Appunti teoria argomentazione giuridica

 

 

 

Appunti teoria argomentazione giuridica

 

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Teoria dell'argomentazione giuridica

 

1°Lezione del 04.03.08

 

Cosa si intende per Teoria dell'argomentazione giuridica?

Oggi cercherò di caratterizzare l'inizio del nostro corso soffermandomi sul sintagma che dà il nome alla nostra materia “argomentazione giuridica”; cercherò di dirvi cosa si intende. Il termine “argomentazione” ve lo traduco con sinonimi: commentare, motivare, giustificare, dare ragione. L'oggetto di questo motivare è il diritto, ecco perché parliamo di argomentazione giuridica, perché tenteremo di esaminare quali sono le condizioni che rendono possibili quel motivare che ha per oggetto il diritto. Il termine motivare, giustificare, commentare è un termine che intuitivamente tutti riusciamo a comprendere mentre invece quando iniziamo a chiederci cosa è il diritto, è opportuno delimitare le risposte. Noi ci soffermeremo solo su uno dei modi con cui il diritto si dà, e in particolare quel Diritto dei Giudici, e quindi il nostro argomentare avrà ad oggetto quel diritto che producono i giudici, quello che i tedeschi chiamano  RICHTERRECHT, quel diritto che tutti conosciamo con riferimento a quella norma individuale che chiamiamo  SENTENZA, e quindi il nostro corso sarà di logica del motivare quella norma chiamata sentenza.

Prima del diritto prodotto dai giudici (i quali x l’esegesi dovrebbero applicare il diritto che c'è, non devono produrlo) ci sono altri modi di essere del diritto:

  1. diritto prodotto dagli organi Legislativi, la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere, ci si riferisce alle molte leggi prodotte da questi organi;
  2. diritto prodotto dagli organi di Governo;
  3. delibere della Pubblica Amministrazione;
  4. delibere che derivano dal consiglio delle imprese private, creano rapporti giuridici;
  5. diritto prodotto dagli organismi Internazionali e trattati tra gli Stati;
  6. diritto di costituzione Consuetudinaria;
  7. fenomeni giuridici chiamati da Rodolfo Sacco “CRITTOTIPI”; c'è una giuridicità diffusa nell'esperienza umana che a volte non necessariamente ha una sua produzione nomografica (alla quale non necessariamente corrisponde una codificazione), diffusa perché capace di regolare l'esperienza umana, crea rapporti giuridici ma rimane nascosta, legata ad una esperienza la cui spontaneità è irretrattabil. Faccio degli esempi:

- norma non scritta ma principio basilare della costruzione giuridica ed è la NORMA FONDAMENTALE di Kelsen: “si deve obbedienza alla Costituzione”; è un principio basilare in quanto non sarebbe pensabile l'ordinamento giuridico senza la medesima,ma la medesima non ha un espressione nomografica.

Principi logici della costruzione giuridica, non hanno bisogno di una espressione nomografica. Ci sono per esempio delle condizioni di validità che studieremo durante il corso che hanno altrettanta forza, perché sono dei veri e propri principi logici ad es. che ci debbano essere per un negozio di        compravendita, le due parti, l’accordo ecc. ci dicono tutto sommato qualcosa che appartiene all'idea stessa di compravendita, e non sono condizioni stabilite da un legislatore, ci sarebbero lo stesso in questo senso la spontaneità dei crittotipi. Trovo interessante questo passaggio?
Perché i crittotipi agiscono come esimente, cioè sono legati a DOVERI GIURIDICI che NON hanno espressione nomografica, appartengono al diritto perché sono principi basilari. I giuristi sanno che molta giurisprudenza chiama in causa questi principi dell'ordinamento giuridico, che sono essenzialmente PRINCIPI LOGICI dell'ordinamento. Non hanno necessariamente espressione nomografica, c'è la tesi di Cristina Romanò, che ha esplorato la giurisprudenza francese per scoprire quest'aspetto crittotipico, che nell'esperienza francese è una figura essenziale di molta giurisprudenza, dove il magistrato applica doveri giuridici che hanno solo un nesso logico con i doveri che hanno un espressione nomografica ma che di per sé non hanno espressione nomografica, ma altresì sono impliciti. Fenomeno quotidiano dei crittotipi lo rinveniamo per es. nella discussione con il relatore della tesi, nessuno chiede delle norme vigenti, e come si debba procedere e quali titoli deve avere il relatore. Noi agiamo rispettando doveri che per noi sono basilari per i rapporti giuridici, senza chiederci se siano effettivamente dei doveri scritti in qualche norma. In realtà sono nascosti, tele è la loro forza e la loro spontaneità di formazione che li fanno rientrare nella giurisprudenza perché hanno un nesso come esimente, hanno un nesso logico con qualcosa che è loro espressione.

Vi sono doveri formati da una cogenza, da una spontaneità che non hanno bisogno di essere tematizzati, perché questi doveri sono il prodotto di un esercizio spontaneo. La spontaneità, la ripetizione ha sostituito la necessità di dare un espressione nomografica a questi doveri.

8)Abbiamo un altro diritto che nel 900 è stato tragicamente al centro dell'esperienza giuridica ed è il diritto che GUSTAV RADBRUCH chiama DIRITTO SOPRALEGALE (UBERGESE TZLICHES RECHT), il diritto che è sopra alle leggi; “le leggi non sono tutto il diritto”. Ci sono per esempio sentenze della Corte Costituzionale  tedesca, sentenze che risalgono alla fine del 3° REICHT che stabiliscono che la Costituzione tedesca non è diritto. Da parte del giurista sarebbe una cosa priva di giudizio scientifico sostenere che la Costituzione tedesca non ha niente di giuridico. In realtà è la stessa Costituzione tedesca art.3 a dire: IL DIRITTO NON E' L'INSIEME DELLE NORME SCRITTE”, lasciando intendere che ci sia anche un diritto sopralegale. Non è il diritto del crittotipo, perché il crittotipo é si muto ma non al di sopra della legge (al contrario il crittotipo è relato alla legge; non è ciò che è scritto ma ciò che è collegato implicitamente a ciò che è scritto, e il giudice rende esplicito ciò che è implicito). Qui invece è un diritto sopra le leggi. Perché è importante dire “sopra”? Ecco anche qui, nessun giurista serio direbbe che la giurisprudenza tedesca dal '46  in poi sia da buttare a mare perché non ha niente di giuridico. La giurisprudenza tedesca che ha giudicato l'esempio dei crimini commessi nella Germania Nazista, e quindi la giurisprudenza che va subito dopo la 2° guerra, che ha affermato questo principio che ci sono delle leggi che il legislatore può porre ma che non hanno e non possono avere mai vera validità giuridica perché non possono essere diritto e al posto di queste c'è questo diritto sopralegale; cosicché  in innumerevoli processi gli imputati non hanno potuto difendersi sostenendo quel principio che è alla base del liberismo giuridico contemporaneo che dice “la legge è le legge”; questi non hanno potuto difendersi perché in quel contesto valeva un principio diverso “ciò che è giuridico non è necessariamente ciò che è scritto nelle leggi”. Molte tragedie del 900 sono sorte sulla base proprio della volontà di identificare la giuridicità con qualcosa che dentro di sé non ha nulla di giuridico, e non si comprenderebbe gran parte della giurisprudenza del 900 e di certi processi pervasivi se si sostenesse il principio  di mera e semplice legalità.

Noi affronteremo meglio questi aspetti, in questa prima lezione mi interessava richiamare la vostra attenzione a quel diritto che chiameremo RICHTERRECHT ( diritto prodotto dal giudice).

Dunque allora Argomentazione giuridica di per sé potrebbe significare, motivare, giustificare, noi ci occuperemo di un settore piccolissimo del diritto ossia il diritto prodotto dal giudice che si distingue da tutte queste altre forme di diritto, anche se il diritto prodotto dal giudice presuppone tutte le forme del diritto. Il nostro corso sarà indirizzato a meglio esplicitare la giustificazione razionale del diritto prodotto dai giudici, sarà incentrato sull'argomentazione in generale del processo.

La necessarietà di questo corso sulla teoria della motivazione delle sentenze si ricollega a mio parere ad un paradosso: da una parte appare impossibile che le facoltà giuridiche siano anche facoltà filosofiche, una facoltà che da una parte aspira a porre domande su ciò che fonda il diritto in rapporto alla ragione, dall'altra l’inevitabilità che una facoltà giuridica recuperi presto o tardi il tema del  nesso del diritto con la giustificazione. Mi rendo conto che è un tema difficile da presentare in un aula di giurisprudenza, specie nella nostra tradizione occidentale molto intasata di giuspositivismo (idea del diritto come prodotto della volontà del legislatore). Io sosterrò una tesi che riprende una tradizione diversa da quella occidentale. La tesi è semplice: parto da una domanda, voi direste che una norma del tipo “O LA BORSA O LA VITA”, è una norma giuridica? L'evidenza è che questa non sia una norma giuridica, chi la pronuncia esprime il contenuto di un ordine delinquenziale che non è il contenuto di una norma giuridica. Cos'è? E' sicuramente un fenomeno diverso dalla norma giuridica. Possiamo distinguere su un piano ideale l’ORDINAMENTO GIURIDICO dall'ORDINAMENTO DELINQUENZIALE. Cosa non c'è in quel ordine “o la borsa o la vita” e che invece c'è nel ordinamento giuridico è fondamentale? La differenza la possiamo cogliere operando come fossimo fenomenologi, ossia andando a vedere come stanno le cose. L'idea di legalità senza limiti che non si controbilancia con un istanza di giustizia minima, sia d'esempio da rimanere ottusamente e banalmente di riflesso dinanzi a norme odiose, ma secondo voi se un nostro legislatore oggi ci ponesse come norme le leggi razziali, cosa che si è fatto, se riproponesse questo, davvero ci sarebbe qui un professore di diritto che a un’aula come questa viene a spiegare che “ la legge è la legge”, ingorando l'esperienza storica di un passaggio cruciale e irreversibile quale quello della seconda guerra mondiale. Torniamo allora a quell'ordine, cosa gli manca? E’ un ordine, un’espressione non presuppone un DIALOGO, presuppone la chiusura di un dialogo, non presuppone una teoria dell'argomentazione giuridica, una teoria del rendere conto di ciò che chiede. Se ti sto dicendo “o la borsa o la vita”, e perché voglio ottenere un effetto dogmatico punto e basta. Il discorso è semplice, non è diritto una normatività che non si apre ad una motivazione, che esclude già all'inizio una spiegazione, che mette fuori da subito qualunque ragione, non è diritto ma è ciò che noi chiamiamo fenomeno delinquenziale. Sono due fenomeni diversi, hanno un ontologia diversa, c'è una normatività che non è giuridica ed è quella che non si apre a nessuna motivazione, anzi la esclude categoricamente sicché se si chiede il perché, la risposta sarebbe: è nell'evidenza della verità di quel fenomeno che non c'è nessuna motivazione.

Il fenomeno giuridico si distingue da quello delinquenziale in quanto non sarebbe pensabile diversamente, la nostra nozione del diritto è una nozione che non può non implicare il tema della motivazione, proprio questo è il punto cruciale, non saremmo compresi né come uomini che vivono la loro storia personale né come studiosi di diritto, non saremmo compresi se non facessimo questa distinzione basilare, e cioè che ci sono due ordini normativi diversi che si contrappongono, l'ordine delinquenziale che non si apre a nessun dialogo e l'ordine giuridico che attende una giustificazione una motivazione. Allora perché è inevitabile che ci sia un corso di argomentazione giuridica, ma perché il diritto è questo, è soprattutto argomentazione giuridica, il diritto è soprattutto in questo senso filosofia del diritto. Chi non sa argomentare non è in grado di innovare il diritto, è nell'ontologia del diritto questo richiamo alla motivazione, alla giustificazione razionale. Se le cose non stanno così o non seguono la strada, non è che cambia la natura del diritto, gli uomini non possono opporsi a questa evidenza, non si può eludere l'evidenza fenomenologiaca delle cose, quella che decide in modo basilare delle nostra esperienza storica. Il prodotto della nostra umanità non ci permette di poter immaginare un ordine giuridico che contenga dentro di sé leggi come le leggi razziali; è da folli partire da un idea di giuridicità che non apprenda nulla dall’esperienza drammatica che l'umanità ha vissuto con la 2°guerra, è cosa che può avere senso per quella contemporaneità del 1938 ma non per la nostra contemporaneità nel 2008, questo è il punto, e non c'è legalità che tenga dinanzi a questa preposizione, e non c'è nemmeno nozione scientifica che tenga, perché una nozione scientifica che sia robusta sa partire da un presupposto molto chiaro che è la giurisprudenza. Ripeto: nell'occidente europeo la Germania post-nazista è un fenomeno giuridico, nessuno di noi riterrebbe da giurista serio che quelli non sono fenomeni giuridici, quelle sentenze contengono dentro di sé un principio basilare che è il principio dell'UBERGESETZLICHES RECHT. Naturalmente se c'è una sentenza che si poggia sull’ ubergesetzliches recht è perchè c'è anche un torto legale lo GESETZLICHES UNRECHT, un ingiustizia prodotta dalle leggi, che diventa rilevante quando questo torto è particolarmente odioso, irriconoscibile per la nostra coscienza storica, ripeto faccio l'esempio delle leggi razziali, se mai queste possono essere prodotte da un qualsiasi legislatore, la nostra coscienza potrebbe recepirle come contenuto di norme possibili? Non lo ritengo possibile, e non c'è principio di legalità che tenga. Non è possibile, né ammissibile, se ci si vuole fare carico in senso scientifico, umano, storico del processo umano e sociale che ha riguardato la nozione di diritto negli anni della seconda guerra mondiale.

Quindi un altro sintagma che si contrappone all UBERGESETZLICHES RECHT è IL GESETZLICHE UNRECHT.  L' ubergesetzliches recht dice che c'è un diritto sopra alle leggi però non è detto che le leggi siano aderenti al diritto statutario, però ci può essere il problema che ci siano leggi che esprimano un torto, un ingiustizia radicale, cosa fare dinanzi a ciò, qual'è il principio di validità?? L'attività del legislatore è quella di porre norme e presuppone che sia giusta; il giudice presuppone non la giustizia delle norme ma la validità delle norme. Es. Art 544 ter. c. p punisce chi maltratta gli animali, questa norma può generare due giudizi che sono:

  1. l'art 544 è una norma valida;
  2. l'art 544 è una norma giusta.

Secondo voi quale dei due giudizi appartiene al legislatore? Ovviamente il secondo. Il primo presuppone l’attività del giudice, non del legislatore.

Il problema che deve risolvere il giudice è quello del valore delle leggi che si può risolvere solo in un modo, sostenendo che appartiene alla validità anche il valore, sicché ad esempio alcune leggi non sono più proponibili e la giurisprudenza tedesca questo ha detto. Il giudice ad esempio del tribunale amministrativo tedesco nel 1946 giunge a stabilire che le leggi sulla confisca sui beni degli ebrei, stabilite in modo unilaterali dallo stato del 3° REICHT, non hanno mai avuto validità; non erano leggi, né tantomeno l’imputato per aver applicato questa legge può difendersi dicendo <<io ho rispettato la legge>>, perché quelle leggi non avevano alcun valore. Ci sono momenti cruciali anche dell'esperienza giurisprudenziale, dove il giudice sostiene che la validità coincide con la giustizia. E ci sono invece momenti altrettanto cruciali come l'art.3 della Costituzione tedesca  e le sentenze della Corte Costituzionale tedesca che ci aiutano a dire che il diritto non è l'insieme delle leggi scritte; c'è un diritto sopralegale e questo lo dice la giurisprudenza tedesca.

Voglio dare ancora degli ulteriori elementi introduttivi dopo aver ribadito le questioni discusse fino ad ora, questioni fondamentali:

  1. ci siamo chiesti che cosa intendiamo per teoria dell'argomentazione giuridica, ed abbiamo detto che la nostra sarà una motivazione della sentenza, sapendo anche che quando parliamo di diritto il tema potrebbe essere molto più ampio, perché potrebbe riguardare il diritto in sé e perché la stessa teoria del diritto prodotto dai giudici può essere o teoria generale del processo oppure teoria della topica giuridica ecc.
  2. ci siamo chiesti che cosa motiva la necessità di un corso di teoria dell'argomentazione giuridica; qui ve l'ho presentato con un paradosso dell'impossibilità di rinunciare allo stesso, ma nello stesso tempo è un’inevitabilità reale. Abbiamo detto che l'inevitabilità la riconduciamo a ciò che è diritto, ad una prima ontologia di base di che cosa è il diritto. Il diritto senza motivazione razionale non è diritto.

Prima di lasciarvi e di darvi appuntamento alla prossima lezione, voglio aggiungere un altro argomento che fino ad ora ho solo accennato, e che riguarda ciò che distingue l' ATTIVITA' LEGISLATIVA dall' ATTIVITA' GIURISDIZIONALE. Mi confronto con l'attività legislativa per meglio evidenziare i tratti specifici dell'attività giurisdizionale. Naturalmente capite bene che l'attività legislativa non potrebbe coprire tutti gli spazi della giuridicità, ciò è impossibile. Pensare che il legislatore occupi gli spazi giurisdizionali e così anche lo spazio amministrativo, degli atti privati, notarili è impensabile, salvo immaginare il legislatore come il cartografo che realizza una carta geografica grande quanto il territorio che vuole rappresentare, cosa non possibile. Occorre quindi che le attività giuridiche siano diverse. Cosa le differenzia? L'attività legislativa pone norme e presuppone la giustizia di esse; l'attività giurisdizionale invece presuppone le norme,e la loro validità. Altro fattore di differenziazione: il legislazione da soluzioni a problemi sociali, politici attraverso risposte che tendenzialmente possono essere ILLIMITATE, sullo stesso caso il legislatore può dare più soluzioni, c'è questa possibilità ma è meglio che non ci fosse. Il giudice invece deve dare una sola soluzione al caso che affronta, si possono succedere vari gradi del processo e giudici diversi, comunque in un numero limitato, non c'è un ordinamento razionale che dà un numero illimitato di appelli, anzi tende a restringere il numero di attriti previsti già, una cosa è certa o per un senso logico o per un senso che si riconduce all'ordinamento vigente la risposta del giudice deve essere una; poi quando si giunge al sentenza definitiva, detta definitiva perché non se ne possono creare altre. Così da una parte c'è la possibilità di dare risposte anche in un numero illimitato dall'altra parte invece la risposta dev'essere una. Terzo aspetto: l'attività giurisdizionale è legata, mi riferisco alla forma giuridica, ad una forma esterna, cioè ad un assetto dell'attività giurisdizionale disciplinato da norme, è legata alla MOTIVAZIONE. Ci sono norme della nostra Costituzione e norme dei nostri codici che vincolano la validità della sentenza alla motivazione; cito soltanto l'art 111 della Costituzione, che dispone che i provvedimenti giurisdizionali hanno l'obbligo della motivazione. Questa forma giuridica della motivazione io ritengo che presenti una stranezza, e cioè che non è prevista la stessa forma per l'attività legislativa. Perché la trovo una stranezza? Perché non c'è una norma che dice che le leggi poste dal legislatore devono avere una motivazione, ed è senza dubbio una stranezza, si tratta di un mio giudizio teorico su questa differenza, perché io mi aspetterei una motivazione, soprattutto dall'attività legislativa, perché questa ha a che vedere con la giustizia delle norme. Abbiamo detto che il legislatore pone norme e presuppone  la giustizia di esse mentre l'attività giurisdizionale ha che fare con l'applicazione di norme, quindi mi aspetterei da una parte un collegarsi dell'attività giurisdizionale alle norme, così stretto tanto da rendere necessaria la motivazione. Ci sono ordinamenti  come quello anglosassone dove non è prevista la motivazione dei verdetti prodotti da giurie di giudici, ma vale l’INTIME CONVINCTION, che di fatto è una motivazione. Io mi aspetterei, appunto, che sé mai una motivazione venga richiesta è in quel momento più politico della produzione di norme che è necessaria, in quanto il legislatore pone norme. Ma le cose stanno diversamente, quindi inutile discernere in proposito. Nella prossima lezione cercherò di introdurre il sillogismo, che è importante, cercate di non mancare.

 

Teoria dell'argomentazione giuridica
2°Lezione del 07.03.08

La trattazione di oggi riguarderà l’analisi di una tesi sorprendente sul processo, una sorta di confine ideale di tutta la nostra teoria sul processo. Una tesi che non ho timore a definire scandalosa, ma che merita apprezzamento perché ci pone subito come studiosi del diritto dinnanzi alle questioni decisive. In queste lezioni iniziali l’analisi verte sull’introduzione di una teoria generale del processo, e quindi si tratta di spunti ideali, nei quali vi è la ricerca non tanto di fenomeni storicamente avvenuti, quanto più la possibilità che possano accadere, come il caso di Schulze che introdurremo, probabilmente mai avvenuto. In questa ricerca della possibilità noi svolgiamo il vero compito filosofico, perché alla filosofia interessa l’universale: non ciò che è realmente accaduto, ma ciò che potrebbe accadere, così da ricavare da questa possibilità quelli che sono i limiti possibili dell’azione giuridica o della decisione giuridica, insomma un compito filosofico- metafisico, perché il suo oggetto dipende da ogni ragione possibile.

La tesi scandalosa di cui si è parlato sopra è quella presentata da Kelsen, relativamente al processo, e alla critica dei modi di Hein Filgher, sostenitore di tesi opposte e al quale ci rifaremo per spiegare le condizioni praxeologiche. I due si occupano dello Stato, che in realtà ripercorre tutta l’opera di Kelsen. Tale tesi è stata presentata già in uno scritto del 1928, uno dei suoi primi saggi:“ I fondamenti filosofici del diritto naturale e del positivismo giuridico”. Riproposta infine nella sua opera pubblicata postuma, nel 1978, e che è un po’ l’ultimo scritto di Kelsen: “Teoria generale delle norme”. Ma tale tesi è citata anche in una delle sue più importanti opere “Dottrina pura del diritto”  edita 1934 e 1960. Kelsen non ripete proprio lo stesso esempio, cambia i nomi, ma la sostanza è la stessa.

Al centro c’è la forma tipica del processo che è il sillogismo. Il fondamentale ragionamento giudiziale (che copre il giudizio del giudice) è una forma di inferenza tipica, che conosciamo già dai tempi di Aristotele ed è teorizzata attraverso l’inferenza del sillogismo caratterizzato da due premesse  e da una conclusione. Per capire si consideri il famoso es. che Aristotele fa nella sua famosa opera l’ “Organon” il sillogismo

Tutti gli uomini sono mortali       premessa maggiore
Socrate è un uomo              premessa minore
Socrate è mortale                                   conclusione

Caratteristica di queste due premesse è che c’è un cosiddetto  “termine medio”, una sorta di termine che fa da cerniera alle due premesse ed è grazie a questo che le premesse si possono considerare collegate ad una conclusione. In questo caso il termine medio è “uomo” perché ricorre in entrambe le premesse ed è proprio in virtù di questo che possiamo giungere ad una conclusione che ha la stessa forza di verità delle premesse. Potremmo anche dire: “siccome tutti gli uomini sono mortali e Socrate è un  uomo, allora Socrate è mortale”, anche in questo caso il termine medio “uomo” collega le due premesse portandole alla conclusione.

Anche nel processo abbiamo il sillogismo che si definisce sillogismo giudiziale che è strutturato allo stesso modo, si compone di premesse e da queste dipenderà una conclusione che sarà il contenuto del giudizio del giudice. Nella premessa maggiore del sillogismo giudiziale si trova quella che i giuristi chiamano la quaestio iuris cioè la norma generale che nell’esempio “sconvolgente” di Kelsen è:

“Tutti i ladri devono essere puniti”                  Premessa maggiore che ha le caratteristiche
della semplicità e trasversalità perché Kelsen usa le parole ripetute in tutti gli ordinamenti penali. Una sorta di limite logico di tutto il nostro pensiero.

La premessa minore nella teoria di Kelsen è la questio facti e cioè il fatto realmente accaduto, nella  premessa minore si dice quello che è realmente accaduto, si cerca di provare un evento storico che diventa oggetto, proposizione, giudizio. Quindi il contenuto della premessa minore è dato dal tribunale competente che dice: posta la norma generale “Tutti i ladri devono essere puniti” il fatto storico è:

“Schulze è un ladro”                    Premessa minore    

In base alla filosofia aristotelica, la conclusione dovrebbe essere che:

“Schulze deve essere punito”                     Conclusione aristotelica    

Ma è qui che la tesi di Kelsen diventa sconvolgente perché la conclusione del tribunale competente è decisamente contraddittoria con le premesse:

“Schulze non deve essere punito”                            Conclusione kelseniana.

Ricapitolando la tesi di Kelsen:

“Tutti i ladri devono essere puniti”                                Premessa maggiore
“Schulze è un ladro”                                                        Premessa minore
“Schulze NON deve essere punito”                                Conclusione

Ora, Kelsen si chiede se la sentenza è valida; se il tribunale competente , per aver pronunciato questa sentenza è meno competente.  Secondo Kelsen questa è una sentenza valida, certo potrebbe essere riformata nei gradi successivi, è anche vero che in cassazione le cose potrebbero apparire meno lucide. Se si facesse un’indagine ed un esame storico dei processi in Italia si scoprirebbe che il momento politicamente più odioso dei processi non è tanto il primo grado di giudizio, ma i gradi successivi: infatti, nella storia dei nostri processi ci sono stati dei magistrati della cassazione condannati per aver “ammazzato” sentenze.

In una sentenza valida quali sono i limiti della resistenza giuridica?
Nella scorsa lezione abbiamo visto che ci sono dei magistrati che sentenziano sulla base non di un diritto legale, ma di un diritto sovralegale, ci chiedevamo se il principio di legalità può reggere la vita giuridica delle sentenze, scoprivamo che c’è una storia dei processi che si concludono proclamando una giurisprudenza che ha fondamento in un diritto sopralegale, e addirittura ci sono sentenze della Corte Costituzionale tedesca, ed in particolare una del 14 febbraio del 1973 che interviene nell’interpretazione dell’articolo 20 comma 3 della Cost. federale tedesca  che statuisce: “ La giurisdizione tiene conto non soltanto della Legge, ma anche del diritto” quindi distingue la legge dal diritto,  e la Corte Cost. tedesca dice che il diritto non è l’insieme delle leggi scritte. Non si può, dunque sottovalutare questa dimensione della giuridicità perché se facciamo una ontologia della giuridicità sappiamo che un ordine tipo “la borsa o la vita” non è un ordine giuridico, appare subito come un ordine privo di ontologia giuridica e cioè delle condizioni minime di giuridicità. Questo è un limite che deriva  dall’eternità in riferimento ad un diritto sovralegale, diritto che riconosciamo, al di là della giurisprudenza tedesca, quando facciamo un’ontologia minima della giuridicità e diventa tema rilevante del processo.

Qui ci troviamo in un punto opposto, e dobbiamo porci la domanda se la sentenza, proprio in ragione di un principio di legalità che richiama il fondamento di validità della sentenza e del potere del magistrato, se una sentenza con le caratteristiche suddette è valida.

Per rispondere bisogna entrare nella logica del processo, capire come stanno le cose anche da un punto di vista tecnico, unire alla riflessione logica sulla struttura di inferenza del processo la conoscenza dei fenomeni giuridici e cercare di capire come stanno le cose. Vedere come stanno le cose significa da una parte cercare di sviluppare una logica rigorosa del processo (le caratteristica della forma inferenziale del sillogismo giudiziale), e dall’altra parte non perdere di vista i fenomeni che possono accadere.

Secondo la teoria dell’argomentazioni giuridica ci sono stati tre modelli tipici della stessa logica inferenziale, ma che portano a 3 esiti diversi:

  • Modello analitico o formale
  • Modello dialettico o retorico
  • Modello Fuzzy    (logica fuzzy, sviluppatasi a partire dagli anni 70 soprattutto nella                  

                                        letteratura anglosassone. Uno dei primi studiosi del calcolo fuzzy              
Loftl Zaden che scrisse, nel 1973, un articolo scientifico, di logica                                                    
molto  importante “Fuzzy logic and approximated reason”.)

Il modello analitico o formale si sviluppa alla fine del ‘700, inizi dell’800 (metodo dovuto all’opera di codificazione napoleonica effettuata dalla scuola dell’esegesi), stagione caratterizzata dall’idea che il diritto si potesse tradurre in norme chiare ed in modo tale da poter rendere recepibile in modo certo l’indirizzo del magistrato dinnanzi ai casi che è chiamato a giudicare. La codificazione nasce per assicurare certezza al diritto, ed è proprio questo che determina la motivazione della sentenza; sicchè il giudice deve essere solo la “bouche de loi”. Dunque il sillogismo analitico-formale nasce con le premesse storiche della codificazione, dell’ideale della certezza del diritto che si ritiene possa essere attuata attraverso una codificazione delle leggi che sia chiara, univoca e che non si presti alla molteplicità dei sensi, in modo tale che il giudizio possa derivare deduttivamente e direttamente dalla legge, dai testi dei codici.  Con queste premesse si sviluppa un’idea dell’inferenza che governa il sillogismo giudiziale che, secondo i giuristi dell’800 , si basa su premesse che sono sicuramente vere e identificabili nella teorizzazione di un fatto certo e oggettivo che è la norma generale e che costituisce il contenuto della premessa maggiore.
La norma generale, in questo modello, si presenta come un dato oggettivo che in quanto tale si sottrae alla disponibilità discrezionale del magistrato, la codificazione delle leggi ha lo scopo di escludere la valutazione soggettiva del giurista.

Pertanto vi è un dato oggettivo che è la norma generale, e che costituisce il contenuto della premessa maggiore, e abbiamo un fatto storico realmente accaduto che è il contenuto di un’asserzione di fatto da parte del magistrato. Da queste due premesse non può che scaturire, secondo la Scuola dell’Esegesi, una conclusione consequenziale.

Il compito del magistrato è quello di esplicitare queste premesse, e quindi le norme già esistenti, e non quello di creare delle norme (compito, invece, del legislatore). Quando la scuola dell’esegesi sostiene questo fa riferimento ad un modello di inferenza giudiziale che è sovrapponibile ad una forma di sillogismo che Aristotele chiama “analitico-formale”. Il filosofo greco sosteneva che nella conclusione si rende esplicito il contenuto di verità sostenuto nelle premesse: la conclusione “Socrate è mortale” è solo il contenuto di verità della premessa maggiore, “Tutti gli uomini sono mortali”, e della premessa minore “Socrate è un uomo”. Anzi secondo Aristotele la conclusione è così cogente che è già pensata da chi pronuncia le premesse, infatti nel soggetto della premessa maggiore, “tutti”, è gia contenuto, si sta già pensando a Socrate, perché Socrate è un uomo. “Tutti” è un quantificatoio universale che contiene già l’individuo Socrate, quindi la conclusione.

La Scuola dell’Esegesi pensa che il processo debba svolgersi attraverso una forma inferenziale che parte da premesse sicuramente vere giunge a conclusioni ugualmente vere. Infatti si parte da un dato oggettivo, che è la norma generale, e si arriva ad una conclusione altrettanto oggettiva che è il prodotto della relazione tra norma generale ed un fatto storico, anch’esso oggettivo perché è un fatto accaduto. Mediante inferenza sillogistica si arriva ad una conclusione. Esempio pratico della spiegazione che la Scuola dell’Esegesi dà relativamente al processo potrebbe essere: una norma giuridica che vieta la vendita di beni alterati nella sostanza e nella funzione, e la cui alterazione non è rilevabile attraverso un’ispezione ordinaria; la questio facti è la scoperta della vendita al Caffè Viennese di Bari Vecchia di un bevanda con acido fenico (alterazione non rilevabile con un’ispezione ordinaria); la conclusione è che vi è stata la violazione di una norma giuridica con la conseguenza della condanna di chi ha venduto un bene con queste caratteristiche.

La forma inferenziale del sillogismo giudiziale è rigorosa, se così non fosse si violerebbero i principi cardine del processo e cioè che il giudice non è legislatore, deve quindi applicare le leggi, senza nessuna dimensione creativa da parte sua; si violerebbe, inoltre, il principio basilare della certezza del diritto perché le norme hanno la funzione di essere applicate secondo un contenuto che non deve essere abbandonato alla discrezionalità e alla valutazione soggettiva di chi applica le norme. Questa forma di inferenza si potrebbe anche tradurre in quell’altra forma di inferenza (elaborata nel corso della Scuola Stoica del ‘300 a.C., immediatamente successiva alla Scuola aristotelica) del modus ponens  e del modus tollens. Il sillogismo analitico-formale di Aristotele, quello che la Scuola dell’Esegesi pone al centro del sillogismo giudiziale, ha la stessa forma  inferenziale di quello che gli stoici chiamavano modus ponens .

Il modus ponens traduce il sillogismo analitico formale di Aristotele. Si parte da un nesso tra una proposizione condizionale ed una proposizione conseguente e tra le due sussiste un nesso che si può tradurre in:

se c’è A ci deve essere β è una proposizione possibile solo se vi è un nesso necessario tra α e β. Considerando la proposizione principale di Kelsen: “tutti i ladri devono essere puniti” se c’è un ladro ci deve essere una punizione, allo stesso modo se AX I— β; cioè che c’è stato xA, un furto di cui autore è Schulze, dunque la β conclusione è β, la punizione per Schulze.

Questa forma di inferenza del modus ponens traduce la forma di inferenza del sillogismo analitico-formale, se c’è un nesso tra α e β ed è un nesso necessario, tutti gli uomini sono mortali e l’essere uomo implica l’essere mortale dove α indica l’essere uomo di Socrate, β indica l’essere mortale, allora la conclusione è l’essere mortale di Socrate.

Gli stoici  hanno aggiunto a questa forma di inferenza del modus ponens la forma di inferenza del modus tollens la differenza tra queste due forme di inferenza è che nel modus tollens si nega l’antecedente. La nostra proposizione è sempre se α I— β, ma cosa succede se non α?
Quindi cosa succede se Schulze non è un ladro, ovvero se Socrate non è un uomo?
La proposizione diventa: che Schulze non può essere punito.
                             
Queste forme traducono l’articolazione del sillogismo giudiziale, ma traducono anche l’attività processuale tra cui rientra l’attività probatoria. Esempio pratico: “Tutte le volte che viene un estraneo a casa mia il cane abbaia” succede che viene rubato il cavallo tenuto nella stalla, ma quel giorno il cane non ha abbaiato, conseguenza è che sicuramente “Chi ha rubato il cavallo non era un estraneo”.

Quali sono le implicazioni che non sono presenti nella logica di questo sillogismo analitico-formale? Quali sono i limiti? Cosa non tiene sufficientemente in considerazione la Scuola dell’Esegesi? Come visto la teoria parte dal considerare sicuramente vere le premesse e, quindi, sicuramente vera sarà la conclusione. Quindi non prende in considerazione il fatto che le premesse potrebbero non essere sicuramente vere. La forma inferenziale del sillogismo ha validità anche se le premesse sono qualitativamente diverse da quelle che la Scuola assume come sicuramente vere. Esempio:

“Tutti gli uomini sono lupi”   Premessa maggiore
“Socrate è un uomo”          Premessa minore
“Socrate è un lupo”            Conclusione

La premessa maggiore sembrerebbe sicuramente falsa, ma in realtà Hobbes sosteneva che ogni uomo è un lupo per l’altro uomo “homo homini lupus”, quindi questa proposizione finisce per essere vera per alcuni e falsa per altri; quindi premessa possibilmente vera.
Questa forma inferenziale non ha perso nulla del suo rigore, giacché la conclusione risulta collegata alle due premesse, fermo restando il problema della verità delle due premesse.
Altro limite del sillogismo della Scuola dell’Esegesi è dato dal fatto che possono esserci tre proposizioni tutte vere, ma che non rispettano la forma inferenziale del sillogismo, perché non sono l’una la conclusione dell’altra Esempio:

“Ogni corpo è esteso” : proposizione assolutamente vera, giudizio analitico secondo Kant
“Ogni scapolo è un non sposato”: proposizione assolutamente vera
“Tutto ciò che si muove è mosso da altro”: proposizione di Tommaso d’Aquino per dimostrare l’esistenza di Dio . Queste tre proposizioni sono tutte vere, ma non sono il contenuto di una forma inferenziale che è il sillogismo. Dunque prima considerazione: potremmo avere una forma inferenziale sillogistica valida anche se le proposizioni non sono sicuramente vere;
seconda considerazione: non per il solo fatto che le proposizioni siano vere entrano in una forma inferenziale di tipo sillogistico.

La prima considerazione è anche il problema che pone il sillogismo detto retorico-dialettico sostenuto soprattutto dalla nuova retorica di Chaϊm Perelman. Il sillogismo giudiziale non è solo quello che parte da proposizioni sicuramente vere, il discorso del giudice quando dice “tutti i ladri devono essere puniti” è, secondo Perelman, un discorso che può essere vero per alcuni e falso per altri. Pertanto il giudice sia quando dice qual è il contenuto della norma generale, sia quando dice cosa è realmente accaduto produce proposizioni che non necessariamente sono vere, ma sono vere per alcuni e false per altri. Somiglia al discorso che fa il prete quando pronuncia l’omelia, le sue parole sono vere per l’assemblea che lo ascolta, ma se quelle stesse parole fossero ascoltate da un’altra assemblea ( esempio un’assemblea di filosofi scettici) quelle parole, sino ad allora vere, sono messe in dubbio. Ciò vale non solo per le parole del prete, ma anche per altri casi . Quindi le proposizioni del giudice non sono paragonabili, ad esempio, al discorso di un allievo di Pitagora quando parla di un quadrato e della sua area costruita sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo relativamente ai quadrati costruiti sui cateti in quel caso non ci sarà bisogno di un giudice per la conclusione di quel teorema.

Nel caso invece, dell’attività giudiziale il discorso del giudice sembra più essere un discorso retorico, un discorso di cui alcuni sostengono la brevità altri no. Il discorso del magistrato non è paragonabile al discorso formale che è molto meno univoco rispetto al primo (quello del magistrato). Il discorso del magistrato è un po’ diverso. Perelman fa degli esempi clamorosi; es. pratico:secondo la costituzione belga del 1831 all’art. 97 si dice che la corte dei conti deve motivare le sue sentenze e le deve pronunciare in una seduta pubblica. Perelman però rileva che fino al 1956 non ha mai pronunciato le sue sentenze pubblicamente eppure la corte di cassazione non le ha mai cassate. Questo è quello che si chiama diritto vivente ed è questo che succede nel processo: il fulcro è nella certezza del diritto che risiede nella codificazione.
Il modello analitico-formale della scuola dell’esegesi spiega bene che cosa succede in tutti quei processi che prevedono un giudizio formulato da una giuria, senza motivazione, dove la sentenza è un voto di maggioranza sena una motivazione. Il modello retorico-dialettico è quel modello che ritiene che la forma inferenziale sillogistica del processo giudiziale ha come peculiarità delle premesse che non sono sicuramente vere e dunque anche la conclusione è non sicuramente vera, questo perché la conclusione è molto condizionata dalla qualità di verità delle premesse. In questo modello le premesse sono possibilmente vere e dunque anche possibilmente false e di conseguenza anche la conclusione può essere possibilmente vera o possibilmente falsa.

Il modello fuzzy, che si è sviluppato con la logica fuzzy, afferma l’esistenza di proposizioni che non sono né sicuramente vere e dunque sicuramente false, né possibilmente vere e dunque possibilmente false, ma ci sono delle proposizioni che sono soltanto in parte vere e in parte false. Es. pratico: quando nel processo si rileva una motivazione insufficiente (che non è assenza di motivazione), la corte di cassazione rileva che la motivazione è in parte vera e in parte falsa e quindi riprende tale motivazione per completare la verità che la motivazione è chiamata a raggiungere. Questo fenomeno tiene conto di una forma inferenziale dove le premesse non sono né sicuramente vere né sicuramente false, né possibilmente vere né possibilmente false, ma sono in parte vere e in parte no.    

Quando si pensa al nostro sistema penale, soprattutto in riferimento alla sanzione, ci si trova di fronte una sanzione che non produce un risultato fisso. Ci sono nei nostri ordinamenti delle sanzioni che sono pensate secondo una scala di gradazione alla quale il magistrato deve associare una particolare sanzione al caso particolare distinguendo altri casi. Se ciò si dovesse tradurre nel modus ponens noi non troveremmo necessariamente che
α    I—     β, che a deve essere b, ma che α    I—   β1 β2 ββ4, a deve essere una serie di conseguenze diverse.

Sicché dire che a è b in un sistema di questo tipo, un sistema che si costruisce su una scala di valori diversi relativamente alla sanzione, è in parte vero ma anche in parte falso. Quindi la logica fuzzy applicata al processo ci propone un terzo modello dell’inteferenza giudiziale, un modello nel quale le proposizioni utili non sono sicuramente vere o sicuramente false, non sono possibilmente vere o possibilmente false, ma sono soltanto in parte vere e in parte false.
Questo è quello che dovete sapere, è sufficiente per oggi.

 

è una sorta di limite logico entro cui riflettere perché ci troviamo di fronte alla vera questione filosofica del processo, ed evidenzia la struttura del processo e i limiti logici entro cui il giurista deve operare se vuole far parte del processo giuridico e non di altro, alla filosofia interessano solo i fatti. C’era una favola di Fedro “Lupus et Agnus” che iniziava dicendo “Superior stabat lupus” ed il cui senso era quello di far capire che il lupo era tale perché ubicato sopra, ma questa topica non è solo luogo fisico, è anche metafisico, giuridico, spirituale, è una sorta di status.

In particolare la Scuola dell’Esegesi, questa fa riferimento alla certezza del diritto, a norme che trovano un’espressione chiara, sì da poter assicurare anche un giudizio certo del giudice, una giustizia automatizzata. Questa scuola ha teorizzato e presentato questo modello della giuridicità come concentrato intorno all’opera della codificazione Napoleonica come certezza del diritto.

“Omne quod movetur ab alium movetur” ciò porterà a sostenere che ci deve essere una causa prima che non è mossa da altro ed è ciò che chiamiamo Dio.

La “Somma teologica” di S. Tommaso d’Aquino sono ancora oggi fonte di un aperto dibattito

 

Teoria dell'argomentazione giuridica

 

3°Lezione del 14.03.08

Abbiamo toccato due punti estremi in questi primi passi che abbiamo fatto emblematicamente nello  spazio logico della validità della sentenza : da una parte si ha una sentenza che fonda se stessa su un diritto non legale ma sopralegale, dall’altra la teoria di Kelsen

Riassumiamo brevemente quanto detto nelle precedenti lezioni. Repetita juvant. Pensate a tutta la giurisprudenza tedesca della Germania post-nazista, non avremmo forse potuto immaginare quel principio di legalità che sembra essere un principio al quale ci riferiamo continuamente  per potere pensare come unica condizione possibile la  giuridicità, il rispetto delle leggi  ci ponesse davanti a una vicenda storica della giurisprudenza così clamorosa. Quindi la domanda sulla condizione di validità delle leggi che il giudice applica nella Germania post-nazista, post- comunista , le sentenze dei tribunali amministrativi e del tribunale delle Corti Costituzionali dicono che certe leggi , quelle del terzo Reich, non avevano nessuna validità giuridica. Con questo principio questi tribunali producono sentenze di colpevolezza, che sanzionano non perché si invocano norme in diritto penale  con efficacia retroattiva (non c’è bisogno di scomodare quel principio altrettanto forte e inviolabile come il principio della non retroattività delle leggi penali), ma in virtù  del principio che quelle leggi non avevano validità ex tunc. È  importante questo passaggio della giurisprudenza e non stiamo parlando di un momento secondario della vita e della  storia, del diritto del’900 ma stiamo parlando di in momento cruciale della storia del  900, se volete dell’umanità.

“Come fai a sottovalutare questa possibilità , noi che vogliamo capire fino in fondo cosa conta  la validità di una sentenza?” Questo è un fenomeno, il metodo fenomenologico ci permette di capire come stanno le cose. Ursel quando presenta la fenomenologia del ‘900  definisce quest’ultima come “andare verso le cose stesse” , questo è un fenomeno ineludibile, un estremo che ci porta alla  reicht uber- gesetzlich (diritto sopra legale) e che ci fa capire quel fenomeno costituito dalle tante sentenze pronunciate soprattutto in Germania  ma anche altrove. Ci occuperemo di fenomeni che hanno contraddistinto la cultura tedesca del ‘900 che ad un certo punto si è inabissata “in to that darkness”, nel buio dell’olocausto.

Quindi abbiamo da una parte questo estremo reicht uber- gesetzlich e dall’altra part vi è Kelsen  che dice “ ma se un tribunale assume come norma generale Tutti i ladri devono essere puniti, accerta che Schulze è un ladro e poi il tribunale produce la sentenza che Schulse non deve essere punito questa è una sentenza valida?”
Questo è un problema. Secondo Kelsen non è necessario discutere, essa è una sentenza valida , non è che il tribunale competente se produce una sentenza con qualche problema di motivazione è meno competente , rimane un  tribunale competente.  Ma se vediamo la storia dei processi di Italia , la funzione che hanno avuto gli altri gradi del processo, dall’appello alla Cassazione, sappiamo bene che hanno avuto molte volte una funzione storico-politica, di  affossare sentenze ben costruite. Nonostante ciò l’esistenza di vari gradi di giudizi avrebbe una funzione di garanzia, di contribuire a costruire le sentenze , ma io direi  storicamente perché per chi conosce la storia di certi processi e soprattutto della magistratura della Cassazione si sa bene che la funzione storica degli altri gradi del processo non è tranquillizzante.

In queste condizioni quella sentenza è valida? Kelsen non ha difficoltà a dire che essa è valida  e qui ci troviamo dinanzi a un punto : c’era una legge che doveva fare i conti con un  reicht uber- gesetzlich ma sembrerebbe, se uno vuole parafrasare, che c’è una legge che deve fare i conti con un  reicht che produce effetti reali- Schulse viene assolto, lo vediamo davanti a noi pur sapendo che è un ladro che tutti conoscono, quindi gli effetti li sentiamo, ecco perché si potrebbe pensare che c’è un reicht , anche qui, unter-gesetzlich (sottolegale)- neologismo in lingua tedesca. Questi  sono i due estremi che bisogna tener presenti:

                                                     VALIDITA’ DEL PROCESSO
   
REICHT                                                                                                 REICHT
UBER – GESETZLICH                                                             UNTER-GESETZLICH

Questo fenomeno della validità della sentenza, dal punto di vista logico, si muove all’interno di due estremi:

  • da una parte l’estremo Reicht Uber (sopra) Gesetzlich (legge) che è il diritto sopralegale che è al centro della giurisprudenza tedesca , reicht significa diritto, qui la nozione di diritto ci serve per distinguerla dalla legge .Quando  parliamo di diritto possiamo pensare (ed è quello che stiamo cercando di sostenere) ad un diritto che non coincide con la legge scritta , sicché da una parte c’è una legge che dice ciò che dice, ma a fondare la sentenza  non c’è la legge scritta ma c’è questo diritto che si distingue dalla legge scritta .

Il diritto sopralegale è un fenomeno che ci conferma una sorta di ontologia minima di cosa   è il diritto, che ci ha portato a dire che l’ordine o la borsa o la vita non è un ordine giuridico. Se il legislatore dice “la norma apicale dell’ordinamento giuridico è o la borsa o la vita”, noi ci poniamo la questione “ fino a che punto devo obbedire questa legge,  questa è una legge ? Questo non lo chiamerei un ordine giuridico.
Ecco da dove nasce il problema della distinzione tra reicht gesetzlich e il problema della validità della sentenza  quando si fonda su un Reicht Uber –Gesetzlich. Quindi da una parte abbiamo questo estremo  che va verso l’alto  e dall’altra parte c’è un estremo che ci porta in basso, il Reicht Untergesetzlich

  • Reicht  Unter – Gesetzlich. C’è quella sentenza del magistrato che dice che nonostante che la premessa maggiore sia espressione di quella norma generale “ tutti i ladri devono essere puniti, il tribunale accerta che Schulze è un ladro”, la sentenza dice “che Schulze deve essere assolto”, si ha quindi un Reicht  Unter-Gesetzlich (questi concetti, specie questo versante è stato subito approfondito in Germania dopo la tragedia del terzo reicht, tutti i problemi che si sono posti per la magistratura alla fine della seconda guerra mondiale e Gustave Radbruch, citato nelle sentenze della magistratura tedesca, propone un articolo nel ’46 in una Gazzetta dei giuristi intitolato “Gesetzlich un-reicht”, il torto legale, che è impensabile rispetto ad un concetto di giustizia legale).

Nella modernità , nel positivismo giuridico si è fatta strada un concetto ritenuto insuperabile di giustizia che è quello di giustizia legale, cioè la giustizia è soltanto quella che produce la norma .
Si è nella modernità sperimentato l’impossibilità di definire oggettivamente che cosa sia la giustizia, in modo da rendere oggettivo come unico concetto di giustizia quello legale .
Di qui Gustave Radbruch con l’uso di un paradosso sente di introdurre il torto legale reso necessario dalla storia dell’umanità con la quale noi dobbiamo fare i conti ( non possiamo vivere astrattamente rispetto a quello che è accaduto nel cuore del ‘900). Non si può fare a meno di perdere di vista questa esperienza storica, se non la si perde si arriva a questa conseguenza rilevante per la scienza giuridica , Radbruch dice “badate c’è un torto legale”, il titolo dell’articolo è proprio questo Gesetz un-recht.
Non è presente in Radbruch, mentre è presente in Kelsen, l’idea che c’e anche un reicht non solo uber–gesetzlich ma traduco un concetto di Kelsen  che però lui non usa, l’esempio di Kelsen è quello che porta al sillogismo giudiziario, e quindi che porta all’assoluzione di Schulze  dove si farebbe strada un concetto di diritto che io chiamerei (per dialogare con il concetto di diritto di Radbruch) unter (sotto)- gesetzlich, nel senso che quella sentenza di assoluzione lo vedo come un diritto che sta sotto i piedi in quanto è il prodotto di un arbitrio , di un’assenza di logica nel processo. 
Qui si deroga alla legge non per fare un’opera che noi ricondurremmo a una visione celestiale  del diritto, qui si deroga alla legge (dato che di fatto è questo che accade, il tribunale competente non tiene conto della legge vigente almeno per gli effetti giacché la assume come premessa ma non ne tiene conto per gli effetti e quindi produce un diritto che ha una dimensione non metafisica ma direi molto fisica) .
Noi ci muoviamo tra gli estremi suddetti , la cui delineazione ci ha consentito di avvicinarci ad un problema scientifico rilevante: che cosa è la validità giuridica di una sentenza.
In questo modo ci siamo avvicinati anche alla questione esistenziale legata all’esperienza giuridica, ad un ruolo che ha il diritto rispetto all’esistenza dell’uomo che ha bisogno di aprirsi alla felicità, un diritto che non abbia questa funzione (lo dico per brevi intuizioni) è pressoché inutile, di un diritto che non abbia la funzione di assicurarci un po’ di felicità, un diritto che faccia di tutto per negare l’esistenza dell’uomo .

Come già visto vi sono tre modelli del sillogismo giudiziario, sintetizzando molto, attraverso le linee generali, quella che è la teoria classica della argomentazione giuridica.  Qual è il presupposto di questi tre modelli?
Il presupposto è che il ragionamento giudiziale , l’argomentazione giudiziale , il processo giudiziale ripete una forma inferenziale che è quella del sillogismo classico  teorizzato da Aristotele nella sua opera , nel suo “Organon”  che è caratterizzato da due premesse ed una conclusione. Secondo la teoria dell’argomentazione giuridica, quella tradizionale, il ragionamento giudiziale, il processo ripete questa forma inferenziale, stabilisce due premesse per giungere ad una conclusione, le due premesse si identificano in quello che si chiama in senso tecnico questio iuris, cioè si parte affermando quella che è la norma generale. Nel sillogismo di Kelsen ,  affrontato per porre una delle questioni sulla validità della sentenza , la premessa maggiore sarebbe “tutti i ladri devono essere puniti”, che è la premessa che identifica la norma generale vigente. 
La premessa minore , invece,coincide con l’asserzione che identifica quello che i giuristi chiamano questio facti , cioè l’asserzione relativamente all’evento storico che è accaduto. Da queste due premesse-nel sillogismo di Kelsen si ha che  Schulze è un ladro, e l’evento accaduto è che Schulze abbia rubato- da qui deriva la conclusione che è il contenuto della sentenza.

Quali sono le questioni che voglio sottolineare rispetto a questi tre modelli ?
Mi sembra che una prima osservazione è l’esaustività di ciascuno di questi modelli rispetto al problema che pongo. Ciascuno di questi modelli intendono dire come stanno le cose rispetto al sillogismo giudiziario. La mia OSSERVAZIONE, fermo restando il presupposto implicito in questi tre modelli è che il ragionamento giudiziale ripete la forma inferenziale del sillogismo aristotelico, classico. Ma con quale differenza?

Il sillogismo classico è una forma inferenziale che si può realizzare anche attraverso premesse che hanno un valore diverso rispetto alla verità che traducono, cioè ci possono essere premesse che sono vere , premesse possibilmente vere o possibilmente false, e  premesse non del tutto vere non del tutto false. Ma arrivati a questo aspetto che caratterizza la verità che includono le premesse ,la forma inferenziale è sempre quella del sillogismo classico che è un presupposto fondamentale di questi tre modelli. Confermando questo presupposto, la prima osservazione è questa :

Questi tre modelli giudiziari sono soltanto congiuntamente una condizione necessaria e sufficiente per comprendere il sillogismo. Se presi separatamente sono semmai una condizione necessaria ma non sufficiente per comprendere il sillogismo giudiziario. In altri termini , abbiamo scoperto che ci sono fenomeni giuridici diversi dove per alcuni vale un modello , per altri ne vale un altro. Ecco perché dico se dovessi confermare questo presupposto logico , questi tre modelli messi insieme riescono esaustivamente a spiegare il fenomeno del sillogismo giudiziario, invece, presi separatamente riuscirebbero a spiegare alcuni fenomeni e non altri.
Una  osservazione che parte dal confermare il presupposto interno logico che c’è in questi tre modelli, e cioè che il sillogismo giudiziario ha una forma inferenziale che è quella del sillogismo classico: due premesse ed una conclusione. Sia delle premesse che della conclusione si può affermare la verità , naturalmente se le premesse producono un vero che sicuramente è tale , se le premesse sono sicuramente vere , esse produrranno una conclusione sicuramente vera . Se le premesse sono possibilmente vere porteranno ad una conclusione possibilmente vera. Se  le premesse dicono la verità falsa anche la conclusione sarà falsa .       

L’altra OSSERVAZIONE contesta il presupposto e cioè che la forma inferenziale sia quella del sillogismo classico . Su quali basi questa mia osservazione finisce per contestare quello che sembrava essere un presupposto solido, logico di questi tre modelli? Perché , in altri termini, la forma inferenziale del processo non  mi sembra che sia quella del sillogismo classico? Vorrei partire da una domanda: secondo voi delle norme possiamo dire che sono vere o false o delle norme diciamo se sono valide o invalide?  L’art 544 ter che punisce il maltrattamento degli animali è una norma valida , è una norma che esiste nell’ordinamento giuridico. Nel sillogismo giudiziale , noi abbiamo  asserzioni e proposizioni diverse da proposizioni che sono norme?

Prendiamo la sentenza, che chiamiamo la conclusione del sillogismo giudiziale (tutti i ladri devono essere puniti- Schulze  è un ladro - Schulze non deve essere punito), essa è una norma o no? Mi sembra che la conclusione del sillogismo giudiziale sia una norma .

Probabilmente, stando a quello che dice Kelsen, anche la premessa maggiore è una norma, non è una proposizione che descrive un fatto .

  • La premessa maggiore “ tutti i ladri devono essere puniti” è una norma o una proposizione? Questo potrebbe essere un problema. Cioè il giudice che assuma la norma generale, assume davvero la norma generale o il suo giudizio sulla norma generale? Insomma della premessa maggiore forse si potrebbe discutere , non è scontato che la premessa maggiore sia una norma , anzi alcune polemiche che affronteremo relativamente alla dimensione politica del processo stanno  nel fatto che  il giudice non assume nella sua purezza una norma , il giudice attraverso un’attività ermeneutica dice egli stesso quale è la norma generale vigente. Egli, quindi, produce non immediatamente la norma generale ma quello che è il giudizio sulla norma generale .

La premessa maggiore “tutti i ladri devono essere puniti” la possiamo discutere. Secondo Kelsen  essa è la norma generale , probabilmente ,osservo, non è la norma generale , ma il giudizio del giudice sulla norma generale .Non credo che il giudice quando cita la norma generale non la cita senza una sua  attività interpretativa .
In sostanza non è la premessa maggiore “tutti i ladri devono essere puniti” ma la proposizione del giudice secondo cui c’è una norma che dice “tutti i ladri devono essere puniti” . Questa è probabilmente un ‘asserzione di un fatto che si può dire che è vero o falso. Il giudice dice che è valida la norma 544 ter, l’art 544 ter è una proposizione di cui si può predicare la verità .

Non siamo distanti dalle premesse del sillogismo aristotelico.
Laddove, invece, pensassimo, che la premessa maggiore non è una norma, allora si rafforzerebbe l’idea che stiamo utilizzando una proposizione di cui non è possibile predicare la verità o la falsità, sarebbe una norma, quindi non suscettibile di una valutazione suddetta. Ma in questo modo si  sostiene  che il sillogismo giudiziale non è la forma inferenziale del sillogismo classico. Posto eventualmente che la premessa maggiore sia la norma generale, potremmo dare per scontato una cosa a  cui Kelsen non ci pensa  e cioè che nella norma generale si assuma un’asserzione su una norma .

La norma  “tutti i ladri devono essere puniti” non è una norma , ma è l’asserzione del giudice “ è valida la norma tutti i ladri devono essere puniti”. È una asserzione sulla norma, di essa  si può dire che è vera o falsa. Il concetto di verità che stiamo adoperando è la corrispondenza tra una proposizione e il fatto. La proposizione “gli studenti dormono durante la lezione di teoria” è una proposizione vera se vi è la corrispondenza tra la proposizione e il fatto che essa descrive, se essa manca la proposizione è falsa.
“ Tutti gli uomini sono mortali” è una proposizione vera per la corrispondenza suddetta. Delle norme non si può predicare il vero perché esse descrivono qualcosa , di esse si può dire solo se esistono o meno nell’ordinamento giuridico, se sono state prodotte da un ‘organo di produzione delle norme . Allora la premessa maggiore nel nostro sillogismo giudiziario ci permette una piccola discussione, sul fatto se è o non è una norma?, la proposizione che assume il tribunale quando dice “tutti i ladri devono essere puniti” è una norma? Vedremo che il giudice, attraverso una sua attività ermeneutica, traduce la norma attraverso un suo giudizio sull’esistenza di un significato piuttosto che un altro della norma. Sulla premessa maggiore stiamo discutendo, forse arriveremo alla conclusione che la premessa maggiore non è una norma  ma un giudizio su una norma.

La proposizione “tutti i ladri devono essere puniti” corrisponde in pratica al giudizio del giudice secondo cui esiste la norma x che dice “tutti i ladri devono essere puniti” e questa diventa  un’ asserzione di cui si può predicare il vero o il falso. Kelsen  dice che un tribunale competente che assume come norma generale  la norma “tutti i ladri devono essere puniti”, la premessa maggiore del sillogismo giudiziale è una norma giuridica. Se  è una norma , e non una proposizione che descrive qualcosa, ma il prodotto di un potere legislativo che presuppone una norma valida nell’ordinamento giuridico, non possiamo predicare il vero o falso ma la validità o meno. Una proposizione per essere vera deve corrispondere ad uno stato di cose che descrive, questo stato di cose è indipendente dalla proposizione , sicché  se io dico “in questa lezione non c’è nessuno”, indipendentemente dalla mia volontà, questa proposizione si falsifica rispetto al fatto . Nel caso della validità basta che ci sia un potere costitutivo.
Quindi la premessa maggiore la possiamo discutere , con quali conseguenze?

  • Se fosse una norma generale, la premessa maggiore sarebbe una proposizione impredicabile di verità o falsità. I modelli classici, invece, trattano la premessa maggiore   come una proposizione di cui non si può predicare una verità assoluta o possibile , oppure in parte sì e in parte no.
  •  Se fosse un’asserzione sulla norma, se l’enunciato “tutti i ladri devono essere puniti” fosse l’enunciato che è valida la norma “tutti i ladri devono essere puniti”, questa sarebbe un’asserzione su un fatto di cui sarebbe predicabile la verità o meno (corrispondenza o meno tra l’asserzione e il fatto normativo.)
    • La premessa minore è una proposizione predicabile o meno di verità?

Sì, perché è un asserzione relativamente ad un fatto, l’asserzione fatta da Kelsen “Schulze è un ladro” è predicabile di vero o di falso .

  • La conclusione : il magistrato che dice “Schulze deve essere punito”  è una norma o no? In realtà, il magistrato sta prescrivendo, sta costituendo il dovere che prima non c’era, prima delle parole non c’era la sentenza che sorge con le parole suddette  ed è il contenuto della norma individuale che prescrive una punizione per Schulze .

Se le due premesse sono predicabili di vero o falso, ammesso che lo siano, la conclusione è una proposizione che è impredicabile di verità o falsità ma di cui si può predicare la validità o meno, infatti ci chiediamo se la sentenza (dunque la conclusione) è valida o meno. Per essere valida, dice Kelsen, deve essere prodotta da un atto giuridico qualificato. L’osservazione discute ciò che è implicito in quei tre modelli della teoria tradizionale relativamente al sillogismo giudiziario.

Che cosa dice di quei tre modelli? Che se quei tre modelli avessero la forma inferenziale del sillogismo classico il sillogismo giudiziario dovrebbe giungere a proposizioni tutte predicabili di vero o di falso , nel sillogismo giudiziale noi scopriamo , invece, che al limite ci sono due proposizioni, le premesse, predicabili di vero o falso e c’è una proposizione , la conclusione, che è una norma, impredicabile di vero o falso. Se la conclusione fosse predicabile di vero o falso , la verità o la falsità di quella proposizione non dipenderebbe  dalla volontà di qualcuno.  Se un allievo di Aristotele, partendo dalle premesse “tutti gli uomini sono mortali”, dicesse “Socrate è un uomo, ma non è mortale” tutti direbbero che quella proposizione è sempre falsa, il fatto che tutto confermi la non mortalità non va a modificare la falsità di quella proposizione rispetto alle premesse. Invece nel sillogismo giudiziale le cose vanno diversamente, il tribunale che dice “Schulze non deve essere punito” , quella proposizione corrisponde ad una norma valida e il tribunale competente non è meno competente, nessuno direbbe  ciò, qui diciamo che quel tribunale  competente è  il tribunale competente  e quella norma è valida perché le proposizioni del sillogismo giudiziale non hanno un unico predicato logico, il vero o il falso, ma hanno un altro predicato , che è quello del valido e del invalido ed è il predicato delle norme e la conclusione del sillogismo giudiziale è una norma .

Conclusioni:

  • Una prima osservazione parte dal presupposto implicito di quei tre modelli, cioè il sillogismo giudiziale ripete la forma inferenziale del sillogismo classico. La prima osservazione è che i tre modelli solo congiuntamente sono condizione   necessaria e sufficiente di  spiegazione del processo giuridico.
  • La seconda osservazione è radicale , contesta il presupposto logico ed implicito ai tre modelli e dice che il sillogismo giudiziale non ha la forma inferenziale del sillogismo classico perché nella forma inferenziale del sillogismo classico si parla di proposizioni di cui puoi predicare il vero o il falso ed è per questo che la conclusione non è soggetta alla disponibilità di una decisione,  perché la verità in una proposizione consiste nella corrispondenza della proposizione ad un fatto e il fatto o c’è o non c’è, non dipende dalla volontà del soggetto che produce quella proposizione . Invece nel sillogismo giudiziale c’è almeno una proposizione, questo caso è quello che diciamo essere la conclusione del sillogismo giudiziale.

 

Potremo discutere sulla premessa maggiore, voi sapete che possiamo usare un enunciato che ha la stessa semantica ma una funzione pragmatica diversa, ad esempio l’enunciato :
È vietato fumare
 Soll –norm            Soll-satz

Con questo enunciato, usando le stesse parole , io posso ottenere effetti diversi o comunque avere da questo enunciato funzioni pragmatiche diverse .

  • Io posso dire “è vietato fumare” per dire che queste sono le parole con cui il legislatore dice “è vietato fumare”, il legislatore quando pone questa norma usa la frase “è vietato fumare”.

In questo caso la funzione pragmatica dell’enunciato è quella di essere la norma prodotta dal legislatore , è il caso questo di una soll- norm , è la norma che esprime un divieto, soll è il dovere che è il contenuto della norma .

Con le stesse parole, senza alcuna variazione, assumendo l’enunciato con la stessa valenza semantica , esso può svolgere una funzione pragmatica diversa , ad esempio con tali parole posso riferirmi a quello che dice il giurista quando vuole dare una notizia e la notizia è che nel nostro ordinamento c’è la norma “è vietato fumare”.  Per dare questa notizia , io dico “guardate che è vietato fumare”, uso sempre lo stesso enunciato ma con funzioni pragmatiche diverse, è una soll- satz dove per sats si intende un’asserzione su qualcosa .
Usato come soll-satz , questo enunciato serve a dire che  esiste la norma “è vietato fumare”. Si hanno, dunque, funzioni pragmatiche diverse.

Perché è importante questa distinzione ?
Perché l’equivoco in cui si cade quando si parla del sillogismo giudiziale è che non si comprende che le parole usate in questo modo possono avere funzioni pragmatiche diverse, sicché se io parto dicendo nel sillogismo giudiziale la premessa maggiore dice “tutti i ladri devono essere puniti” non si considera che quell’enunciato normativo può avere funzioni pragmatiche diverse: quella di identificare l’enunciato una norma generale oppure un enunciato sulla norma. Con quelle parole io dico esiste la norma “tutti i ladri devono essere puniti”. La distinzione è importante perché:

  • Se è una norma è una proposizione impredicabile di verità o falsità, ma predicabile di validità
  • se invece è un ‘asserzione su una norma è una proposizione predicabile di verità o falsità. Se l’enunciato significa che esiste nel nostro ordinamento la norma è “ vietato rubare”, l’altro potrebbe dire questo tuo enunciato è falso perché in realtà nel nostro ordinamento c’è una norma diversa .
  • ma se fosse una norma , se fossero le parole del legislatore quando dice  “ è vietato rubare”, queste parole non stanno descrivendo qualche cosa ma stanno costituendo un qualche cosa  e ciò che fonda l’esistenza della norma è la volontà , la decisione di chi produce quella norma.

In ultima analisi nel sillogismo giudiziale forse la premessa maggiore non è una norma , è dunque è una proposizione predicabile di verità o falsità. In realtà già dicendo questo non tengo conto di quello che è il pensiero tradizionale , quello che identifica nella premessa maggiore del sillogismo giudiziale la norma generale. E se fosse una norma generale la prima osservazione sarebbe “ma se è una norma , quella proposizione non è predicabile di vero o falso”. Ma ammettiamo che la premessa maggiore sia una proposizione predicabile di vero o falso perché è una sall-satz, un enunciato su di una norma, la premessa minore è sicuramente un’asserzione su di un fatto, con la  conclusione- le parole Schulze deve essere o non deve essere punito - però, non ci troviamo dinnanzi a una possibilità di  funzioni pragmatiche diverse  che non sia la funzione pragmatica di una norma , qui è il magistrato che sta descrivendo un effetto giuridico rispetto alla posizione di Schulze, quelle parole sono le parole del legislatore che prescrive qualche cosa, le parole che costituiscono il contenuto di una soll-norm  e questa conclusione è impredicabile di vero o falso , predicabile semmai di valido o invalido.
La complessità sta nel fatto che ci troviamo in una forma inferenziale che ci potrebbe suggerire che forse non è una forma inferenziale perché siccome la proposizione è predicabile di valido o invalido, la conclusione è nella disponibilità del soggetto che produce quella proposizione. La sua validità dipende dalla decisione di chi produce quella decisione e non attende la corrispondenza tra quella proposizione e quel fatto .

Quali sono le ulteriori conseguenze che io traggo?
La tesi di Kelsen è una tesi che in parte si può confermare perché Kelsen ha ragione quando dice , “badate che le proposizioni che ricorrono nel sillogismo giudiziale non hanno lo stesso predicato logico e quindi la conclusione può determinare degli effetti che sono contraddittori rispetto alle premesse”. C’è una questione che io osserverei: Kelsen fa derivare da questa tesi una conseguenza in virtù della quale se le cose stanno così, non c’è una logica nel processo. Prima dicevamo il sillogismo giudiziale non è una forma inferenziale, perché se la conclusione ha un predicato diverso dal vero o del falso, la conclusione potrebbe determinare quelle conseguenze che abbiamo visto con l’esempio di Kelsen cioè la conclusione che addirittura va a contraddire le premesse stesse, si da poter dire che probabilmente non c’è una logica  nel processo , che il processo alla fine è nella disponibilità  di una decisione, che è quella del giurista che produce la sentenza.

La questione che io solleverei è: “è vero nel sillogismo giudiziale ci sono proposizioni che hanno predicati logici che non sono omogenei, ci sono da una parte tutti i predicati del vero o del falso e dall’altra parte c’è il predicato del valido o dell’invalido, ma bisogna vedere se così come c’è una logica del vero , c’è anche una logica del valido. Se l’esistenza di qualche cosa non abbia anch’essa una logica. Le condizioni di validità di una sentenza sono davvero nella totale disponibilità della decisione del giurista , cioè il giurista può dire quello che vuole quando produce una sentenza oppure se la sentenza suppone una logica, la logica delle condizioni di validità di una norma? Perché c’è questa esigenza?
Probabilmente, essa è legata ad un’ osservazione fatta quando abbiamo incominciato a svolgere un ontologia minima della giuridicità. Ci siamo detti ma davvero il diritto è il mero prodotto della volontà , davvero non c’è nel diritto un ontologia minima che corrisponderebbe sempre a questa ricerca di condizioni di esistenza che noi adesso associamo all’esistenza di una norma individuale? Davvero, in altri termini, è norma giuridica un qualsiasi enunciato normativo, anche l’enunciato che produce dentro di sé un contenuto  che noi abbiamo visto anche riconducibile ad ordini normativi che non hanno per noi nessun significato giuridico ?

La sentenza ha una sua logica, quale è? Questa domanda è l’obbiettivo di tutto il corso di lezioni che affronteremo. Kelsen arriva a un esito totalmente irrazionalistico , da questa analisi del sillogismo giudiziale arriva alla conclusione che la sentenza è quanto prodotto dalla decisione , è il prodotto di qualsiasi decisione , non c’è un limite a tale decisione. La domanda mia è: e se anche la validità di una norma ha una sua logica che suppone delle condizioni che non dipendono e non sono nella disponibilità esclusiva del giurista? D’altronde l’esperienza storica che l’umanità ha fatto, specie nel ‘900, ha portato ad una conclusione che non possiamo dimenticare e cioè quando l’umanità si è ostinata ad affermare che la giuridicità è il mero prodotto della volontà del legislatore (con riferimento soprattutto ai sistemi totalitari del ‘900) non è che in realtà semmai c’è un ontologia della giuridicità questa ontologia è stata alterata, cioè il diritto continua ad essere, ad esempio, qualcosa di diverso dall’ordine “ o la borsa o la vita” . Quello che è successo è che l’umanità probabilmente disconoscendo questa ontologia minima è andata incontro a questo buio della coscienza che poi è anche la sua infelicità. Il diritto è sempre lì, vedo questa umanità, questi omini che si danno da fare per non osservare questa logica minima della giuridicità, con quali effetti? La giuridicità sta sempre lì, integra , non subisce alcuna alterazione, sono gli omini che vivono quella condizione di infelicità per la loro coscienza.

Ritengo che Kelsen abbia ragione quando osserva che la conclusione può  agire nella direzione che contraddice le premesse. Non credo che abbia torto nel dire che la conclusione potrebbe avere un esito diverso da quello che potremo attenderci relativamente alla verità delle premesse. Da un punto di vista strettamente logico la tesi di Kelsen pone una questione reale, ineccepibile perché se si vede bene come stanno le cose il sillogismo giudiziale non ripete la forma inferenziale del sillogismo classico. Questa è la prima tesi di Kelsen, c’è almeno una proposizione che è impredicabile di verità o falsità, essa è il risultato di una decisione e non il risultato della corrispondenza tra l’assetto e il fatto che l’assetto descrive per tutte queste ragioni il sillogismo giudiziale non ripete la forma inferenziale del sillogismo classico).  L’altra tesi di Kelsen è che non c’è una logica del processo, cioè il sillogismo giudiziale non è una forma inferenziale , quindi il sillogismo giudiziale non è sovrapponibile al sillogismo classico (come la teoria dell’argomentazione sostiene, tutti quei tre modelli partono da questo presupposto logico – della sovrapponibilità). L’altra tesi è che forse il sillogismo giudiziale non è una forma inferenziale in senso stretto perché la forma inferenziale è quella che può produrre una sola conclusione rispetto a quelle premesse. E’ sicuramente una forma inferenziale il sillogismo che si presenta in questo modo “ Tutti il ladri sono mortali. Socrate è un uomo. Socrate  è mortale”
Questa è una forma inferenziale perché la conclusione non può essere se non questa. Anche se ci si ostinasse a porre una conclusione diversa , sarebbe comunque una conclusione falsa . La conclusione decide la verità in questo sillogismo indipendentemente dalla volontà di chi asserisce quella proposizione .
Invece il sillogismo giudiziale sembra non essere una forma inferenziale , di qui la tesi di Kelsen che arriva al cosiddetto nichilismo ,  irrazionalismo giuridico e cioè  che il processo non ha una logica , esso fa leva sulla idoneità di alcuni atti qualificati di produzione di norme , e una volta che si è qualificato l’atto come atto competente a produrre norme (sarebbe l’atto del magistrato competente) , questo potrebbe produrre una sentenza anche opposta; proprio in questo è l’assenza di una logica, di una conseguenza inferenziale nel giudizio. Dire che basta che il potere sia qualificato da una norma di competenza può portare ad esiti che sono quelli per cui la sentenza può essere x ma anche la negazione di x ed in questo consiste l’irrazionalismo giuridico applicato al processo. La domanda che pongo è: “davvero il processo non ha una logica come sostiene Kelsen? In altri termini, noi parliamo della validità della sentenza , essa non ha una logica? Perché voglio andare sino in fondo a questa questione? perché vive in me questa intuizione ontologica fondamentale che il diritto non è una qualsiasi cosa e che la tragedia dell’umanità del ‘900 è stata segnata, forse, dall’ equivoco sul significato di giuridicità.

Quali sono le conseguenze sul piano pratico se sosteniamo l’assenza di una logica della validità della norma giuridica ?”
Le conseguenze sarebbero che il diritto potrebbe essere qualsiasi cosa , che esso non ha una sua ontologia di base ( il diritto non è qualcosa che sappiamo riconoscere distinguendo da altre cose, noi sappiamo distinguere una norma da un cavallo, un ordine giuridico da una norma delinquenziale. Se la validità giuridica non avesse nessuna logica e fosse il prodotto della decisione si tornerebbe a discutere  di questa ontologia di base). Questi sono i problemi che cercheremo di affrontare cercando di svolgere una possibile logica del processo .
Con quale metodo? Prima cosa non ci deve essere un solo metodo , ce ne devono essere diversi.

  • il primo è  l’estetica. I metodi hanno una loro teoreticità , cioè il metodo, prima ancora di essere applicato dice qualcosa sull’oggetto su cui sto indagato (naturalmente ciò si verifica se il metodo è corretto). Dunque se l’estetica è un metodo per comprendere il diritto  è perché il diritto è anche emozione, è pathos che non è che non entra nella esperienza giuridica . io sono convinto che i giuristi , in genere, prima di interrogarsi di quali siano le regole relativamente ad un fatto dinanzi a sé vive una sua emozione giuridica fondamentale e io vorrei svolgere una sorta di fenomenologia di questo pathos prima ancora di entrare nei tecnicismi del processo.

L’estetica come scienza delle emozioni giuridiche fondamentali, nonostante sia insolito per la scienza giuridica .

  • L’ altro metodo è la retorica con cui esploro quali sono le condizioni che rendono possibile , attraverso un indagine molto tecnica , la decisione giuridica. È la scienza della decisione giuridica.

 

  • Un terzo metodo possiamo chiamarlo metafisica, volto ad indagare se il processo ha dei principi, delle regole e se ogni atto giuridico ha delle regole- necessarie perché quella norma sia una norma giuridica e quella sentenza sia una sentenza giuridica- che non dipendono dalla nostra disponibilità , dalla volontà del soggetto che produce la sentenza.  Allora tenterò di individuare questa ragione delle condizioni universali e necessarie che rendono possibile un atto giuridico come la sentenza .

Per emozioni giuridiche fondamentali, non intendo il prodotto di una particolare impressione, noi abbiamo la percezione di certi valori giuridici fondamentali indipendentemente da una particolare riflessione semmai filosofica , ad es  io dico -con un pathos, con l’idea della forza quasi teoretica di certe emozione- “ tu mi devi rispetto “, questa pretesa morale – giuridica non credo che io la supporti sulla base di raffinate argomentazioni, corrisponde al contenuto di un’emozione giuridica  o morale fondamentale.
Ad es. dico “ non hai il diritto di offendermi”, questa affermazione di un diritto mi sembra che non abbia necessariamente un fondamento particolarmente sofisticato in particolari riflessioni filosofiche , è il frutto di un’emozione giuridica fondamentale,di un pathos che è la prima intuizione della giuridicità. Dico ad es. “ è giusto darti ciò che ti spetta” , “ è doveroso vivere onestamente”, anche queste frasi sono cariche di un‘intuizione giuridica fondamentale. Tutte queste proposizioni sono idealmente alcuni frammenti di una possibile fenomenologia delle emozioni giuridiche fondamentali  che io chiamo estetica.

Kant , nella “Critica della ragion  pura”, ritiene che non è un caso che a noi si riveli questo valore giuridico in modo così immediato, la sua considerazione è questa: ma davvero voi ritenete che la natura – intendiamo dire quest’ordine naturale di cui ne siamo parte – abbia pensato che rispetto a certi bisogni fondamentali, come sono quelli  che noi colleghiamo alla giuridicità e alla validità, abbia fatto di tutto per nascondere i valori coinvolti? Secondo Kant sono così importanti tali valori per la natura e per il nostro esistere che la natura ha fatto di tutto per svelarli immediatamente e rendere conoscibili anche ai fanciulli queste verità. Le emozioni giuridiche sono questa intuizione prima di parlare del valore giuridico, io condivido quello che dice Kant e cioè che sarebbe strano per la nostra natura che essa abbia fatto di tutto per nasconderci questo contenuto di valore decisivo per i nostri studi-

Ricordo alcune pagine dell’ontologia di Platone che ricorda che Socrate testimoniava di sentire una voce interna che in ceri momenti cruciali della sua esistenza gli diceva cosa era bene che non facesse (demoniun). Kant usa in modo ricorrente la parola dayskind , la parola fanciullo, lui parla se vi è una metafisica della legge morale, se ci sono dei principi primi di essa che vanno scoperti dalla ragione e che sono principi che governano la volontà dell’uomo e Kant insiste sulla dimensione creaturale della legge morale , cioè anche i bambini conoscono essa.
Ecco vi sono delle emozioni giuridiche particolari che non sono il prodotto di una riflessione ma sono il risultato di intuizioni del soggetto, queste entrano nella valutazione giuridica anche quando essa appartiene al processo.

Faccio degli esempi di alcuni frammenti di emozioni giuridiche fondamentali che appartengono al processo. Quale sarebbe la mia reazione se l’avvocato concludesse la sua arringa dicendo “ ho detto tutte queste cose, ma sono il primo a non crederci, le ho fatto per ragioni di lucro nei confronti del mio assistito? Senza una particolare attività riflessa  direi che questa non è una difesa nel processo. Cosa direi se nel processo il magistrato assolvesse e direbbe nella motivazione un elemento non serio, non sensato? Queste cose dicono che c’è una nostra intuizione giuridica fondamentale che non possiamo trascurare perché esse  sono il primo percorso che noi facciamo quando pensiamo, quando ci poniamo la domanda se davvero il diritto è una qualsiasi cosa. A noi si rivelano alcuni valori giuridici come l’adeguatezza delle sanzioni , l’imparzialità del giudizio , essi si rilevano già attraverso le nostre intuizioni giuridiche fondamentali. Riprenderemo da questo discorso nel nostro prossimo incontro.

 

Teoria dell'argomentazione giuridica

 

5°Lezione del 18.03.08

La fecondità dell’estetica sta proprio nel fatto che esprime, come dice Kant, un intelletto comune; per cui forse ha ragione Socrate quando dice: “Questa voce che c’è dentro di me l’ho sempre avuta; alcune cose le reputo turpi, senza se, senza ma”, ad es.,  commettere violenza nei confronti dei bambini è una cosa turpe, senza se, senza ma, non c’è bisogno di un  pensiero filosofico.

L’esperienza dell’umanità testimonia oramai alcune proposizioni che sono improponibili, proposizioni che sostengono il totalitarismo sono improponibili, proposizioni che sostengono il genocidio come sta avvenendo in Tibet sono improponibili, proposizioni che sostengono il maschilismo sono improponibili. Che nel processo un magistrato assolva Arsenio Lupin perché è furbo o perché ha origini pugliesi, non è una sentenza: questa è un’intuizione dell’intelletto comune; che si debba essere condannati alla pena capitale per il furto di una mela è una proposizione insostenibile; è impensabile un processo senza il principio della terzietà, ecc. La fecondità dell’estetica è questa: proporre contenuti che sono contenuti dell’intelletto comune; ci sono però dei limiti. L’intelletto comune, o potremmo dire l’emozione, perché ci sono emozioni giuridiche fondamentali, percezioni immediate del soggetto.

Il problema è che queste  emozioni, così come rivelano grandi verità, possono anche rivelare grandi falsità, cioè, confondere una posizione emotiva del singolo  come contenuto di una scienza che noi chiamiamo estetica. Non sottovaluterei nel processo la sua dimensione emotiva, anche perché, probabilmente, se si va ad indagare bene, il processo è caratterizzato proprio da questa emotività  che comincia già a formare la posizione del giudice e delle parti in causa; il resto sembra venire dopo: andare a trovare la norma che spieghi quello che è accaduto; sembra quasi che la prima impressione sia esclusivamente estetica sulla vicenda.

Il rapporto anche personale tra giudice ed imputato, tra imputato e difesa, il contatto fisico non è secondario nella vicenda processuale. Certo, c’è la possibilità di cadere nella soggettività.  Andate a leggere per es., gli atti processuali del terzo processo intentato contro Oscar Wilde, imputato per un reato previsto nell’Ottocento, ossia per il reato di omosessualità. Il giudice nella motivazione dice: “Non voglio neanche menzionare le cose che ho sentito dalle varie testimonianze, la cosa mi disgusta!”. Questa cosa del disgusto è problematica. Quando parliamo di estetica, di un contenuto dell’estetica come scienza, noi ci rapportiamo sempre a quel discorso della fenomenologia che si ricollega alla storia dell’esperienza, della coscienza dell’umanità, che ci porta alla negazione del maschilismo, del totalitarismo; cosa diversa è la mia reazione personale di disgusto dinanzi ad una cosa. Anzi, molte volte, quando io affermo il disgusto così radicale nei confronti di qualcosa, c’è da temere che questo prendere le distanze così radicale è quasi un prendere le distanze improponibile nei confronti di un’umanità, come a dire: “Io non sono quest’umanità!”. Insomma, chi si esprime con parole di disgusto così forti, non vuole riconoscere anche la propria umanità.

Questa mancanza di condivisione a volte denuncia anche un limite del giudice a non uscire dalla propria soggettività. La frase “mi disgusta” permette di ripercorrere questo tema come rivelatore della problematicità che il soggetto ha in generale di accettare la propria umanità, sicché denunciare disgusto è come vivere l’oblio della propria umanità, è come dire: “Questa cosa non mi tocca, non appartiene a me!”,  invece l’umanità ci appartiene. E’ più pericoloso non prendere consapevolezza  di quest’umanità che prenderne consapevolezza. Dunque, il contenuto dell’estetica non centra con queste espressioni del suddetto giudice, né tantomeno centra l’estetica con quell’urlo di disperazione improvviso nella seconda sinfonia di Gustav Mahaler, quando noi affermiamo la improponibilità di proposizioni come quelle che abbiamo detto, non centrano con questa disperazione.

Poi, c’è un altro motivo di riflessione sull’estetica: come ha fatto l’umanità nel cuore del Novecento ad infilarsi in questo tunnel buoi dell’olocausto? Perché è un problema per l’estetica? Perché ci si chiede: “Dove stava la coscienza dell’umanità? Dove si era eclissata?”.
Io ho una prima impressione: l’esperienza della coscienza matura, perché l’umanità cresce nel suo senso estetico delle cose attraverso l’esperienza; è chiaro che c’è stata la schiavitù, ma oggi noi diremmo che è impensabile un ordinamento giuridico fondato su una norma che di che alcuni sono padroni e alcuni sono servi; eppure c’è stato l’istituto della schiavitù come istituto giuridico, non ho difficoltà a riconoscere questo. Il problema non è dell’estetica ma di alcune conseguenze che determinano i sistemi totalitari.

Uso due argomenti per dire come sono andate le cose.

La prima tesi la prendo dal libro del filosofo tedesco del Novecento Karl Jaspers.
In Germania, a differenza che in Italia, si è sviluppata una riflessione che ha avuto il titolo di quest’opera di Karl Jaspers “La questione della colpa”: i tedeschi si sono resi conto di aver fatto una cosa improponibile, quindi si pone il problema della colpa (è interessante scoprire che in Italia non c’è una letteratura simile, anche se pure in Italia ci sono state le leggi razziali). 
Dice Jaspers: fermo restando che ci sono varie colpe, c’è anche la colpa politica, che è una colpa estensibile a tutto il popolo tedesco, e non è la stessa cosa della colpa morale. Provo a spiegare con un esempio: la nomina a cancelliere di Hitler nel 1933, da parte del Presidente della Repubblica Hindenburg, implica la responsabilità politica di quest’ultimo, ma nessuno direbbe che è responsabile morale del genocidio; ha nominato Hitler probabilmente per fare il bene del Paese; d’altronde la Germania viveva dalla metà degli anni Venti una crisi economica gravissima; le origini di questa crisi economica sono legate al trattato di Versailles che conclude la prima guerra mondiale. Altrettanto, nessuno direbbe che i monaci tedeschi del terzo Reich fossero responsabili penalmente; si potrebbe parlare di responsabilità politica di tutto il popolo tedesco, perché in uno Stato moderno il popolo ha la sua incidenza, ha una sua sovranità.

C’è una storia commovente della resistenza in Germania, quella vissuta da “La rosa bianca”, commovente perché in un processo di omologazione, di uniformazione al terzo Reich, quelli che reagiscono sono i giovani universitari che col loro professore verranno tutti ghigliottinati: non era assolutamente facile la resistenza in Germania anche per chi aveva maggiore coscienza di ciò che stava succedendo. E’ facile dire: “Dove stava la coscienza?, Dov’è finita l’estetica?”.

Poi, c’è un’altra tesi della filosofa del Novecento Hannah Arendt “La banalità del male”, un’opera incentrata sul processo celebrato a Gerusalemme nel ’61, dove imputato è un comandante. Hannah Arendt si sarebbe aspettata che  l’imputato si prendesse le sue responsabilità, invece è una persona che fa fatica a capire quello che ha fatto: perché fa fatica a capire una cosa che noi diremmo insostenibile solo allo sguardo? Spiega Hannah Arendt: c’è stato un processo di burocratizzazione del male, cioè la produzione del male è un’organizzazione burocratica; cioè, quello che sapeva chi stava all’inizio del processo non sapeva come andava a finire, e chi si trovava alla fine di questo processo e aveva coscienza di quello che stava facendo, non sapeva come cominciava. Questa frammentazione del processo quale conseguenza ha? Di prendere coscienza del male che sta producendo. Che deve eseguire degli ordini e non sa come si è originato tutto questo, ha una percezione minore del male che sta producendo, non si rende neanche conto che quello che sta compiendo è male.

Da questo punto di vista ha forse ragione un altro filosofo tedesco, il quale titola la sua opera “Noi figli di Haigman”: se le cose stanno così, siamo tutti nella possibilità di essere figli di Haigman. Anche qui non centra nulla l’estetica.

L’estetica come scienza vive una dimensione problematica, il problema ad es., di che limite c’è tra il contenuto di una fenomenologia estetica e le relazioni individuali soggettive; poi ci si chiede rispetto al tema dell’errore, storicamente che cosa è successo? Bisogna andare sempre a vedere come stanno le cose prima di muovere un’obiezione all’estetica come scienza. E comunque, l’estetica si propone come scienza al termine di una storia dell’esperienza della coscienza.
Oggi, questa storia dell’esperienza della coscienza di cosa ci avverte? Mai più schiavitù, razzismo, genocidio, maschilismo, processi senza terzietà, non adeguatezza delle azioni nel processo, non simmetria delle posizioni nel processo: sono tutti contenuti dell’estetica.
Credo che sia una cosa molto interessante in questo discorso vedere la fecondità che ha l’estetica relativamente alla tradizionale dogmatica giuridica. Questo cosa significa? Che si potrebbe, tra l’altro, in questo modo, prendere consapevolezza di una verità sulla quale io sto insistendo, che non è da sottovalutare; questa verità, che risponde a bisogni fondamentali degli uomini, è una verità che ci viene rilevata dalla nostra testa, dal nostro sangue, e non potrebbe essere diversamente.

A volte, può essere fuorviante questa verità che scorre nelle nostre vene; è un modo per appropriarci con maggiore serenità della nostra esistenza. A volte la nostra esistenza può essere funestata da mille pensieri e magari, che cosa ci perdiamo? La bellezza di una verità che abbiamo a disposizione, che sta nelle nostre mani, e perdiamo la nostra serenità anche per questo. Cioè, siamo capaci di perdere la nostra serenità perché ci allontaniamo da una cosa che abbiamo sotto gli occhi. Ecco, ritornare a questa spontaneità non è da sottovalutare.
Dunque, è interessante vedere il rapporto con la dogmatica giuridica. Io ho trovato due fenomeni nella dogmatica giuridica che sono interessanti rispetto al problema: vediamo se l’estetica fonda la tradizionale dogmatica giuridica. Ci sono almeno due concetti presenti nella dogmatica giuridica che sembrano presupporre proprio l’estetica come fondamento di questa dogmatica.

Il primo concetto è quello di equità, il giudizio equitativo che viene consegnato al potere del giudice nei nostri ordinamenti e anche negli ordinamenti diversi, come quelli del common law.
Ad es., nel common law c’è un istituto del c.d. quantum meruit. Vi dico come questo istituto trova fondamento proprio nell’estetica come scienza. Immaginate un contratto tra due parti, di prestazione d’opera: in questo contratto le parti stabiliscono che sarà pagata la prestazione che riceve uno al termine della prestazione d’opera. Succede che chi è l’autore della prestazione non riesce a completarla per intero, ma per il 90%. Ci si pone allora una domanda: dinanzi ad un’impossibilità grave a proseguire l’opera, si può pensare che si debba escludere comunque la richiesta del prestatore d’opera di essere ricompensato almeno per il 90%?
L’istituto del quantum meruit, che è un istituto molto solido nei sistemi anglosassoni, darebbe ragione all’attore che chiedesse di vedersi ricompensare comunque per la parte dell’opera che lui ha svolto, nonostante la norma contrattuale. Che cosa si fa strada in quest’istituto?
Vedete, l’impossibilità, secondo la percezione comune delle cose, ci porta a dire: la norma potrebbe essere quella che vuoi, ma dinanzi a questa percezione del senso comune, che ti impone un meritabile richiamo a questo valore della giustizia nella situazione particolare , succede un fatto nuovo: il prestatore d’opera non è riuscito, è subentrata una causa importante (ponete una malattia, un handicap che ha reso impossibile il completamento dell’opera), anche se non ci fossero dei particolari termini contrattuali, che cosa accadrebbe? Ci sono dei sistemi che possono pensare di far derogare alla norma, perché la situazione particolare impone un richiamo ad una giustizia che si chiama equità che è la giustizia del caso particolare, è il rapporto tra la norma generale e il caso particolare che si è verificato.
Su che cosa si fonda questo concetto di giustizia del caso particolare se non da una percezione che ha immediatamente il  giurista, che sarebbe ingiusto non corrispondere ricompensa, in questo caso, al prestatore d’opera, nella misura in cui ha svolto la sua opera (questo è il quantum meruit , quello che merita).
Allora, questo istituto del quantum merurit che traduce in certi sistemi il concetto di equità, si fonda sull’idea che noi abbiamo una percezione della giustizia immediata che appartiene all’intelletto comune; si ragiona per questo contenuto dell’intelletto comune; si dice: chiunque, partecipe di ciò che chiameremmo intelletto comune, riterrebbe ingiusto che in questo caso non si tenga conto della richiesta del prestatore d’opera che non ha potuto per forza maggiore completare la sua opera, e dunque può essere compensato per quello che ha fatto.
Sarebbe radicalmente ingiusto, non c’è norma che possa resistere a questa percezione della giustizia. Allora, questo istituto del quantum meruit lo reputo un fenomeno giuridico interessante, che si spiega soltanto se pensiamo che noi abbiamo una percezione, che è un intelletto comune della giustizia. Ed è sulla base di questo intelletto comune che si giustifica l’esistenza di istituti come questo, ma,  in genere, io direi, il tema dell’equità, del giudizio equitativo, ha questa radice nell’intelletto comune.

Avete letto “Il mercante di Venezia” di Shakespeare? E’ una lettura che vi consiglio, che và fatta da giovani, altrimenti non la si assimila più: Passanio che si innamora perdutamente di Porzia, deve fare gesti di corteggiamento, ma non ha una lira bucata, e Porzia appartiene a una famiglia ricca. Dunque Passanio chiede all’amico Antonio, un ricco mercante che ha tante navi che attraversano il Mediterraneo, se gli può prestare qualcosa. Antonio è legato da grande e fraterna  amicizia a Passanio, ma non ha le sue ricchezze a disposizione, perché le sue navi sono in mare e devono presto tornare, e chiede a sua volta un prestito a Shairok che fa come mestiere l’usuraio. Fissano delle condizioni, c’è una penale: se Antonio non restituirà il prestito, la penale sarà una libbra di carne da staccare dal petto di Antonio. E succede proprio questo, che Antonio non potrà restituire quello che è dovuto, perché le sue navi tragicamente sono naufragate, e Shairok pretende la sua penale.
Ecco qui che nasce, dinanzi a questa norma una reazione chiamata estatica, cioè legata all’intelletto comune: è possibile una penale di questo genere? Possiamo semmai pensare di tradurre questo in scudi, scellini, dollari, euro e allora accontentarsi di avere l’equivalente in danari. Che cosa succede? Si indice un processo, c’è un giudice, che ovviamente nella finzione letteraria è Porzia travestita da giudice, e ciò sarebbe una violazione grave al principio della terzietà; ms in realtà, Porzia dice una cosa che rispetta assolutamente il principio della terzietà, anzi, traduce il senso stesso che io voglio trasferirvi dell’equità come un senso irresistibile per il diritto, così come è irresistibile l’intelletto comune, torno a dire, l’estetica per il diritto.  Che cosa dice il giudice Porzia: “Va bene, tu vuoi la tua penale. Ti sarà data. Però stai attento, la tua penale dice una libbra di carne, non una goccia di sangue in più. Se ci sarà una sola goccia di sangue in più sarai tu ad essere imputato per eccesso di risoluzione”. Shairock risponde: “E’ questa la legge?”; scopre in quel momento che non può essere questa la legge, e che la legge torna ed essere l’equità, e l’equità torna ad essere il prodotto dell’intelletto comune di cui parla Kant, di cui parla Socrate e così via. Allora, l’istituto dell’equità, l’istituto del quantum meruit, sono istituti giuridici solidi di sistemi giuridici altrettanto solidi della nostra civiltà giuridica; dove sta il fondamento? Nell’intelletto comune, nella reazione dell’intelletto comune dinanzi alle situazioni particolari in cui la legge si attua.
L’ordinamento chiede al giudice, in un certo qual modo, di essere portavoce dell’intelletto comune. L’ordinamento non si può permettere di agire astrattamente, altrimenti questo determinerebbe l’intrusione dell’ordinamento. Senza il quantum meruit, senza l’equità, l’ordinamento prima o poi genererebbe una situazione di totale insoddisfazione dei destinatari delle norme.

Esaurito il discorso sul primo fenomeno, che è quello dell’equità, altro fenomeno di riflessione è il fenomeno della c.d. finzione giuridica.  All’inizio dell’Ottocento, in Inghilterra c’era un reato che si chiama grand larceny, un furto superiore ai 40 scellini; era stabilito che per ogni furto del valore equivalente o superiore a 40 scellini ci fosse la pena capitale. Qual è stato storicamente il comportamento delle corti? E qui centra la finzione giuridica: quando le corti sono state chiamate a giudicare i casi di furto e a valutare il valore del furto, nella stragrande maggioranza, anche se il ladro era imputato per avere rubato la suocera del suo amico, i giudici non hanno mai detto che questo furto fosse equivalente o superiore a 40 scellini, perché anche lì c’era una percezione dell’intelletto comune che riteneva non adeguata una sanzione così grave per un furto di questo valore (i giudici hanno detto che la suocera non valeva 40 scellini, era anziana, rompiscatole), a tal punto che l’ordinamento nel tempo muta questa norma, trova questa norma ormai non più dotata di efficacia, e scompare nel corso dell’Ottocento.
Questo altro fenomeno della finzione giuridica è un fenomeno che si ricollega a ciò che noi chiamiamo estetica; cioè, l’intelletto comune, anche dinanzi a  norme che sono poste dal legislatore, non avverte la forza della norma, quanto la forza di una sua intuizione (che è quella dell’intelletto comune), di non adeguatezza di quella sanzione rispetto al reato compiuto; è come una ribellione dell’intelletto comune.
Il magistrato agisce, e quello che fa è dettato non dalla norma, ma all’opposto, da questo suo sentimento giuridico fondamentale che gli impone di adoperare uno strumento giuridico che tecnicamente si chiama finzione giuridica: il magistrato, anche dinanzi all’evidenza, quindi  a fatti che implicano un valore superiore o pari a 40 scellini, ha dichiarato che il fatto non era di questo valore.
E tutti sono d’accordo; ma perché è importante che tutti sono d’accordo, cioè la dimensione pubblica dinanzi alla finzione giuridica? Perché ci sono delle finzioni che non sono giuridiche, sono delinquenziali; ad es., negli anni Trenta (la stagione del terrore in URSS con i processi che Stalin intentava contro i c.d. cospiratori), evidente è che era una finzione chiamare cospiratori persone come Trosky, Kamenef, Karin, perché si chiamavano cospiratori gli artefici stessi della rivoluzione russa. Era evidente che la cospirazione era un reato ricreato fingendo la realtà, perché si voleva che ci fosse una certa sanzione.
Allora io distinguerei la finzione giuridica, dove c’è questa coralità, c’è il pubblico che partecipa, e l’ordinamento poi modifica la norma, da queste espressioni ancora una volta del potere totalitario, che nascondono le cose.
Ecco, l’equità da una parte, la finzione giuridica dall’altra, sono due fenomeni interessantissimi perché dicono della rilevanza dell’estetica rispetto alla dogmatica giuridica.
Rispetto a quella che noi abbiamo chiamato estetica come scienza dell’intelletto comune rispetto alla giuridicità, o scienza delle emozioni giuridiche fondamentali, o delle intuizioni, se si va a vedere bene come stanno le cose, la dogmatica presuppone l’estetica, e la presuppone in alcuni fenomeni particolari, quando ad es., amministro la giustizia con l’equità, perché qui si fa riferimento all’intelletto comune (non si può pretendere come sanzione una libbra di carne, così pure non puoi pretendere in un contratto che chi ha compiuto la sua opera quasi portandola a termine, anche in modo soddisfacente rispetto alle richieste del committente, poi non riceva compenso, almeno nella proporzione per quello che ha fatto).
Ecco, questo è un fenomeno. Altro fenomeno che trovo interessante è la finzione giuridica: l’aspetto interessante è che dinanzi a questa finzione il pubblico reagisce non contestando la finzione, ma partecipando e sostenendo l’adeguatezza della finzione, perché appunto la fonte è l’intelletto comune. Inutile dirvi che gran parte dell’estetica si trova nella letteratura perché ha questo potere simbolico universalizzante di parlare del diritto che entra nella vita, e riesce a scoprire ciò che lì per lì, magari, la coscienza non scopre. Si parla di un giudice sapientissimo che amministra la giustizia attraverso il sortilegio dei dadi; vengono l’attore e il convenuto, loro hanno le loro ragioni, tutti pretendono qualcosa. Il giudice mette le loro ragioni in due distinti sacchi, un sacco a sinistra e un sacco a destra e lancia i dadi: prima bisogna tener conto dell’imputato, del convenuto, bisogna sempre essere in favore del reo, quindi prima i dadi devono essere lanciati dove c’è il sacco con gli incartamenti delle ragioni del convenuto e poi dalla parte dell’attore. Delle sue sentenze tutti erano contenti, però una volta qualcuno non è stato d’accordo e ha protestato all’Alta Corte di Parigi; i giudici dell’Alta Corte hanno convocato il suddetto giudice, e gli dissero: “Tu non fai bene il tuo mestiere!”. La difesa del giudice è la seguente: tenere conto di quante sentenze lui ha prodotto, di cui nessuno si è mai lamentato; soprattutto tenere conto che il giudice è ormai una persona anziana, e gli anziani ad un certo punto hanno difetti di vista. Cosa è successo in questo caso? Il giudice ha scambiato un numero per un altro, i dadi sono piccoli e non ha visto bene. Sono pagine in cui si trova ciò che noi chiamiamo estetica; forse la gran parte delle cose ci vengono attraverso le nostre intuizioni fondamentali.

Anche la retorica pretende di essere scienza, così come l’estetica. Ma scienza di che cosa? Che cosa suppone la retorica?
Abbiamo parlato di questi metodi (estetica, retorica, metafisica), che sono metodi diversi anche se hanno lo stesso oggetto, convinti che usando vie diverse riusciamo meglio a cogliere con forza la verità che si nasconde in questo oggetto che è il processo.
Dicevamo anche che i metodi hanno una loro teoreticità, cioè, prima ancora che andiamo ad indagare con quel metodo, esso annuncia già una verità.
Qual era la verità che annunciava l’estetica? Che il diritto, la giuridicità è emozione, intuizione, pathos (nelle passioni c’è proprio questa intuizione prima delle cose); solo con le passioni, solo con l’estetica non si fa tanta strada, occorre anche la retorica, la metafisica, però questo significa che comunque il pathos  e le passioni hanno sostanza.
Allora che cosa annuncia la retorica in sé del diritto? Annuncia la decisione, il processo è il luogo della decisione. Questo non succede nei sillogismi di Aristotele, specie se sono sillogismi scientifici, quelli che Aristotele chiama sillogismi analitici o formali, invece, nel processo si decide, il processo è il luogo del dubbio.
Perelman mette ben in evidenza questa stagione legata all’età delle grandi codificazioni che coincidono soprattutto con il grande codice napoleonico. Lì c’era quest’ideale, associato all’opera di codificazione: che ci fossero delle norme chiare da una parte (che ci fossero tutte le norme di cui abbiamo bisogno, che l’ordinamento fosse chiaro, completo rispetto ai fatti rilevanti giuridicamente), e che l’opera del giudice deve essere quella di essere bouche de la loi (= bocca della legge), non luogo della decisione del dubbio.
Noi invece scopriremo che non ci sono norme chiare, e che il luogo del processo è il luogo del dubbio, della decisione, non è il luogo dove tutto è chiaro. Anzi, siamo andati a trovare un caso drammatico dove il magistrato sembra dire qualcosa che contraddice le stesse premesse, e ci chiediamo: che cosa succede? Ha effettività, ha validità quella sentenza? Fino a che punto ha validità quella sentenza? Possiamo dire qualche cosa che accompagni l’intelletto comune che ci avverte che l’ordine giuridico non può essere “O la borsa o la vita!”
Quest’evidenza , che “O la borsa o la vita!” non è un ordine giuridico, vorrei che ce la portassimo dentro come un’evidenza forte, e se questa è un’evidenza forte, io non vorrei a tutti i costi sostenere la tesi di Kelsen per cui davvero nel processo non c’è una logica. Lo trovo diseducativo comunicare che il processo è una prima intuizione; trovo diseducativo dire che il diritto è una qualsiasi cosa, che il processo può portare a qualsiasi conclusione.
Lasciamo perdere quello che è il fatto che accade, dobbiamo cercare di distinguere quei fatti che chiamiamo diritto da quelli che non sono diritto.
Ci sono fenomeni come la forza, la coazione che non necessariamente sono diritto: il generale che comanda in questi giorni di massacrare i monaci tibetani; la forza è un mero fatto, attende la nostra qualificazione; se strangoli qualcuno è un fatto, poi gli do una qualificazione per cui se strangoli qualcuno sei un assassino, sei una persona che non vive l’esperienza dell’umanità in un modo adeguato.
Siccome abbiamo il desiderio soprattutto di arrivare a una verità (che sia, almeno per noi, quella che possiamo raggiungere attraverso la conoscenza dei fenomeni), bisogna attraversare addirittura l’ipotesi opposta, l’antitesi; allora, qual è l’antitesi? Nel problema di tutto questo discorso (che l’ordine “O la borsa o la vita!” non è diritto), qual è l’antitesi? Che il processo è il luogo del dubbio, della decisione.
La decisione implica un risultato e anche un altro risultato.
Ad annunciare che l’ordinamento deve fare i conti con il dubbio non è soltanto il filosofo che parla dell’ordinamento; queste norme possono a volte davvero essere questo pallone gonfiato con uno spillo accanto. Allora, tutta questa cosa che abbiamo costruito si sgonfia miseramente dinanzi alla decisione del magistrato che applica le norme? Ecco, passeremo da questo momento del dubbio, che non è solamente un momento annunciato dal filosofo, dal metafisico, ma è un momento annunciato dall’ordinamento stesso.
L’ordinamento stesso mette al centro della questione “che fine fanno le norme nel processo”, un articolo che sembra una norma ininfluente, che invece, è basilare nella vita del processo, ed è quella norma che ci dice come si devono interpretare le norme (art. 12 delle preleggi ).
Quando mi sono messo a studiare il diritto qualcuno mi ha detto: “Adesso hai scritto cose di astrazione pura, perché non parli del diritto vivente?”
E che cosa c’è alla base del diritto vivente? Naturalmente alla base c’è ciò che può fondare un atto come quello della sentenza.
E che cosa può fondare basilarmente un atto? Una norma, ad es., dice come le norme devono essere interpretate.
Sappiamo bene che la nostra conoscenza di un oggetto non è la conoscenza dell’oggetto in sé, anzi, dire la proposizione “è  conoscibile la norma in sé”, è per definizione impredicabile, perché la norma in sé noi non la conosciamo, noi conosciamo sempre la realtà per sé, cioè rispetto ad un soggetto; il soggetto ha una percezione prospettica, non ho ad es., la visione del Padre eterno delle cose.
Di queste proposizioni io conosco quello che queste proposizioni dicono a me, come soggetto; dobbiamo vedere se quello che io percepisco lo percepisce anche quello accanto.
Dunque, la proposizione “è  conoscibile la norma in sé”, è già una proposizione impredicabile; che significa impredicabile? Non posso mai stabilire se è vera o falsa, perché non conosco la norma in sé, non conosco il Padre eterno in sé, ma lo conosco sempre per me, per sé.
Allora, l’art. 12, che sarebbe appunto questa norma che sembra basilare, è una norma imbarazzante: si deve tener conto del significato delle parole (posto che si possa; poi vedremo se le parole sono davvero così chiare), e poi con un et, senza neanche creare una gerarchia logica “e delle intenzioni del legislatore”; non è la stessa cosa. L’abbiamo già appreso dai tempi di Socrate che una cosa è quello che io dico e una cosa è quello che io penso (quando io dico alla persona che amo: “Ti sarò sempre fedele”, che cosa penso, non sono queste le mie intenzioni!).
Se c’è in conflitto tra quella che noi pensiamo essere l’intenzione del legislatore e quello che dice, cosa devo fare io? E poi finalmente il diritto me lo dice lui, che ci sono delle controversie per le quali manca una disposizione chiara. Questo veramente non lo sapevo! Non lo avevo neanche immaginato che ci sarebbero state controversie per cui non avremmo trovato una disposizione chiara! Altrimenti, che cosa si va a fare in processo ? Perché andiamo in processo se tutto è chiaro? Pensiamo a un diritto dell’esecuzione, tutto bello esecutivo, senza un processo, senza un  diritto processuale, sappiamo già in partenza chi ha torto e chi ha ragione; ci vorrebbe un notaio, non un  giudice se tutto è chiaro; oppure il sapientissimo giudice che prende i dadi e li lancia da una parte e dall’altra.

 

Perché questa è una situazione particolare, che normalmente non si è mai verificata, perché la norma avrebbe funzionato secondo i termini che erano previsti, cioè il prestatore d’opera ha sempre completato la sua opera e poi è stato pagato.

 

Teoria dell'argomentazione giuridica

6°Lezione del 29.03.08

Stavamo trattando della retorica che sarebbe la seconda sezione alla nostra critica della ragione giuridica del processo, dopo aver definito l’estetica come scienza o fenomenologia di emozioni giuridiche fondamentali.
Della retorica dicevamo che questa ha come oggetto la decisione giuridica.
Il processo non è un insieme di proposizioni assiomatiche, di proposizioni che vengono dedotte l’una dall’altra senza alcun momento decisorio. Questa era un po’ l’illusione della scuola dell’Esegesi che, dopo la grande età delle codificazioni, sosteneva la possibilità che ci potessero essere dei codici dove le norme erano tutte chiare, dove le norme disciplinavano tutto il diritto necessario e dove l’attività del giurista, in particolare del giudice, era essenzialmente deduttiva. In questo senso non c’era spazio per la decisione, sarebbe come immaginare che vi sia un’attività decisoria da parte di chi, per esempio, allievo di Euclide svolge degli assiomi e vi analizza i risultati, non è possibile che nella geometria euclidea, come nel processo, vi sia spazio per delle scelte, sarebbe come dire che è una scelta se 2 + 2 dà come risultato 4 (o che 5 + 7 abbia come risultato 12, per fare un es. di Pitagora).
Nell’età della codificazioni c’era questa illusione e cioè che il processo non  fosse il luogo della indecisione, ed al massimo, fosse il luogo della decisione.
Invece appena ci si avvicina alla vita del processo, se lo si fa in modo fenomenologico (che identifica proprio il metodo che ci siamo dati) si scopre subito che il processo vive nella condizione del dubbio, e che questo è un elemento costitutivo del processo stesso. Vi sono ragioni logiche che avallano quanto sostenuto e che dicono che nel processo c’è il dubbio, l’indecisione, perché il dubbio è quel luogo della separazione delle ipotesi, quel luogo dove le strade si biforcano e non si sa come decidere. Vari elementi possono guidare la decisione, ad esempio le emozioni giuridiche fondamentali, le intuizioni, lo sguardo. Nell’attività giurisdizionale il dubbio può lasciare bloccato nella decisione perché non si sa come scegliere, come decidere. Le ragioni logiche ci fanno capire che il dubbio è elemento costitutivo del processo e quindi che l’indecisione ne è parte costitutiva. Possiamo tradurre questo con il termine politicità perché la decisione è attributo essenziale di quell’attività che chiamiamo “politica”, allora la giuridicità per ragioni logiche è parte costitutiva del processo.  
Però al di là di queste ragioni logiche è lo stesso ordinamento giuridico, appena lo si apre, che avvisa sul fatto che molte disposizioni non sono chiare, si tratta di una sorta di ammissione dell’ordinamento stesso.
Il punto esemplare dell’ordinamento giuridico in cui si confessa questa mancanza di chiarezza, e quindi si confessa che il dubbio è parte costitutiva del diritto vivente, è dato dall’articolo 12 delle Preleggi, che si presenta fondamentale per l’ermeneutica giuridica. Tale norma recepisce, traduce un’idea dell’interpretazione giuridica antica e risalente all’art. 3 C.c. del 1865 che è ripreso quasi alla lettera, quindi il concetto dell’articolo 12 lungi dall’essere una nuova introduzione nel nostro ordinamento si presenta come una costante del momento normativo per ciò che concerne l’argomento interpretativo.

L’articolo 12  al comma 1° stabilisce che: “ Nell’applicare la legge non si può ad essa  attribuire  altro senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, dalla intenzione del legislatore”.
Tale comma si riferisce all’attività interpretativa quasi inevitabile e cioè quella a cui tutti si riferiscono quando parlano di “interpretazione”, e cioè che le norme devono essere interpretate secondo il “significato proprio fatto palese dalle parole”.
Ragionando logicamente si può notare che nonostante sia semplice far riferimento al significato proprio delle parole, non analogamente semplice è trovare tale significato, in particolar modo se tale significato deve essere trovato sulla base della connessione delle parole, e cioè non solo il significato che quella  parola ha aprendo il dizionario, ma bisogna trovare il significato che quella parola ha nel contesto e nel testo in cui è usata, dove la problematicità è nella plurivocità, polisemia della parola che se presa da sola può, comunque, avere diversi significati, come appare aprendo il dizionario se cerchiamo una parola, i significati possono essere diversi e cambiare a seconda di vari elementi. Tutto questo si disperde ulteriormente all’interno di un testo dove il significato di quella parola deve interagire, essere connesso, con il significato di altre parole.
E’ facile pensare di risolvere tutto facendo riferimento al “significato proprio delle parole”, ma le parole hanno un senso diverso in base al soggetto che le dice, in base al soggetto a cui sono rivolte, e quindi in base alle esperienze. Una parola trova significati diversi e questo può dipendere oltre che dalle persone anche dal luogo in cui è detta, non c’è univocità, ma polisemia delle parole, queste non hanno un significato proprio. Il punto di partenza è che pronunciando delle parole queste si aprono ad ampi orizzonti semantici.
Già in un discorso potrebbero esserci delle parole che necessitano di ulteriori spiegazioni che si possono dare perché vi è la contestualità tra chi le dice e  chi le ascolta. Con la codificazione la situazione sembrerebbe migliorare, ma invece le cose si complicano e basta, l’introduzione della parola scritta peggiora tutto.
Come dice Platone nel Fedro “ le parole orali pronunciate rotolano di qua e di là senza sapere dove vanno a finire”, con le parole scritte chi le pronuncia non può spiegarle in modo dettagliato, per cui quando queste sono lette suscitano degli evidenti dubbi che non si possono risolvere perché manca la contestualità  propria delle parole “orali”. Questa dialettica fra il detto e lo scritto nell’articolo 12 co. 1 c’è nel momento in cui si fa riferimento “all’intenzione del legislatore” e sottovalutando che si può pensare una cosa, ma dirne un’altra.
Eppure in linea di massima fin qui l’articolo 12 non presenta così tanti problemi (tranne quelli visti). Infatti è con il secondo comma che le incognite aumentano perché si avverte che nell’ordinamento giuridico ci sono delle norme non chiare, in tal caso è proprio l’ordinamento giuridico che dice che può esserci il dubbio.
L’art. 12 co. 2 stabilisce che: “Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. Questo capoverso è come se si dicesse che l’ordinamento giuridico fa tutto il possibile ma la vita non si può rinchiudere in delle parole. L’articolo 12 co. 2 introduce, quasi in sordina, il sospetto. E’ difficile che all’insorgere di una controversia ci sia una disposizione chiara in grado di risolverla, anche perché altrimenti non ci sarebbe bisogno di andare in processo.  Infatti ci sono delle parti che sostengono posizioni contrastanti se ci fosse una norma chiara non ci sarebbe bisogno del processo, invece il fatto che le parti si rivolgano ad un giudice dimostra che le norme sono poco chiare.
L’articolo in questione ci pone davanti al dubbio, si annuncia il problema da qui l’ipotesi che il dubbio non sia un elemento straordinario, ma piuttosto una costante del processo, un elemento costitutivo.
Il processo non è il luogo di una sistematizzazione assiomatica di proposizioni, non è lo sviluppo di teoremi che appartengono alla scuola euclidea o pitagorica, è il luogo della decisione dove si possono confondere da una parte il sentimento del giudice giusto, che si fa carico di tutto questo, che si immedesima e cerca, con la sua attività ermeneutica, di dare delle risposte; tuttavia potrebbe esserci anche il giudice che confonde il diritto e la giustizia con altro.
Dobbiamo partire dall’ontologia di base per cui l’ordine “o la borsa o la vita” non è un ordine giuridico e questo è un dato fenomenologico di base che ha la stessa evidenza dei risultati euclidei, e tutto il resto si costruisce sulla base di questo. Non si deve mai arrivare a pensare che la giustizia sia un mero accordo tra avvocati e magistrati, in questo caso non parleremmo di giustizia, ma di interessi economici che per definizione sono una categoria privatistica e non pubblica. L’umanità ha bisogno di giuridicità e non di rapporti di forza, quando si è cercato di sostituire la giuridicità con i rapporti di forza la conseguenza è stata il “buio dell’umanità” del ‘900.
Il comma 2 annuncia normativamente (e questo è un primo dato fenomenologico) che ci sono controversie per le quali non ci sono disposizioni chiare. Si tratta di un dato incontrovertibile, dettato proprio dalla norma , per questo fenomenologico.
Ora, l’articolo dice che possono esserci disposizioni poco chiare ed in tal caso bisognerà comportarsi in  un determinato modo, e cioè rifarsi a casi analoghi e simili, ma potrebbe essere proprio l’articolo 12 a presentarsi come poco chiaro e la controversia potrebbe riguardare proprio suddetta norma.
Lo studio dell’interpretazione ha messo in evidenza che ci sono diversi canoni normativi dell’interpretazione giuridica, e ciò come dice proprio l’articolo delle preleggi (es. canone dell’interpretazione letterale, quello dell’interpretazione soggettiva e cioè quella derivante “dall’intenzione del legislatore”), e che possono dar luogo a risultati diversi.  Prendendo in esame la giurisprudenza e le motivazioni addotte alle varie sentenze si nota che i giudici si mettono ad interpretare le norme attraverso esiti che sono puramente logici senza tenere necessariamente conto di quello che è dettato negli articoli.
L’articolo 12 “parlando di casi analoghi” detta implicitamente un criterio interpretativo che è quello per analogia, tale canone non è esplicitato, ma evidentemente il giudice che si rifà ad un siffatto criterio non interpreta la norma di partenza in modo letterale, ma secondo lo scopo della norma; ma in realtà l’articolo 12 non parla di interpretazione secondo lo scopo della norma.
Tuttavia tale articolo sottovaluta il fatto che a non essere chiaro potrebbe essere proprio esso stesso, la controversia può nascere a causa dell’articolo suddetto perché volendo questo apparire impeccabile rischia di diventare causa di humor dell’ordinamento giuridico perché affida ad un magistrato di rifarsi ai “principi ultimi dell’ordinamento giuridico” , difficilmente si riesce a trovare una sentenza filosoficamente robusta capace di dire davvero cosa sono questi principi ultimi. Ci si trova di fronte a principi tutt’altro che univoci, ad esempio il concetto di “ordine pubblico” ovvero quello di “pubblica necessità” sono categorie filosofiche plurivoche al massimo dinnanzi alle quali non basta il “compitino” del magistrato per dire in cosa consistano. Siamo di fronte alla situazione incontrovertibile del magistrato che opererà una decisione più o meno fondata, e non è detto che andando avanti con i gradi di giudizio la motivazione diventi più robusta, anzi, il nostro è un sistema in cui la sentenza nei gradi successi viene ancora più affossata (nel senso di togliere quel brandello di motivazione che, semmai, c’era) perché gli interessi privati-economici prendono il posto della giuridicità. C’è una situazione vertiginosa che si avverte subito senza il bisogno di alcuna analisi, ci troviamo dinnanzi ad un’attività ermeneutica del diritto, attività interpretativa delle norme e dei fati, e ci troviamo dinnanzi quest’articolo 12 che cerca di risolvere il caso in cui la controversia non trovi una disposizione chiara, ma il problema è se proprio questa disposizione sia chiara. Anche perché non dice quando, in quale fatto e per quali circostanze, chi decide quando c’è una disposizione chiara, si può partire dicendo che una disposizione chiara c’è,ma potrebbe non essere così per tutti. 
Ad esempio la norma : “E’ vietato l’ingresso ai veicoli in quest’area”; se ad un certo punto qualcuno si sente male e vengono chiamati i soccorsi questi potranno entrare? Allora si inizia a pensare che quella norma non è chiara, perché non prevede il caso in esame. La vita propone situazioni inimmaginabili e gli stessi ordinamenti giuridici andrebbero conosciuti vivendo piuttosto che stando alla lectio divina del codice, non si può crescere solo attraverso le norme, si cresce attraverso le esperienze e così le norme possono acquistare un senso.
Se si dovesse usare una metafora su cosa è l’ordinamento giuridico rispetto alla vita vedremmo un ordinamento come la “mano che cerca di toccare il polso”, per quanto si avvicini non riesce mai a toccarlo e per quanto si avvicini c’è sempre un discreto. L’ordinamento fa fatica ad inseguire la vita, c’è  una creazione continua; ecco perché l’attività interpretativa diventa determinante. E’ facile dire “il significato proprio delle parole”, ma quando, dove c’è una disposizione chiara, le cose cambiano e ciò che sembrava chiaro non lo è più.
Questo problema vertiginoso è affidato ad una breve norma, troppo poco. Però non si può pensare che si possa mettere un freno a tutto quello che succede nella vita, occorre un’intelligenza filosofica delle cose, occorre una capacità ermeneutica che vada oltre la mera formulazione delle norme, e la teoria dell’argomentazione giuridica serve proprio ad accrescere questa capacità. Non si può pensare di andare ad un processo in cui il magistrato svolga un sistema assiomatico e credere che tutto venga colto sistematicamente, ci si trova in un insieme di ragioni opposte ed in quello che si chiama conflitto proprio del processo. Ecco, questa è la questione su cui dobbiamo cercare di ragionare prendendo una strada che tenga conto  dell’ordinamento giuridico ma che lo consideri in modo critico e sapendo che il processo non può, semplicemente, conoscere l’ordinamento. Infatti nel processo si verifica un fenomeno per cui si ha il riversamento di questo ordinamento in una situazione umana e culturale molto più ampia e questo ordinamento viene, da questa realtà umana e culturale, preso e disposto in un modo piuttosto che in un altro nelle varie situazioni processuali che si vengono a creare.
Non è un sistema assiomatico, è una situazione diversa da quella che incontra lo studioso delle geometrie euclidee quando trae una serie di conclusioni dai diversi spazi euclidei dove non si può non assumere un assioma del tipo che per un punto esterno ad una retta passa  una, ed una sola, retta. In questi casi si tratta di assiomi, ma nel processo troviamo delle situazioni diverse.
Tra i primi passi da compiere c’è la riflessione su cosa è la vita dell’ordinamento giuridico, sul fatto che questo non è statico fatto di norme date una volta per tutte, quindi un sistema chiuso. L’ordinamento giuridico è, piuttosto, una continua attività, produzione creativa di norme, è un sistema dinamico. A tal riguardo ha ragione Kelsen  secondo cui la caratteristica dell’ordinamento giuridico è proprio questa continua attività produttrice di norme, quindi non è una realtà bendata in cui non si aggiunge o toglie nulla, l’ordinamento è un sistema vivo dove quello che si produce non è deduttivamente applicato a quello che c’è, perché quello che si produce è il prodotto di decisione in cui ci poteva essere quella sentenza, ma anche un’altra, ci poteva essere quella legge finanziaria, ma anche un’altra. Questo continuo dinamismo inteso come continua attività creativa.
Soffermiamoci su due fonti di produzione normativa (come già visto vi sono diverse fonti di produzione delle norme).
C’è un’ attività, quella legislativa, che implica la creazione di norme oltre quelle che ci sono, produce diritto oltre quello che c’è.
C’è poi, l’attività giurisdizionale, fonte forse dell’unico diritto, che produce diritto dal diritto che c’è, e non oltre come l’attività legislativa. La funzione del giudice dovrebbe essere quella di applicare norme.
Questo è l’ordinamento giuridico.
Perché vi è la necessità di un’attività legislativa e di un’attività giurisdizionale? Per la ragione ontologica fondamentale richiamata all’inizio, e cioè perché la vita è strepitosa e produce sempre situazioni nuove.
Ad esempio l’articolo 144 c.c., poi riformato nel 1975, diceva che la moglie doveva seguire il marito, ed il marito, secondo quella visione maschilista, sarebbe la vita, se portassimo ciò alle estreme conseguenze potrebbe capitare che un giorno il marito chiede alla moglie di trasferirsi davanti all’Ilva, e la moglie, ai sensi dell’articolo 144, dovrebbe seguirlo.
Ecco la vita che ti pone davanti a cose inaspettate (che nell’esempio fatto sarebbe la proposta del marito) ed è l’ordinamento giuridico che cerca di organizzarsi.
Facendo l’esempio con questioni più tecniche potremmo considerare quello che è successo in Germania durante la Repubblica di Weimar nel  1923, crollo catastrofico del marco: a gennaio per acquistare un dollaro occorrevano diciotto mila marchi, alla metà dell’anno ne occorrevano quattro milioni, e alla fine dell’anno occorrevano quattro mila miliardi di marchi. Consideriamo tutti i contratti di compravendita avvenuti in quell’anno quando il prezzo pattuito un giorno valeva, poi un milionesimo, al momento della corresponsione di quel prezzo. Questo era un fatto nuovo, da nessuno auspicato, eppure è successo e l’ordinamento non aveva una risposta per un fatto del genere, in questo modo l’ordinamento implode, è un interesse troppo forte e l’ordinamento deve intervenire per disciplinare come vanno a finire quei rapporti di compravendita.
In quel punto ci si trova di fronte all’evidenza storica e a quello che abbiamo chiamato Aleph e cioè l’ordinamento giuridico è quei 2-3 centimetri in cui si concentrano tutti i punti della Terra, e che in questo caso sono tutti i punti dello spazio giuridico, in quel punto si concentra tutto il senso della giuridicità, perché una giuridicità ed un ordinamento che non danno risposte a queste esigenze fondamentali implodono, cioè perdono il significato. Naturalmente deve intervenire il legislatore, perché si tratta di un fatto nuovo, quando si è fatta la norma non si pensava (ragioniamo sulla base della possibilità dei fenomeni non solo su quello che realmente c’è , per pensare al limite quello che può succedere) non si pensava che potesse succedere qualcosa di diverso, come il crollo del marco, o il malore di qualcuno in rapporto alla norma “è vietata l’entrata dei veicoli in quest’area”, in questa situazione si capisce che è il giudice (e non il legislatore) che deve applicare bene le norme in questi casi, e deve produrre un diritto che sia adatto alla situazione. Non si può scomodare sempre il legislatore perché altrimenti il proliferare continuo della vita porterebbe il legislatore a fare come un cartografo costretto a  fare una mappa tanto grande quanto il territorio che rappresenta, evidentemente questo non si può fare (e sarebbe oltremodo inutile). Ci sono dei punti in cui deve intervenire il giudice con la sua attività di giurisdizione per introdurre tutto il diritto implicito, diritto che in quanto tale, non sappiamo bene cosa sia,ma è nel diritto che già c’è.
Questa è la situazione.
Quindi un dato fenomenologico è che gli ordinamenti hanno delle lacune, sono lacunosi, in questo modo spieghiamo la ragione di un’attività continua di produzione normativa. La vita occupa uno spazio, ed essendoci un discreto tra lo spazio che occupa la vita e lo spazio che occupano gli ordinamenti, la vita interpella costantemente gli ordinamenti, in ragione di questo discreto, ed ha pertanto dei bisogni che l’ordinamento non riesce a soddisfare.
La vita interpella gli ordinamenti perché questi diano risposte. Questo discreto opera costantemente.
Questi spazi vuoti, queste lacune possono essere avvertiti in modo diverso perché vivere la situazione del processo non è facile, bisogna cercare di vivere queste emozioni. Il diritto fa di tutto per colmarli e la giuridicità è determinante per la vita umana.
Possiamo paragonare la musica al diritto, in particolare GLENN GOULD “a state of wonder” sono due interpretazioni con cui Glenn Gould, una del 1955 e l’altra del 1981, esegue due arie di Bach, l’interpretazione del 1955 è impeccabile per esecuzione tecnica, quella del 1981 è frutto dell’esperienza ed infatti si apre a stadi contemplativi. Le interpretazioni sono diverse nonostante il  testo sia uguale, ma entrambe sono  a state of wonder, meraviglia per chi ascolta.
Allo stesso modo il diritto, quando va bene, si apre all’interpretazione e si trova a vivere dialetticamente con la vita situazioni diverse, ma sono tutte “a state of wonder”.
Quando c’è un giudice che sa il fatto suo  questo si fa carico della responsabilità umana e culturale, allo stesso modo un avvocato e così via. Alla fine certo che c’è questa dimensione creativa, inevitabile, la vita apre nuovi orizzonti, propone situazioni nuove e le risposte entrano in una condizione di pensabilità che giuridicamente legittima tutto questo. Alla fine “a state of wonder” sintetizza tutto.
Ciò è importante perché questo discorso, pur aprendo le porte al tema del dubbio, non condurrà all’esito nichilistico di Kelsen. Tali argomentazioni sono capaci di far notare che non è che appena si parla di interpretazione si parla di assenza di ogni logica nel processo giuridico. Ci possono essere interpretazioni diverse (considerato che i criteri interpretativi sono tanti) e magari da queste interpretazioni si potrebbe ricavare anche il meglio dell’esperienza giuridica del processo così come Glenn Gould interpreta le stesse arie di Bach, ma dando interpretazioni diverse che sono segnate dalla sua esperienza musicale, dalle cose che sono cambiate. La bellezza di un’opera d’arte sta proprio in questo: aprirsi a mondi nuovi di interpretazione, senza nessuna fissità e dove questa creatività è un fatto positivo. Anche nella giuridicità, come nell’arte, questa creatività è un fatto positivo perché è un  modo per affrontare il problema incontrovertibile e insormontabile del discreto esistente tra l’ordinamento giuridico e la vita. Di tale discreto non si può pensare che non ci sia. C’è, perché la vita è molto più piena e completa, ci sono più cose in cielo e in terra che non in un piccolo ordinamento giuridico anche perché questo viene creato dagli uomini, dai nostri legislatori. Eppure bisogna partire da qui per costruire qualcosa che sia efficace nella vita, tale esempio è importante per dire che non è necessario pensare ad un  esito irrazionalistico.
Non significa che si va allo sbaraglio e che non c’è logica nel processo come sostiene la tesi di Kelsen il cui pensiero è stato presentato attraverso un discorso molto serio. Possiamo conoscere tutte le norme, imparandole dai codici o da sistemi informatizzati, ma il problema giuridico fondamentale è un problema che Kelsen si porta del 1928 al 1978, quella famosa sentenza di quel tribunale competente che pur partendo da quelle premesse non dice che Schulze deve essere punito, ma il contrario. Il vero problema è questo, e non le norme in sé per sé che si possono studiare senza grosse difficoltà.
I problema è se c’è giuridicità in una sentenza di quel tipo, Kelsen arriva ad un esito totalmente irrazionalistico.
Bene, dobbiamo riflettere su questo, naturalmente per riflettere non è che bisogna rimuovere la questione di Kelsen, ma al contrario bisogna appropriarsene.
Kelsen all’inizio della sua argomentazione ha ragione perché nel sillogismo giudiziale c’è un problema di predicati logici, non c’è solo il vero ma anche il falso, di qui l’ingenuità totale dei modelli tradizionali del sillogismo giudiziale (quei tre modelli presentati sinteticamente), perché si parla solo di verità, ma non è la verità il problema, piuttosto è la validità che è il prodotto di un’azione e non di una deduzione.
Per cercare di risolvere il problema dobbiamo cercare di immedesimarci nella tesi di Kelsen che da questo punto di vista ha ragione, perché infatti ci sono predicati logici diversi, si tratta di un sillogismo che ha una sua complessità e bisogna cercare di tener conto di tutti gli elementi rilevanti e propri del sillogismo giudiziale, altrimenti si dicono un sacco di ingenuità, totali ingenuità perché poi le cose vanno, effettivamente, come ha detto Kelsen. Però dinnanzi a questo esito irrazionalistico bisogna cercare di recuperare un ordine interno visibile che rappresenti un nucleo che salva la giuridicità da altri fenomeni che possono essere simili, ma che sono diversi.
Questo è importante per ragioni che riguardano la storia del  ‘900 e per evitare che si ritorni a fare gli errori fatali della storia dell’umanità, confondendo la giuridicità con altre cose.
In questo modo abbiamo messo in evidenza il problema della lacunosità dell’ordinamento giuridico.
La teoria generale del diritto ha dato varie risposte a tale problema, in particolare una risposta è stata quella del LEGALISMO GIURIDICO. Si tratta di quella concezione presente nella storia della teoria generale del diritto e che sostiene che in realtà lacune non ce ne sarebbero. Il legalismo è, infatti, un buon erede della Scuola dell’esegesi dell’Ottocento, cioè erede dell’idea che gli ordinamenti giuridici ci dicono tutto quello che serve e lo dicono in modo chiaro. Naturalmente il legalismo giuridico non è la Scuola dell’Esegesi, è piuttosto una Scuola dell’Esegesi più matura, un po’ meno ingenua e che si fa strada con argomenti meno inesperti, si tratta di una concezione, di una corrente legata alla teoria del processo e alla teoria del processo in genere che pecca di meno ingenuità.
Quali sono gli argomenti usati da questa corrente per sostenere che in realtà l’ordinamento è completo e  non ci sono spazi vuoti, per sostenere che l’ordinamento giuridico si difenderebbe bene dal problema posto dalla disparità tra la vita e l’ordinamento giuridico?
La tesi del legalismo giuridico si potrebbe sintetizzare in questo modo: la legge e gli ordinamenti sono tutto il diritto che ci serve, non è vero che c’è qualcosa che ci serve  (di giuridicamente rilevante) e che non è disciplinato dalla legge.
Il legalismo come fa a sostenere questa tesi?
Lo fa sostenendo che all’interno dell’ordinamento giuridico ci sono dei principi che fungono da vero e proprio autocompletamento del diritto, cioè tutte le volte che ci sono dei casi nuovi, l’ordinamento ha dentro di sé dei principi che provvedono automaticamente a rendere completo l’ordinamento giuridico. Si tratta di un principio basilare e presupposto logico inevitabile nella costruzione giuridica e che funge da completamento. Questa norma precisa viene ritenuta dal legalismo giuridico come un principio logico dell’ordinamento , un principio abbastanza robusto. Anche se non ci fosse questa norma (che è, comunque, una norma ben visibile e presente in tutti gli ordinamenti) il principio ci sarebbe ugualmente perché si tratta di un principio logico, inevitabile della formazione giuridica. Tale principio funge da argomento a completudine, cioè riesce a completare dall’interno l’ordinamento tutte le volte che l’ordinamento si trova spiazzato.
Tale norma è l’articolo 1 c.p., il principio di tassatività del reato, che non c’è solo nel nostro ordinamento e che è molto importante. L’articolo 1 c.p. dice che nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente  previsto come reato.
Un reato, per essere  espressamente previsto, dovrebbe indicare i soggetti, questo perché i fatti che si giudicano nel processo si riferiscono ad una parte che ha un nome e cognome, l’imputato ha un nome e cognome. I fatti che si giudicano hanno un nome e cognome, e non fatti senza nome e cognome che non permettono di ricostruire quel fatto che vi si dice previsto.
Quali sono i fatti espressamente previsti? Ci sono codici che hanno in sé dei casi “espressamente” previsti?
Questo articolo 1 c.p. è sostenuto anche nella nostra Costituzione all’articolo 25 che dice la stessa cosa e cioè che nessuno può essere punito se non in forza di una legge.
Prima di affrontare il problema posto da quest’articolo quando dice “espressamente previsto” dobbiamo spiegare cosa c’entra con il legalismo giuridico e perché funge da principio di autocompletamento dell’ordinamento giuridico. 
Perché questo principio programma l’idea ed ha come conseguenza un concetto definibile con un brocardo latino: “nullm crimen sine lege”  e cioè che non c’è un crimine se non in forza di una legge. Sicché se c’è un caso formalmente non previsto (perché questo è il problema quando parliamo di lacune) in realtà, nella sostanza l’ordinamento lo prevede e attribuisce a quel caso la qualificazione deontica che è quella del permesso, cioè: se non è previsto, allora è un fatto permesso.

Il legalismo giuridico non vede, pertanto problemi o lacune nell’ordinamento giuridico.
Molta letteratura parla dell’articolo 1 c.p. come della “norma generale di libertà” o del “principio generale di libertà” perché ciò che non è previsto è permesso.
Ci soffermeremo soprattutto su questo principio, su questa norma generale di libertà, perché è una norma  a completudine dell’ordinamento giuridico e perché il problema che ci poniamo riguarda proprio le lacune. Tuttavia se fosse così semplice non ci sarebbero i processi, avremmo un diritto dell’esecuzione penale e non un diritto del processo penale. Forse le cose non stanno così e ragionando cercheremo un principio critico e maturo sul processo.

Però c’è anche un’altra versione del legalismo giuridico un po’ più ingenua che sostiene anche un altro principio (ci sono autori importanti tra cui anche Kelsen) che ha basi soprattutto logiche, a differenza del legalismo giuridico già considerato e che si rifà all’articolo 1 c.p. e all’articolo 25 della Cost. tale versione si rifà alla “norma generale di irrilevanza” che riguarda sempre i casi non previsti ed il ragionamento che fa è semplice. I legalisti dicono che se un caso non è previsto c’è una ragione: se non è previsto è irrilevante. Ci sono vari casi non previsti. Il legislatore non prende in considerazione i casi irrilevanti giuridicamente.
In realtà questa norma giuridica di irrilevanza si dice una cosa logica, ma i problemi relativi alle lacune dell’ordinamento giuridico vertono su dei casi che non sono previsti, ma che sono RILEVANTI giuridicamente.

Il problema posto con la norma “è vietato l’ingresso in quest’area”, relativamente ad un caso non previsto di una persona che ha bisogno di un soccorso con un veicolo, pone un problema: si tratta di un caso non previsto rispetto a quella norma che tassativamente impedisce l’ingresso del veicolo in quell’area.

Ci sono vari autori che si soffermo sulla rilevanza della norma generale di irrilevanza, ma che abbiamo considerato irrilevante per i problemi che ci poniamo. Quindi è irrilevante la norma generale di irrilevanza. Torniamo  riflettere sul principio della norma generale di libertà: articolo 1 c.p. Quali sono le osservazioni per dire che quel principio non basta a risolvere la questione delle lacune dell’ordinamento giuridico?
Intanto utilizziamo sempre il metodo di immedesimarci nella tesi sostenuta dal legalismo giuridico come abbiamo fatto per la tesi di Kelsen). Secondo questi autori si tratta di un principio logico perché sostiene un’idea abbastanza logica e cioè: se il legislatore non ha previsto un caso si deve immediatamente concludere che è difficoltoso sostenere logicamente che il caso non previsto debba avere la configurazione dell’obbligo o del divieto, piuttosto che quello del permesso. Come giustificare quest’obbligo e questo divieto? Perché un soggetto dinnanzi ad un caso non previsto, e di cui il legislatore non parla, si deve sentire vincolato da un obbligo o da un divieto? Se non è previsto l’unica modalità deontica che si può dare a quel caso è quella del permesso; sul piano logico è più oneroso sostenere che il caso non previsto abbia le modalità dell’obbligo o del permesso.  A questo punto non avrebbe senso neanche l’attività di legislazione perché qualsiasi caso  potrebbe essere ritenuto obbligatorio, prodotto di un divieto e così via.

E oneroso sul piano logico sostenere un principio diverso dalla norma generale di libertà, e questo è l’argomento logico. Sicché se non ci fosse l’articolo 1 c.p. si ragionerebbe sempre così ed il giudice non potrebbe imputare qualcuno per un caso non previsto perché se non è previsto non si capisce quale sarebbe la fonte di giuridicità, la fonte normativa, se la qualificazione venisse dei fatti piuttosto che come fonte istituzionalmente qualificata come quella della legislazione. Questo è l’argomento logico.
Ora, si possono fare due OSSERVAZIONI di ordine sintattico su questo principio: prendiamo atto di un fatto normativamente accertato e di una fatto logicamente accertabile.

  1. Partiamo dal fatto normativamente accertato: se guardiamo il nostro ordinamento giuridico questo riserva tale principio al diritto penale e non anche a quello civile in cui non c’è il principio di tassatività. Anzi l’articolo 12 delle preleggi mette in evidenza che se c’è una disposizione non chiara che sarebbe quella della lacuna, non dice che si qualifica come permesso ciò che non  è previsto, al contrario si dice che si deve trovare una disposizione che riguardi materie analoghe, casi simili. L’articolo 12 dà per scontato che ci possono essere delle lacune e che si debba provvedere attraverso dei procedimenti che sono detti dalla logica giuridica “per analogia” e argomenti a contrario. Questa osservazione riguarda proprio la sintassi di tutto l’insieme delle norme, e scopro da un punto di vista normativo questo primo problema: l’articolo 1 c.p., il principio di tassatività, l’argomento a completudine dell’ordinamento giuridico vale per il diritto penale, non per il diritto civile. Ma noi stiamo parlando delle lacune di tutto l’ordinamento giuridico e non delle lacune del solo diritto penale.  Il diritto civile non è meno importante del diritto penale, siamo tutti pronti a tutelare i nostri interessi privati (se ci fosse solo il diritto penale l’ordinamento giuridico imploderebbe) .

Ricapitolando: la prima osservazione è di ordine normativo, prendo atto di un fatto incontrovertibile e tecnico: cioè il legalismo giuridico sostiene questo principio a completudine, ma da un punto di vista normativo tale principio riguarda il solo diritto penale, e non anche quello civile. Nel diritto civile si ragiona in modo diverso, perché si dice che possono esserci delle disposizioni non chiare a cui non si dà la qualifica del permesso, ma si ragiona attraverso dei procedimenti per analogia o per argomento a contrario. Sicuramente ci sono delle conseguenza: viene meno l’interpretazione letterale delle norme, però con il risultato di soddisfare un’esigenza che altrimenti non sarebbe soddisfatta perché non è un caso che il diritto civile si comporti diversamente.

  1. Trattiamo ora dell’argomento logico: pensiamo, ad esempio ad un contratto di compravendita che preveda degli interessi di mora, ma non si stabilisce il tasso di questi interessi, e in un ordinamento in cui non c’è un tasso legale. Quindi il problema è come soddisfare un contratto di compravendita con questa lacuna. Ragioniamo sulla possibilità, che è quello che ci interessa, senza fare questioni circa l’eventuale tasso legale. Bene, è difficile concepire per il diritto civile che per questa lacuna l’attore veda respinta la sua richiesta di pagamento, diventerebbe poco equo, poi si vede come procedere, magari attraverso un giudizio di equità. 

Insomma il diritto civile riguarda maggiormente gli interessi privati e non gli interessi generali, è più sensibile a dare risposte, forse perché c’è in gioco un bene minore (l’interesse privato) rispetto al diritto penale.
Questo esempio spiega perché il diritto civile si comporta in modo diverso dal diritto penale.
Quindi ci sono due considerazioni: una normativa secondo cui il principio di tassatività del reato non funge per tutto l’ordinamento giuridico ma solo per il diritto penale, basti vedere l’articolo 12 delle preleggi; l’altra considerazione attiene al punto di vista logico secondo cui non vale in modo tassativo l’idea che se una cosa non è prevista non  si debbono trarre delle conseguenze se non quelle che riguardano la modalità del permesso. A tal riguardo si inserisce l’esempio del contratto di compravendita che dice che ci sono degli interessi di mora ma non definisce il tasso, non può essere questo un valido motivo per respingere la richiesta dell’attore di dare esecuzione al contratto con gli interessi di mora, non sarebbe coerente da un punto di vista equitativo, magari trovando un nuovo accordo.
Abbiamo accertato che da un punto di vista sintattico il principio di tassatività riesce semmai a spiegare le lacune del diritto penale, ma non del diritto civile, e abbiamo fatto questo con argomentazioni sia normative che logiche.

Tale analisi risulta necessaria se si vuole vedere non solo la norma,  non solo ciò che è meramente possibile, ma la possibilità dei fenomeni, e ci si vuole interpellare su una ragion d’essere necessaria e universale del processo.

Tuttavia tanto l’articolo 12 delle preleggi, quanto l’articolo 1 c.p. sono dei principi basilari, ma leggendoli deludono. E’ vero che molti degli argomenti che tratteremo suscitano scandalo, e si presentano come una sorta di dissacrazione della tassatività del reato, ma che si presenta come una sensazione, una sorta di voce del fanciullo di Socrate, che dice che è ingenuo pensare che ci possono essere dei casi espressamente previsti dal codice, bisogna vedere le cose con maggiore complessità.

 

Teoria dell'argomentazione giuridica

7°Lezione 04.04.2008

Abbiamo posto alcuni problemi relativamente alla possibilità che vi siano delle norme chiare, si ha un po’ un presupposto necessario perché possa essere effettivo il principio di  tassatività del reato (stiamo cercando un pochino di porre delle questioni sul principio di tassatività del reato e non a caso ci siamo scelti questo principio, perché questo principio credo che sembrerebbe essere, all’interno della costruzione giuridica, soprattutto degli ordinamenti moderni, un principio attorno al quale si concentrano anche molti elementi di garanzia anche dello stesso ordinamento: come a dire che sperimentare e dare effettività a questo principio significa anche sperimentare una serie di questioni sul sino a che punto gli ordinamenti hanno la possibilità di attuare queste garanzie. E poi c’era per noi il problema tecnico della completezza degli ordinamenti giuridici: noi siamo partiti con il problema della completezza o meno degli ordinamenti giuridici, abbiamo cominciato a riflettere su questo principio come principio che realizzava una sorta di argomento a completudine dell’ordinamento giuridico, ma non è un caso che ci siamo messi a ragionare intorno al principio di tassatività del reato e per rispondere ai problemi della completezza dell’ordinamento giuridico, e per rispondere anche ad un problema sulla tenuta degli ordinamenti giuridici rispetto ad alcune funzioni essenziali che si vogliono assegnare agli ordinamenti giuridici. L’altra volta avevamo fatto una serie di osservazioni sintattiche relativamente alla capacità di questo principio di rispondere alla funzione che esso dovrebbe svolgere nella costruzione giuridica, una serie di osservazioni di ordine sintattico, dunque c’è una differenza tra diritto penale e diritto civile, questo principio semmai serve, serve per il diritto penale e non per il diritto civile, poi ci siamo chiesti sull’effettività pragmatica di questo principio, cioè in assoluto, anche nel diritto penale, funziona? Ha una possibilità di effettività? Su che cosa fa leva? Fa leva sull’affermazione che ci siano dei casi espressamente previsti, questa è l’affermazione su cui fa leva il principio di tassatività. La nostra domanda molto ingenua, molto semplice, per gradi: ma ci sono dei casi effettivamente, cioè ci sono delle norme chiare? Che significa? Quali sono le implicazioni relativamente all’affermazione che ci siano delle norme chiare? Ci sono delle norme chiare? L’altra volta noi abbiamo svolto una serie di osservazioni che mettevano in dubbio questo, da un punto di vista strettamente semantico, dicevamo da un punto di vista strettamente semantico vi sarebbero dei problemi che risalgono in senso lato alla plurivocità delle parole. Le parole non sono sempre chiare, specie se sono le parole di quel sapere che è proprio della ragione giuridica, che non il sapere della scienza che ha operato già un passaggio tecnico ben preciso: l’abbiamo scoperto con la logical of probability di Karnat, dove avverte Karnat che il linguaggio scientifico si qualifica perché riesce a tradurre un linguaggio del senso comune attraverso un linguaggio che usa quantità, espressioni quantitative. E questo dà naturalmente a quel linguaggio un  certo grado di univocità. Bene il presupposto non è che le parole siano chiare, la primo osservazione di ordine semantico riguarda proprio i testi, come sono fatti i testi, le parole che ricorrono nei testi; e lì abbiamo scoperto che da un punto di vista testuale le parole che compaiono in un testo non si annunciano sempre chiare, specie per il linguaggio che è proprio espresso dalla ragione giuridica. Abbiamo fatto, ricorderete diversi esempi, fino a toccare un punto particolarmente qualificante del linguaggio giuridico che è il tentativo del linguaggio giuridico ad esempio di esprimersi attraverso dei concetti generali, quelle che tecnicamente chiamiamo clausole generali, che risalgono a figure tipiche chiamate in causa proprio per permettere all’ordinamento giuridico quell’operazione di migliore integrazione con i fatti della vita, visto che non li può enumerare a uno a uno, visto che non li può chiamare in causa uno a uno. Abbiamo fatto diversi esempi questo lo ricordo molto bene.

Allo scopo di rendere questo linguaggio sempre più univoco poi ci sono addirittura dei sistemi che, penso soprattutto ai sistemi di Common Law, fanno un’operazione particolare: mettono come fonte normativa diretta, il precedente che dovrebbe avere sempre più la funzione di accostare il linguaggio giuridico a dei fatti precisi, sì da rendere in questo modo sempre più chiaro il significato normativo delle disposizioni. Tutto il sistema di common law è fondato su questa idea metodologica che è un’idea metodologica che potrebbe avere degli effetti da questo punto di vista positivi. Quale sono le osservazioni che faccio? Le osservazioni che faccio che il problema dell’ambiguità del linguaggio non è che si riduce se si passa dal linguaggio del legislatore, come direbbe la scuola dell’esegesi dagli ipsissima verba, dal linguaggio del legislatore al linguaggio del magistrato, perché i precedenti dovrebbero essere appunto quelle norme individuali che sono espresse dal linguaggio del magistrato, ma non è che il passaggio dal un linguaggio ad un altro, è passaggio che ha certe caratteristiche proprie del linguaggio giuridico al linguaggio della logica delle scoperte scientifiche, il linguaggio contiene quell’ambiguità, perché sempre il linguaggio giuridico contiene dentro di sé la plurivocità propria del linguaggio giuridico: da qui la mia osservazione: non mi sembra che il tenere come elemento argomentativo forte il riferimento ai precedenti possa essere di per sé un passaggio che ci possa far dormire tranquilli (ci fa dormire tranquilli soltanto se facciamo le passeggiate a saturo, quello sì che davvero per quel che riguarda la mia esperienza, severo le cose come sono abituato a fare con grandi sintesi dico: bene se sto a saturo sono tranquillo ma se leggo il linguaggio delle norme o che sia il linguaggio delle norme poste dal legislatore o che sia il linguaggio delle norme poste dal magistrato, vivo sempre con un certo dubbio e con un certo imbarazzo). Quindi questo passaggio, questo richiamo ai precedenti, questo sempre più ricorrere ai precedenti come riferimento argomentativo forte allo scopo anche di rendere più chiare le disposizioni, non mi sembra che di per sé possa risolvere tutti i problemi che ci stiamo ponendo. Anzi debbo dire di più, nei nostri sistemi dove non è vincolante il riferimento ai precedenti, non è vincolante come lo è nei sistemi di common law, temo che si complichino ancora di più le cose perché si assume nel ragionamento nel ragionamento proprio adottato dal magistrato uno schema argomentativo di questo tipo, si passa dalla proposizione soltanto “se p, allora q” che è la proposizione tassativa, penso appunto al diritto penale, “soltanto se p, allora q”, si passerebbe da questo argomento ad un argomento che deve prima cercare di trovare non soltanto la norma di riferimento ma anche il precedente, quindi aumentano ancora di più i passaggi e si complicano ancora di più i problemi, perché dovrebbe essere a questo punto un argomento non più soltanto e semplicemente “se p, q”, ma “al limite se p1 (= sarebbe il precedente), allora q”: cioè il magistrato deve ragionare in questo modo: deve conoscere la disposizione (qui già una serie di casini: la disposizione di partenza, cioè perché ci sarebbero tutti i problemi interpretativi e cose di questo genere) e in più deve aggiungere una ricerca del precedente (e si potrebbe anche discutere se quello è il precedente rispetto al caso che si sta giudicando) e ragionare in questo modo “al limite se p1, cioè se questo è precedente, allora q”.

A mio modo di vedere questo tentativo di produrre l’argomento che risale al precedente con argomento che sembrerebbe risolvere una serie di problemi tecnici, sul problema che ci stiamo ponendo, della plurivocità del linguaggio, perché il precedente capite quale sarebbe nella testa di chi richiama il precedente come un argomento forte, nella testa sarebbe che con il precedente noi avremmo un caso più chiaro come riferimento, come disposizione normativa, una norma individuale più chiara. Ecco le mie osservazioni sono due:

  1. di ordine semantico
  2. l’altra chiamiamola qui a questo punto anche di ordine sintattico

L’osservazione di ordine semantico è questa: ma non è che passando dal linguaggio del legislatore al linguaggio del magistrato le cose sono più chiare, resta sempre la plurivocità delle parole, certo questa volta è la plurivocità di quella norma individuale che è la norma posta dal magistrato.

La seconda osservazione è che addirittura il ragionamento si complica perché il magistrato deve convincere non soltanto della proposizione tassativa, ma anche convincere del precedente che sia quello il precedente. Si complica ancora di più, almeno i nostri ordinamenti che non sono ordinamenti che prevedono il precedente come vincolante e comunque anche se fossero ordinamenti che prevedono il precedente come vincolante, come nei sistemi di common law, voi capite che il magistrato farebbe questo ragionamento non soltanto, cioè non si riferirebbe alla tassatività, cioè direbbe, “se questo è il precedente” cioè “al limite se p, allora q”: è un ragionamento più debole, alla fine, è un ordinamento che suppone una sorta di “se” in più, non soltanto “se p, allora q”, che è già all’origine ipotetico, ma un “se” ancora più all’origine, più iniziale “al limite se bi allora q”.

Ecco per queste ragioni io credo che anche questo riferimento al precedente non è che risolva tanto i problemi, lascia i problemi così come finora li abbiamo trovati.

Ci sono domande, mi piacerebbe ascoltare le vostre domande.

 
STUDENTE “scusi non è molto chiaro quello che è stato detto sulla dialettica tra il linguaggio delle norme e l’intenzione del legislatore”
PROFESSORE “lo ripeto, grazie perla tua richiesta, lo ripeto, perché si può dire in tanti modi la stessa cosa, proverò a ripetere adesso la stessa cosa. Il primo argomento è: non credo che passando dal linguaggio del legislatore al linguaggio del magistrato le cose cambino, perché non è il passaggio dal linguaggio univoco, ambito, del senso comune, al linguaggio ad es. della fisica, secondo Karnat quando si passa dalla proposizione “oggi fa caldo” alla proposizione “la temperatura odierna è di 10 gradi celsius”: in questo caso allora il passaggio da un linguaggio all’altro sarebbe un passaggio strutturale”.

STUDENTE “professore, entrambi sono ambigui, sia il linguaggio del legislatore che del magistrato sono ambigui?”
PROFESSORE: “sì, se fosse il passaggio strutturale da un linguaggio ordinario, semplicemente ordinario al linguaggio che ad esempio adotta la fisica, come dice Karnat (perché in questo consiste la scoperta del metodo scientifico), allora noi diremmo, questo passaggio è utile. Qui invece cosa facciamo? Passiamo dal linguaggio normativo del legislatore ad un linguaggio altrettanto normativo che ha gli stessi problemi di plurivocità, propri del linguaggio del magistrato. In sostanza quando voi vi trovate di fronte a una norma individuale che è la sentenza del magistrato, con le sue motivazioni, non credo che avete dinnanzi a voi un testo che ritenete, siccome questo è un testo che esprime una norma individuale più chiaro della norma generale, credo che i problemi di plurivocità li trovate anche le motivazioni del magistrato, aprono a mille problemi interpretativi, non mi sembra che il passaggio sia un passaggio che implichi un ordine linguistico diverso, parlo dell’ordine strutturale linguistico, ma mi trovo dinnanzi sempre al problema, a volte anche di capire quello che è il contenuto della norma individuale con la sua motivazione, non mi sembra che i problemi ermeneutici si riducano, non mi sembra che i linguaggi siano diversi: il linguaggio del legislatore e il linguaggio del magistrato, non mi sembra che siano diversi. Questa è la prima osservazione. Poi c’è una seconda osservazione che io faccio. A mio modo di vedere, specie nei nostri sistemi, siccome il nostro sistema, richiamerebbe il precedente, ma non avrebbe questo una forza vincolante, perché è un sistema diverso dal common law, il magistrato deve fare riferimento alla norma vigente, non ai casi: a mio modo di vedere, almeno nel nostro sistema, il riferimento al precedente complica ancora di più le cose, dal mio punto di vista: non è che riduce i problemi perché il magistrato dovrebbe motivare e sulla base della norma generale di partenza e sulla base del precedente e dire che quello è un precedente rilevante per il caso che sto giudicando: il ragionamento non sarebbe del tipo soltanto “se p, allora q” ma “al limite se p, allora q” : c’è questo precedente che ricade in p che è dettato da p allora q. Si complicherebbero, ci sarebbero in sostanza due passaggi, non mi sembra allora che questo passaggio al precedente sia di per sé un elemento chiarificatore, potrebbe addirittura complicare le cose se si vanno a vedere bene le cose. Ecco questi due argomenti mi sembrano due argomenti per rispondere alla osservazione che molti fanno, ed è un’osservazione legata non tanto a prendere atto di quello che c’è ma di come potrebbero migliorare le cose; questo argomento che adesso ho usato relativamente alla funzione del precedente è un argomento che viene usato dal alcuni giuristi i quali si preoccupano di migliorare le cose. E cosa dicono: ma perché i nostri ordinamenti non si arricchiscono, come sono gli ordinamenti di common law, della funzione normativa del precedente, perché questo siccome è più vicino al fatto, sarebbe capace di meglio parlare dei fatti che ha dinnanzi a s il magistrato quando giudica, quindi avrebbe il magistrato a disposizione una norma più chiara in sostanza,perché sarebbe una norma più vicina ai fatti: ecco le mie osservazioni sono quelle che ho detto: non mi sembra che passare da una norma generale ad una norma individuale di per sé risolva tutti i problemi perché è sempre lo stesso linguaggio, non c’è un passaggio ad esempio dal linguaggio non quantitativo, del linguaggio ordinario, a un linguaggio quantitativo che è quello della scienza, che abbiamo detto essere alla base del metodo della ricerca scientifica, siamo sempre in un linguaggio che utilizza parole, parole che alla fine si aprono alla plurivocità di cui parla Hegel nella certezza sensibile in quel passo che abbiamo detto, dove prendi una parola e dici “ora”, prendi la parola ora, ora è mezzogiorno, me lo scrivo poi se lo leggo questa sera, questa proposizione già svanisce nella sua verità, già la sua verità svanisce perché ora è notte, ora è diventata notte, l’avverbio ora ha significato di notte e non più di giorno: questo succede con il linguaggio ordinario. Se vado poi alla radice dei problemi temo che anche qui devo dire che sembra essere, perchè alcune considerazioni che sto facendo, e quest’ultima è anche un po’ paradossale: ci sono alcuni che dicono che con il precedente migliorano le cose, se vado a vedere meglio le cose il riferimento al precedente potrebbe complicare le cose.

STUDENTE: “Ma noi a cosa dobbiamo fare affidamento se non al testo della norma?”
PROFESSORE: “Io farei un’osservazione diversa, se volete paradossale: tutta la scuola dell’esegesi e l’età della codificazione tutto sommato puntava sulla forza del testo di legge scritto, il testo scritto si diceva è meno aleatorio, ecco noi diciamo, usiamo anche questo motto “scripta manent” eppure (qui un ‘altra mia considerazione) perchè non pensare che il problema sta proprio qui anche? Che le parole quanto più sono scritte tanto più ci lasciano soli dinnanzi al loro significato. Adesso io ad esempio sto parlando, la vostra collega che ora mi pone una domanda risolutiva, in precedenza ha detto “non ho capito una cosa, me la spieghi per favore?” io sono grato a lei per questa domanda, spero di essere stato chiaro e sono grato perché è un’occasione per essere più chiaro, e quindi per svolgere meglio la mia funzione, che non è certo quella di fare l’oracolo di Delfi con Accana, non pronuncio e non voglio pronunciare Accana, non voglio pronunciare parole che siano e che contengono dentro di sè  il mistero anche, non è questa la funzione che svolgo evidentemente, ogni richiesta di chiarimento è una richiesta per me di attuare meglio me stesso, quindi potete immaginare come questo mi fa felice nella misura in cui riesca a realizzare meglio la mia funzione. Le parole però vive sortiscono questa possibilità. Platone nella lettera settima rivelativa di alcune verità riguardo a quello che sto dicendo, una delle ultime opere di Platone avverte di una cosa che sconcerta gli studiosi di Platone, dice: “badate, una dottrina dei principi, una dottrina di quei principi che sono al centro del mio pensiero (che cosa intende per dottrina Platone? Intende un testo scritto. Platone ha realizzato quest’opera che sappiamo si chiama “dialoghi” e sono tanti i dialoghi di Platone), dei principi primi, di quelli che per me sono i principi primi, non c’è e non ci sarà mai.” E perché non c’è e non ci sarà mai? Perché, e fa una serie di considerazioni, una di queste dice che quando parli di certi principi occorre che l’interlocutore che sta davanti a te deve vivere un certo slancio, perché senza questo slancio non glielo puoi neanche dire, l’altro sta pensando alle sue cose, magari perde la condizione preliminare essenziale per capire bene le cose. Ma (e qui l’altra considerazione) perché il concetto, la verità che si traduce attraverso i nostri concetti , ha bisogno invece di una vita che invece si estingua con le parole scritte.  Dice Platone : “per capire certe cose occorre (come gli amanti che capiscono quello che sta succedendo, usando sì monosillabi, e lì magari sono più efficaci, ma appena cominciano a fare discorsi perdono quello che stanno realizzando.) una copulazione di tutto il proprio essere con la verità, per poter capire come stanno le cose. C’è però un passo che sta nel Fedro di Platone che dice un po’ la stessa cosa e forse anche in modo anche più immediato (io l’ho annotato nelle pagine che sto scrivendo e lo leggo anche a voi), è un passo del dialogo Phaedrus di Platone, dove Platone parla di questa scoperta dell’umanità che tutti hanno ritenuto essere una bella cosa, la scrittura. In realtà è un dono degli dei, è il dio egizio Teut che ha donato agli uomini la scrittura e tutti sono felici, un po’ come vedo gli autori della scuola dell’esegesi i quali appunti dicono che è un grande dono che ci sia un codice come il codice napoleonico: testi scritti, tutti chiari, dove appunto, far riferimento per trovare soluzione ai vari casi giuridici. Eppure avverte Platone, questo che sembrava essere un dono degli dei, se si va a vedere bene non è quel grande dono, e magari si nascondono dei rischi dietro la scrittura, dice: “perché ciò, o Fedro (leggo solo alcune parti che ci servono in questo momento), ha di strano la scrittura (vediamo cosa Platone dice che la scrittura ha di strano, dopo aver detto che questa era un grande dono, gli dei si vantavano di aver dato questo dono, dicevano, così ad esempio non vi scordate le cose, perché ve le scrivete: io continuo a dimenticare che devo portare qui una copia, e qui avrebbero ragione gli dei, me lo annoterò proprio qui accanto a questo passo : “non ti scordare di portare il libro di perma”, ecco che hanno ragione gli dei: “perché non utilizzi ciò che ti abbiamo donato, la scrittura), una volta che sia scritto il discorso, rotola questo stesso discorso per ogni luogo (vedete io ho pubblicato un libro, l’editore Cacucci lo ha pubblicato ma io non so dove andrà, rotola di qua e là, rotolerà a saturo, oppure mi diceva uno studente che è andato a fare il militare a Kabul, e addirittura la cosa mi ha emozionato, e siccome doveva preparare l’esame di filosofia del diritto, non perché ha mai ritenuto che fosse un suo dovere giuridico un classico, si è portato a Kabul il mio libro, e gli volevo un bene da morire per aver portato queste parole, questo testo scritto fino a Kabul: e questo ha di strano, non avrei mai immaginato che “sul dovere giuridico” finisse a Kabul, se non me l’avesse detto non l’avrei neanche mai potuto immaginare: insomma rotola di qua e di là, io resto sempre qua, o me ne vado sulle Murge o in Europa per vedere una mostra, o vengo sulla litoranea per mangiare dell’ottimo pesce, fare qualche volta e soprattutto delle lezioni e non so queste parole che ho scritto dove finiscono, io sto qui e non so le mie parole chissà dove sono arrivate, con quali conseguenze negative? Perché ci sono delle conseguenze negative in naturalmente tutto questo)…il discorso rotola per ogni luogo, rimanendo in tutto il medesimo (quel libro e solo e proprio quel libro), sia tra coloro che se ne intendono (quindi quelli che se ne intendono reagiscono in un certo modo: cavolo mica male!), come parimenti tra coloro cui è estraneo (quelli che dicono: e mò ci è, e che cos’è questa cosa, prassiologia, sintassiologia? Caspita, e che è? quanto è pesante questo scrittore, cosa vuole? Notate che il libro è sempre quello, quelle parole stanno sia che l’interlocutore sia saggio, sia che l’interlocutore venga dal suo mondo che è un mondo diverso, probabilmente, e non si sa a chi deve parlare e a chi no, tutti ce l’hanno questo benedetto libro, queste mie parole, anche una norma del codice non si sa chi deve parlare e a chi no, tutti danno una loro lettura, poi alla fine sia che uno vada in profondità, vedete come il nostro tentativo di andare in profondità per capire come stanno le cose).
Anche queste considerazioni che facciamo, oggi diremo ancora altre cose sull’art. 12 delle preleggi, per entrare in profondità), ma pensate che le stesse parole dicano la stessa cosa a tutti? Evidentemente no, perché ci sono quelli che se ne intendono, quelli che non se ne intendono, quelli che hanno vissuto una vita intensa, quelli che vivono superficialmente la loro esperienza, non dicono le stesse cose: e questo è il rischio della scrittura) perché se gli si fa torto (mo ci è?) e viene biasimato, ma non giustamente (perché non te ne intendi) ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, (cioè in quel momento ci vorrebbe quello che ti direbbe : senti aspetta di arrivare a 50 anni prima di dire che è stupido l’autore, leggilo intanto e poi lo rileggi, certo se poi a 50 anni ancora non lo capisci dì pure che è stupido l’autore, ma aspetta per dirlo, non prima, oppure vai a chiamare suo padre, il padre di queste parole, perchè magari ti dica qualche cosa: un conto è se c’è la parola vivente, un conto è se ci sono queste sensazioni estinte oramai, perché quelle parole sono delle sensazioni anche per me così davvero sensazioni estinte, io con un certo disagio non vi nascondo che non leggo il mio “sul dovere giuridico” da quando l’ho pubblicato cioè dal 2003, da quando l’ho pubblicato, perché non vi nascondo anche che ci sarebbe un certo mio imbarazzo perché vedrei lì il mio cadavere, in un certo qual modo, non lo riconosco più insomma, ho una vitalità diversa, reagisco diversamente, farei esempi diversi, ho una mia personale vitalità diversa, sarebbe per me necrofilia, se andassi a leggere il mio “sul dovere giuridico”, devo sempre sforzarmi di ricordare bene quello che ho scritto per evitare di andare a vedere, perché sarebbe oggettivamente imbarazzante e quindi immaginate questa operazione per chi è totalmente estraneo.) Dunque se gli si fa torto e viene ingiustamente biasimato, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, poiché egli non può difendersi, (questo succede), di aiutarsi da sé (dinnanzi ad uno stupido, non è che il libro può difendersi, non è che le parole scritte si difendono, stanno lì, se le capisci è bene, ma se non le capisci e anche l’altro ti biasima e reagisce male, non si difendono quelle parole scritte)”. Ecco ho voluto leggere questo passo di Fedro anche per chiudere un pochino questi problemi che io ho esaminato.

 

Teoria dell'argomentazione giuridica

8°Lezione 07.04.2008

Abbiamo detto ci sono problemi semantici di ordine testuale e quali sono? Li concentro attorno ad una questione principale della plurivocità delle parole. Abbiamo fatto degli esempi che spero siano chiari, che vi fanno capire che le parole che sono nei testi normativi non sono univoci ma plurivoci, dicono e possono dire tante cose, ciò che dicono all’uno, non dicono all’altro.

Sempre di questi problemi semantici, vorrei oggi, ma fare adesso soltanto un accenno, a dei problemi che io chiamerei di ordine non testuali in senso stretto, ma contestuale: problemi semantici di ordine contestuale, in senso contestuale.
Che cosa intendo?
Questa insufficienza del testi che noi abbiamo dinnanzi è una insufficienza delle parole, che io chiamo questi problemi testuali, ma è anche un’insufficienza di chi è l’autore delle parole, cioè se io guardo questa volta, non i testi, ma guardo ad esempio i nostri legislatori, bene qualche dubbio sui legislatori ce l’ho, per ritenere che anche questi loro limiti poi si riflettono sul problema che sto esaminando relativamente alla chiarezza delle norme. Anche il nostro legislatore ha dei problemi: ad esempio probabilmente spesso il nostro legislatore non conosce neanche bene la lingua italiana, cioè ci sono dei limiti del legislatore che non sa scrivere bene, anche questi li metterei in gioco sul problema che sto affrontando: come vedete questo problema è diverso da quello che ho chiamato testuale, cioè relativo al significato proprio delle parole, alla capacità che le parole innanzitutto hanno di comunicare in modo chiaro qualcosa, qui il problema è relativo all’autore, cioè è certo che se il legislatore avesse una certa padronanza della lingua italiana, forse molti problemi, non che si ridurrebbero in modo assoluto, perché resterebbe questa plurivocità delle parole, del testo scritto e così via, ma certo forse, si potrebbero ridimensionare alcune questioni.

Così il nostro legislatore spesso non conosce bene i problemi che sta legiferando, le questioni che sta affrontando: io per esperienza diretta a volte denoto i sospetti in quest’ultimo quinquennio, cioè che il nostro legislatore non sapesse neanche che cosa fosse l’università italiana, per aver fatto tre riforme (e mi limito soltanto a dare il numero, perché il numero già dice di una irrazionalità, di una non competenza), su una vicenda strategica per la vita di un paese, perché le vicende legate all’istituzione universitarie sono strategiche per la vita di un paese: di lì dipende la ricerca, di lì dipende la competenza delle classi dirigenti, la loro formazione. Bene, vedete un legislatore che, su una vicenda strategica come questa che è l’università in Italia, confeziona 3 riforme e fai fatica a chiamarla 1 una controriforma dell’altra, perché sapete questa categoria della controriforma è una categoria importante, quando c’è stata una controriforma ha avuto una vita che dura ancora: queste invece sono delle estemporanee, sembrano “passeggiate legislative del nostro legislatore”, che ha previsto ad esempio per l’ordinamento di studi della facoltà giuridica, prima un 3+2 che somigliava molto alle ordinazioni delle partite di calcio, poi una laurea magistrale, a cui si sta mettendo mano nuovamente, ma è rimasto comunque un 3 che è rimasto come figlio della selva, alcuni lo frequentano, si illudono che poi quel tre possa significare qualche cosa, concludersi con un diploma, così per esprimere una certa razionalità in un totale mondo di irrazionalità, lasciando quel 3, in un totale mondo di incompetenza.

Questo problema è un problema di per sé, sì abbiamo parlato male delle parole del nostro linguaggio, però si poteva fare meglio: il nostro linguaggio poteva anche essere usato meglio con tutti i suoi problemi e con tutti i suoi limiti, sappiamo che certe volte è meglio strasi zitti alla fine, la proposizione del Tractatus logico-filosoficus di Vichtestein conclude il suo Tractatus: “ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, al termine di una serie di considerazioni, di riflessioni su ciò che fonda il nostro sapere, dice anche ciò che fonda il nostro non sapere e dunque dice che “di ciò di cui non si può parlare, è meglio starsi zitti, tacere”: ecco la sensazione che ci sono anche problemi di questo genere, cioè di uno che parla senza avere la conoscenza e poi un altro problema che io direi contestuale e qui, dopo alcuni aspetti anche volgari della politica in genere, non soltanto in Italia, voi sapete la politica è il luogo del compromesso, si cerca di mettere insieme maggioranze, che già loro non sono maggioranze, pensate quando invece la maggioranza deve anche valicare i confini della maggioranza per coinvolgere anche l’opposizione, voi capite che in tutto questo passaggio si attua quella cosa che si chiama compromesso e secondo voi il compromesso facilita la chiarezza delle norme oppure no?  Chiaro che lo affossa perché compromesso, perché tutti si devono sentire protagonisti di una ragione, ma alla fine la è la ragione che ci rimette, non si capisce bene che cavolo dicono le norme perché sono il frutto di un compromesso, il luogo ermeneutico dove ci si potrebbe quasi divertire a sperimentare l’ambiguità delle parole sono i programmi che preparano queste grandi coalizioni: io non mi sono mai cimentato perché mi sono sempre detto che oramai sto più in cielo che in terra, quindi dovrei tornare, fare un lungo viaggio per venire a leggere i programmi delle varie coalizioni, ma sono convinto che siccome nascono nell’ambiente del compromesso, li puoi tirare a destra e sinistra come vuoi, e capisco perché dopo, quando magari una coalizione vince, tutti dimenticano di essere un’attuazione, una non attuazione di un programma che di per sé si presta ad essere tirato in ogni direzione.

Ecco questi problemi che ho detto, io direi sono problemi semantici, si riflettono sul significato delle parole, ma come vedete sono a causa non dello strutturare limite delle parole, ma sono dettati semmai dal limite che hanno i legislatori quando producono norme, il linguaggio viene usato male anche dal legislatore.

Poi ci sono problemi che chiamerei anche questi contestuali, cioè dall’interferenza che hanno linguaggi diversi nei nostri ordinamenti, intendo dire che se ad esempio di una legge, anche nella storia della legislazione, particolarmente qualificante la legislazione di un paese, che è la lg finanziaria, cioè la lg di razionalizzazione delle misure relative alla finanza di un paese, è diventata sempre più una sorta di grande contenitore dove entra di tutto dentro, tutte le questioni ( io ho trovato nell’ultima finanziaria, che riguardava lo status giuridico dei docenti, si è fatto passare un qualche cose che poteva essere estraneo alla legge finanziaria, perché non riguardava la finanza, non era un elemento rilevante per le misure di razionalizzazione delle finanze di questo paese, una qualificazione particolare dello stato giuridico dei docenti universitari), e entrano anche linguaggi eterogenei, perché le materie che lì vengono disciplinate vanno dalla sanità, all’università, a misure economiche e cose di questo genere, quindi entrano competenze e saperi scientifici come quelli della medicina della biologia, della pedagogia, tutti questi linguaggi che confluiscono all’interno di quella lg non facilita la comprensione, perché sono linguaggi che a volte si sovrappongono, sono eterogenei, non v’è più una organicità del linguaggio giuridico, quel benedetto momento dell’età della codificazione oramai credo che sia surclassato da un’epoca (c’è un giurista, uno studioso di diritto civile molto intelligente, Natalino Irti, che adesso però insegna filosofia del diritto, ed è stato per tanto tempo prof. Di diritto civile, il quale adesso parla di età della decodificazione, cioè per la perdita di organicità, anche sul piano linguistico) di decodificazione, sicchè il giurista poverino deve avere a che fare con linguaggi diversi che non sono più soltanto quello giuridico.
Questo problema io lo definirei come un problema sempre semantico però di ordine contestuale ad esempio per la creazione di testi intertestuali, per un limite semantico che hanno le parole per queste operazioni intertestuali che si vengono a determinare con le nuove competenze legislative.

In ultima analisi: oggi abbiamo esaminato e concluso anche il nostro esame sul problema della chiarezza dei testi affrontando problemi semantici, questi argomenti io li richiamerei sotto il tema problemi semantici dei testi normativi o di ordine strettamente testuale, o di ordine strettamente contestuale. Ricordo di avervi detto che quelli di ordine testuale andavano poi divisi e in problemi testuali in senso statico e in problemi testuali in senso dinamico e credo che abbiamo fatto anche lì una serie esempi, e quelli contestuali o risalenti alla funzione e competenza del legislatore oppure al problema dei testi intertestuali, li chiamo contestuali perché sono problemi che sono dettati dalla confluenza o dalla evaporazione di testi intertestuali, dove ci sono linguaggi diversi che entrano all’interno di un testo e che creano corto circuiti, sicchè ad esempio nello stesso testo di lg voi trovate parole che significano, da una parte una cosa, dall’altra parte un’altra cosa perché vengono assunti con competenza diversa, non solo ma il giurista non ci capisce più niente, deve sapere tutto di tutto, io ho fatto fare una tesi a una vostra collega sul principio dell’oltre ogni ragionale dubbio nel processo penale, principio di prova importante che è a dir poco imbarazzante, perché il dubbio è di casa, fino alla fine, anche quando si decide, quindi trovo anche paradossale e provocatoria questa tesi perché associa a quel luogo del dubbio per antonomasia che è il processo penale (quando arrivano i RIS c’è da preoccuparsi perché non si arriverà più ad una prova, appena si incomincia a mettere mano per assicurare ogni oltre ragionevole dubbio, si amplificano le prove), per cui il passaggio dalla norma al precedente sembrava un passaggio su cui fare delle furbizie invece complica ancora di più le cose.

A questi problemi di ordine semantico, io aggiungerei un altro filone dei problemi relativi al tema della chiarezza linguistica, che è un filone che risale ai mezzi che l’ordinamento utilizza per ridurre la questione ermeneutica dell’ordinamento stesso.
È evidente che questa questione è una questione presente, dico all’ordinamento giuridico per dire ai giuristi, cioè coloro che conoscono e costruiscono gli ordinamenti giuridici. Come l’ordinamento giuridico cerca? Qual è la risposta che l’ordinamento giuridico dà al problema ermeneutico? È una risposta molto semplice, l’ordinamento pone una norma sull’interpretazione, cioè dice come devono essere interpretate le norme, presupponendo già un fatto importante che le norme devono essere interpretate, quindi già la presenza di una norma sull’interpretazione la dice lunga rispetto alla tesi della scuola dell’esegesi che sostiene, con Primonov, grande giurista francese, uno degli artefici principali della scuola dell’esegesi (dal punto di vista storico, tra l’altro queste scuole, la scuola dell’esegesi e alcune scuole che hanno caratterizzato l’impostazione giuridica, che permettono di avere anche una conoscenza storica sui problemi di formazione giuridica, mentre questo corso aspira più ad avere un’impostazione più istituzionale e teoretica, non si sofferma tanto sulle questioni storiche quanto sulle questioni teoretiche o logiche legate ai problemi del sillogismo giudiziario), che ci devono essere i testi prima di tutto, nella sua famosa opera sul codice napoleonico, il suo corso sul codice napoleonico.
Il problema è se ci sono i testi, come dicevo prima noi siamo pure disposti ad andare a saturo a fare lezione, uno ci deve avvertire però, intanto non c’è un’aula qui e dobbiamo trasferirci altrove, se nessuno ci avvisa questo ci prende a sorpresa e potremmo anche rimanere disorientati. Ecco ci sono davvero i testi? Perché se ci sono e c’è il problema dell’interpretazione, c’è non il testo ma i testi, e i testi non sono tanto le tante norme ma i tanti significati che una norma può avere, la stessa norma è tanti testi: ora se c’è una norma sull’interpretazione, questo la dice lunga sul fatto che c’è un problema, che è la questione ermeneutica, non ci sarebbe un articolo sull’interpretazione se non ci fosse la questione ermeneutica, se ci fosse davvero questa chiarezza univoca dei testi. Già la presenza per così dire sintattica, nella costruzione dell’ordinamento giuridico, di un articolo noto per noi nell’ordinamento all’art. 12, ci dice già che c’è un problema, che è la questione ermeneutica dell’ordinamento giuridico.
Allora l’ordinamento come cerca di risolvere questa grave questione, vertiginosa, dell’interpretazione giuridica? Producendo una norma sull’interpretazione, che guida il giurista al momento dell’applicazione delle norme su come deve interpretare, sì da, anche qui, recuperare la certezza del diritto.

La nostra domanda è se questa norma è sufficiente, domanda che affronta un problema diverso da quello strettamente semantico, qui chiamerei un problema di ordine sintattico sistematico, ecco i problemi legati all’applicazione, all’effettività, alle questioni legate all’art. 12, saranno per noi le questioni che noi poniamo al problema generale ermeneutico della chiarezza dei testi, questa volta affrontando una metodologia che è quella dell’ordinamento giuridico, di produrre una norma sull’interpretazione.
È chiaro che se anche l’art. 12 ha con sé dei problemi, torniamo sempre al problema generale “sono cavoli vostri”, l’ordinamento dice “adesso ho fatto proprio tutto, dopo questo adesso sono cavoli vostri”: e la sensazione che l’ordinamento dica ciò, per chi legge l’ordinamento, si avverte una certa solitudine, non si sa bene come andrà a finire il nostro processo, è un po’ una situazione kafkiana che chi è più sensibile avverte, dinnanzi ad una vicenda umanistica del processo, non si davvero come si andrà a finire, altro che il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, vorremmo tutti agire in un processo con questo bel principio solido, ma il dubbio è di casa nel processo, sembra quasi una battuta di humour, una proclamazione che ormai si è fatta strada nella nostra giurisprudenza, la cassazione non fa che ripetere questo, ma soprattutto anche i nostri ordinamenti e la nostra cultura giuridica, che dalla grande rivoluzione scientifica, ci avverte di questa esigenza (un altro studente si laurea con una tesi su Bentham e sulla prova giudiziaria, come prova scientifica, che un po’ appartiene a una delle tesi che cerca di dare un contributo archeologico a questo principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio,come principio basilare del momento probatorio nel processo penale). Succede sempre così, come il principio di tassatività, dove si deve usare, dove si possono fare le cose con più leggerezza, come dice il diritto civile, in quanto in tanto non c’è il principio di tassatività del reato, ma non c’è neanche il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, si produce un principio un pochino più debole, che poi alla fine è quello che governa sempre, è la ragione cioè debole che governa nel processo, non è la ragione forte: potremo fare mille esempi, e vedremo che il principio di tassatività nei processi fa la fine che fa spesso e anche l’ordinamento penale non è che si affanna tanto per affermare l’effettività di questo principio, ma anche il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio alla fine diventa il principio del diritto civile del “più probabile che no” che è un principio più debole ed è la condizione sufficiente per assicurare la prova nel processo civile: insomma alla fine è la ragione debole che prevale, quando si va a vedere come stanno le cose, perché non ci può essere, è difficile trovare una ragione forte nel processo e di questo bisogna prendere atto, saperlo.
Per tornare al tema e al rafforzamento, al quale io ci tengo, della motivazione, che diventerà anche nel nostro corso un risvolto importante, sappiamo che quando c’è una ragione debole cresce l’argomentazione giuridica, quando si sa che c’è una ragione debole, al posto della prova ultimativa nasce, c’è la dimensione teorica di cui parla anche Pereman, l’argomentazione.
Allora i problemi attorno all’art. 12 sono problemi che io affronto in quest’ordine problematico della questione sulla chiarezza dei testi, ordine che chiamo non più semantico, ma sistematico sintattico: ci sono dei problemi sintattici e sono i problemi che derivano dall’art. 12, è sufficiente l’art. 12?

La prima osservazione che uno farebbe ed è un’osservazione anche immediata, ad intuito, è che se ci sono problemi semantici relativi al significato proprio delle parole, del rapporto tra legislatore norma, quei problemi riguardano anche la stessa norma che vorrebbe evitare quei problemi: cioè il problema della univocità, della non chiarezza, ermeneutico lo pone anche l’art. 12, non è questa norma sta fuori, perché è una sorta di super norma, pure che nasce perché è stata donata dagli dei e il resto l’hanno fatto gli uomini, gli uomini hanno fatto le cose peggiori, gli dei hanno donato l’art. 12, come la scrittura: no, l’art. 12 è stato creato allo stesso modo con cui sono state create le altre norma, quindi apriti cielo, anche l’art. 12 ha tutti i problemi semantici delle altre norme(dobbiamo fare certo riferimento a tanta giurisprudenza per capire come stanno le cose, ma anche lì ci si trova dinnanzi a tutti i problemi che si pongono di interpretazione, di applicazione: le questioni semmai si rinviano, ma le questioni ci sono).

Cerchiamo di leggere l’art. 12 e cerco di legarmi all’art. 12 , come un articolo che devo discutere ripetendo le questioni metodologiche dei problemi semantici delle norme, e questo quello che cerco di fare perché non reputo che l’art. 12 è stato prodotto dagli dei, e anzi la sensazione è che davvero si poteva fare meglio. Visto che abbiamo questo abisso quasi angosciante che è l’interpretazione delle norme, e si poteva fare meglio allora, e che si potesse fare meglio lo si può scoprire subito, non bisogna grandi ragionamenti, anche per il primo comma, si poteva sapere bene e prevedere che l’interpretazione, secondo il significato proprio delle parole, posto che ci sia, non è la stessa cosa dell’intenzione del legislatore: lo sappiamo da Socrate in poi, uno dice una cosa, il proprio amante dice ti voglio bene, ma sta pensando un’altra cosa e non è lo stesso, lo sappiamo da Socrate in poi, dalla scoperta della tukè, della coscienza intellettuale e morale, non sono la stessa cosa; al limite ci metti non soltanto un “et” aproblematico.
Il significato fatto palese o il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di essa che va quindi va capita, fino a che punti i principi ultimi dell’ordinamento giuridico, arriviamo alla concezione di Platone, cosa che non è poi che abbia un significato così univoco, ma comunque con questo “et” aproblematico, stupido, secondo il senso e il significato proprio delle parole, fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse era intenzione del legislatore, quell’ et è il prodotto di una cultura giuridica debole che non conosce neanche la vita, “l’amante dice all’altro amante, ti voglio bene, ma stasera esco con un’altra”, le intenzioni possono essere diverse, l’abbiamo detto con il grande dono della scrittura: il mio libro è stato prodotto nel 2003, ma rotola a destra e sinistra, chi lo legge , chi non lo legge, chi sa se in ogni passaggio ci si potrà collegare alle mie intenzioni e se io stesso riconoscerò le mie intenzioni in quello che ho scritto, in molti casi mi sono detto “ma cavolo potevo scrivere meglio non era questo quello che volevo dire”: questo è un problema ermeneutico fondamentale, i tedeschi dicono che da una parte c’è il corpo visibile e dall’altra parte c’è il subinteriore che non  la stessa cosa, e poi a complicare le cose c’è anche la psicanalisi contemporanea che distingue ancora l’inconscio e altro; e tu dici soltanto, secondo le intenzioni del legislatore, ma poi dove sta il legislatore, non è mica una volontà univoca, il legislatore sono i legislatori, sono assemblee che arrivano al compromesso, dove già in partenza non sai già bene qual è l’intenzione, perchè compromesso significa già non intenzione ma mille intenzioni messe insieme, io lo voglio proprio vedere il magistrato cavolo che riesce a ricostruire l’intenzione del legislatore, che lo faccia con rapidità e tecnica inappellabile.

Insomma già dall’inizio si ha la sensazione “sono cavoli vostri”, datevi da fare a studiare teoria dell’argomentazione giuridica, se non siete veramente degli idioti che ingenuamente come degli stupidi vanno avanti e poi improvvisamente si trovano dinnanzi un  mare di problemi.
E poi si passa naturalmente al secondo comma dove l’ordinamento riconosce che naturalmente ci possono essere dei casi dove le disposizioni non sono chiare, cosa che finora non avevamo assolutamente capito che le controversie possono avere delle disposizioni non chiare.
Senonchè appena si accenna a questo problema stranamente, cioè il problema ermeneutico dell’art. 12, lo stesso art. 12 non lo vede più come un problema ermeneutico, cioè l’art. 12 dispone che si debba rinviare a materia analoga, a casi simili, ma come e con quali criteri di interpretazione della norma individuare le materie analoghe e i casi simili: è scomparso quindi il problema dell’interpretazione della norma, finora ci aveva detto che cosa significava interpretare, secondo il significato proprio delle parole, qui ci dice soltanto che bisogna applicare materie analoghe, ma quale tipo di interpretazione devo fare?

Ve ne suggerisco almeno due che potrebbero permettere di realizzare i cosiddetti procedimenti per analogia e l’argomento a contrario, ma non è che me lo dice l’art. 12, lo scopro io con la mia logica, sono dei canoni impliciti logici, interpretativi:

- (questo lo accantono subito) ex negativo dico che per poter procedere per analogia o secondo l’argomento a contrario, che sono due procedimenti reciproci, per cui se c’è l’analogia ci deve essere l’argomento a contrario, non devo evidentemente fare un’interpretazione letterale, perché se la facessi come faccio a fare quest’operazione sintattica di costruzione di una norma di un caso non previsto analogo però al caso previsto: esempio di Rodolf ……. La norma davanti alla sala d’attesa dove c’è scritto “vietato l’ingresso ai cani”, è un’ipotesi, a noi interessa la possibilità dei fenomeni, anche se poi le cose non stanno così, ma nell’800 stava così, e infatti Roudolf parla di questa norma riferendosi a un caso particolare. Che cosa succede, nella seconda metà dell’800 si andava anche con gli orsi al guinzaglio, era una moda, se si presenta uno con questo orso? Che cosa fare? Lo facciamo entrare, non lo facciamo entrare? Qui chiederò al vostro intuito, a quel fanciullo di cui parla da Socrate fino a Kant per scoprire la legge morale, al vostri intuito naturale, all’estetica giuridica, interpello l’estetica giuridica, non la retorica, non la metafisica, l’intuizione giuridica fondamentale.
Devo dedurre che se non deve entrare il cane, a maggior ragione se uno viene con un orso mordace non deve entrare, ma lì sta scritto che è vietato l’ingresso ai cani, il mio ordinamento dice che devo interpretare la norma secondo il significato proprio delle parole, ecco allora la domanda: si può permettere l’ordinamento giuridico in questo caso, come in mille altri casi, di eludere quelli che sono i procedimenti della logica giuridica, anche perché questi non sono lì per caso, non è che il secondo comma dell’art. 12 si trova lì per caso, ma per risolvere questi problemi. Senonchè qui per poter estendere anche all’orso il divieto di ingresso, cioè per applicare il procedimento per analogia, evidentemente devo non  partire dall’interpretazione letterale.

E allora quale interpretazione? L’art. 12 mi dice soltanto che devo procedere per analogia, ma non con quale interpretazione, cioè che tipo di interpretazione suppone il procedimento per analogia? Ad essere rigorosi questo è il ragionamento, non l’analogia, ma che tipo di interpretazione, perché adesso cercherò di suggerirvi che ci si possono nascondere interpretazioni diverse tra di loro che permettono lo stesso risultato, quello del procedimento per analogia.

E quali sono queste interpretazioni, io ne individuo almeno due e ve ne parlo in modo proprio tecnico, sulla base del fatto che questi tipi di interpretazioni vengono adottati nella giurisprudenza e entrano le motivazioni delle sentenze, per poter fondare un procedimento come quello per analogia. Entrambi, usando un nome generico, li chiamo: interpretazione fondamentale. In altri termini dico, perché si possa procedere con i procedimenti per analogia e per argomento a contrario devo adottare non l’interpretazione disposta dal primo comma, cioè l’interpretazione letterale, ma un’interpretazione fondamentale.

Io distinguo due tipi di interpretazioni fondamentali che sono rilevanti per attuare questi procedimenti:

- interpretazione fondamentale teleologica:  da telos (dalla parola greca che sta nel vostro sangue perché siete eredi dalla Magna Grecia, sono convinti che parole come telos suscitano in voi una simpatia naturale, la grecità che percorre le strade che vanno dal metapontino alla valle d’itria sta nel vostro sangue ed è anche nel vostro sangue essere al centro dell’Europa e della cultura dell’occidente, altro che terroni, ma sarà terrone chi vi chiama terrone, perché tu sei più al centro di lui, Pitagora mangiava qui, non le fave perché c’era il divieto di mangiare le fave, lo sapete che era vitato mangiare le fave presso i greci? Ma Pitagora mangiava e dormiva qui, ha vissuto a Metaponto, ha insegnato la matematica a Ginosa, a Matera, qui a Taranto, come si fa a dire questo occidente non pitagorico, è un occidente pitagorico, chi vi chiama terrone immagino che sia un pitagorico, se usa questa espressione in senso discriminatorio e negativo e allora ti verrebbe di chiederli “ma non ti senti un pitagorico?”, quello direbbe no, e allora sei un cretino, no sono un pitagorico, e allora tu sei mia prole, tu vieni dalla mia terra, perché la mia terra è pitagorica. Vieni a vedere il mare da Metaponto in poi, ti fai una passeggiata, prendi il sole.. “perché aprendo bocca hai dimostrato di essere un cretino”, il senso dell’argomentare se vogliamo è anche questo, parlare tanto sì, ma senza dire sciocchezze, dando un senso alle parole). Dunque la parola da cui si origina l’aggettivo teleologico deriva da telos che significa fine, lo scopo: ecco questa è un interpretazione fondamentale teleologica è interpretazione della norma secondo lo scopo della norma. Ma l’art. 12 dice queste cose che sto dicendo? No, ma allora sforzati vai in profondità, dimmi che devo tener conto dello scopo delle norme, anzi mi avresti dovuto dire, proprio all’inizio dell’ordinamento, seguendo i tuoi figli, perché questo io penso dell’ordinamento, le cose stanno per il loro scopo, per la loro funzione (se utilizzo questo oggetto lo utilizzo per il suo scopo, per la sua funzione, mica perché mi piace, perché è un cono di gelato, perché è un microfono, si chiama microfono, ma è un macrofono perché amplifica la voce, perché ha una funzione), allora se devi insegnare ai tuoi figli a crescere con l’ordinamento giuridico almeno insegna loro qual è lo scopo delle norme, parti di là. Ecco perché l’interpretazione letterale non si può completamente eludere, perché parlare dello scopo non è poi facile, ma è necessario, inevitabile e se è inevitabile dì che c’è, dillo chiaro, ma perché ti preoccupi di dire che ci sono i significati propri delle parole, cioè l’interpretazione letterale e non ti preoccupi di insegnarmi che c’è lo scopo delle norme chiaramente? Se le controversie non si possono risolvere con il significato della parole, allora considera lo scopo di quella norma: ma perché cavolo sta la norma “è vietato l’ingresso ai cani”? qual è la funzione di questa norma? È quello di fare baldoria nella sala d’attesa? No è il contrario, per non fare baldoria, per dare sicurezza ai viaggiatori, che sostano nelle sale d’attese. Ci sarà uno scopo, che è comunicabile  o lo scopo è proprio indicibile? Si può parlare, si possono usare queste parole, ma insegna questa cosa! Insomma io trovo gli ordinamenti giuridici pedagogicamente mediocri: un ordinamento che non ti parla mai del fine delle cose, lo trovo tale, che ha paura di dire che c’è il fumo, perché ti nascondi? Perché cosa succede? Succede che il vostro intuito creaturale, voi che vivete dentro di voi questa voce del Daemonium di Socrate, vi avverte che anche l’orso non deve entrare, mi batterò se uno si avvicina con un orso, dirò “guarda che la ragione giuridica di quella norma dice che neanche l’orso può entrare qui dentro”. Anche qui poi i problemi si complicano, perché se si avvicina un poliziotto con un cane di quelli che servono per sniffare, per vedere se qualcuno si fa le pere nella sala d’attesa, e qui c’è il divieto di ingresso ai cani: può essere da questo ragionamento, anche un ragionamento a contrario, perché lo stesso intuito creaturale che mi fa dire “senti l’orso non può entrare, chiama il presidente della repubblica” e anche lui, che è il massimo magistrato del mio paese mi darebbe ragione, così pure mi batterei per far entrare un poliziotto con il suo cane che deve sniffare se ci sono quelli che si fanno le pere. Certo i problemi si possono complicare perché il cane a mezzogiorno dopo aver sniffato tanto, anche lui comincia a dare fastidio, allora fino a che punto facciamo entrare il cane del poliziotto? Io stesso a mezzogiorno mi potrei ricredere, no senti il cane qui non lo fai entrare, perché questo ha sniffato, si è fatto le pere pure lui e naturalmente potrebbe anche essere il cane della regina Elisabetta se ci troviamo in Inghilterra, lo facciamo entrare in quel paese dove si dice “il Padre Eterno salvi la regina”: lo facciamo entrare certo, se è Camilla no, però se è Diana sì.
Insomma si complica tutto: eravamo partiti da una norma chiarissima, “divieto di ingresso ai cani”, ma ditemelo voi allora dove troveremo una disposizione chiara?
Per applicare i procedimenti per analogia vedete cosa devo fare, devo interpellarmi su qual è lo scopo della norma, devo dirmi lo scopo è quello di impedire che un animale produca danno oppure crei fastidio ai viaggiatori che sostino in sala d’attesa, da questa interpretazione allora anche l’orso non può entrare: il senso di quella norma è di non far entrare animali che possono provocare danni e tra questi ci sono anche gli orsi, fino a prova contraria, e dunque allora l’orso non potrebbe entrare. Ma vedete che tipo di operazione sto facendo? Sto adottando un tipo di interpretazione che è strano che venga taciuta perché non si capisce perché l’ordinamento abbia imbarazzo a dire che nel mondo ci sono tante cose, ci sono le norme e le norme stanno per una funzione? Non capisco l’imbarazzo che ha ad usare la parola funzione, io che sono cresciuto sapendo che tutte le cose si chiamano un “bene” e se sono un bene, perché non sono soltanto una struttura, ma perché realizzano un fine, altrimenti sarebbero delle cose inutili, e non mi sembra che il nostro mondo sia pieno di cose inutili e neanche l’ordinamento giuridico è pieno di norme inutili, quindi se ci sono delle norme nell’ordinamento giuridico, semmai sono un bene, ma se sono un bene lo capisco in rapporto alla loro funzione non in base al fatto che sono degli enunciati prescrittivi sanzionatorio: cosa me ne faccio di questa idea di giuridicità? Enunciare delle proposizioni prescrittivi sanzionatorio, non ci fa crescere, dobbiamo sempre chiederci ma perché c’è questa norma? Qual è la sua funzione?

  • interpretazione fondamentale concettuale: io mi potrei imbattere in una norma particolare che può essere un contratto di compravendita, che ha tutta una serie di elementi, magari a qual contratto manca qualche elemento essenziale, quella norma contrattuale, prima di dire che è lacunosa, che tipo di interpretazione devo fare di quella norma, come la devo interpretare prima di dire che manca ad esempio il riferimento ad alcuni aspetti o ad alcuni requisiti anche essenziali: devo dire che il contratto è sempre un negozio giuridico, cioè devo interpretare quell’atto giuridico, il contratto di compravendita, usando una categoria generica, quella del negozio giuridico. Quella norma può darsi che non usi neanche la parola negozio giuridico, non faccia nessun riferimento a quelli che sono i requisiti essenziali dei negozi, ma se quello è un contratto è necessariamente anche un negozio giuridico perché il contratto è una specie del negozio giuridico, e se il contratto è un negozio giuridico, sono negozio giuridico anche altri contratti (es locazione): di qui nasce la possibilità che ha il giurista, dinnanzi a una norma individuale, contrattuale, di colmare le lacune facendo riferimento ad altri contratti che sono simili al contratto di compravendita, ma simili perché? Dove sta il tertium comparationis, l’analogon? Sta nel fatto che c’è una categoria giuridica di genere che è il negozio giuridico, e quindi tutti i contratti sono negozi giuridici, di qui il passaggio da una norma che dispone che per un atto ad un’altra norma che dispone per un'altra atto, avendo come termine medio, il termine medio che è assicurato dalla categoria giuridica in questo caso del negozio giuridico, che è una categoria di genere. Insomma l’analogia si può fare anche così, cioè le lacune si possono anche colmare in questo modo, richiamandosi ai concetti della dogmatica giuridica: da un concetto di species, ad un concetto di genus. In altri termini quando io interpreto una norma individuale, prendete una norma contrattuale, alla luce dei requisiti essenziali del negozio giuridico, questa interpretazione che io faccio di quella norma individuale, sicchè rivedo quegli elementi alla luce del negozio giuridico, non sto facendo un’interpretazione letterale, mi sto mettendo tra l’altro nelle condizioni di fare quelle operazioni sintattiche che mi permettono di poter procedere per analogia, perché quando hai individuato quella categoria di riferimento, potresti paragonare quell’atto contrattuale ad un altro atto contrattuale, non sto facendo quindi un’interpretazione secondo il fine della norma, ma sto facendo un’interpretazione fondamentale concettuale.

L’art 12 ci parla di tutto questo?bisogna riflettere per arrivare a tutto questo, e riflettendo non si rischia che si stia svolgendo quel discorso che noi chiamiamo retorica, che centri l’argomentazione giuridica e non tanto invece quell’operazione meramente logico sintattica del pitagorico? Certo, e questo è un problema che l’art. 12 non risolve, ma pone come problema. Vediamo quindi come tutti i problemi che finora abbiamo affrontato si ripetono con l’art. 12 e poi il magistrato che interpreta le norme utilizza dei canoni logici interpretativi che prescindono dall’art. 12 e se ne va per la sua strada, perché è necessario anche andarsene per la sua strada: cioè l’art. 12 si trova limitato dalla vita che pretende che si vada per una strada anche se l’art. 12 non ha detto niente.
Faccio un es: ex art. 12 si potrebbe pensare anche questo, che la norma dovrebbe essere sempre interpretata secondo il significato che le parole hanno al momento della loro produzione. Certo non mi sembra che ponga il problema di distinguere una interpretazione che risale al significato delle parole al momento della loro produzione, rispetto al significato delle parole al momento della loro applicazione: non è la stessa cosa.
Noi abbiamo visto che ci sono dei problemi semantici di ordine dinamico, cioè dei mutamenti di significato e questa è la cosa buffa, semmai l’art. 12 ci dispone qualcosa rispetto a questa questione ci disporrebbe ad interpretare la norma secondo il significato delle parole al momento della loro produzione, perché parla dell’intenzione del legislatore e quindi questo potrebbe al limite essere la soluzione del problema. Ma intanto non pone neanche il problema, che è la cosa più grave però implicitamente sembrerebbe questa la soluzione.
Ma secondo voi la nostra magistratura, la nostra giurisprudenza che ha dinnanzi a sé un ordinamento che è stato per lo più creato durante l’epoca fascista, lo interpreta secondo il significato delle parole, è quasi imbarazzante, addirittura incostituzionale quasi, perché sembrerebbe quasi ricostituire l’ordine fascista, se si interpretasse il nostro ordinamento secondo il significato che le parole hanno al momento della loro produzione.

Io l’atro giorno mi sono trovato a presentare un progetto del dipartimento giuridico sul bullismo nelle scuole, c’è una convenzione tra noi dipartimento e il comune di Andria per una ricerca di  studio sui profili penalistici di questo fenomeno sociale che viene chiamato bullismo. Tutta la questione, rispetto al ruolo che hanno le scuole, ruota attorno ad una norma che è l’art. 571 c.p. relativamente all’abuso dei mezzi di correzione: questa è una norma che risale al 1903, cioè in un pieno momento storico e clima molto autoritario il legislatore avvertiva l’esigenza di richiamare l’attenzione sull’abuso dei mezzi di correzione, e questo sta a significare che non so che cosa succedeva, perché il legislatore era autoritario, perché diceva potete anche abusare, ma questo è reato se abusavano dei mezzi di correzione: non so cosa succedeva, venivano squartati.
Ma secondo voi il magistrato il quale riceve la denuncia della mamma del ragazzo della scuola di Palermo, la quale denuncia che l’insegnante ha fatto scrivere sul quaderno al ragazzo per 100 volte “sono un deficiente”: allora io qui penso al giurista avvocato che ha suggerito alla madre di denunciare la professoressa, se quel giurista avvocato stava interpretando quella norma secondo il significato che le parole “abuso dei mezzi di correzione” avevano al momento della loro produzione io non credo che il legislatore del 30 pensava fosse un abuso per aver scritto sul quadernetto semplicemente “sono un deficiente”il giurista avvocato era convinto di questo; ma se si va in udienza di teme che anche il magistrato  sia convinto di questo, cioè che interpreti la norma in un modo diverso da quello che avrebbe fatto il giurista del 30.
Sapete come si è conclusa la vicenda? Il magistrato ha ricordato ovviamente a tutte le parti e soprattutto agli attori di questo processo, se c’è un abuso dei mezzi di correzione, c’è anche un uso lecito, e ci si chiede: non è uso lecito, per la scuola, che deve comunque prendere posizioni dinnanzi a un bulletto che discrimina il proprio compagno di classe, dicendogli di sei un omosessuale, non devi venire qui nei nostri bagni e lo massacra in questo modo, è un mezzo talmente impensabile che possa essere adeguato per la scuola, comunicare ad un ragazzo, che si comporta così con evidentemente danno nei confronti del fratello, farlo riflettere, non che non ha intelligenza, ma che non adopera bene la sua intelligenza, perchè è oggettivo.
Tutta questa questione cosa significa: che evidentemente non è scontato che le norma vengono applicate secondo il significato che la parole hanno al momento della loro produzione, semmai vengono applicate secondo il significato che le parole hanno al momento della loro applicazione.

Io distinguere allora due tipi di interpretazione da questo punto di vista che sono logici:

  • una interpretazione storica che ripete il significato delle parole al momento della loro produzione;
  • (versus, contrapposta a) una interpretazione evolutiva, cioè il significato che le parole hanno al momento della loro applicazione.

 

Con quale considerazione ulteriore:l’art. 12 non fa questa distinzione. La giurisprudenza, a dispetto di ciò che noi ritenemmo, specie se consideriamo tra l’altro il nostro ordinamento che contiene molto materia normativa che risale ad epoche culturalmente e totalmente diverse dalle nostre, sicuramente applica le norme secondo il significato che hanno le parole al momento della loro applicazione, cioè applica le parole secondo un canone logico di interpretazione, non normativo (non c’è scritto che dovrebbe essere così, anzi si dovrebbe dedurre il contrario). Per oggi abbiamo ragionato a sufficienza, può bastare.

 

Teoria dell'argomentazione giuridica

9°Lezione 08.04.2008

Finora abbiamo fatto tutta una serie di riflessioni, l’ultima volta ci stavamo soffermando su alcune metodologie che sono interne all’ordinamento giuridico, metodologie che permetterebbero di risolvere la questione dell’interpretazione giuridica; la questione di porre un limite ai significati che potrebbero anche perdersi nell’illimitato delle norme giuridiche. Quale è questo espediente che ha l’ordinamento giuridico? Espediente che noi riconosciamo in questa sorta di metodologia dell’assoluzione del problema dell’interpretazione giuridica, l’ordinamento giuridico utilizza l’articolo 12, si ha la necessità di essere indirizzati rispetto ai tanti significati della norma e quindi l’articolo 12 dice come interpretare la norma. Il problema è che anche l’articolo 12 che pone e suggerisce disposizioni che andrebbero a ridurre il tema dell’interpretazione giuridica, cioè il tema della plurivocità, dei tanti significati delle parole, dunque delle norme, anche l’art. 12 si espone alla stessa questione. Cioè anche l’art. 12 è un articolo fatto di parole, con parole che, tra l’altro, non hanno operato quel passaggio che auspica Rudolf von Carnap nella sua opera “LOGICAL FOUNDATIONS OF PROBABILITY” da un linguaggio ordinario ad un linguaggio strettamente scientifico, un linguaggio controllato dal metodo, dalla scoperta scientifica. Dice von Carnap è auspicabile che dal linguaggio ordinario del tipo “oggi fa caldo” “oggi fa freddo” ti dica il grado della temperatura del caldo o del freddo, quindi si passi da un linguaggio non quantificato ad un linguaggio che opera con misure, in questo modo si recupera l’esattezza della nostra conoscenza di cosa sta accadendo del fenomeno che sta accadendo. Quando si passa dal linguaggio ordinario,intendiamo quello tipico delle norme, al linguaggio dell’art. 12 non si fa un passaggio di questo genere, si continua ad utilizzare un linguaggio plurivoco. Abbiamo fatto anche una serie di considerazioni  che dimostrano la plurivocità dell’articolo 12, una plurivocità che noi abbiamo messo in evidenza, abbiamo scoperto che l’art. 12 che ci voleva dire come interpretare le norme indicandoci dei criteri, è ambiguo su questi stessi criteri, ed è ambiguo anche sul rapporto che c’è tra i criteri, sul rapporto logico tra i criteri. Piccola osservazione tecnica quando ci parla delle intenzioni del legislatore, quando fa riferimento ad una interpretazione che noi chiameremmo soggettiva, perché fa riferimento alle intenzioni del legislatore, non sapremmo a cosa si sta riferendo dov’è il legislatore? Quali sono le intenzioni del legislatore? Provate ad immaginare al legislatore in quella dimensione plurisoggetiva che sono gli organi di produzione di norme, anche le stesse maggioranze che dovrebbero qualificare le intenzioni del legislatore al loro interno contengono una pluralità di soggetti i quali, probabilmente, esercitano diversamente la loro intenzione, per non parlare poi del rapporto che ci sarebbe tra gli organi tecnici e le varie commissioni parlamentari; in alcuni ordinamenti, soprattutto, anglosassoni c’è l’influenza delle lobbies (che lì sono dichiarate) che entrano nelle intenzioni del legislatore e qui veramente non capiamo più dove è l’intenzione del legislatore.

Quindi anche quando l’art 12 indica un criterio, sembrerebbe chiaro, ma non sappiamo bene che cosa sta indicando. Poi c’è il problema del rapporto tra criteri, non c’è una logica del rapporto tra i canoni interpretativi, ad esempio il primo comma dell’art. 12 introduce un nesso tra interpretazione letterale delle norme, cioè il significato proprio delle parole, e l’intenzione del legislatore utilizzando come congiunzione un “et” ; in molti casi ciò che lega l’interpretazione letterale, cioè il significato proprio delle parole, e l’intenzione del legislatore non è un “et” bensì un “aut”, perché sono opposte, magari si scopre che l’idea del legislatore era ben diversa da quello che è il significato proprio delle parole quindi cominciamo anche a dubitare sulla gerarchia dei canoni quando c’è questo conflitto. L’art. 12 annuncia con una certa superficialità, se volete anche con una certa mediocrità, un rapporto che è sempre non conflittuale tra questi due canoni interpretativi; non stabilisce una gerarchia, rende l’uno come implicito dell’altro, l’uno come rafforzativo dell’altro, non pone la questione come dice Kierkegaard nei confronti di Hegel quando Hegel spetta che l’unica logica possibile del reale è la logica del movimento dialettico, TESI-ANTITESI-SINTESI, sostiene Kierkegaard è facile pensare che il reale sia una TESI, una ANTITESI cioè la negazione della tesi, e una SINTESI, cioè che ci sia sempre una sintesi e che questa sia appunto una sintesi e che contenga sempre la tesi e l’antitesi; il problema esiste quando c’è un aut aut e non puoi pensare ad una sintesi, per l’esperienza di Kierkegaard bisogna fare delle scelte o da una parte o dall’altra, altro che sintesi. “AUT AUT” è il titolo di un’opera di Kierkegaard e da questo aut-aut nasce la possibilità di concepire l’angoscia esistenziale. L’art. 12 sembra invece che comprenda solo un et-et, se c’è il significato proprio delle parole queste saranno, così come le intenzioni del legislatore, prefigurate; e invece no, sin da Socrate, dalla tragedia greca, sappiamo che si pensa una cosa e se ne dice un’altra. L’art. 12 presenta un problema che è ancora più profondo del problema del significato proprio delle parole perché ci si chiede se anche le parole dell’art. 12 hanno un significato proprio, nel momento in cui si deve seguire l’art. 12 come devono essere interpretate le parole dell’art. 12 ? sappiamo qual è il significato proprio di “intenzioni del legislatore”? primo problema qual è l’intenzione del legislatore? Il giudice del piccolo foro come fa a ricostruire le intenzioni del legislatore che presuppone un ampio dibattito nel quale sono coinvolte anche le lobbies , bisognerebbe ricostruire anche le intenzioni di queste. Allora primo problema è il significato proprio delle parole dell’art. 12 che voleva insegnare, ma noi abbiamo problemi già sul significato delle parole dell’art. 12, e questo è molto grave perché l’art. 12 voleva mettere ordine. Dinanzi al problema ermeneutico dell’interpretazione della norma, una norma si può interpretare in tanti modi, una cosa è tener conto dell’intenzione del legislatore altra cosa è tener conto del significato delle parole, in realtà se vi avvicinate all’art. 12 con il rigore del giurista che vuole vedere cosa dice la norma, lasciate stare tutta la giurisprudenza perché i problemi che pone l’art. 12 si pongono con tutte le parole usate del giudice, l’art 12 non ci aiuta, non  parla del problema dell’aut-aut, ma soltanto dell’et-et.

Altro problema è che nel secondo comma dell’art. 12 si dice che ci saranno controversie per le quali non ci saranno disposizioni chiare, e per fortuna prende in considerazione anche questa ipotesi perché in realtà non c’è nessun caso per cui  c’è una disposizione chiara, o“ una disposizione espressa” come dice l’art. 1 del c.p., non è mai previsto il fatto citando nome e cognome; altra nebulosa che si confonde nella generalità “l’interesse del minore”  “l’interesse materiale e spirituale dei figli” ma dove è? Ma qual è l’interesse spirituale e materiale? Anche come madre non posso sapere qual è l’interesse del minore, figuriamoci il magistrato; cosa è questo interesse spirituale e materiale? Potrebbe addirittura stravolgere il nostro senso comune, materiale potrebbe significare privare piuttosto che dare, oggi bisognerebbe insegnare la privazione piuttosto che la sopra produzione di bisogni, quindi tutto l’opposto di quello che potevi prefigurare come interesse materiale. Anche qui il problema dinanzi alla questione se c’è un caso espresso, troviamo le clausole generali che sono un altro modo per creare condizioni di non espressività, dunque ci sono controversie per cui non c’è una disposizione chiara e l’ordinamento si ricorda che ci sono anche questi casi e tace sul canone interpretativo; dice di procedere secondo materie analoghe e casi simili, ma si può procedere in tanti modi nel procedimento per analogia, inoltre non si parla dell’argomento a contrario ed è come tacere dell’altra faccia della medaglia, perché se ci sono casi simili ci sono anche casi contrari, il problema sarà anche vedere il rapporto tra casi simili e casi differenti.

Sono due procedimenti molto usati nel processo,il procedimento per analogia e l’argomento al contrario, e sono molto usati per quello che abbiamo detto finora, la vita straborda da tutte le parti e noi abbiamo un ordinamento con tante normine che sono poca cosa di fronte a questo strepitoso movimento creatore che è la vita, questa espressione vitale della vita, questa creazione continua della vita; allora perché utilizzare l’analogia e l’argomento al contrario? Altrimenti si avrebbe la paralisi, l’ordinamento non riuscirebbe a rispondere a tante esigenze, dinanzi alle lacune, agli spazi vuoti il legislatore dovrebbe intervenire, molte volte lo fa il magistrato ci sono situazioni in cui non si può attendere che il legislatore intervenga altrimenti ci sarebbe la paralisi dettata dal fatto che per ogni singolo fatto il legislatore dovrebbe sempre intervenire, questa è una attività improponibile.
Con Rudolf von Jhering e la sua opera del 1877“ DER ZWECK IM RECHT” (LO SCOPO NEL DIRITTO), e più tardi con Geny e l’opera intitolata “ IL METODO DELL’INTERPRETAZIONE” del 1899, si introduce una idea che è strano ritenere  non essere una idea di cui è partecipe la giuridicità sin dall’inizio e l’idea è che il diritto ha una scopo, le norme hanno uno scopo, hanno una funzione, non c’è soltanto un significato letterale delle norme; anzi se si dovesse stabilire un ordine gerarchico tra ciò che semplicemente dice una norma, e quindi il significato letterale, e lo scopo della norma specie quando questi significati sono uno contro l’altro per Rudolf von Jhering bisognerebbe privilegiare lo scopo della norma, perché ciò che rende lo scopo di qualche cosa è ciò che rende qualche cosa  un bene, la funzione di qualcosa, se parliamo di oggetti senza lo scopo, senza funzione sono oggetti ma non dei beni ma cosa ce ne facciamo di cose che non sono dei beni; se c’è una norma è perché è un bene ecco il senso di tener conto dello scopo delle norme, non è banale questo riferimento. Una cosa è certa ci sono dei momenti della esperienza giuridica dove il riferimento allo scopo è inevitabile altrimenti il diritto non va avanti, il diritto vivente diventa poco vivente, la situazione di cui parla Rudolf von Jhering é tipica, nel senso che è emblematica nella sua semplicità dice di tutti i problemi che ci possono essere, scoprite che in quella situazione particolare, concretissima se non ci fosse una giurisdizione che tiene conto dello scopo delle norme ci sarebbe una incapacità di chiamare quel diritto diritto vivente. La situazione è banale e ce ne possono essere tantissime come queste, Rudolf von Jhering, filosofo giurista del 800, ha dinanzi a sé come immagine quella di una stazione ferroviaria al cui ingresso della sala d’attesa c’è il cartello con su scritto “ è VIETATO L’INGRESSO AI CANI” è una norma chiara, nessuno direbbe di non capire la norma, cosa succede se si presenta qualcuno con un orso al guinzaglio? Lo facciamo entrare? Interpello la vostra idea estetica del  diritto, vedete come è potente l’idea estetica del diritto, c’è una intuizione giuridica fondamentale che fa sostenere che neanche l’orso deve entrare perché qui mettiamo a repentaglio quello che era lo scopo della norma e anche la funzione, il motivo per cui c’è questa norma, qui appunto   la vostra risposta già  robusta giuridicamente seppure dettata da un intuito, bisognerebbe vedere qual è il procedimento che si adotta, qual è la logica, per arrivare a questo risultato. Il vostro intuito già dice che neanche l’orso deve entrare, sarebbe abbastanza insostenibile un diritto che in casi come questo non desse una risposta che tenesse conto dello scopo della norma, significherebbe l’implosione del diritto, la vanificazione anche dell’ordinamento giuridico, non sarebbe un ordinamento che ci interessa, un ordinamento che non dà una risposta feconda non sarebbe un ordinamento che ci interessa, cosa ce ne faremmo di un ordinamento che mette la norma “è vietato l’ingresso ai cani” e poi entra di tutto, subiamo immediatamente il disincanto e sostituiamo l’ordinamento con un’altra cosa, con un diritto più spontaneo , più efficace.

Qual è il ragionamento, il procedimento che il giurista adotterebbe in casi come questi, intanto partirebbe con la presunzione che questa norma che sembrava chiarissima in questo caso non è assolutamente chiara, sembra confliggere con altri principi dell’ordinamento giuridico, sarebbe riduttivo l’applicazione di questa norma in senso strettamente letterale
Vediamo qual è il ragionamento che fa il giurista:

 

                              NN     

 

                               N1                                N2

Dunque uno dei procedimenti che segue il giurista nell’ambito del processo, tra l’altro chiamato in causa dall’art 12 quando accenna a quei casi che non possono essere risolti secondo una disposizione di legge chiara, è questo: c’è la norma di partenza N1, nel nostro caso è la norma che prevede espressamente che è vietato l’ingresso ai cani, questa volta il giurista sorprendentemente scopre che l’interpretazione letterale non è più adeguata, che non è più capace di assicurare la fecondità del diritto, è lo stesso ordinamento che prevede che si superi quella interpretazione e in che direzione andare; vedete qui come si comincia a complicare la cosa per i problemi che poniamo per l’art. 12 il quale non dice che bisogna interpretare per lo scopo della norma, ma dice che si deve procedere per analogia ma il giurista comincia a pensare che è un presupposto logico del procedimento per analogia sia un procedimento che tenga conto dello scopo, perché soltanto così può arrivare a disciplinare il caso analogo, e di fatti il giurista interpreta quella norma secondo lo scopo di quella norma e arriva a formulare quale è questo scopo attraverso una norma che è più potente di N1, perché è la norma che comprende N1 secondo lo scopo, si arriva ad NN che è il risultato della interpretazione di N1 secondo lo scopo, NN è la norma che dice che è vietato l’ingresso ai cani e a tutti gli animali che possono arrecare danno, possono essere di disturbo e fastidio ai viaggiatori che sostano nella sala d’attesa della stazione, lo scopo della norma è evitare situazioni che possono essere di danno, di fastidio con gli animali a chi sosta nella sala d’attesa. Quindi da N1 attraverso l’interpretazione fondamentale, che in senso stretto chiamerei teleologica , in sostanza una interpretazione che tenga conto del fondamento della norma e con fondamento intendo dire ciò che fonda quella norma, la motivazione di quella norma, in particolare una motivazione che risale al fine di quella norma, allo scopo di quella norma, ecco perché teleologica( dal greco telos che significa scopo); attraverso una interpretazione fondamentale teleologica si giunge a costruire sintatticamente una nuova norma, NN, più potente di N1 perché capace di comprendere più casi rispetto ad N1 ma comunque una norma che non nasce arbitrariamente, nasce sulla base di N1, se non ci fosse stato N1 non si sarebbe potuto costruire, creare NN.

Questa volta è il magistrato che crea una norma, ma lo fa (ecco perché tutto questo ritorna all’interno del potere di giurisdizione) sulla base di una norma vigente, non c’è una creazione ex novo di una norma,una norma in più e basta, ma di una norma a partire da un diritto  che c’è, non c’è semplicemente un diritto oltre il diritto che c’è, ma c’è un diritto a partire dal diritto che c’è. Dunque si crea NN (è vietato l’ingresso ai cani e così come ai cani a tutti gli animali che possono arrecare danno a chi sosta nella sala d’attesa della stazione ferroviaria) e di qui si arriva a creare una nuova norma N2 che è quella che serve per il caso che si è presentato, è  successo che qualcuno si accompagnasse con un orso, N2 dice che anche gli orsi non possono entrare.

Questo procedimento suppone l’impiego di un canone interpretativo che in realtà non viene espressamente nominato dall’art. 12, l’art 12 non dice che si debba interpretare le norme secondo lo scopo che le norme hanno, è una conseguenza logica o comunque un presupposto logico del procedimento per analogia che non è la stessa cosa. Non è la stessa cosa perché l’interpretazione fondamentale , cioè quella che tiene conto di cosa fonda una norma, può essere legata non soltanto allo scopo della norma ma anche alla coerenza logica con certi concetti giuridici fondamentali, ad esempio le norme di un contratto di compravendita si producono in coerenza con il concetto giuridico di negozio giuridico, e così come il contratto di compravendita è una norma individuale che disciplina un contratto, la stessa cosa una norma che disciplina un contratto di locazione devono tener conto dei requisiti essenziali del negozio giuridico, cioè a fondare il queste norme, in questo caso, non sarebbe lo scopo della norma ma sarebbe il concetto giuridico, quei concetti giuridici che fondano quella che in senso stretto si chiama dogmatica giuridica, il concetto di negozio giuridico fonderebbe queste norme, in questo caso potrei anche procedere per analogia utilizzando come termine di comparazione non il fine delle norme ma il concetto di negozio giuridico, sicché potrei creare delle condizioni di analogia nella applicazione delle norme contrattuali ad esempio tra contratto di compravendita e contratto di locazione perché entrambi sono dei negozi giuridici. In questo caso il processo di analogia è dettato non dal fine della norma, ma da questo termine di comparazione che è il concetto giuridico fondamentale che sta alla base di queste norme individuali che è il concetto di negozio giuridico. Alla fine il procedimento per analogia, se seguiamo lo schema si può fondare e nell’interpretazione fondamentale teleologica, ma potrebbe anche esserci alla base del procedimento per analogia un altro tipo di interpretazione che chiamerei interpretazione fondamentale concettuale, cioè l’interpretazione delle norme individuali, come il contratto di compravendita, alla luce dei requisiti essenziali di cosa noi chiamiamo negozio giuridico visto che un contratto di compravendita è un negozio giuridico; in quella norma individuale può darsi che non ci sono tutti gli elementi che sono espressamente previsti dal negozio giuridico, ma comunque quello è un contratto che si fonda nel concetto di negozio giuridico. In questo caso l’interpretazione delle norme individuali non è relativamente allo scopo della norma, ma relativamente a quel concetto della dogmatica giuridica che noi chiamiamo concetto di negozio giuridico, anche questo potrebbe fondare il procedimento per analogia, di tutto ciò non c’è traccia nell’art 12 eppure i giuristi a iosa utilizzano questi canoni interpretativi, occorre avere una robusta teoria dell’argomentazione giuridica per poter sfruttare tutti questi argomenti.

Il problema è che l’art 12 non dice neanche espressamente quali sono i canoni interpretativi che è necessario utilizzare; dal punto di vista di ciò che viene espressamente detto dall’art 12 questo non dice neanche quello che deve dire espressamente, e cosa dovrebbe dire espressamente se torniamo al tema dei canoni interpretativi che sono i presupposti del procedimento per analogia?

L’art 12 ci dovrebbe portare per mano e dire che per applicare il procedimento per analogia ci sono almeno due tipi di interpretazione fondamentale, così come ci ha detto che c’è l’intenzione del legislatore di dovrebbe dire una parola, che per noi è una parola doverosa per comprendere l’ontologia della norma cioè l’essere di una norma, che stranamente l’art 12 non menziona finendo per essere un articolo che dal punto di vista ontologico è deludente; questa parola importante impegnativa è la parola che usa Rudolf von Jhering “der zweck” nella sua opera “der zweck im recht” , ma perché l’art 12 dice che c’è un significato proprio delle parole e non ci dice anche che c’è uno scopo delle norme? È bello dire c’è un fine delle norme, la cosa più interessante è scoprire il fine delle cose, si distinguono  le cose utili dalle cose inutili perché in alcune scopri un fine in altre nessun fine. Dinanzi a questo concetto, a questa parola l’art. 12 parla di analogia, ma che vuol dire? Dobbiamo partire da una interpretazione fondamentale, perché il procedimento per analogia non può partire da  una interpretazione letterale delle norme perché se io interpretassi lo norma “è vietato l’ingresso ai cani” in modo letterale non potrei arrivare ai risultati cui siamo arrivati, poi si pone il problema quale interpretazione fondamentale? Quella teleologica o quella concettuale? Quando l’interpretazione è teleologica e quando è concettuale? Questi sono problemi tecnici che non vengono e non possono essere risolti se non attraverso una riflessione retorica, se non attraverso una teoria dell’argomentazione giuridica, all’interno di questa discussione poi compare anche il tema complesso della decisione giuridica,una volta che si è detto va bene: interpretazione fondamentale teleologica, lo scopo ma cosa significa lo scopo delle norme? Ad esempio scopo delle norme sono le intenzioni del legislatore, in molti casi lo scopo sono gli effetti reali che produce una norma indipendentemente dalle intenzioni del legislatore, sicché scopo significa tener conto degli effetti reali che produce la norma; lo scopo potrebbe anche essere lo scopo ideale che produce una norma, non ciò che la norma di fatto produce, ma ciò che dovrebbe produrre. Sono tre nozioni di scopo e quando entri in una di queste nozioni si allargano sempre di più gli orizzonti. Il giurista che vuole applicare la norma secondo lo scopo e per scopo intende le intenzioni del legislatore cosa sceglie dei vari mondi che appartengono alla intenzione del legislatore? Quali assume per essere decisivi nella propria decisione? E se parla degli effetti reali quali delle conseguenze reali che una norma ha? E se parlo degli scopi ideali il diritto penale societario siete convinti che abbia sempre avuto lo stesso scopo ideale? Un tempo il diritto societario penale aveva probabilmente lo scopo di tutelare la proprietà della società ma in questo momento storico lo scopo ideale è piuttosto la tutela dei mercati, magari il diritto societario penale riuscisse a salvaguardare i mercati, magari il diritto penale societario riuscisse ad accrescere la dimensione pubblicistica di quel diritto e non privatistica di quel diritto. E allora quali scopi? Vedete il problema torna e si allargano gli orizzonti; la sensazione è che sei arrivato all’orizzonte e questo, invece, a mano a mano si allontana.

Pensavamo di aver risolto i problemi, eravamo arrivati all’interpretazione fondamentale teleologica perché così posso operare con il procedimento per analogia, perché il procedimento per analogia  non presuppone l’interpretazione secondo l’intenzione del legislatore, ma si può attuare tenendo conto dello scopo della norma; quando io dico che lo scopo della norma in questo caso è vietare l’ingresso a tutti gli animali che possono arrecare disturbo, non sto pensando alle intenzioni del legislatore ma è l’operazione logica che faccio comunque per poter essere coerente nell’applicazione di quel  procedimento, procedere per analogia suppone la possibilità di operare attraverso letture diverse dello scopo, quindi non è facile. Se decidi di operare attraverso l’interpretazione fondamentale della norma quindi 1° problema: teleologica o concettuale? Scegliamo quella teleologica 2° problema: che cosa è lo scopo? L’intenzione legislatore? Gli effetti reali delle norme? Gli scopi ideali? C’era nell’ordinamento inglese una norma che riguardava il diritto di famiglia e che prevedevano un fondo patrimoniale che non poteva essere toccato perché voleva tutelare la parte più debole del rapporto coniugale, cioè la donna, la quale nel caso di bisogno avrebbe dovuto utilizzare questo fondo patrimoniale; in questo caso l’effetto reale di quel fondo era quello di creare beneficio al bene complessivo della famiglia, ma nell’andare del tempo la donna ha acquistato un ruolo sociale diverso e ha assunto anche una sua autonomia economica, quel effetto reale si è dovuto rivedere e si sono dovute fare sempre più eccezioni nell’interpretazioni di quelle norme, che dipendono dal fatto che la donna aveva avuto un suo progresso, sicché quelle norme si sono dovute interpretare diversamente (ci sono tante sentenze della giurisprudenza inglese su queste norme), la giurisprudenza è andata sempre più affermando che quelle norme dovevano tener conto di tante nuove esigenze della famiglia sicché in molti casi,per lo scopo proprio di quelle norme, si poteva e si doveva anche intaccare questo fondo patrimoniale, c’era la facoltà di toccare quel fondo patrimoniale, perché non aveva più quella funzione reale che aveva una volta sicché si procurava più danno se non lo si toccava,  che non se lo si toccava. Si entra nel merito e si scopre che la giurisprudenza da risposte diverse dinanzi a norme che si fondano sugli effetti reali, perché mutano gli effetti reali; in un certo momento gli effetti reali sono questi- e sono di beneficio alla coppia- ma in altri momenti cambiando gli assetti sociali ed economici di partenza gli effetti reali diventano se non interpretati bene diventano di danno.

Anche lo scopo pone problemi. Altro aspetto che l’art. 12 non mette in risalto, parla di materie analoghe e casi simili ma se c’è una analogia tra i casi, se c’è una similitudine tra i due casi c’è anche per definizione- e qui un’altra questione logica- una differenza; se tengo conto dell’analogia dei casi sto applicando il procedimento per analogia, se tengo conto delle differenze sto applicando un altro procedimento che chiamiamo procedimento a contrario. Se applico il primo, si fa strada anche l’altro; se applicassi il primo senza che si facesse logicamente strada anche l’altro anche in questi casi andrei incontro a dei paradossi. Ci sono delle situazioni dove la necessità è quella non di riconoscere l’analogia, ma le differenze tra caso previsto e caso non previsto, sempre per rendere l’ordinamento diritto vivente e non diritto sopravvivente.

Tornando all’esempio di Rudolf von Jhering, utilizziamo il suo ragionamento- però lui non fa questo esempio- per spiegare cosa succede con l’argomento a contrario, vediamo come è logicamente collegato al procedimento per analogia, per vedere come le differenze tra caso previsto e caso non previsto possono richiedere la necessità non di includere il caso non previsto nel caso previsto, ma di escludere il caso previsto da quello non previsto. Se nella sala d’attesa della stazione si dovesse avvicinare il poliziotto con il cane poliziotto per svolgere la funzione che tutti conosciamo,verificare se qualcuno ha sostanze stupefacenti, cosa facciamo? Lo facciamo entrare? O un non vedente che si accompagni con un cane? Facciamo entrare il non vedente senza il cane o lasciamo entrare anche il cane? Si pongono gli stessi problemi per i quali la nostra intuizione giuridica fondamentale anticipava il procedimento per analogia; qui la nostra intuizione giuridica fondamentale- paradossalmente- anticipa una soluzione che ci dice che cosa conti per il procedimento che noi chiamiamo argomento al contrario, la nostra intuizione è che il cane del non vedente dovrebbe entrare, non posso pensare che il non vedente entri senza il suo cane, così troverei strano che un cane poliziotto non possa entrare ( sempre che non abbia sniffato troppo, lì si pone un altro problema!). Siamo sempre in bilico, si ha il problema di un confronto tra questi canoni , se ci sono le somiglianze ci sono le differenze altrimenti ci sarebbe l’identità dell’indiscernibile,come insegna Leibniz, ci sarebbe l’identico.

Se accenno alle somiglianze, accenno anche alle differenze, sicché il problema adesso quale sarà? Intanto vediamo cosa dice l’argomento al contrario, ma non illudetevi, questa esplicazione  ci presenta un altro problema, non solo quello di parlare di un procedimento che non è espressamente previsto dall’art 12, ma che è implicito almeno nella funzione che l’art 12 attribuisce al procedimento per analogia, ma si pone anche il problema del rapporto dialettico- anche- tra procedimento per analogia e argomento a contrario. Quando far valere le somiglianze piuttosto che le differenze? Noi abbiamo esaminato un caso chiaro dove sembrano prevalere le somiglianze rispetto alle differenze: l’orso ha degli elementi di somiglianza con il cane e delle differenze- un orso non è un cane- eppure siamo tutti propensi a ritenere che sono essenziali per lo scopo della norma  le somiglianze rispetto alle  differenze, non tengo conto delle differenze ma tengo conto soprattutto delle somiglianze. Nel caso del cane diventa paradossale, nonostante siano troppe le somiglianze tra il cane del non vedente e il cane, anzi si sta quasi toccando l’identità eppure quella differenza particolarissima diventa rilevante, tanto da escludere dalla previsione della norma quel caso che comunque riguarda un cane; in questo caso affermo l’essenzialità delle differenze a fronte di tante somiglianze, ma cosa mi porta ad affermare l’essenzialità delle differenze o delle somiglianze? Qual è il criterio? In questi casi sembrerebbe che pur avvertendo che logicamente non c’è una soluzione univoca,  logicamente non ci sono elementi univoci per dire che devono prevalere le somiglianze piuttosto che le differenze, il ragionamento da fare è interpretare la norma secondo lo scopo e sulla base di questo scopo riconoscere le somiglianze, lo scopo è evitare l’ingresso di animali che possono essere di danno a chi sosta nella sala d’attesa, alla luce di tale scopo riconosco l’essenzialità della somiglianza tra orso e cane, riconoscere tale essenzialità significa intanto presupporre che ci sono delle differenze tra cane ed orso e nulla impedisce che qualcuno tiri fuori un elemento che poi diventi rilevante da poter privilegiare le differenze piuttosto che le somiglianze, immaginate che l’orso si presenti ben impacchettato in una scatola ermeticamente chiusa e insonorizzata, non darebbe più fastidio, prevarrebbero- probabilmente- gli elementi di differenza piuttosto che quelli di somiglianza. Giocando in questo modo c’è sempre un punto in cui non riusciamo più a capirci niente, e scopriamo che non abbiamo alla base una condizione logico-tecnica univoca, ci si potrebbe anche trovare a discutere tanti casi, ad esempio il cane del non vedente potrebbe cominciare a dare i numeri, ma come si fa a riconoscere che sta dando i numeri si che l’elemento della differenza diventa decisivo per escludere dalla norma ? bisogna quantificare cosa significa dare i numeri? Anche il cane poliziotto fino a che a punto ha sniffato abbastanza per dire che qui prevalgono le differenze sì da rendere quel caso un caso di esclusione dal caso della norma? Cominciamo a capire che non c’è una regola tecnica per distinguere il procedimento per analogia dal procedimento per argomento al contrario sulle condizioni per l’applicabilità. (es. il tubercolotico ha degli animaletti cosa facciamo?)

Il problema che voglio mettere in evidenza è questo: c’è il procedimento per analogia, lo dice l’art 12, presupposto di questo procedimento sono canoni interpretativi che non sono espressamente previsti  dall’art 12 e quindi li dobbiamo ricostruire; la ricostruzione di questi canoni interpretativi non ci fa stare tanto tranquilli perché si apre ad una discussione, alla teoria dell’argomentazione giuridica, ma non c’è solo il procedimento per analogia, ma anche l’argomento al contrario con l’aggravante che il procedimento per analogia è espressamente previsto l’argomento a contrario no, occorre ricostruirlo al contrario, quindi procedimento per analogia quando non prevalgono le differenze, ma questo è già argomento al contrario; cioè l’argomento al contrario si fa strada attraverso una sua non esistenza nell’art 12.

Il procedimento dell’argomento al contrario segue più o meno lo stesso schema: N1 è vietato l’ingresso ai cani e dunque a tutti gli animali che possono arrecare disturbo come il cane, fatta eccezione- ecco come si introduce logicamente l’argomento al contrario sempre dallo scopo della norma- di tutti quelli che non arrecano danno se si afferma l’essenzialità delle somiglianze bisogna escludere l’essenzialità delle differenze, sarebbe paradossale che si affermi l’essenzialità delle somiglianze senza escludere l’essenzialità delle differenze, si perderebbe di vista lo scopo della norma. Se si dicesse: “tutti gli animali indifferentemente non possono entrare”, non era questo lo scopo della norma lo scopo era vietare l’ingresso ai cani e a tutti gli animali che come i cani possono arrecare fastidio fatta eccezione, qui si introduce la categoria delle eccezioni che è molto interessante, non sottovalutate l’eccezione in un mondo di norme che si presentano con la generalità è molto presente l’eccezione, anzi diventa un fenomeno giuridico emergente, basti pensare alla dimensione equitativa del diritto che fa leva proprio sul tema delle eccezioni.
Questo è l’orizzonte problematico relativamente all’art 12 quando ci poniamo il problema della semantica dell’art 12.

L’art 12 è rientrato nel nostro discorso perché apparteneva alla metodologia utilizzata dall’ordinamento giuridico per risolvere i problemi dell’interpretazione giuridici.
Noi abbiamo una norma rispetto al soggetto che la interpreta. Io ho dinanzi a me la norma Ni  che è la norma sulla interpretazione, ma non ho Ni  così pura è semplice ho il mio enunciato interpretativo di Ni , Ni doveva servirmi per calibrare i miei enunciati interpretativi di tutte le altre norme, ma sottovaluto che mi sto avvicinando ad Ni  con un mio enunciato interpretativo di Ni  , cosa sta prima di questo mio enunciato interpretativo ? c’è un problema logico-tecnico rispetto ad Ni , io mi apro ad Ni  con un mio enunciato interpretativo qui non c’è più Ni prima della mia interpretazione, paradossalmente compare dopo la mia interpretazione; per le altre norme potevo dire primo ho letto Ni e alla luce di questa cerco di interpretare le altre norme, ma quando mi avvicino ad Ni utilizzo il mio enunciato interpretativo di Ni che chiamiamo Ei – enunciato interpretativo di Ni-  ma prima di Ei cosa c’è? Ci sono due ipotesi: o ci dovrebbe essere una super norma interpretativa- che chiamiamo Ni1- che dovrei seguire per interpretare Ni sicché so come interpretare Ni ma mi pongo lo stesso problema come interpreto Ni1 ci dovrebbe essere Ni2 , si avrebbe un regressum ad infinitum , sarebbe anche inefficace per definizione perché significa non avere mai una norma di partenza; qual è l’altra possibilità? L’altra possibilità è un paradosso, è che Ni   dovrebbe stare prima di Ei  e dopo Ei  questo è paradossale, è una contraddizione. Scopro che non potrò interpretare la norma sulla interpretazione sulla base di regole, perché queste regole o stanno prima ma sono un numero di regole infinite, oppure la regola che dovrei seguire è la regola interpretata  da me, cioè la regola che dovrei seguire sta prima e nello stesso tempo dopo il mio enunciato interpretativo; il mio enunciato interpretativo dovrebbe avere come regola proprio quella che sto interpretando, ma dire che la sto interpretando vuol dire che sta dopo non prima del mio enunciato interpretativo.

L’art. 12 pone tanti problemi, non risolve le nostre domande sull’interpretazione giuridica, e non le risolve nel modo che ci aspettiamo. La constatazione che facciamo dopo questa indagine sembra che sia questa: non è facile dire che ci sono casi espressamente previsti dalla legge, l’affermazione che ci sono dei casi espressamente previsti, delle norme chiare, è una affermazione molto problematica. A questo punto si pone anche la questione: se non ci sono casi espressamente previsti, c’è il problema della chiarezza dei testi, della plurivocità l’ordinamento deve affrontare due tipi di lacune- per tornare al tema delle lacune e vedere che fine fa il nostro principio di tassatività-  la prima lacuna,

1) la chiamo PRAETER LEGEM : sono le lacune più scontate, sono quelle dettate dalla chiara non previsione di un caso da parte dell’ordinamento giuridico, praeter legem vuol dire che ci sono spazi vuoti e sono vuoti perché non c’è una legge che prevede quel caso- e sono tanti- a volte sono anche clamorose quelle lacune perché non sono solo quelle dettate dall’incognita del divenire( es. non è previsto il caso dell’orso) anche per problemi  intertestuali e contestuale al problema semantico delle norme che sono dettate dalla minorità del legislatore, il legislatore non conosce bene il fenomeno e quindi va a disciplinare una norma che non conosce abbastanza, questa lacuna non è quella più clamorosa ce ne sono di più clamorose, ad esempio il legislatore produce una norma, anticipa che ci saranno disposizioni connesse con questa norma ma non le detta, il legislatore annuncia che ci sarà una norma, sono comunque casi non previsti ma il legislatore sapeva che doveva produrre una norma, sa che quel caso non è previsto però poi non provvede a produrre quelle disposizioni che aveva anticipato e che era connessa a quella che aveva prodotto, è una lacuna praeter legem dettata dalla omissività del legislatore, sicché è ancora più evidente perché è il legislatore che dice qui ci deve stare una disposizione ma non c’è. Questo tipo di lacune sono quelle che suppone l’art 1 del c.p. perché cosa suppone? Prevede- in modo molto semplicistico- che ci sono casi espressamente previsti e casi non espressamente previsti, è chiaro distinguere l’uno dall’altro; se sono previsti espressamente valgono tutte le funzioni deontiche di quel caso se c’è un divieto, un obbligo, una facoltà e così via; se sono espressamente non previsti per noi sarebbero delle lacune ma l’ordinamento penale afferma il principio- che noi abbiamo chiamato principio generale di libertà- per cui se il caso è espressamente non previsto vale per esso il permesso, nullum crimen sine legem.

2) Cosa non traduce l’art 1 c.p.? Il problema è che in molti casi noi non sappiamo se il caso è previsto o non previsto, ci troviamo di fronte ad un fenomeno lacunoso che è dettato dalla non chiarezza dei testi, perché anche una norma chiara come quella del cane ad un certo punto non abbiamo capito più niente, perché è risultata una norma ERMETICA, PLURIVOCA. Come le chiamo queste lacune? Rispetto alle quali l’art 1 c.p. fatica a rimanere in vita? Sono le lacune INTRAM LEGEM , cioè quelle dettate dalla non chiarezza dei testi, sono lacune che stanno dentro la legge, come le risolve l’art.1 c.p. ? il principio di tassatività è capace di dirmi se un caso è espressamente previsto o non espressamente previsto, ma cosa dice quando non sappiamo che cosa è previsto? Per alcuni è previsto e per altri non è previsto? C’è pericolo in questi casi che si introducano procedimenti che sono paragonati al procedimento per analogia almeno alla interpretazione estensiva, perché la norma prevede certi casi ambigui e la norma finisce -attraverso la lettura che ne fa il giurista- per estendere il significato, previsto per certi casi, a casi che non diresti sono espressamente previsti, tutto ciò per l’ambiguità della norma.
Faremo esempi e vedremo che nella giurisprudenza penalistica a iosa subentrano operazioni che definiremmo simili al procedimenti per analogia, perché si parte da norme che non espressamente previsti, che hanno una loro ambiguità; sicché se prevedono qualcosa è facile che il giudice finisca per estendere il significato di questo anche ad altro perché appunto vi è una lacunosità della norma. Avrete modo di approfondire questi discorsi sul Perlman. Noi ci vediamo tra una settimana.

 

Teoria dell'argomentazione giuridica

10°Lezione 11.04.2008

La scorsa volta abbiamo introdotto il discorso sulle Lacune del diritto. Ci sono almeno 2 tipi di lacune nell’ordinamento giuridico ( l’espressione lacune viene ormai utilizzata in senso tecnico):

  • Praeter legem = Le  lacune praeter legem sono le  lacune che sono dettate dalla espressa mancanza di una disposizione; questa espressa mancanza di una disposizione molte volte è avvertita di più ossia quando una disposizione annuncia che ci deve essere una disposizione connessa e poi questa disposizione (connessa) non c'è.

In questo caso capite che la condizione di lacunosità dell'ordinamento giuridico è ancora più clamorosa; è un caso ancora più conclamato di una mancanza di disposizione.
In questo caso credo che quel concetto di lacuna praeter legem meglio si esprime.
In genere le lacune praeter legem sono le lacune che corrispondono alla mancanza espressa di una disposizione per un caso particolare; nel caso della mancanza di disposizioni che sono collegate ad altre disposizioni, nel caso in cui queste ultime non ci siano o il legislatore non abbia provveduto ad una disposizione che era prevista come connessa a una disposizione adottata, la lacuna praeter legem si evidenzia in modo ancora più chiaro.

  • Intra legem = Le lacune non sono solo praeter legem, ma mi sembra di dover rilevare, dopo tutto quello che abbiamo detto circa la possibilità che ci siano testi chiari, che le lacune possono essere anche per così dire intra legem: alludo a quelle situazioni in cui in realtà i testi normativi ( parliamo soprattutto del linguaggio normativo) non sono così chiari come ci aspetteremmo.

Dunque cosa succede? Perchè questa situazione corrisponde ad una situazione di lacunosità del diritto?
Perchè in realtà in questo caso sembrerebbe che ci sia una norma per i casi che poi costituiscono il contenuto e l'oggetto della controversia nel processo, ma se si va a vedere in realtà sembra che i casi che sembrano essere previsti ( se si va a discutere i vari significati delle norme) non lo  sono realmente, dipende dall'interpretazione che dà il giurista; sicché il giurista  parte da una disposizione che sembrerebbe prevedere dei casi, adotta una serie di interpretazioni ( i casi in realtà non sono espressamente previsti, ma adotta una serie di interpretazioni).
In conclusione per alcuni il caso è previsto, per altri non è previsto , altri ancora ritengono invece che ci sia un nesso tra un certo caso e un altro, sicché i fatti sarebbero previsti e via dicendo.

Il Perlman aggiunge le lacune contra legem. Anche questa situazione la chiamerei di lacunosità dell'ordinamento giuridico ed è quella che normalmente si sottovaluta (in modo fatale tra l'altro anche per l’esperienza giuridica); perchè si fa presto a dire “principio di tassatività del reato”, si fa presto a dire che ci sono dei casi espressamente previsti, ma quando si vanno a vedere bene le cose (come oramai ci siamo abituati a fare perchè siamo diventati fenomenologici - ricordate l'emozione che io provo se un giorno dovessi sentire un bimbo di 3 anni che mi dice "papà voglio essere un fenomenologo"- mi procurerebbe una particolare emozione, vorrei davvero che tutti fossimo dei fenomenologi), cioè se andassimo, come dice Hussel,  a vedere come stanno le cose, così in modo anche disarmato, senza tante strutture, avvicinandoci anche alle cose: "andare verso le cose stesse" (come dice Hussel, questo è il compito della fenomenologia) evitando anche , questa è una cosa provocatoria, quella mediazione del linguaggio delle scienze fisiche che ci hanno consentito di fare tanti passi in avanti  ma che hanno operato, come dice Hussel nella "Crisi delle scienze europee", un riduzionismo della nostra conoscenza del reale; perchè alla fine ci siamo occupati solo degli aspetti quantificabili della realtà con il linguaggio quello matematizzato di una matesis universale…Cosa abbiamo fatto? Abbiamo astratto dal reale gli aspetti quantificabili, quelli che si possono misurare che sono traducibili con il linguaggio matematico. In realtà però ci sono aspetti che non si possono quantificare, il diritto è pieno  di elementi non quantificabili.

Andate a quantificare la buona fede, il buon padre di famiglia,l’interesse del minore o  l'interesse morale o materiale dei figli, cosa c'entra qui il linguaggio? Questo è un po' se volete anche la crisi delle scienze europee (uso questa espressione di linguaggio per riflessioni dettate dal fenomenologo Hussel - uno che già a 3 anni ci ha parlato da fenomenologo, che ha inventato la fenomenologia).

critica di Hussel contro le scienze europee:
dice Hussel: nel momento stesso in cui le scienze europee sembravano aver  toccato un momento decisivo del progresso del sapere e cioè quello di essere riuscite ad inventarsi questo metodo ; io devo cercare, come dice anche FONKARNAP, di tradurre la realtà in un linguaggio che sia univoco, l'unico linguaggio che conosco univoco è quello della matematica, non ne conosco altri; con il linguaggio della matematica è difficile che si stia a svolgere problemi di interpretazione di ermeneutica come quelli che stiamo facendo. Bene, se riuscissi a tradurre il reale nel linguaggio della matematica ho risolto molti problemi, perchè così posso costruire un sapere controllabile, ogni mia proposizione deve essere una proposizione matematica ed è così che si và avanti.
Ma questo momento, decisivo per segnare un inizio di un progresso che sembra inarrestabile del sapere, lascia alle spalle anche un fattore di crisi di quello stesso sapere. Qual è questo fattore di crisi?

La scoperta, come avverte Hussel che così si opera una riduzionismo della realtà perchè c'è un mondo di cose che non è traducibile in numeri, è un mondo di cose che non può essere oggetto della fisica, se mai della metafisica; di qui l'esigenza di andare verso le cose stesse anche abbandonando provocatoriamente l'aiuto che ci può dare il  linguaggio della matematica”.

Andare verso le cose stesse significa proprio avvicinarsi alle cose; c'è motivo per poter  sperare che in questo modo si conosca la realtà; attraverso un'attenta fenomenologia, io distinguerei da questo punto di vista un sapere che la fenomenologia dalle nostre conoscenze anche ingenue della realtà. Ecco questo sapere di cui parlo è un sapere che si costruisce da una esperienza non del singolo soggetto ma della coscienza o se volete ( per usare la categoria di HEGEL) dello spirito o della ragione universale.

L' abbiamo sperimentato ad es. in estetica; ricorderete: sappiamo distinguere quando sono proposizioni che sono oggetto di una fenomenologia estetica da quelle che  sono proposizioni che invece sono legate ad un gusto meramente personale, sicché diciamo "de gustibus non disputandum". Ci siamo misurati con tante esperienze, ricorderete, distinguendo alcune da altre più ingenue (un conto è il mio giudizio sul Giudizio Universale di Michelangelo, un altro è sul flun di asparagi che ho mangiato). La fenomenologia non è una coscienza ingenua delle cose.

Vi sto dicendo tutte queste cose per dirvi che nel diritto e nel linguaggio normativo, non vi illudete, c'è tutto il senso di questa riflessione di Hussel circa la crisi delle scienze europee, c'è l'avvertenza di Hussel che non si può tradurre tutto nella matematica.

Oggi parliamo della scienza giuridica che non è traducibile con il linguaggio della matematica perchè la scienza giuridica deve parlare dell'esistente, dell'esistenza, del soggetto, non può parlare degli aspetti meramente quantificabili della realtà, deve parlare della buona fede, della diligenza del genitore (provate a quantificare questi aspetti).

Credo che sia illusorio ritenere che ci siano (qui ripeto a memoria l'art. 1 c.p.” Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge ) “dei fatti espressamente previsti”.

Per fortuna leggevo tempo fa la bozza, la Convenzione della Costituzione europea, che è stata sottoscritta a Roma nel 2004, dove per fortuna, (credo nella parte seconda, ora cerco di ricordare l'articolo corrispondente a questo principio di legalità così forte e presente in tutti gli ordinamenti giuridici dell'occidente, corrispondente all'art. 1, dovrebbe essere l'art. 109 di quella Convenzione nella parte II del titolo VI dedicato alla Giustizia), non compare l’espressione “espressamente”. Il testo francese non dice " un fatto che sia espressamente previsto", non c'è" espressamente", quell' "espressamente" era toppo impegnativo e credo che non sia un caso che anche chi ha pensato a quel testo, (sto parlando di quello che probabilmente sarà il testo della Costituzione Europea) non abbia inserito il termine "espressamente". Riflettendo su queste cose quando vedo questo testo sono felice perchè finalmente qualcuno che pensa, che ha assimilato un frammento della storia millenaria del pensiero filosofico (un frammento: non è che dobbiamo vivere con tutta questa consapevolezza del pensiero critico che è maturato nel corso di millenni, ma almeno un frammento portalo con te!). Quale può essere questo frammento? il nostro rapporto ermeneutico con le cose, che si fonda nella storia del pensiero filosofico da Platone in poi, concepire in tanti modi e in tanti nomi, almeno un frammento di questa grande lezione del pensiero filosofico. Cos'è questo frammento? l'abbiamo detto in tanti modi, in tante salse, mi sono trovato a dirlo con Kant dicendo "ma noi non conosciamo le cose in sè ma per sè", cioè a partire da un soggetto, a partire da un rapporto prospettico sulle cose.

Dove sta questa cosa totalmente chiara?! 

principio di tassatività del reato
Oggi facciamo un'altra battuta sul principio di tassatività del reato e riteniamolo l'inizio della nostra lezione di oggi.

  • Se c'è un fatto, se io mi trovo davanti a un caso espressamente previsto (seguitemi, il ragionamento è molto semplice, è uno scherzo, però attraverso la facezia si comunicano cose molto serie), se il giudice ha un caso espressamente previsto, allora che si fa a fare il processo? è evidente che l'attore avrebbe ragione;
  • se è espressamente non previsto che si fa a fare il processo? il convenuto avrebbe ragione perchè per il principio di tassatività la sua condotta è permessa.
  • C'è la terza possibilità: cioè non sappiamo se è espressamente previsto o non previsto. Ma se non sappiamo vuol dire che non è espressamente previsto e se non è espressamente previsto il convenuto avrebbe sempre ragione.

 

Capite, è abbastanza ridicola questa storia; se si riflette con un certo rigore uno comincia ad insospettirsi: ma questo è un bluff, che cos'è questa cosa che ci portiamo dietro come giuristi? E' un bluff perchè quando poi si va in processo per un caso che non è espressamente previsto e il punto è che non è che si applica il principio di tassatività del reato,  con rigore: non è espressamente previsto o è espressamente non previsto, bene, ha ragione il convenuto, punto. Questo implica con rigore l'applicazione di quel principio così importante alla base della costituzione dell'ordinamento penale.

Che cosa probabilmente succede?
Succede questo che oggi cercherò di  verificare anche con qualche esempio, anche attraverso la giurisprudenza. Succede che in realtà le norme che il giudice ha davanti a sè non prevedono espressamente un bel niente; c'è un'attività ermeneutica in cui non c'è un solo caso espressamente previsto ma è previsto un insieme di casi (x1, x2,x3.......xn) (visto che c'è stata un'attività interpretativa- ermeneutica della norma, il fatto apparentemente espressamente previsto sono i tanti casi della vita che vengono messi insieme, vengono collegati tra loro) e succede che già in partenza se si suppone questo, (un'attività ermeneutica della norma da parte del giurista,) si sta adottando un principio o procedimento come quello dell'analogia, già in partenza si sta operando in questo modo: Già in partenza si sta dicendo che questa norma prevede una serie di casi x1, x2.... e non uno perchè tali casi sono tra loro simili; alla fine l'elemento della similitudine che è l'elemento che caratterizza ed è fondativo, come abbiamo visto per il procedimento per analogia, diventa addirittura l'anima dell'applicazione delle norme anche in diritto penale.

Oggi chiariamo una volta per tutte questa storia; cercherò di avvicinarmi con molta prudenza a questo ambito di esempi ma spero che gli esempi siano molto chiari, cercherò di sostenermi con dei giuristi seri, colleghi,ovviamente mi riservo anche delle considerazioni.

gaetano contento
Comincio con una osservazione:
Qui si rileva un fatto rilevato da un giurista che ho più stimato nella mia vita e che ho conosciuto; un panalista che mi ha visto crescere nel momento in cui sono approdato nell’università di Bari.

Non potevo non tener conto di quello che dice Gaetano Contento su questa questione che riguarda il diritto penale; è stato un maestro della scuola penalistica barese, allievo di Aldo Moro (tra l’altro quest’anno è l’anniversario della tragica morte del sequestro e dell’assassinio e a Bari in questi giorni stanno organizzando freneticamente una giornata di studio e quello che può fare l’università nel ricordare Aldo Moro è non invitare i politici perché l’università  è un’istituzione culturale che non centra con la politica; per definizione la cultura è apolitica non è partito preso al contrario dei politici che devono esserlo; per cui ho cercato di dire ai miei colleghi ”i politici fuori, è una giornata di studio e pensiero di Aldo Moro, egli era un filosofo del diritto , un panalista …bene parliamo del suo pensiero di giurista e filosofo del diritto!).

Siamo tutti legati a questa figura, Gaetano Contento morto qualche tempo fà, e molti di noi lo hanno visto, compreso io, come una figura paterna in certi momenti quando sono approdato all’istituto di diritto penale della facoltà di Bari e tra l’altro lui era allora il direttore del dipartimento dove adesso ho questa responsabilità.

Egli si pone, come tutti i giuristi e penalisti seri che hanno idee che riguardano le teorie generali e il problema dell’ermeneutica, anche il problema di che fine fa il principio di Tassatività ; Gaetano Contento è convinto che si creano una serie di artifizi che poi di fatto nel processo vanno ad aggirare il principio di tassatività visto che questo non può essere effettivo come magari tutti ci aspetteremmo. Gli esempi possono essere tanti e uno di questi che mi colpisce tanto, e che tra l’altro è anche un esempio un pochino problematico perché ha dei risvolti anche interessanti per la cronaca giudiziaria, parla di come viene applicata dalla giurisprudenza l’art. 734 c.p. relativamente ai danni all’ambiente.

 

Art. 734 - Distruzione o deturpamento di bellezze naturali

Chiunque, mediante ostruzioni, demolizioni, o in qualsiasi altro modo, distrugge o altera le bellezze naturali dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell'Autorità, è punito con l'ammenda da 1032 a 6197 euro.

 

Qui ci aspetteremo delle condizioni di applicabilità di quella norma che sono condizioni che risalgono al grado di tassatività di quella norma. Dice bene quali possono essere i danni che vengono arrecati attraverso la costruzione, la demolizione di edifici in certe aree. A questi possiamo aggiungere che la norma più avanti comincia a perdere il suo grado di tassatività perché si apre anche in modo generico “ad altri modi” per esempio svilimenti di piante, creazione di cave (che non sono di per sé costruzione e demolizione di edifici), trasformazioni agricole ecc. Citando questi casi uno direbbe: <<questo si traduce in una genericità che comunque c’è in quella  norma perché aggiunge a dei casi espressi anche altri casi sotto la formula “in altri modi” che sono come questi>>.

Questo è imbarazzante perché se la norma si presenta così già essa invita alla non tassatività attraverso l’inciso “agli altri modi”. Ma dice: bene o male questi altri casi sono sì riconducibili e sembra esserci un nesso quasi di identità con i casi che sono espressi riguardo alla costruzione e demolizione ma quando ad esempio il giudice condanna il politico o il governante di turno che con un comportamento omissivo del Governo ha determinato una serie di conseguenze di danno per l’ambiente (lasciamo perdere il nostro giudizio politico sul governo o sull’amministrazione) il problema è ora la tassatività del reato e le condizioni di applicabilità di certe norme. Siamo convinti che si sta rispettando il principio di tassatività del reato?cioè che le omissioni da parte degli amministratori in materia di tutela dell’ambiente possano essere ritenuti quei casi che in quanto espressi riguardano costruzione o demolizione?

Sono atti diversi se mai c’è un analogon che è da ricondurre allo scopo della norma cioè è da ricondurre al modo  con cui si applica una norma quando si eseguono i procedimenti per analogia o argomento a contrario; un’interpretazione secondo lo scopo della norma si da avere un terzium comparationis che è lo scopo di quella norma e sotto la verifica di quello scopo magari rendere analoghi fatti che di per sé sono diversi come erano fatti diversi l’ingresso del cane o l’ingresso dell’orso rispetto al caso espressamente previsto dalla norma ( esempi fatti nelle lezioni precedenti). Questa è l’osservazione di Gaetano Contento.

Egli dice che è molto probabile che qui si sta facendo un’interpretazione estensiva della norma; io aggiungo  che quando c’è un’interpretazione estensiva della norma temo che siamo già nel confine nello spazio tecnico dei procedimenti della logica giuridica e in particolare di quel procedimento che si chiamo procedimento per analogia o per argomento a contrario, ci siamo già finiti dentro. Questo fatto viene messo in evidenza anche dalla Cassazione quando se ne accorge. Cioè il fatto che la Cassazione, come  adesso vedremo su alcune sentenze, avverte, qui uso un’espressione della Cassazione, che quella sentenza ha proposto una ermeneutica (interpretativa) impossibile della norma (adesso vi parlerò di una sentenza della cassazione del Marzo dell’82 che potrete andarlo a trovare) e allude al fatto che la norma la si sta tirando fuori dai limiti che sono stati imposti dal divieto dell’analogia; è la stessa Cassazione che ci avverte che nella vita reale nel diritto vivente le cose vanno in maniera un pochino diversa da quella che noi ci aspetteremmo.

Il punto qual è? Il punto è che se la Cassazione se ne accorta una volta ( io temo che non se ne sia accorta altre volte) e ha messo in evidenza che quella sentenza va rigettata perché fa un’interpretazione ermeneutica impossibile di una certa norma temo che non se ne sia accorta tante altre volte e in tante altre sentenze. Non è che vedo la Cassazione come una sorta di luogo di sapere per antonomasia  al quale non gli sfugge niente.

Qual è la sentenza? la Corte della Cassazione interviene su una sentenza che ha voluto che fossero ritenuti rientranti nel caso previsto dalla norma dell’abuso edilizio, che si identifica nelle costruzioni, dove manca la licenza:  ha voluto assimilare a questi casi anche quei casi in cui c’era una licenza anche se poi si è scoperto che è stata data in modo illecito.

Quindi ci sono 2 casi:
1. quello previsto                  una costruzione senza licenza
2. quello non previsto                costruzione con licenza anche se ottenuta in modo illecito.
La cassazione dice: “questa lettura e interpretazione della norma è impossibile perché si richiama evidentemente al principio della tassatività del reato.
Se vi leggete questa sentenza della Cassazione del marzo dell’82 mette in evidenza proprio questo.

Il mio sospetto qual è anche in questo caso? Il mio sospetto è che se la cassazione se ne accorta una volta non se accorta altre infinite volte; non solo ma accorgendosi la Cassazione una volta di questa circostanza (di questo fatto), cioè di quello che poi  accade nel diritto vivente, temo, ulteriore mia considerazione, che la Cassazione se ne sia accorta alla fine.
Di questo non è consapevole la Cassazione cioè la Cassazione dice: voi state facendo una interpretazione non nei limiti previsti della norma che state applicando (e qui ha ragione la Cassazione)  ; ma ciò di cui non si rende conto la Cassazione (se volete il tema più interessante dal mio punto di vista di quello che stiamo dicendo qui) che è molto difficile che le norme, anche le norme penali, vengano applicate sempre nei limiti; dove stanno questi limiti? questo è il punto.

Ma voglio fare anche altre considerazioni perché ad evidenziare questo fatto è molto interessante fare delle indagini che riguardano una sorta di giurisprudenza comparata su alcune vicende;  cioè chiedersi (è queste è la domanda che mi sono fatto e poi sono andato ad indagare facendo una sorta di indagine riguardo alla giurisprudenza comparata) come magistrati di paesi diversi si sono pronunciati sugli stessi casi. È molto interessante vedere come si sono pronunciati perché questo potrebbe mettere in evidenza un fatto singolare  come quello di cui adesso andremo a parlare.

Riguarda una vicenda che ve ne parlavo tempo fa quando parlavo di alcune questioni legate ancora una volta al significato proprio delle parole. Tempo fa si è posto alla fine dell’800 un problema riguardante il reato di furto relativamente all’appropriazione di un bene particolare: l’energia elettrica. I codici hanno sempre parlato di furti come una sottrazione di una cosao un bene ma inteso come una cosa e ci si chiede: ma l’energia elettrica è una cosa? E qui un problema tutto ermentuitico e  anche la questione  se anche in questo caso ci si apre all’estensione analogica della norma. Di questo caso ne parla credo anche Von Perelman in modo piuttosto approfondito. Storicamente è  noto che anche le altre corti dei paesi, prendiamo in esame Olanda e Germania, hanno trattato in modo diverso pur avendo la stessa norma riguardando il reato di furto cioè quella norma che dice che un furto si realizza quando c’è la sottrazione di un bene o di una cosa altrui.

 

  • Olanda:

Quando si parla di bene nell’ordinamento olandese l’articolo penale olandese art. 310 c.p. che parla di goed.


     Goed                Good                 Gut    =     BENE          
(in olandese)      (in inglese)       (in tedesco)

 

la lingua olandese  ha radice Sassone; nella lingua inglese goed sarebbe good; anche la lingua tedesca ha radice Sassone e il termine è gut; si intende un bene come una cosa.
Le lingue latine hanno una radice diversa parliamo appunto di bene; la parola bene viene dalla parola latina che è bonum. L’art. 310 parla dell’infrazione del codice penale olandese  goet tradotto in good in inglese e gut in tedesco inteso però sempre come “cosa” altrui.

  • Germania:

Il codice tedesco di cui parlo è quel codice risalente all’epoca prussiana e la sentenza di cui parlo è quella della suprema corte penale degli anni ’20 : la sentenza dell’alta Corte del Reich Prussiano. Si discutono se la sottrazione dell’energia elettrica corrisponde al reato di furto.La questione su che cosa fa leva? Sul fatto che l’energia elettrica sia un bene inteso come cosa.L’articolo del codice del reich  , mentre quello del codice penale olandese è l’art. 310, l’equivalente articolo nel codice penale del reich   è l’art. 242 c.p. tedesco.

La cosa veramente sorprendente è che dinnanzi a questi casi di furto di energia elettrica:

  • non ha difficoltà la Corte olandesea dire che si tratta di un furto cioè a dire che l’energia elettrica rientra ad un concetto di cosa di un bene come cosa e quindi non ha difficoltà la Corte ha riconoscere che ogni sottrazione di energia elettrica è da considerarsi un infrazione quindi un furto.
  • La giurisprudenza tedesca, invece, ha sempre ritenuto che la sottrazione dell’ energia elettrica non si potesse ritenere un furto poiché l’energia elettrica non è da ritenersi un gut (o cosa). Nel codice tedesco il  termine “cosa” viene tradotto anche “ding”(cosa). Si comprende quindi come in questo codice vi sia questa interscambiabilità tra i due termini.

 

Gut ( bene
Ding ( cosa
Sanche ( cosa)

 

 

L’alta corte tedesca ha sempre giudicato relativamente all’art. 242 c.p. del reato di furto che la sottrazione dell’energia elettrica non fosse un furto a tal punto che il legislatore  ha dovuto colmare la lacuna introducendo in quel codice del fine 800 un’alta norma l’art. 248 in cui dice che anche la sottrazione dell’energia elettrica è un furto. Questo dimostra che quando la corte olandese ha detto che la sottrazione dell’energia elettrica era un furto, i giudici tedeschi hanno affermato che in quel caso si stava applicando in modo analogico la norma che disciplina il furto. In questo caso si sta interpretando in modo estensivo la norma.

Altro esempio:
Così pure ad esempio come giudicare quello che è successo con una norma, sempre del codice prussiano del reich  , che individua come aggravante il furto che è compiuto con i mezzi di trasporto. Questa è una norma di fine ‘800 che riguarda il furto con l’aggravante dell’uso dei mezzi di trasporto. In questo caso i mezzi di trasporto considerati dalla norma sono quelli che esistevano in quel periodo: ossia i carri, le bestie da soma o le imbarcazioni (sono i casi tassativamente previsti come mezzi di trasporto).Come giudicare quella giurisprudenza che può andar bene per quel periodo tenendo presente che per il giudice fosse imprevedibile prevedere che fossero inventate le automobili.

Era impensabile che questo potesse accadere. In questo caso l’automobile non è espressamente prevista dalla norma che viene applicata; ed è un caso che assomiglia a quello del cane e dell’orso ( della lezione precedente). Si sta facendo un’estensione del significato della norma sotto un principio di comparazione che è lo scopo (lo scopo della norma). Lo scopo è legato al significato di aggravante che c’è nell’individuare il mezzo di trasporto.

 

Questi casi menzionati servono a far vedere i problemi che sono legati all’estensibilità dell’art. 1 c.p. Non si può davvero andare tanto alla ricerca e chiudersi d’innanzi a problemi così rilevanti come sono quelli della politicità del diritto. Vi sono 2 modi per affrontare e risolvere il problema della politicità del diritto o meglio vi sono 2 modi per non risolvere il problema della politicità del diritto.

  • Un primo modo per non risolvere la politicità del diritto è quello di effettuare un ordinamento che si caratterizza di una matematica universale perché il linguaggio di una norma non può essere espresso da un’analisi matematica universale.
  • Il secondo modo per non risolvere la politicità del diritto è ignorandolo ossia essere convinti che non c’è la politicità del diritto.

 

L’unico modo forse per risolvere la politicità del diritto è saperlo; sapere che c’è questo momento della decisione e renderlo questo come oggetto dell’argomentazione e della motivazione e dunque il luogo dove può prevalere una tesi piuttosto che un altro.

Conclusione: l’unico modo per risolvere il problema della politicità del diritto è saperlo non si risolve ne ignorandola ne eludendola che si possono creare norme che sono il prodotto di una analisi universale.

limiti logici dei procedimenti della logica giuridica.
Bisogna rianalizzare il procedimento per analogia e il ragionamento al contrario.
Quali sono i limiti logici di questi procedimenti che vengono chiamati “procedimenti per la logica giuridica”? Questi procedimenti sono in certi momenti decisivi per il diritto perché se non ci fossero questi procedimenti credo si verificherebbe presto una situazione di implosione dell’ordinamento giuridico, quei momenti in cui l’ordinamento sarebbe scoperto rispetto a determinati casi della vita quando il legislatore non può intervenire immediatamente. Se non ci fosse una risposta del giurista attraverso questi procedimenti il danno maggiore sarebbe quello dell’implosione dell’ordinamento giuridico.

  • Questi procedimenti da questo punto di vista sono fecondi, danno delle soluzioni che sembrano ragionevoli.

 

Esempio:

    • Quando vi ho chiesto voi che avreste fatto con uno che si presenti con un orso davanti ad una sala d’attesa con scritto vietato l’ingresso ai cani!avete risposto con un intuito giuridico fondamentale: è evidente che non deve entrare!
    • Cosa avreste fatto voi come giudice se apprendete che il furto della legna nel bosco è stata fatta con un automobile  nell’applicare quella norma che dice è un’aggravante il furto nel bosco fatto con un traino, bestia da soma o imbarcazione. È chiaro avreste detto che anche quello è un aggravante del furto; ha una sua tipicità che prevede una sanzione.
      • Questi procedimenti sono rigorosamente logici. Il problema è circa la possibilità che essi riguardano o implichino la decisione del giurista; implicano risultati che sono univoci.

 

Ci soffermiamo solo sui procedimenti per analogia e per logica a contrario. Non verrano considerati gli altri procedimenti perché sono eccessivi. Faremo solo l’esempio dell’procedimento dell’argomento a forziori.

 

se tutte le “x” possono “a” e “a” è “b” (include “b”), tutte le “x” possono “b”.

Un esempio è contenuto nel brano del vangelo in cui Gesù dice che gli uccelli non seminano, non raccolgono nei granai, non mietono eppure il Padre a loro ha riservato tutto.
Se questo il Padre lo ha fatto per tutto gli uccelli del cielo a maggior ragione lo farà per l’uomo.
Questa logica o questo argomento è debole perché questo argomento che pure è presente nel ragionamento giuridico trova proprio nel suo ragionamento una sua negazione, cioè il diritto nella sua semplicità a volte (cose che non sono le prediche di Gesù sono giustificate dall’argomento a forziori; è difficile trovare un argomento di Gesù che deroga l’argomento a forziori anzi lo usa). Invece gli ordinamenti giuridici avvolte derogano al procedimento a forziori.

Esempi:

  • una famosa legge belga dei primi del ‘900 che dava la facoltà di poter acquistare una quantitativo di alcol da 3 litri in su (cioè chiunque poteva fare acquisto di 3 litri di alcol); una legge che riguarda, paradossalmente, il proibizionismo dell'alcol in Belgio; dico paradossalmente perché capite che si da' la facoltà di acquistare 3 litri di alcol ma proibisce che si possa acquistare una quantità inferiore a 3 litri di alcol, cioè si devono acquistare almeno 3 litri.

Perché questa legge sembra derogare alla logica dell'argomentazione?
Quale è il senso di questa norma e perché impediva l'acquisto di 2 litri? perché questa legge è legata ad effetti proibizionistici?

Perché un salario di un operaio/uomo medio a malapena gli permetteva di acquistare 3 litri di alcol; cioè mettere questo divieto di acquistare un numero inferiore di alcol significava di fatto impedire che lo si acquistasse  e quindi avere effetti proibizionistici attraverso questa deroga all'argomento a porzione (cioè dava la facoltà di poter acquistare 3 litri ma non meno di 3 litri). Lo scopo era impedire che la gente acquistasse dell'alcol perché avrebbe dovuto investire più della metà di un suo mensile per farsi un bicchiere di vodka. Questa legge mette in evidenza che in realtà l'argomento a porzioni che pure è presente nella ragione giuridica non necessariamente è un argomento costante nella ragione giuridica, ed ecco perché non è tratto come un argomento costante/tipico della ragione giuridica. Gli altri due argomenti invece sono costanti nella ragione giuridica sicché se le critiche valgono per questi argomenti non si può obbiettare che l'argomento a porzioni è un argomento marginale, non è un argomento costante della ragione giuridica.

Quali sono le osservazioni che farei riguardo al carattere logico dei procedimenti della ragione giuridica (per analogia argomento al contrario), se quegli argomenti ci aiutano realmente a colmare le lacune non sono rigorosamente logici.

  • Un tempo c'era un comune che si chiamava "Sposali Tutti", la ragione era che si andavano lì a sposare tutti quanti. In quel comune c'era però una norma: a celebrare le nozze doveva essere la maggiore autorità civile di quel mondo (che era il sindaco). È successo che il sindaco si è allontanato da quel mondo,  ma molti hanno continuato comunque ad aspirare a sposarsi. Il problema era però che quelle nozze che si sono celebrate, dal giorno in cui il sindaco aveva fatto la sua passeggiata fuori, dall'ufficiale dello stato civile. Sicché un giorno qualche d'uno ha eccepito (un fenomenologo): "Ma l'autorità maggiore non è l'ufficiale dello stato civile ma il vice-sindaco che lo sostituisce". Si è posto il problema: "che ne facciamo di tutti questi che si sono sposati"; proprio a Sposali Tutti bisogna dire che tanti sposi sono adesso concubini? Proprio lì in quel mondo che si chiama sposali tutti e che ha questa vocazione naturale? La soluzione è stata semplice: "interpretare la norma secondo lo scopo", lo scopo è sposare tutti.

 

Ho fatto quest’altro esempio riguardante un fatto realmente accaduto in un paese della Francia ai fini del ‘900  per dire che non si può dire banalmente che i procedimenti per analogia e l'argomento a contrario non sono fecondi; su questo non ci piove, reputo che è una risposta decente che l'ordinamento giuridico fa dinanzi a questo problema della lacunosità del completamento (?) degli ordinamenti giuridici. Il problema però qual è? La domanda  è se questi procedimenti sono rigorosamente logici cioè se il giurista che applica questi procedimenti opera senza metterci qualcosa di suo, questo è il punto: "l'aspetto politico di questi procedimenti". In sostanza la domanda è se questi procedimenti che pure sono fecondi sono anche rigorosamente logici, questo è il punto e questi sono le osservazioni che farei.

Prima osservazione: chi applica questi procedimenti, l'altra volta mi sono soffermato sullo schema logico che sostiene questi due procedimenti ricorderete che c’è un fatto ineludibile (?) che regge questi procedimenti.

Qual è questo fatto? riguarda l’ interpretazione giuridica e cioè quei procedimenti intanto hanno vita se si adotta un tipo di interpretazione particolare che viene chiamata “interpretazione fondamentale”; non potrei attuare un procedimento per analogia partendo dall’interpretazione letterale della norma. Per applicare in modo analogico una norma ad un caso non previsto devo per forza adottare l’interpretazione fondamentale. C’è un criterio rigorosamente logico (sicchè tutti direbbero la stessa cosa) per stabilire quando l’interpretazione è fondamentale delle norme  e quando invece l’interpretazione è letterale delle norme? Abbiamo visto come si sono comportate le Corti in Europa riguardo il furto dell’energia elettrica:

    • una Corte ha detto: si anche questa è furto;
    • un’altra Corte ha detto: no non è un furto

 

c’è un criterio rigorosamente logico perché si adotti un tipo di interpretazione piuttosto che un’altra? Risposta: probabilmente dinanzi al problema dell’interpretazione giuridica delle norme alla fine viene la decisione  del giurista il quale su quel caso interpreta la norma in un certo modo (interpretazione letterale o interpretazione fondamentale a seconda se applica o meno quel procedimento per quel caso). Alcuni potrebbero escludere certe conseguenze giuridiche di quella norma altri invece potrebbero non escluderle.

Quindi la prima osservazione è che non c’è un criterio rigorosamente logico per adottare un tipo di interpretazione piuttosto che un’altra. Certo è facile dire che bisogna fare un’interpretazione fondamentale quando non c’è una controversia che si possa risolvere con una disposizione chiara tuttavia la disposizione ad esempio “vietato l’ingresso ai cani” sembrava fosse chiara eppure avete visto cosa è successo oppure sembrava chiara la disposizione che il “furto è una sottrazione di una cosa altrui” eppure quante incognite sul termine “cosa”. A decidere comunque è il giurista. La decisione c’è.

(Se il procedimento della logica giuridica predispongono la soluzione di un tipo di interpretazione piuttosto che un altro occorre per forza che ci sia meno interpretazione fondamentale). Ma è una decisione che impone non che il giurista sia una sorta di operatore, un software, tale da poter pensare ad una sorta di giudizio automatizzato. Che cosa si evince? Che tale software può al limite presentare al giurista una serie di risultati tutti equipossibili che si possono trarre leggendo la norma ma poi occorre che vi sia l’interpretazione del giurista che scelga uno dei possibili risultati.

È molto probabile ad esempio che uno stato cd di diritto (perché spesso sono concetti vuoti, è definizione concettuale difficilmente catturabile); comunque per questa idea di stato di diritto che una giurisprudenza che fosse con i presupposti dello stato di diritto dovrebbe essere una giurisprudenza che tiene conto dell’interpretazione letterale della norma perché questo sembra dare più certezza. Lo stato di diritto si caratterizza proprio per questo principio che vuole ricondurre la materia guiridica alle norme vigenti. In uno stato di diritto si farebbe strada una politica giurisprudenziale più attenta all’interpretazione letterale.

Ma già nel diritto si attraversa la storia anche del diritto, in certi momenti in cui si sono soprattutto evidenziati anche alcuni interessi anche culturali, filosofici generali anche alla luce delle culture dominanti nell’epoca è prevalsa una giurisprudenza diversa chiamata “interessen jurisprudenz” = cioè una giurisprudenza degli interessi. Sicché va sempre più scemando l’interpretazione; dopo la grande abbuffata della scuoala dell’esegesi di tutto il pensiero giuridico francese alla prima codificazione del diritto in Europa, dopo questa si è subito capito che alla fine bisogna sempre far conti con gli interessi e che tenere conto, così come il programma culturale del testo è un bleuf  perché alla fine gli interpreti facevano  _________________________________

La begriffsjurisprudenz  : è una parola composta; jurisprudenz è la giurisprudenza , begriffs in tedesco significa concetti; quindi, alla lettera, possiamo tradurre giurisprudenza dei concetti. I concetti adducono ai concetti espressi nei termini chiari delle norme. Col termine begriffs c’è riferimento a concetti chiari, a parole chiare; dunque una giurisprudenza che fa leva soprattutto su questo. A questa si contrappone, strada facendo, penso all’opera del 1877 “Lo scopo nel diritto”, dove appunto si passava quest’idea di far leva sulla finalità di uno scopo anche del diritto;questo non è niente a caso ripeto, perché la giuria si fa carico di quello che poi anche realmente accade. Cosa accade? Che i tempi che sembravano essere garanzia, non sono più garanzia perché nascondono invece, un’interpretazione e un’applicazione di norme teleologica, finalistica. Dunque, a questa giurisprudenza si contrappone la interessen jurisprudenz, la giurisprudenza degli interessi, cioè una giurisprudenza che fa leva su un’interpretazione diremmo, secondo il nostro lessico, fondamentale delle norme, cioè che è motivo delle norme ( grunt è motivo delle norme, ciò che fonda le norme,in questo senso fondamentale).

Non a caso si fa strada un interessen jurisprudenz , perché matura una giurisprudenza che se volete io vi ho indicato con racconti fantasiosi, come quello del mondo di “Sposali Tutti”. Magari si scopre che la giurisprudenza si deve chiedere che quello che è accaduto sinora non è l’opposto di quello che quelle norme volevano evitare. E come : non richiamandosi al significato letterale delle parole, sarebbe impensabile, ma semmai in quel momento scoprendo che quelle norme stanno per uno scopo.

Questo è il fatto legato, quando ci si collega alla vita, a ciò che la vita può determinare . Allora, prima osservazione:

  • Siccome i procedimenti della logica giuridica suppongono un tipo di interpretazione,bene, l’osservazione è questa: non c’è un criterio rigorosamente logico da adottare ad un tipo di interpretazione piuttosto che un altro. Quando l’interpretazione è fondamentale e quando l’interpretazione è letterale?
  • Lo scopo delle norme: cos’è lo scopo della norma?possono essere le intenzioni del legislatore, gli effetti reali che una norma ha, e quando sono effetti reali può subentrarne la valutazione, perché gli effetti reali fino ad una certa epoca sono alcuni, in altre epoche sono altri. Vi ricordavo queste  norme del diritto inglese riguardanti la creazione di un fondo patrimoniale, intangibile, intoccabile, che ha effetto di tutela la parte debole del rapporto coniugale, cioè la donna, avevano questo effetto di protezione della donna, per un certo tempo. Ma quando poi la donna ha cominciato ad avere un suo ruolo, una sua indipendenza, una sua autonomia, questo ruolo è stato di ostacolo…..Ma allora quando e in che misura gli effetti entrano nel giudizio e sono ritenuti rilevanti rispetto a quello che chiamiamo scopo della norma? Anche questo è un elemento di valutazione e decisione da parte del giurista, sicché in questo caso, ad esempio, lo scopo di quella norma, che aveva l’effetto di assicurare la garanzia  della famiglia nel suo complesso, del bene familiare nel suo complesso, in quella situazione particolare, si avverte che se è stato toccato un fondo patrimoniale,potrebbe essere stato un bene in quella situazione particolare, sicché il giurista si trova ad operare con l’argomento a contrario piuttosto che con l’argomento per analogia.

Dunque scopo della norma, si fa presto a dire scopo della norma. Può essere quello che il legislatore poneva. Le intenzioni del legislatore, gli effetti reali della norma, gli scopi ideali della norma, che è un altro tema , quali sono? L’interpretazione è fondamentale però anche qui mi collego allo scopo della norma; il giurista dice, quando parliamo dello scopo, mi collego all’intenzione del legislatore, perché per scopo devo intendere quello che il legislatore intendeva fosse di quelle norme. È un modo logico, legittimo di interpretare lo scopo, ma un giurista potrebbe ritenere in realtà, quando il codice nell’art 12 mi dice che devo applicare una norma rinviando a disposizioni che disciplinano, riguardano casi simili,che intanto parliamo di scopo ideale,ma non nella misura in cui ne ha parlato prima, applicando alla legge gli scopi ideali della norma, ma anche questi sono mutevoli. 
Intanto uno deve decidere se l’interpretazione è fondamentale o letterale; una volta che ha deciso che l’interpretazione è fondamentale, deve decidere se lo scopo della norma è l’intenzione del legislatore, gli effetti reali o gli scopi ideali, ma queste sono solo tre definizioni possibili di scopo. Una volta deciso per gli scopi ideali; prendiamo gli scopi ideali del diritto penale societario, quali sono gli scopi ideali? Fino a ieri gli scopi ideali del diritto penale societario erano la tutela della proprietà delle società; mi sembra che adesso gli scopi ideali sono la tutela del mercato visto che si sono ingrandite le società. Esiste un reale mercato. E allora quali sono gli scopi ideali del diritto penale societario? Fino a ieri erano questi, oggi questi. Chi decide quali sono e come sono? Qualcuno potrebbe dire che gli scopi ideali sono i principi dell’ordinamento. Qui tocchiamo veramente i vertici di metafisica. Qui davvero il giurista è notevole.

Quando si parla di scopi c’è il problema di arrivare all’interpretazione fondamentale, ma poi di dire come si realizza l’interpretazione fondamentale e chi decide quali scopi. C’è la sensazione che quanto più vai in profondità e vai a toccare quasi la fisicità del gesto del giudice che applica la norma , non si restringono i campi di possibilità, ma si allargano. Allora, vai dall’interpretazione letterale a quella fondamentale, e va bene. Abbiamo ragioni per sostenere l’interpretazione fondamentale, ma cos’è l’interpretazione fondamentale? Vado a distinguere tra interpretazione fondamentale concettuale e interpretazione fondamentale teleologica. Lasciamo perdere la prima, prendiamo la seconda, cioè lo scopo. Ma quale scopo: delle intenzioni, degli effetti reali, degli scopi ideali, dei principi ultimi dell’ordinamento giuridico? I principi ultimi dell’ordinamento giuridico, ma qui piuttosto che restringersi il campo, si allarga enormemente. E quali sono questi principi con cui devo applicare la normina dei due che hanno effettuato il contratto di compravendita e volevano semplicemente scambiarsi un po’ di beni. Dobbiamo chiamare in causa in principi ultimi dell’ordinamento giuridico, perché la norma non è chiara? Come può non essere chiara.

C’è poi un ultimo argomento. Io posso applicare il procedimento per analogia e, cosa che non dice l’art 12,abbiamo scoperto è implicito nell’applicazione del procedimento per analogia, posso applicare il procedimento a contrario. Nel caso del procedimento per analogia faccio leva sulla essenzialità  delle somiglianze tra il caso previsto e il caso non previsto. Nel caso del procedimento a contrario faccio leva sulla essenzialità delle differenze tra il caso previsto e caso non previsto.  Tutte le volte che posso applicare il procedimento per analogia, io potrei applicare di diritto, e per una ragione logica, anche il procedimento a contrario, perché dove ci sono somiglianze, ci sono anche differenze. Uno direbbe che in alcuni casi sono essenziali le somiglianze, in altri casi le differenze; ma c’è un criterio rigorosamente logico per stabilire quando sono essenziali le somiglianze e quando sono essenziali le differenze?cosa succede se il cane del poliziotto sniffa un pochino e dà i numeri? A quel punto dobbiamo tenere conto delle somiglianze o delle differenze? Chi lo stabilisce? Non c’è un criterio rigorosamente logico. Nella Prussia guglielmina non si poteva il 1° maggio fare manifestazione con le bandiere rosse; poi il giudice che ha sequestrato tutte le bandiere e ha fermato la protesta, ha scoperto che le bandiere erano lilla. Cosa facciamo? Sono più essenziali le somiglianze o le differenze? Potrebbe rimangiarsi tutto e dire, vabbè quella è una manifestazione studentesca. Scherzo, ma cerco anche di dirvi un problema reale che è un problema logico.

Dunque qual è il problema ultimo? Se c’è il procedimento per analogia, c’è anche,e non può non esserci,il procedimento a contrario. Prima concezione. Perché tutte le volte che ci sono somiglianze, ci sono evidentemente delle differenze. Dove ci sono delle somiglianze ci sono delle differenze. Si dice: l’argomento per analogia si applica quando sono essenziali le somiglianze, si applica invece l’argomento a contrario quando sono essenziali le differenze. Ma c’è un criterio rigorosamente logico per stabilire quando sono essenziali le somiglianze e quando sono essenziali le differenze? Temo proprio di no, temo che anche in questo caso c’è l’indecisione del giurista. Temo che anche in questo caso si deve prendere atto che questi procedimenti sono fecondi,ma non sono rigorosamente logici. Torna ancora una volta il tema della politica del diritto. L’unico modo per far fronte alla politicità del diritto è sapere che c’è. Perché  non si può risolvere né eludendola, né tanto meno pensando che il linguaggio giuridico sia una matematica.

Anche per oggi abbiamo finito per oggi.

 

Teoria dell'argomentazione giuridica

11°Lezione 22.04.2008

Nel sillogismo giudiziale ci sono dei momenti che si caratterizzano come momenti che determinano il passaggio a quella che si chiama sentenza. Questi momenti sono le premesse del sillogismo giudiziale. Parlo di sillogismo mettendo in evidenza una cosa di cui oramai abbiamo discusso fin dall´inizio: il sillogismo ha una sua peculiarità. I predicati logici non sono solo quelli del vero e del falso ma qui ( e ciò un po´ destabilizza le ragioni del ragionamento sillogistico ) c´è l´introduzione di un predicato come quello del patico e dell´empatico (???).

Ricorderete che questa è proprio la questione decisiva nell´esperienza del processo e  dal punto di vista logico e astratto e dal punto di vista concreto degli aspetti a volte drammatici che il processo puo´ esprimere. In Questa complessità del sillogismo giudiziale, dove giocano un ruolo i predicati logici, ci fa intendere che si tratti di una questione  astratta logica in punta di piedi, in realtà lì si gioca anche la vicenda un po´ drammatica se volete del processo. Se c´è una vicenda tragica del processo e se il processo suscita in noi reazioni emotive che sono a volte di angoscia (molta letteratura classica del novecento,pensiamo al processo di Kafka, trae origine proprio da questa questione logica che noi presentiamo in punta di piedi, operando proprio come i personaggi di Kafka che non ci orientano mai, essi sanno solo quello che vedono, non conoscono quello che accade in altri luoghi, non conoscono i pensieri e le intenzioni degli altri personaggi che si rapportano a loro, e affrontano questa sfida lasciando se occorre nell’ombra fatti capitali e indugiando su fatti minori, perché né dalle piccole cose che si impara a conoscere il mondo che ci circonda, dalle piccole cose impariamo a conoscere il diritto). Quindi quando parliamo di sillogismo sia chiaro abbiamo a che fare con un modello del sillogismo molto particolare. Noi ci facciamo carico della logica di questo modello molto speciale del sillogismo. Fatta questa distinzione che dovrebbe essere quanto mai chiara, al centro del nostro discorso sul sillogismo giudiziale che ci sono dei momenti rappresentati da quelle che sono definite tradizionalmente le premesse con la conclusione che è la sentenza. Noi abbiamo analizzato la questione di quella premessa che viene chiamata dai logici del sillogismo giudiziario la quaestio iuris, dove al centro c´è la identificazione della norma generale da applicare . Questa sarebbe la premessa maggiore (P) del sillogismo quella che i logici del sillogismo chiamano quaestio iuris : è la premessa che identifica la norma generale da applicare, qual è la norma generale da applicare. E qui si sono aperti dinanzi a noi molti problemi che abbiamo preso in esame analiticamente. È facile dire è questa la norma da applicare, è questa la norma. Il magistrato potrebbe fare un gesto semplice: apre il codice e indica col dito << questa è la norma da applicare  >>.  Finché si fa questo movimento sembra che il fatto sia semplice, un gesto semplice, un gesto ostensivo, ma appena si comincia a dire << che cosa dice questo articolo? >> apriti cielo, cominciano tutti i problemi che chiamiamo della ermeneutica del diritto . appena ci avviciniamo alla questione di identificare la norma  siamo quasi costretti per essere chiari paradossalmente ad usare il linguaggio ostensivo, che è il linguaggio della certezza, che usa i termini " questo" e "qui". Però così il magistrato non decide, non dice, è un dire che  è un non dire, è un dire totalmente indeterminato però è cmq un gesto semplice che però il magistrato non può usare, non può dire semplicemente questo.

Noi adesso cominceremo ad affrontare l´altro oggetto immenso della logica del processo ( i problemi non finiscono qui) che i giuristi , i logici del sillogismo chiamano la quaestio facti, cioè l´accertamento del fatto, come sono andati i fatti. Il processo non avrebbe senso se non viene collegato ad un fatto che viene imputato e si tratta di identificare quel fatto . Questo oggetto dell´indagine nel processo corrisponde alla premessa minore ( p)   del sillogismo giudiziale.  Se non vado errato, l´articolo 118 comma1 delle disposizioni per l´attuazione del c.p.c. dice appunto che bisogna andare a vedere i fatti, quali sono i fatti, come sono accaduti. Questo articolo dice che nel sillogismo giudiziale c´è una questione centrale che è quella che chiamiamo quaestio facti. Quindi due questioni: quaestio iuris che è l´identificazione della norme e quaestio iuris: che cosa è accaduto. Mi avvicino a questo problema facendo delle osservazioni generali. Un´osservazione abbastanza problematica che però non voglio perseguire dopo averla presentata, la voglio lasciare come suggestione. Da un punto di vista didattico e dal punto di vista di chi vuole andare in fondo alle cose  è bene mantenere questa distinzione tra quaestio iuris e quaestio facti.  Ma l´osservazione che farei ma non seguirò è: esiste davvero ed è così netta la distinzione tra la quaestio iuris e la quaestio facti? Cioè i fatti che vengono imputati (es. l´assasino, l´assasinio, il furto il ladro)sono fatti che stanno lì in natura semplicemente sono fenomeni che possiamo chiamare fatti brutti che non c´entrano niente con la soggettività, che posso pensare senza il soggetto? Es. anche se non ci fosse il soggetto intuisco un mondo in cui ci possa essere la neve sul monte Everest , ci sarebbe comunque la stella Vega, ma forse senza il soggetto non si chiamerebbe Vega, senza il soggetto quel monte non si chiamerebbe Everest. Ma quando parlo ad esempio di un fatto come l´assassinio o il furto o la locazione o la compravendita o il godimento del locatario, questi che sono fatti che noi cerchiamo di appurare, ma davvero la compravendita , questo factum è così separabile dalla norma che qualifica quel fatto?  Stiamo parlando di un fatto che non è un mero external fact, un fatto esterno come lo è la neve sul monte Everest. Io distinguerei quelli che nella lingua anglosassone sono fatti bruti (brute fact) fatti esterni (external fact ) da questi fatti che interessano il processo, che sono pregni di valutazione giuridica, ancora coimplicati con le norme sicché quando dico da una parte c´è la quaestio iuris, secca precisa e poi ci sono i fatti belli precisi e sono due momenti distinti, allora attenti perché i fatti rilevanti nel processo  hanno già una complicazione con le norme e comunque la distinzione potrebbe a ben vedere implicare delle considerazioni che non abbiamo  fatto, tra cui quella che non c´è una netta divisione. Quindi probabilmente se è vera questa osservazione tutte le questioni ermeneutiche che  abbiamo sviluppato con riferimento alla quaestio iuris,  sarebbero trasferibili alla quaestio facti. Io non percepisco un fatto esterno ma percepisco fatti che implicano norme e li percepisco a senconda che interpreti la norma in un modo piuttosto che in un altro . Ed è qui che nasce la percezione del fatto. Non diversamente. Ma se la norma la interpreto in un modo piuttosto che in un altro vuol dire che non tutti hanno la stessa percezione del fatto che si deve accertare.

Questa sarebbe un´osservazione preliminare che voglio lasciare solo come suggestione. Mentre l´art 118 dice che bisogna andare a vedere i fatti, l´art. 187 c.p.p. dice non soltanto che bisogna andare a vedere i fatti ma che bisogna "provare i fatti". Questo è lo scopo del processo: provare che il fatto è accaduto. Che senso ha provare i fatti?(che sono quelli che rientrano nel processo). Quali sono le difficoltà di provare i fatti?

La prima difficoltà è che  i fatti che vengono provati sono per definizione fatti passati, accaduti una volta per tutte. È una situazione diversa quella dello scienziato che deve provare una legge e quindi deve provare la ripetizione di fatti e la prova proprio assistendo alla ripetizione dei fatti. I fatti invece che si devono provare nel processo sono accaduti una volta per tutte in modo irripetibile. Quel fatto unico, oggetto del processo, non si trova per esempio in movimenti degli acrobati in un circo ma si prova per es. in un fatto accaduto un giorno  di Lulù che è stata da Rodrigo innamoratissimo di lei invitata a salire sul trapezio e lui si accorge che lei non lo ama più, la butta giù dal trapezio e Lulù muore . Questo è il fatto. Non si prova la serialità di un fatto ma un fatto irripetibile. Si può provare quindi un fatto accaduto e che non c´è più? Se provare significa come nel metodo della scoperta scientifica verificare e andare a vedere i fatti( es. provo una legge sull´accadere il verificarsi di fatti della natura . Lo scienziato attende di vedere che le cose sono proprio così.) Qui però i fatti sono avvenuti una volta per tutte. Si possono semmai provare dei giudizi su quei fatti. Es. la verità del giudizio è che Lulù è stata buttata giù dal trapezio. Ma non s i può andare a nuovamente a percepire il fatto. Qui il primo problema: i fatti chiamati in causa non ci sono più, irripetibilmente, drammaticamente. Sono accaduti una volta per  tutte e non possono più ripetersi per la straordinarietà di ogni evento che accade in questa nostra esperienza umana. Ogni gesto è irripetibile . Questo fa nascere una prospettiva contemplativa sulle cose. Molte volte siamo distratti da questa possibilità ma se riflettiamo  ogni nostro gesto, perché ci sia, anche minimo,  presuppone una storia di migliaia di anni. Quindi semmai si può provare il giudizio sul fatto perché il fatto non si può provare. Non possiamo rivivere la scena. Ma questo è un problema che ci aspettavamo. Abbiamo certamente una riserva sul linguaggio del legislatore che all´art 187 dice ingenuamente che  dobbiamo andare  a provare i fatti. Semmai "il giudizio "sui fatti.

Addirittura il diritto azzarda ancora di più: nel processo a volte il magistrato deve provare non soltanto fatti passati che non ci sono più,  ma deve decidere su fatti futuri. Pensiamo tutte le volte che adotta provvedimenti su misure cautelari. Deve sapere cosa accadrà. Deve provare un fatto che ancor più di quello passato non c´è´. Perché di quello passato forse è rimasta qualche traccia ma di quello futuro è ancora più faticoso trovare prova , sapere cosa farà tizio è ancora più faticoso. Quello che tizio ha fatto non lo posso provare, ma se lo ha fatto, il tempo non lo può cambiare. Ma quello che farà è ancora più problematico visto che il contenuto dei giudizi prognostici,(quei giudizi che  il magistrato assuma per adottare le misure cautelari, la  sospensione condizionali) sono ancora più degli altri problematici per la quaestio facti perché nel primo caso c´è un fatto passato, nel fatto futuro c´è la stessa condizione ontologica di un fatto che non c´è. È un fatto che c sarà ma è un fatto che non c´è e quindi non si può provare. Si può pronunciare un giudizio prognostico. Il passaggio da un giudizio storico a uno prognostico a mio modo di vedere aumenta i problemi non li diminuisce. Però entrambe le questioni hanno una questione comune: la quaestio facti deve fare i conti col fatto che questi fatti che si devono provare non ci sono, perché ci sono stati o ci saranno. Quindi non si può provare nel senso di andare  a vedere  il fatto. Si possono semmai trovare degli argomenti per sostenere la verità di un giudizio sul fatto,che è una cosa molto diversa.

Altre considerazioni sono legate a quella principale fatta all´inizio. Parlando di fatti giuridici dobbiamo affrontare l´ontologia dei fatti giuridici. Scopro che questi fatti da accertare sono spesso prodotto di valutazioni, non sono meri external fact. Es. nel metodo che adotta la fenomenologia il danno morale, è il prodotto di valutazioni non soltanto giuridiche ma anche morali. O l´offesa del pubblico pudore, non è la neve sul monte Everest, non è la distanza dalla luna sulla terra, incalcolabile, un fatto bruto,  ma è un fatto che emerge dalla valutazione. Non posso pensare all´ontologia del danno morale senza la valutazione ma più  che mai la considerazione che l´oggetto di prova passa dalla valutazione è ineludibile. Ci sono fatti che implicano addirittura dei modelli teorici come quelli della micro e macro economia(l´illecito il falso in bilancio le partecipazioni azionarie.,sono fatti complicatissimi che investono teorie molto elaborate di sistemi economici anch´essi molto elaborati). Anche qui non c´è un fatto esterno. Quindi molti fatti sono prodotto di valutazioni. Pensiamo ai reati finanziari,la partecipazione azionaria.

E ci sono fatti che non nascerebbero senza le norme, strettamente legati alle norme come la locazione, il canone. Sono tutti institutional facts. Fatti istituzionali.  Quindi gran parte dei fatti di qui parliamo sono fatti istituzionali., prodotti di regole, prodotti di linguaggio. Quindi provare i fatti cosa significa? Provare le valutazioni che hanno implicazioni sui fatti.  Quando leggo l´art´187 che dice che bisogna provare "i fatti", la vedo una espressione superficiale.

Ci sono fatti che sono poco external, per definizione non fatti. I reati omissivi sono presenti a dismisura. Qui bisogna andare a provare un non fatto. Insomma dei fatti che non hanno un consistenza materiale per definizione., dei fatti veramente evanescenti.

Trovo ingenuo il diritto quando parla della "quaestio facti" poiché ci sono addirittura dei fatti che sono dei non fatti. Es.I reati omissivi parlano proprio di questo:si devono provare delle non azioni. Un raggiro potrebbe essere fatto con un astenersi dal fare qualcosa. Con il non fare assolutamente nulla in realtà ho fatto qualcosa. Ma qui è un fatto che è un non fatto. E poi ci sono dei fatti che la dogmatica deve seguire. Si arriva a delle distinzioni tali per cui il fatto diventa evanescente perché è difficile fare distinzioni. Es. Provate a fare un distinzione tra quello che viene chiamato dolo eventuale e la responsabilità oggettiva, tra il dolo eventuale e la colpa cosciente. Comincia tutto a diventare evanescente, fino al punto di dover dire che anche qui siamo davanti a fatti solo apparenti. È così labile la distinzione, il confine tra dolo eventuale e colpa cosciente. Il pensiero di chi dice << E´ un rischio ma lo faccio comunque, costi quel che costi >> potrebbe essere sia dolo eventuale che colpa cosciente. Il confine è così labile che si tratta di fatti evanescenti tali che si dubita nella realtà che esistano fatti come questi,poiché si confondono nella realtà l´uno con l´altro.

Nell´articolo 43 dove si affronta la questione del dato psicologico forse non si parla neanche di dolo eventuale. Questo in faccia al principio di tassatività del reato. Ecco qui allora una conclusione riguardo al factum che si deve provare:

1.I fatti che si devono provare sono per definizione fatti che non ci sono perché o sono passati("qua passati",che non ci sono più) o sono futuri ("qua futuri", che non ci sono ancora) e quindi non si prova un bel niente. Semmai si prova il giudizio sul fatto. Non si può verificare e vedere il fatto.

2.C´è un nesso  tra fatti e valutazione.  Molti fatti non sono "external fact"(fatti esterni) ma sono fatti collegati alla valutazione,  sicché si deve provare la valutazione. Il fatto implica la valutazione, quindi non è semplicemente provare il fatto ma provare la valutazione da cui dipende poi il fatto. E questo  è in rapporto alle valutazioni morali oltre che in rapporto alle valutazioni giuridiche se parliamo di fatti istituzionali che dipendono da precise regole. E tutti gli atti giuridici sono per lo più atti istituzionali, dall´atto negoziale fino alla sentenza. Sono atti istituzionale:cioè non atti che si riconoscono come la neve sul monte Everest, ma grazie a norme che producono e che qualificano quei fatti, non stanno in natura. La sentenza, l´atto di compravendita, il godimento del locatore  non stanno in natura. Sono il prodotto di norme che dicono che cos´è un contratto di locazione. Senza queste norme non ci sarebbe quel fatto che chiamiamo locazione. Senza le norme forse ci sarebbe comunque la neve sul monte Everest, senza quelle norme forse non ci sarebbe cmq il nome Everest  con qui chiamiamo il monte Everest. È una realtà complicata che implica il coinvolgimento del soggetto:non c´è una realtà in cui non c´è il soggetto ed è solo locazione. Questo un po´ per ripetere la velleità del pensiero idealistico tedesco, quello serio: << il concreto è il concetto >>.

Sembrava questa una preposizione improponibile perché non significa nulla. Questo insegna Hegel nella Scienza della logica << il concreto è il concetto >>. Noi siamo abituati ad un idealismo molto brutto: << Che me ne faccio di questi concetti? Io amo la vita concreta >>. Qui è chiaro che c´è dietro una visione ingenua della realtà. La realtà invece ha delle profonde implicazioni con il concetto. La vita del concreto, dice Hegel nella Scienza della logica,è il concetto. Non c´è concretezza più concreta del concetto. Nello spazio in qui abbiamo a che fare ci sono moltissime realtà istituzionali e pochissime realtà brutte. Es. C´è il professore che  è un docente e il docente è un prodotto di norme,  ci sono gli studenti che sono qualificati da norme, questa è un aula non è semplicemente uno spazio qualsiasi ed è qualificato da norme che dicono che cos´è una sede universitaria e un aula universitaria. E quando pensiamo che non ci siano norme, ci sono i manufatti: es. noi siamo seduti su delle sedie che sono prodotto manufatto  di un soggetto. Poi ci sono gli artefatti, il mondo estetico(che manca in questa sede universitaria). Quando si parla di fatti qui torna una verità idealistica: il fatto è il concetto. Quando si parla da fatti si parla di soggetti: provare un fatto significa provare le valutazioni del fatto, cioè il fatto brutto. Qui nascono anche problemi ermeneutici. Il mondo è del soggetto. Il soggetto non solo vive lo struggimento di quella proposizione a tutti nota: << Che cosa sarà di noi? >>, ma vive anche questa altra domanda struggente: << Che cosa sarà il mondo senza di noi? Senza il soggetto? >> visto che tutti i fatti sono qualificati dal soggetto, visto che in questo spazio forse l´unico elemento brutto qui è la luce che entra, tutti gli altri sono manufatti,artefatti, fatti istituzionali. << Che cosa sarà il mondo senza di noi? >>: questo i giuristi lo devono sapere perché i fatti con i quali hanno a che fare  sono fatti collegati alla valutazione.

3. ci sono dei fatti che non sono dei fatti. Es. Pensiamo ai reati omissivi o a questi fatti evanescenti dove non sappiamo distinguere tra colpa cosciente e dolo eventuale. Questo è il fatto, se pensiamo una ontologia minima del fatto. Il factum ha questa ontologia, seppure ci possiamo permettere per ora solo una ontologia embrionale. Prendiamola come un "scienza dell´essere" del fatto ma embrionale. Questo è un punto di arrivo.

Adesso si apre per noi un nuovo percorso. Posto che il fatto sia questo, con quali mezzi si prova il fatto? E prima ancora di dire con quali mezzi si provano i fatti, l´ordinamento giuridico quali esigenze di prove ha dei fatti? Che cosa richiede che venga realizzato come scopo della prova? Quali sono le attese che ha l´ordinamento giuridico relativamente alla prova dei fatti?
Gli ordinamenti da questo punto di vista distinguono il processo penale dal processo civile. Le attese di prova sono diverse. Noi seguiremo quelle più stimolante, le attese più forti che sono quelle del processo penale poiché si deve realizzare un grado di certezza della prova più esigenze nel processo civile. E´ la sfida più grande quella più impegnativa, quella più esaltante. Queste attese si esprimono attraverso un principio giuridico che ormai è entrato sia negli ordinamenti giuridici sia in molte sentenze delle Sezioni Penali Unite della Cassazione. Ad es.l´art.533c.p.p., grazie all´art.5  legge 46 del febbraio 2006 tratta del principio dell´ "oltre ogni ragionevole dubbio".

-          Tra le sentenze ricordiamo quella del 21.4.1995 in cui la Cassazione introduce questo principio, insiste sulla rilevanza di questo principio, avvertendo che c´è l´esigenza di provare con questa forza nel processo penale. Però la sentenza si occupa di un problema diverso: n on tanto della rilevanza di questo principio  nella fase finale del processo e dunque per motivare una sentenza, ma per non rendere questo principio necessario nella parte in cui si devono adottare delle  misura cautelari. Per queste misure si chiede che non ci sia bisogno di un grado di prova così alto.
-          Poi c´è la famosa sentenza Franzese del 10 luglio 2002 in cui la cassazione sottolinea la rilevanza di questo principio necessario ( come il canone "in dubbio pro reo" : in caso di dubbio bisogna sostenere una tesi in favore di chi è convenuto).  In questo caso la sentenza richiama il principio non per negarlo ma per affermarlo nel processo penale.
-          E poi c´è una sentenza della fine del 2003, mi sembra del 29 ottobre, in cui c´è una pronuncia della Cassazione che dichiara la non possibilità di ricevere una sentenza la quale si era costituita in appello non considerando che nel processo di primo grado si erano trattati fatti legati alla effettività di quel principio, e la sentenza di appello non aveva tenuto conto che la sentenza di primo grado aveva assolto in forza di quel principio. Per cui tale sentenza non poteva essere accolta perché difettava di motivazione ( perché la prima sentenza si era attenuta a tale principio e la seconda no ).

Qui faccio un’osservazione a margine: la mia impressione è che se questo principio ha una sua ragion d´essere forte,  se la sentenza di primo grado ha assolto qualcuno, è molto difficile che la sentenza di secondo grado possa cambiare le cose perché il ragionevole dubbio c´è comunque, se non altro perché c´è stata una sentenza di assoluzione nel grado precedente. Questa vulnerabilità è legata al fatto che la Corte ha sentenziato in un determinato modo precedentemente. Questo già diventa un elemento di giudizio importante per lo meno con riferimento al principio del ragionevole dubbio.

Questo principio complica molto le cose perché crea molte pretese in quanto si deve provare oltre ogni ragionevole dubbio. Ci si avvicina in modo imbarazzato a questo principio, perché  anche dalle cose che ci siamo dette qui per grandi linee senza dover fare riferimenti a trattazioni sistematiche, sembra che il processo è il luogo del ragionevole dubbio, per definizione,ma si va lo stesso al processo. Il presupposto che regge il processo è il ragionevole dubbio, poiché sulle cose di cui si parla nel processo ci sono molti dubbi. Quindi nel processo c´è chi sostiene1 una parte, chi l´altra. Vediamo con imbarazzo una richiesta così esigente dell´oltre ragionevole dubbio. Diciamo questo non per sostenere la "tesi della non certezza del diritto" perché il modo per difendere la certezza del diritto è proprio quello di conoscere i problemi della politicità. Non è un bel servizio che si fa alla certezza del diritto quando si parte sparati  con principi così altisonanti  che sono puntualmente non effettivi e non vengono puntualmente rispettati . Il valore della certezza del diritto non lo si tutela così.

Quindi il primo dubbio nasce perché il processo è il luogo del ragionevole dubbio, per cui pensare che il processo debba concludersi oltre ogni ragionevole dubbio suscita un certo imbarazzo . A questo punto dobbiamo andare a vedere i fenomeni, che cosa accede e se davvero le sentenze osservano sempre il principio dell´oltre ogni ragionevole dubbio.

Diciamo questo per spiegare l´imbarazzo che il principio del ragionevole dubbio possa essere un principio tassativo così come lo definiscono molte pronunce della cassazione per gli esiti del processo. Ci sembra che questa pretesa sia un po´ esagerata. Vorrei vedere come va a finire il processo. Si parte da una ontologia del fatto come realtà pungente e se allora il fatto è una realtà pungente, pensare di poter provare una realtà così pungente con un principio così robusto  come quello dell´oltre ogni ragionevole dubbio mi viene qualche dubbio. La ragione giuridica che ha questa tendenza a mostrate i muscoli attraverso questi principi di certezza del diritto come quello di tassatività. Il principio del ragionevole dubbio traduce una espressione della giurisprudenza americana, in particolare delle Corti californiane degli anni 60, "behind any rationable doubt"( = al di là di ogni ragionevole dubbio) ! Per fortuna qualche magistrato ha avuto lo scrupolo di togliere l´any e quindi è diventato per molti professori del diritto il principio dell´oltre il ragionevole dubbio. E già questa è una prova di saggezza che ci permette di vedere le cose con maggiore senso critico.
Il nostro ordinamento ha anche recepito per es. lo statuto del decreto del  Tribunale Penale Internazionale che è stato ratificato nel `99 in Italia, dove si fa rifermento a questo  principio nel processo. Questo è il primo motivo di imbarazzo di natura giuridica.

C´è poi un altro motivo di imbarazzo legato alla conoscenza del pensiero filosofico del `900 a cominciare dalla stagione del Circolo di Vienna (penso soprattutto a Ludovico Wictenstain) fino al momento problematico per la filosofia  della scienza, del metodo scientifico (penso a Popper). Si tratta di un imbarazzo è in senso culturale in senso più lato.Da una parte il `900 è stato contrassegnato dai teoremi di incompletezza (1931) di Kurt Gobel. Egli dimostra che in tutti i sistemi anche sufficientemente potenti sono incapaci di dimostrare la verità di tutte le proposizioni che utilizzano, c´è almeno una proposizione vera che non è dimostrabile. Quetso teorema diventerà poi basilare per gli sviluppi che la filosofia della scienza avrà per sostenere l´incapacità dei sistemi matematici  formali che sono più potenti a dimostrare la verità assoluta. Il `900 è contrassegnato da questa riflessione sulla debolezza della scienza. Infatti il primo teorema di Kurt Gober dice: << in ogni teoria sufficientemente potente esiste almeno un formula vera che non sia dimostrabile >>, cioè che nello stesso sistema non può essere dimostrato. Questa ipotesi diventa dimostrata da Gobel nei suoi teoremi detti d´incompletezza. Capite quale impatto ebbero questi teoremi sul storia della scienza (pensiamo a un spillo affianco ad un pollone aereostatico. C´è una sensazione di pericolo di questo genere).

Quando Popper pensa al metodo della scoperta scientifica sostiene che il metodo verificazioni , quello induttivo che caratterizza quel metodo, in se non porta a verità a assolute. Da 1 parte la filosofia della scienza ha sottoposto a pensiero critico la capacità della scienza stessa di sostenere verità assolute( una sorta di ammissione da parte della scienza dei propri limiti) dall´altra la ragione giuridica, dimenticandosi dei sui tanti problemi, invece rende emergente certezza di assolutezza delle proprie verità, quelle nel processo. Mentre nel `900 la scienza stessa ha dovuto rivedere le categorie della sua assolutezza, sottopone ad un vaglio critico se stessa, viceversa la ragione giuridica dice di giudicare oltre ogni ragionevole dubbio. Sembra strano visto che persino la geometria euclidea ha qualche dubbio su se stessa. invece no, nella ragione giuridica non ci sono dubbi,oltre ogni ragionevole dubbio. Anche se qualche professore preferisce parlare dell´oltre ragionevole dubbio che mi sembra un contenuto di moderazione che vale la pena considerare.

Concludo, dopo aver parlato male del principio  dell´oltre ogni ragionevole dubbio. Vorrei dire qualcosa a favore,  perché non vogliamo arrivare allo scetticismo. Pensiamo alle sentenze della giurisprudenza tedesca degli anni `60 `70. In particolar modo pensiamo alla vicenda nota e presente nella giurisprudenza tedesca di quegli anni, riferita alle sentenza  relative ai danni prodotti da alcuni farmaci, in particolar modo  la Paridomite (farmaco assunto come sedativo dalle donne in stato di gravidanza,molto in uso in quegli anni). Degli studi avevano dimostrato i danni clinici di questo farmaco già negli anni `50. I magistrati dissero, nonostante gli studi, che sebbene il farmaco creasse danni clinici, tuttavia c´è il principio dell´autonomia della magistratura che si basa su un sapere (diverso da quello delle scienze naturali , biologiche e medico - cliniche ) ed è il sapere delle Scienze dello Spirito. Secondo questa scienza, il compito del magistrato è quello di andare a vedere l´essenza delle cose. Questa è una grande sciocchezza, perché non c´entra niente andare a vedere l´essenza delle cose, es. nessuno si andrebbe a operare da un cardiochirurgo che si è formato sui trattati delle´essenza del muscolo cardiaco. Quindi la questione va vista sotto diversi punti di vista. Ma questo argomento lo riprendiamo nella prossima lezione.

 

Teoria dell'argomentazione giuridica

12°Lezione 26.04.2008

 

Riprendiamo il discorso da quelli che i giuristi chiamano "quaestio  facti", ossia il momento di prova di quelli che sono i fatti rilevanti per il giudizio nel processo. Infatti, dicevamo che ci sono istanze probatorie, proprie del processo, che si sono fatte strada come principi generali nel nostro ordinamento. L'istanza probatoria del Processo penale è quella Istanza che si forma dal Principio dell'Oltre ogni ragionevole Dubbio.

Principio che suscita qualche imbarazzo, un po' perchè  abbiamo cominciato a pensare al Processo come luogo, per antonomasia, del ragionevole dubbio, e quindi a parlare del principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, e poi… inserirlo in quello spazio che per antonomasia è quello del ragionevole dubbio, mi sembra che davvero susciti un certo imbarazzo. Poi perchè il '900 è uno spazio epocale del Dubbio, anche nelle scienze, che si potevano considerare con i loro teoremi potenti; ho citato, riguardo al dubbio delle scienze, i "Teoremi di incompletezza (1931)  di Kurt Godel, che dimostrano come anche i sistemi logico formali, che sono sufficientemente  potenti, “dotati di muscoli", hanno dovuto ammettere l'incapacità di dimostrare che tutte le formule che ricorrono all'interno di questo sistema, sono vere.

Il 1° teorema di  Godel  dice:"In ogni teoria sufficientemente potente esiste una formula vera, che non è dimostrabile."(è assunta come assioma, ma non è dimostrabile). Quindi se cio' vale per le scienze, a maggior ragione  vale per la ragione giuridica. Come la si può vedere in grado di portare avanti risultati, e a livello ermeneutico, e a livello di ciò che accade nel processo, tenendo conto che i fatti del processo sono accaduti nel passato?! A complicare le cose ci sono poi  i giudizi prognostici, che il Giudice deve dare per quanto riguarda le richieste cautelari. È qui c'è il problema di dover sapere quello che deve ancora accadere. Quindi ci sono 2  problematiche, per la scienza giuridica:
1 quello che è accaduto,
2 quello che deve ancora accadere,

Queste due  problematiche non si possono provare per definizione, perchè non ci sono più, non è mica facile provare una cosa che non c'è più! A ciò si aggiunga che i fatti rilevanti x il processo, non sono poi così esterni al processo stesso tanto da non implicare poi delle qualificazioni al suo interno. Infatti  a volte implicano anche qualificazioni morali ("quel fatto"che chiamiamo danno morale, offesa al pubblico pudore), oppure qualificazioni  giuridiche. Molti di questi fatti sono fatti giuridici, per esempio se c'è stato o meno un contratto di locazione; questo è un fatto con qualificazione giuridica. Vedete come torniamo alla "Quaestio Iuris", torniamo alle questioni ermeneutiche giuridiche. Ci sono fatti semplici: come il sole che sorge! Posto che io percepisca il sole che sorge in sé e non a partire dal mio sguardo, che poi posso anche avere dei dubbi sul mio sguardo e della mia efficacia a capire quello che accade.
Esempio: art 187 c.p.p."Bisogna provare i fatti, soltanto i fatti."
Dove sono i fatti? Quali sono i fatti? Qual’è la natura dei fatti? Sapere che il processo non ha certezze, non dà certezze... e poi partire da 1 principio così robusto, come quello: dell'oltre ogni ragionevole dubbio, lascia in sospeso il fatto che sia una finzione. Può sembrare una finzione, ma non di quelle giuridiche, di cui abbiamo parlato, che servono a rivelare meglio il diritto, ossia quelle che 'svelano' il diritto. È un  pretesto che ci aiuterà a capire che esiste, quello che non c'è, simula una certezza che non ci sarà mai, per questo appunto si va in processo.
Questo principio, crea un certo imbarazzo, però allo stesso tempo alla  vita del processo, perchè dà garanzie, dà certezze alla dignità dell'innocenza, infatti principio cardine dell'esperienza giuridica è l'innocenza; altrimenti saremmo fuori dalla giuridicità, in un senso ontologico profondo della giurisprudenza. (opinione del prof.: Questo succede a chi a una visione ristretta, bisogna vedere quello che c'è dietro). Fa’ bene rispetto a sentenze particolari, basti pensare a tutte le sentenze degli anni '60-'70 della giurisprudenza tedesca, relative ai danni prodotti da alcuni farmaci, in particolar modo la Talidomide  (farmaco usato, come sedativo dalle donne in stato interessante, che procurava danni irreversibili al feto). Infatti, in quegli anni, alcuni studi clinici importanti, avevano rilevato i danni certi prodotti da questo farmaco, nonostante tutto ciò, i Giudici nelle loro sentenze assolvevano sulla base della scienza, ma non di quella clinica, ma sulla base del Principio di Autonomia, fondando la loro autorità- autonomia  del Magistrato sulle Scienze dello Spirito, (che sono molto interessanti in base alla percezione del mondo che è scienza) ma sanno molto di spiritismo, non tenendo conto di dati univoci clinici e certi, dotati di forza scientifica seria.

"Geisteswissenschaften", puo anche significare una cosa 'seria' che ha a che fare con la ragione Giuridica, ma utiòizzato come unico metro di giudizio, quando invece ci sono Dati clinici così importanti, può significare non tener conto dei progressi della scienza. Quindi significava chiudere il processo davanti a saperi che sono rilevanti e certi. Non bisogna  confondere l'Imbarazzo, come maestro del Sospetto NO! Significa vivere fino infondo il pensiero critico, che è proprio del Filosofo con il suo dubbio metodico, non preoccupandosi di conoscere, non preoccupandosi di fare domande per sapere se le cose stanno davvero così, per arrivare a conoscere le cose che hanno a che fare con l'universale, avere la certezza che alcune cose sono proprio così, ed è solo l'universale che dà davvero la pace.
"Geisteswissenschaften" = Scienza dello Spirito.

Quando viene usato in modo autentico, si riferisce al sapere giuridico, presuppone non tanto il desiderio dello scienziato di Spiegare, ma di Comprendere. È un attività intellettuale di Comprensione, come Immedesimarsi nelle cose (per es. io m'immedesimo nella stessa vostra percezione, che voi avete delle cose che vi dico).

"Geisteswissenschaften": presuppongono più il Comprendere=Verstehen, che lo Spiegare=Erklaren. Nell' interpretare le norme,  non si ha  una percezione esatta delle cose, come quando per esempio, si usa un mezzo di esattezza uguale al Teorema di Pitagora, ma nel dire cosa dica una norma, c'è un senso autentico della Comprensione. Quando il Magistrato giudica usando le scienze dello spirito, fa un attività  di Comprensione, che è diverso dallo Spiegare. Cosa dicono i magistrati? Vanno a vedere l'Essenza dei fenomeni. È un  pò come farsi operare da un cardio-chirurgo che ha studiato su un trattato dell'essenza del muscolo cardiaco, pure sciocchezze. (Sono insani di mente!)

Wesen = essenza, che significa  l'Essenza dei fenomeni??

Posso parlare dell'Essenza del diritto, perchè non c'è una Fisica del diritto,  mi devo accontentare della conoscenza Fenomenologica, se parlo per esempio dell'uomo, uso la visione Aristotelica dell'uomo: "che l'uomo è un animale Razionale" Mi avvicino a una conoscenza reale dell'uomo, non  soltanto alla sua composizione chimico-fisica-organica. Ha un senso diverso. Qual’è il senso che dovrebbero invocare, quando usano "le Scienze dello Spirito" per motivare le sentenze, non di certo usandole in modo improprio. Infatti, se c'è una testimonianza diretta dei fatti (come il farmaco che produce danni), ci dovrebbe essere la Comprensione (Verstehen). Non lo si può Spiegare (Erklaren) come un teorema di Pitagora, ma invocare il principio di Autorità delle Scienze dello Spirito quando ci sono degli studi clinici, cosa centra? c'è solo da vedere la realtà del danno del farmaco su chi l'assunto. Quale sia il grado per provare questo danno, è un problema diverso. L'attività del Giudice è un attività legata al Comprendere. Comprendere cosa dice una norma, comprendere cosa dice l'imputato, cosa dice la  testimonianza. Anche" il fanciullo di Kant comprende la legge Morale, la comprende ma non la Spiega". Questo deve essere l'orizzonte conoscitivo del giudice", il Verstehen". Il giudice deve comprendere, non deve allontanarsi dagli studi clinici che sono stati fatti in quel periodo, usando solo le Scienze dello Spirito. Sono d'accordo con l’etichetta- principio" dell'oltre ogni ragionevole dubbio" (senza l'ogni che è un pò eccessivo), che deriva dagli ordinamenti anglosassoni della common-law, che è il principio Cardine per difendere l'innocente nel processo, serve a tutelare l'innocente, principio cardine dell'ordinamento giuridico, dell'esperienza processuale.

La nostra domanda  filosofica e ontologica: è se questa cosa la Comprendiamo, ecco qui l'intuizione estetica, e noi dobbiamo capire se la comprendiamo come un fenomeno giuridico o altra cosa."Dobbiamo capire cos'è il diritto e ci dobbiamo rapportare a cos'è il diritto" Nel Proc. Civile le istanze probatorie si formano nel principio " del più probabile che no". Con il Principio dell'oltre il ragionevole dubbio c'è troppo, nel principio del più Probabile che no c'è troppo poco...(esempio: al Teatro Orfeo ci sono mille persone che non hanno pagato e 1 solo ha pagato, è probabile che per il principio civilista "del più probabile che no", anche quell'uno è uno scroccone, e poi anche se 499 hanno pagato e 501 non hanno pagato, sono cmq tutti scrocconi perchè la metà più 1 non ha pagato; quindi per il principio suddetto sono tutti colpevoli, non è una bella trovata! Così  poi purtroppo ci ritroviamo di fronte a "casi" come quello americano del tizio che ammazzò moglie e amante "caso O.J. Simpson" che ebbe 2 sentenze diverse, 1 civile e 1 penale, sortite con sentenze diversissime e quindi con risultati ed effetti diversi. Pensate ad un pallone gonfio e grande con il suo piccolo spillo vicino, e capite  bene cosa succede. Quali sono, quindi i mezzi di prova nel Processo, per dare un istanza probatoria? Sono di diverso tipo: da una parte troviamo le  massime d'esperienza, che sono generalizzazioni dell'esperienza empirica, attraverso le quali il Magistrato dice che sono successe certe cose sulla base della generalizzazione; quindi con queste "common sense" si può trarre una conclusione. Dall'altra parte ci sono i mezzi di prova che fanno leva su conoscenze scientifiche, che hanno la loro riconoscibilità in un senso oggettivo, in quanto provate, intersoggettive e scientifiche. I "common sense" sono il prodotto della generalizzazione del senso comune, che sono appunto i detti comuni, i luoghi comuni, quindi sono un arco di conoscenze che vengono integrate con le massime di esperienza comune, quindi induzione per enumerazione semplice dell'esperienza comune. Bisogna stare attenti perchè nella lingua Inglese quando si parla di "common-sense", a volte ci si riferisce anche a dei "detti scientifici ", per la sua origine antica del senso comune. Mentre per noi c'è, più che altro, un riferimento alla generalizzazione dell'esperienza empirica che crea il convincimento,  che è quello che genera i Luoghi comuni.

La Topica (topos= Luogo), uso topica del senso comune, per dire appunto i luoghi che raccolgono i sensi comuni, la Topica che allude appunto alla raccolta di generalizzazioni del senso comune, che sono espressione di massimali. Queste richiamano al Sillogismo Retorico,  infatti quest'idea del senso comune è molto presente anche nella "Logica di Aristotele" quando parla del Sillogismo Retorico. E in particolare di quella figura del Sillogismo retorico, che  noi abbiamo toccato quando abbiamo parlato delle forme del sillogismo giudiziale. Quando Aristotele nella Topica parla del Sillogismo Retorico lo chiama: "Enthy'mema" e parla  delle qualità delle premesse del sillogismo "che sono premesse che sono il prodotto di  una condivisione di tutti o della maggior parte", che significa che non necessariamente per tutti sono vere, sono vere per alcuni e false per altri, di cui parla anche Perlman ereditando da Aristotele la Forma di questo sillogismo. Fonte del Sillogismo Retorico è appunto "ENTHY'MEMA", dobbiamo dire che il sillogismo retorico parte da premesse, tema delle premesse è la giustificazione esterna: "il grado di verità delle stesse", la cui verità non è assoluta, ma può valere per tutti o per la maggior parte, questo è il loro tratto caratterizzante. Queste opinioni che sono riconosciute da tutti o dalla maggior parte, ma c'è il problema da vedere per Aristotele se sono tutti sapienti, quindi c'è anche il rapporto della conoscibilità da parte di tutti i sapienti  o dalla maggior parte di essi e se sono tutti sapienti, infatti queste premesse hanno il problema che non c'è la presunzione di  assolutezza. Sono scomparse perchè noi parliamo ora, di massime di esperienza, di common-sense. Nella espressione di Aristotele sono: "E'NDOXA"= opinione condivisa (parola composta) dove En sta per uno e Doxa sta per Opinione. C'è da una parte un elemento di problematicità, della non-assolutezza, ma comunque queste non sono Opinioni del Singolo (non proprie del "singolo" Socrate-ipse au Socrate), sono Opinioni condivise da tutti. (esempio: Quando la Corte di cassazione interviene e vede se c'è motivazione, ed è adeguata, può eccepire che questa Opinione, quel luogo comune, è un Doxa, ossia opinione solo del magistrato, non c'è riscontro per ritenerla Opinione Comune e quindi ci si trova nell'insufficienza della  motivazione). Quando si parla di massime di esperienza, si parla di generalizzazioni dell'esperienza empirica, ossia induzione per enumerazione semplice, di cui parla Hume, quando vuole indicare una conoscenza Intuitiva alla quale si arriva attraverso una generalizzazione delle esperienze Empiriche. (esempi noti di Hume, il più celebre di questi è quello che riguarda l'evento che noi riterremmo necessario .. "come il sole che sorge al mattino"; Hume pone quindi l' ipotesi che ciò potrebbe anche non accadere, anche se fin'ora il sole è sorto al mattino).

Se penso ad una biglia che si muove in direzione di un altra biglia per colpirla, so già in anticipo che l'altra biglia si muoverà, e qui c'è  l'osservazione di Hume "che ci possono essere delle Variabili, che  impediscano che ciò accada", e questi  sono i problemi delle intuizioni per enumerazione semplice, i problemi strutturali. Ma  ci sono Problemi anche nell'uso delle Massime di esperienza e sono le Eccezioni. L' origine delle massime d'esperienza è "Endoxana", ed esse sono quei luoghi comuni che tentano di ripetere il Contenuto di Verità che Aristotele, non esprime, ma chiama " Endoxa".  L'idea di questi Luoghi comuni, che sono entrati di diritto nel Processo, grazie anche a due importanti autori Tedeschi  che hanno introdotto la funzione Probatoria delle Massime di Esperienza nel Processo. Uno e' Theodor Wiehweg, con l'Opera "TOPIK UND JURISPRUDENZ" del 1953, nella quale si sofferma su questi Luoghi, che sono i "Topik" (=luoghi comuni ), che entrano nella dottrina del processo e fanno parte della sua funzione probatoria, e vengono identificati come la Metodica Giuridica. L’altro autore è Gerard  Struck con l'Opera "TOPISCHE JURISPRUENZ" del 1971, nella quale si riferisce anche Egli alla Topica nella Giurisprudenza; anche quest'opera è molto importante perchè  è un Classico Giuridico. Le opinioni comuni, espresse in entrambe le Opere si basano su principi basilari e minimi della valutazione Giuridica, simili alle  "Regulae della dottrina del Diritto Romano", che si trovano pure nel Digesto, al libro '50; quindi si rifanno a ricostruzioni Basilari dell'argomentazione e della costruzione Giuridica. In realtà, quando si parla di massime di esperienza si allude ad una serie di Luoghi comuni, più vicini all'esperienza giurisprudenziale e sono quelli che vanno a formare e sostenere le motivazioni delle sentenze. Le Massime d'esperienza nel processo fanno riferimento a dei Luoghi più concreti. Esempio: " Tipo, quando una persona viene chiamata "Uomo d'onore". Questa infatti, è una Massima d'esperienza usata molto nei delitti penali, per indicare ed individuare  I Reati di Associazione Mafiosa". Molte di queste massime d'esperienza, presuppongono Forme di argomentazione tipo: a simili, al contrario, a porzione. Esempio:"Se tutti gli dei, anche gli dei ammettono di non conoscere, anche per i poveri uomini c'è un tipo di conoscenza Limitata"  cd. argomento  a porzione!

Quali sono i problemi che  formano le massime di esperienza?? Ci sono: 3 Generi di Problemi.

1°- Problema: "Le massime di esperienza, almeno quelle di cui abbiamo parlato finora sono il prodotto di una Induzione per enumerazione Semplice,  ossia sono delle Generalizzazioni dell'esperienza empirica semplice, che potremmo meglio chiamare: Luoghi Comuni. Quindi se è vero che riconoscono una Regola negli eventi, nella stessa misura Riconoscono implicitamente delle Eccezioni."Perchè  in primis, questa Regola è riconosciuta solo da alcuni, e poi perchè una Regola che si ottiene da Induzione per Enumerazione Semplice, si presta facilmente a delle eccezioni, ed è proprio questo il suo punto debole. (Esempio:"Chi sottoscrive un documento, sa di solito quello che sottoscrive, ma non è sempre così! La verità che si produce in alcuni casi, purtroppo non è proprio questa. In alcuni casi alcuni sottoscrivono, senza nemmeno sapere cosa!". Consideriamo ora  L'amore, che di solito è una cosa buona che rende, dovrebbe rendere felici, ma se facciamo riferimento all'amore di Cauno  innamorato di Biblide, sua sorella, capiamo come non è sempre una cosa buona, qui Aristotele fa riferimento al dramma dell'amore Incestuoso, una cosa Cattiva insomma")

Il mondo di queste generalizzazioni si presta a questi dubbi, che sono presenti proprio nel Sillogismo Retorico, e nella qualità delle premesse del Sillogismo Retorico. Queste forme di Generalizzazione hanno dentro di sé delle verità che devono fare i conti con le eccezioni, queste Regole si scontrano con le Eccezioni. (Esempio Giovanni 8:17 "Se ci sono due testimoni, per la legge ebraica, la loro Testimonianza è Vera! fa parte delle Regole Auree lasciate da Gesù nel Vangelo.) Il numero dei testimoni fa si che la testimonianza sia vera, ma  se pensiamo al caso dell'assassinio  di Thomas Becket, nella cattedrale, ci sono quattro TESTIMONI, che Testimoniano il falso! Infatti, questi Rappresentano L'ingordigia del Potere, emissari del Martirio, questi sono tutti emissari di Enrico II che voleva che fosse ucciso Becket. A volte, poi può non essere vera la Testimonianza dei Superstiti, perchè l'Essere Superstite, significa essere un Super testimone (super testes) che è l'Unico più vicino all'evento, tanto da rimanere   Condizionato dall'evento stesso, alterando in un certo qual modo la verità dei fatti accaduti. Fino a che punto Regge la Regola!?

2°- Problema: " Constatazione che alcune Massime d'esperienza, vengano considerate, come mezzi di prova solo in certi settori del processo, e non in altri." Esempio:"Indici presuntivi di reddito, negli studi di settore, sono mezzo di prova dei Reati Tributari ma non hanno la stessa efficacia nel Processo penale". La loro Fungibilità Parziale ci fa intravedere la Problematica, che fa riferimento al loro grado Probatorio nel Processo, che in alcuni casi può risultare insufficiente.

3°- Problema:" Anche  accertando che ci sono dei Luoghi Comuni, Common-sense, questi a volte fanno difficoltà ad essere Utilizzati, come Mezzi di prova, perchè sono Normativamente non Sostenibili". Quello che noi troviamo nella Realtà, non può essere non capibile o improponibile per la Norma. La normalità deve per forza avere a che fare con la Norma. (Esempio:"Di regola, le donne coprono il capo quando entrano in chiesa", posso intenderlo in 2 modi,  1. che regolarmente le donne entrando in chiesa coprono il capo, ma può anche significare  2. che c'è una norma che dice alle donne di coprire il capo quando entrano in chiesa. - Altro esempio - "Un testimone disinteressato è di solito attendibile”, ma può sorgere in questo caso un conflitto con un'altra massima tipo: CHE QUESTO TIPO HA INIZIATO A DIRE 'BALLE'.)
LE MASSIME NON SONO SUFFICIENTI PER ESSERE UTILIZZATE COME MEZZI DI PROVA!"
Ora... vorrei concludere questa lezione con un omaggio per tutte le ragazze si tratta di una massima d’esperienza del Famoso trattato di un autorevole magistrato, il Modestino Altavilla che dice: "La donna è meno Intelligente dell'uomo, ma è di lui  più Perspicace, più Astuta, e più Accorta, la donna quando il delitto trae le sue origini da un Dramma sentimentale è una spaventosa Testimone, perchè questa sua Percezione rapida e impulsiva di ciò che ferisce i suoi sentimenti la conduce inevitabilmente al dramma, spesso avvelenato dalla perfidia che essa Rivela. La donna, possiede infatti qualità intellettuali di essere inferiore che la rendono oltremodo Pericolosa come Testimone, perché inattendibile, specie nei processi Sentimentali, ove essa non si fa scrupolo a dichiarare il falso”. Vi invito a una riflessione scrupolosa su questa massima, oltremodo maschilista, ma che rivela un dato di fatto statisticamente riscontrabile nelle “false testimonianze” dei processi. Ci aggiorniamo tra una settimana.

 

Fonte: http://www.studiando.altervista.org/UNIVERITY/5%20anno/LEZIONI%201-%2012%20.ZIP

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

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