avrebbe ispirato la politica estera del paese: la cosiddetta "dottrina Monroe". Enunciata non a caso nel momento nel quale era in atto la disgregazione degli imperi coloniali europei in Sudamerica, essa si compendiava nella formula: "L'America agli americani".
Sostanzialmente, Monroe intendeva affermare la volontà degli Stati Uniti di non ingerire negli affari europei, in cambio però di un corrispondente disinteressamento europeo nei confronti dei problemi del continente americano. Certo, l'anti-interventismo del presidente americano appare quanto meno sospetto, se si considera che gli Stati Uniti furono poi pronti ad approfittare dello sfacelo del sistema coloniale spagnolo per annettersi i territori del Texas, dell'Arizona, del Nuovo Messico e della California.
Qualcuno ha visto nella dottrina Monroe una sorta di prefigurazione della vocazione imperialistica statunitense; ciò non toglie che essa fu importante per garantire la crescita del paese.

 

 

Bolivar, el libertador

 

Realtà politica e sociale dell'America latina 

Il processo rivoluzionario destinato a mutare il volto dell'America latina anticipò il succedersi dei moti liberali europei e si svolse in un arco ridotto di tempo, tra il 1808 e il 1825. Esso appare tuttavia direttamente collegato agli sviluppi della storia europea e alla graduale ascesa degli Stati Uniti.
La crisi della monarchia spagnola durante l'occupazione napoleonica, il nuovo corso della politica estera inglese e l'esempio fornito dai coloni nordamericani sono alla base del vasto sommovimento che portò all'indipendenza la quasi totalità degli ex possedimenti coloniali spagnoli e portoghesi.
Intorno alla fine del XVIII secolo, essi erano abitati da una popolazione fortemente differenziata sotto il profilo etnico, sociale ed economico. Esisteva anzitutto una ristrettissima minoranza di europei, impegnati perlopiù nell'amministrazione coloniale. Il ceto più ricco e influente, se non il più numeroso in assoluto, era però quello dei grandi proprietari terrieri creoli, ossia bianchi ma nativi del Nuovo Mondo. Al di sotto di loro, nella gerarchia sociale, vi era poi un consistente ceto di meticci, nati dall'unione di bianchi e indigeni.
Infine vi erano gli indios, gli abitatori originari del Sudamerica, tenuti in una condizione semi servile, e, soprattutto in Brasile, gli schiavi neri importati dall'Africa.

 

I creoli anima dei movimenti indipendentisti  

La consistenza numerica e la forza economica dei creoli, di fatto detentori del monopolio delle attività produttive, facevano di per sé presagire come imminente un tentativo di sottrarsi alla tutela politico-amministrativa dei funzionari spagnoli e portoghesi nominati dalla madrepatria. A ciò va aggiunto che i governi di Spagna e Portogallo attuavano una politica fiscale e commerciale che penalizzava fortemente gli interessi delle colonie; essi, inoltre, si impegnavano in qualche misura nella tutela dei diritti degli indios, dei neri e dei meticci. Insofferenti verso il giogo finanziario esterno, i creoli si battevano invece per il liberoscambismo.
Da questo punto di vista, i loro interessi coincidevano perfettamente con gli interessi dell'Inghilterra, che infatti offrì il proprio appoggio e il proprio incoraggiamento alla loro lotta.
La grande proprietà terriera creola inoltre non faceva mistero della propensione allo sfruttamento illimitato della manodopera indigena e servile, nell'ambito di un sistema produttivo basato su una originale sintesi di elementi di feudalesimo e capitalismo.
Infine, non mancava nei creoli la coscienza dei mutamenti intercorsi in Europa in campo politico e culturale. La stessa breve stagione delle riforme vissuta dalle monarchie iberiche aveva favorito anche nelle colonie una certa circolazione delle idee illuministiche e rivoluzionarie, indicando alla borghesia creola la strada della propria emancipazione. Un potente contributo in tal senso fu fornito anche dalla massoneria.

La lotta contro la Spagna  

La prima fase delle lotte per l'indipendenza fu caratterizzata dallo scontro tra i governatori spagnoli e i cabildos, ossia i consigli comunali delle principali città come Caracas, Santiago o Buenos Aires. Questi, tra il 1808 e il 1810, si erano arrogati di fatto tutti i poteri, configurandosi come veri e propri governi provvisori (che pure non smettevano di dichiararsi fedeli alla monarchia borbonica, rifiutandosi di riconoscere come sovrano Giuseppe Bonaparte).
Nel 1811 la giunta creola di Caracas si spinse fino a proclamare l'indipendenza del Venezuela. La madrepatria, però, occupata da Napoleone, non era in grado di inviare soccorsi; così per quasi sette anni l'America Latina fece una salutare esperienza di autonomia politica e libertà commerciale.
Lo sforzo compiuto dai Borbone restaurati dopo il 1815 per ritornare all'antico regime risultò fatale alla Spagna. Dieci anni più tardi, essa conservava del suo immenso impero sudamericano soltanto i possedimenti caraibici.
Dietro impulso di uomini come i venezuelani Simón Bolívar (1783-1830), detto El Libertador, e Francisco Miranda (1756-1816), e sotto la guida di accorti capi militari come José de San Martin (1778-1850), una dopo l'altra tutte le province del subcontinente avevano seguito l'esempio del Venezuela.

La conquista dell'indipendenza 

L'Argentina, rimasta presto priva delle regioni del Paraguay e dell'Uruguay resesi autonome, annunciò il proprio formale distacco dalla madrepatria nel 1816 al congresso di Tucuman.
Nel 1817 conquistava l'indipendenza anche il Cile; intanto Bolívar promuoveva la rivolta della Grande Colombia (1819), destinata più tardi a scindersi nelle attuali tre repubbliche della Colombia, dell'Ecuador e del Venezuela. In azione congiunta con José de San Martin, El Libertador liberava poi l'antico vicereame del Perú (1821), una parte del quale, col nome di Bolivia, si rendeva a sua volta autonoma quattro anni più tardi. Il panorama rivoluzionario dell'America latina era completato dagli avvenimenti messicani.
In maniera parzialmente diversa, con la complicazione della rivolta delle popolazioni indie e della parentesi monarchica del generale Augustin de Iturbide, anche il Messico si costituiva infatti nel 1821 in Repubblica indipendente. La medesima forma di governo fu poi scelta anche dai territori dell'America centrale che costituirono la Confederazione delle Provincie Unite di Guatemala, Honduras, Nicaragua, Salvador e Costarica. Il Brasile pervenne invece all'indipendenza per vie pacifiche.
I coloni riuscirono infatti a trasformare il loro paese in stato autonomo sotto la guida dell'imperatore don Pedro (1822), figlio di Giovanni VI del Portogallo, costretto a rimpatriare a Lisbona.

 

L'instabilità dell'America Latina  

La storia dell'America Latina nel periodo successivo all'indipendenza fece registrare l'introduzione di moderne carte costituzionali, ma anche un continuo alternarsi di rivoluzioni e controrivoluzioni, di dittature militari e di periodi di anarchia all'interno dei singoli paesi. Frequenti pronunciamentos (colpi di stato) portarono alla ribalta nuovi capi politici, sempre più spesso reclutati negli ambienti militari egemonizzati dalla grande borghesia di pelle bianca.
Se si eccettua il caso del Brasile, che conobbe uno sviluppo socio-politico abbastanza lineare, e di altri pochi paesi come l'Ecuador, l'America latina fu insomma caratterizzata da una estrema instabilità politica. Alla radice di questo stato di cose, destinato a perdurare fino ai tempi più recenti, vi era un complesso di fattori di varia natura, tra i quali spiccano però le gravi e irrisolte contraddizioni insite nel sistema economico più diffuso in tutto il subcontinente.

 

Lo sfruttamento dei paesi latinoamericani 

Gli Stati Uniti, particolarmente interessati all'America latina, si proposero come stato-guida con la "dottrina Monroe" del 1823. E l'Inghilterra vide nei paesi latinoamericani un enorme mercato per i suoi manufatti oltreché una fonte di materie prime pregiate.
Si creò quindi una forte dipendenza, destinata a durare fino al Novecento, che lasciò l'America latina priva di solide basi strutturali e spogliata delle sue risorse. Allo sfruttamento del sottosuolo, iniziato dai conquistadores, seguì quello del suolo con le colture intensive di prodotti tropicali (come la canna da zucchero e il caffè, per le quali si dovettero importare schiavi dall'Africa) e con gli estesi allevamenenti di bestiame. La ricchezza si concentrò nelle mani di poche famiglie locali, ma il potere rimase agli Usa e all'Inghilterra.

 

Fonte: http://files.achillefolgieri.webnode.com/200000290-ecfbcedf5b/Storia%20Moderna.doc
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