Cezanne Van Gogh Gauguin

 

 

 

Cezanne Van Gogh Gauguin

 

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CEZANNE

 

1. Cézanne e l'età contemporanea

1. Modernità e contemporaneità
L'arte "contemporanea" non è da confondere con l'arte "moderna", anche se nel linguaggio comune una tale confusione avviene di frequente. C'è addirittura una benemerita collana editoriale dei Fratelli Fabbri che si richiama esplicitamente all'Arte moderna, pur studiando i fatti artistici degli ultimi ottant'anni circa, che dunque sono fatti sicuramente "contemporanei". Si potrà obiettare che la disputa è in larga misura di ordine convenzionale: per eliminarla, basterebbe "convenire" sulla intercambiabilità dei termini "moderno" e "contemporaneo", sul loro uso indifferente. Ma, anche cosi, resterebbe da risolvere una questione sostanziale: quale nome trovare allora per distinguere tra loro il periodo che, grosso modo, va dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento, e il periodo successivo che si sta svolgendo ancor oggi? Perché, questo è il punto, sotto l'aspetto di una incisiva storia della cultura quei due periodi non si possono affatto confondere tra loro, corrispondono a cicli nettamente differenziati. Tanto vale allora riconoscere la saggezza delle vecchie periodizzazioni dei manuali scolastici, quali ci sono state insufflate fin dai tempi dell'insegnamento elementare e medio inferiore: età antica, età di mezzo, età moderna, età contemporanea.


Naturalmente riconoscere tale saggezza non vuol dire accoglierne anche i criteri discriminanti, che infatti, alla luce delle nostre attuali esigenze storiografiche, appaiono irrimediabilmente superficiali, fondati come sono sul rilevamento di fatti esterni: guerre paci, scoperte geografiche, nascite e morti di uomini celebri. Fatti che, certo, hanno avuto la loro coerenza, ma che quasi sempre sono stati la "goccia che fa traboccare il vaso". Una storiografia avveduta punta oggi sulla ricerca di fattori "forti", agenti in profondità sull'assetto generale delle società e delle culture. E poi abbastanza evidente che una parte dominante nell'ispirare i nostri attuali criteri storiografici l'hanno avutamovimenti che, dal positivismo al marxismo al pragmatismo, hannoportato a privilegiare i fattori materiali legati al mondo del lavoro edella produzione, rispetto a fattori "alti" come quelli religiosi, filosofici, ideall, nel senso proprio e originario della parola.


Nel corso del presente lavoro si insisterà soprattutto su un ambito particolare di tali fattori materiali attivi a un livello profondo: quellodei fattori tecnologici. L'uomo si distingue dagli altri animali per la capacita di armare i suoi sensi, anzi, di prolungarli mediante l'assunzione di utensili, e di acquisire una abilita tecnica nell'usarli. Ma non basta ancora, poiché anche presso certe specie animali si potrebbe trovare questa stessa facoltà di assumere utensili e di raggiungere un'abilità tecnica; I'uomo si caratterizza ulteriormente per il fatto di saper rinnovare le proprie tecniche, liberandosi di tanto in tanto di quelle rivelatesi non più efficaci, e inventandone altre più idonee. Inoltre,questo stesso prolungamento tecnologico è tale da superare il fastidioso bisticcio tra la materia e l'idea, il corpo e la mente: I'uomo prolunga indifferentemente (o meglio, congiuntamente) sia la rete sensoriale,sia il sistema nervoso. Gli strumenti assunti, a loro volta, possono essere sia di natura strettamente materiale sia di natura ideazionale o progettuale (p. es. Ie parole, i numeri). Nel complesso rimaniamo pur sempre a uno scambio di azioni, vale a dire a un rapporto inter-attivo nei confronti del mondo, o della natura, o dell'ambiente, rapporto che quindi si dovrà dire fondamentalmente materiale: ma non certo di un rozzo e brutale materialismo, poiché in esso troveranno un posto adeguato anche gli strumenti ideali. Le idee sono assai spesso i mezzi più efficaci per trasformare il mondo; ma d'altra parte sarà una trasformazione i cui esiti ultimi dovranno avere un tangibile esito materiale, e solo in base ad esso potranno venir misurati.


Queste poche righe offrono una versione sintetica della dottrina notevolmente suggestiva di un "culturologo" canadese, Marshall McLuhan,a cui si devono riconoscere, malgrado certa facilità paradossale e umorosa di espressione, intuizioni di grande valore e soprattutto di grande utilità nell'affrontare i maggiori problemi della storia delle culture umane. In particolare, in una delle sue opere principali Gutenberg Galaxy, McLuhan ha caratterizzato con un massimo di efficaciae di funzionalita l'età "moderna" (anche se egli non ricorre a questa precisa etichetta, del resto ovvia e banale; per lui, l'età "moderna" è piuttosto l'età di Gutenberg o della stampa). In base al postulato principale della sua dottrina, che altrove abbiamo definito come un materialismo storico tecnologico, l'atto inaugurale della "modernità" è appunto l'invenzione di Gutenberg, I'introduzione di un nuovo medium tecnologico, la stampa, la "macchina" per comporre con caratteri mobili. Pressoché infinite sono le conseguenze che McLuhan ne fa discendere, ad ogni livello socio-culturale. Per questa sua affascinante capacità di spremere da una innovazione tecnologica un numero strabocchevole di esiti,lo si può paragonare ad un prestigiatore che tira fuori dal suo cappello a cilindro un'intera arca di Noé. Ecco subito alcune grandi conseguenze socio-psicologiche (cioè di psicologia collettiva): per effetto della nascita del libro a stampa ci siamo abituati a privilegiare, come strumento di comunicazione, la "pagina", il foglio,la superficie piana, e ad adottare nei suoi confronti una distanza standard, vincolandoci cosi a un punto di vista e a un atto di percezione consistente nell'inviare sull'oggetto un fascio piramidale di raggi ottici. Già la "pagina" ci impone, attraverso una paziente azione subliminale, il carattere ottimale di un formato geometrico (il rettangolo, per lo più); ma, quello che più conta, anche al suo interno questa "normalità" geometrica viene ribadita attraverso la "gabbia" tipografica: il blocco dei caratteri rispetta anch'esso un andamento rettangolare, costituendosi secondo un ritmo di orizzontali e verticali (le righe e le colonne) regolato a sua volta da sensi obbligati di lettura (sinistra-destra per le righe, alto-basso per le colonne). Successivamente (McLuhan non è impaziente, mette in conto dell'effetto dei media tecnologici sulle nostre condizioni psichiche lunghi decenni di azione subliminale) gli specialisti di "idee", cioè i filosofi e i matematici, estrarranno di li una completa "ideologia" (o più precisamente epistemologia) che culminerà nella geometria analitica di Cartesio e porterà a conferire un privilegio agli assi incontrantisi a perpendicolo e costituenti i parametri di un sistema capace di misurare ogni punto dello spazio.


Il che significa che ancor prima si è proceduto a concepire lo spazio stesso come un'entità omogenea, ugualmente diffusa nelle tre dimensioni,capace di mantenere ovunque le stesse proprietà: non ci sono un centro e una periferia, una zona direttamente percepita e una solo marginalmente; un'unica legislazione s'impone su ogni punto.
Altre proprietà che McLuhan fa scaturire dal "cappello a cilindro"gutenberghiano, proprietà questa volta a carattere socio-economico: il libro (il sistema comunicativo che si vale della superficie piana) è estremamente "comodo", ha un ingombro materiale relativamente esiguo (se comparato ad altri sistemi di registrazione: manoscritti, pergamene, lapidi, ecc.), e nello stesso tempo può esser riprodotto in gran numero: esso è il primo esempio di prodotto industriale in serie, di merce relativamente a buon mercato che può raggiungere una vasta diffusione. I contraccolpi di questa stessa "facilità" sono vistosi e di grande importanza: appunto perché ora (un "ora", anche qui, scaglionato in vasti decenni o addirittura nei secoli successivi all'invenzione gutenberghiana) molti sono in grado di possedere individualmente il libro, la sua lettura diviene un fatto privato, nonché "silenzioso", ottico-mentale; la comunicazione a stampa (o in genere su superficie)implica il forte sviluppo della vista, a detrimento di altri tipi d'intervento sensoriale (acustico, gestuale, tattile); questi possono godere solo di una presenza virtuale, sempre più estenuata. Proprio per tali sue peculiarità,    la  stampa  costituisce  tipicamente  ciò  che   McLuhan          
chiama un medium "caldo", volto a privilegiare un canale sensoriale sugli altri e a offrirci comunicazioni (immagini) ad alta definizione, tali da favorire la nostra passività.
Gutenberg dunque come terminus a quo della "modernità". Quale il terminus ad quem, per McLuhan? Naturalmente, come per il primo egli ha disprezzato gli eventi di superficie sul tipo della caduta di Costantinopoli, della scoperta dell'America, della morte di Lorenzo il Magnifico, cosi per il secondo disdegna l'evento, pur incisivo, della Rivoluzione francese. Anche in questo caso occorre andare alla ricerca di un fattore "forte", tecnologico; lo studioso canadese crede di ritrovarlo nell'impiego via via crescente dell'energia elettrica, vale a dire nell elettrotecnica; questa a sua volta si incanala fin dall'inizio in due branche principali, nella prima delle quali avviene una surrogazione: l'energia elettrica al posto di quella chimica, di combustione, calorifica (vapore acqueo) per far andare le macchine (elettromeccanica); nella seconda avviene la surrogazione graduale dei mezzi comunicativi affidati alla superficie scritta: l'elettronica, ovvero il ramo delle correnti elettriche deboli, assume su di sé l'onere dell'informazione. Si può ben dire che la "galassia Gutenberg", a questo punto, è sostituita da una galassia elettronica". Con un notevole décalage, questa volta, rispetto alle date ufficiali della periodizzazione scolastica, poiché per avere qualche applicazione incisiva dell'elettrotecnica (al di là dei puri e semplici esperimenti di laboratorio) bisogna attendere per lo meno gli anni Sessanta del secolo scorso (dunque, quasi un secolo di ritardo rispetto al limite tradizionale della Rivoluzione francese), quando rispettivamente l'anello di Pacinotti e la posa del primo cavo telegrafico transoceanico inaugurano l'età elettrica nelle due facce essenziali della meccanica e dell informazione.


Perché tanta importanza alla rivoluzione elettrica? Perché anche qui, in modo analogo all'azione della stampa, ma con effetti totalmente diversi, abbiamo una paziente, decennale opera di manipolazione subliminale esercitata dai nuovi media sulle nostre condizioni generali di perccezione e di "estetica" nel significato originario della parola, cioè di sensorialità, di comportamento: l'elettricità è istantanea, coinvolgente; quando essa "corre" in un circuito, in esso si crea uno "stato nuovo che ne riguarda contemporaneamente tutti i punti; essa è di natura tipicamente relazionale-globalizzante: potremmo addirittura definirla "gestaltica" per intima costituzione, applicandole con effetto retroattivo un termine che del resto ne sarà successivamente uno dei frutti più cospicui a livello ideale, sovrastrutturale. Se la nostra cultura ha compiuto un'opzione cosi decisa per gli schemi di interpretazione di tipo, appunto, gestaltico, strutturalistico (almeno in tutti gli ambiti concernenti l'uomo), ciò si deve alla lunga azione esercitata su di noi dall'uso della corrente elettrica come strumento di produzione e di informazione. E in particolare gli intellettuali e gli artisti3 sono coloro che presagiscono il compiersi di una tale grandiosa mutazione estetico-percettiva, e cercano di teorizzarla, di sottrarla al livello in consapevole, subliminale, facendola conoscere alla luce del sole, e il tal modo affrettando la caduta delle molte resistenze psichiche con cu viceversa saremmo portati a combatterla, a ritardarne lo svolgiment per istintiva difesa delle abitudini acquisite in passato. Se l'età di Gu tenberg ha (per usare un termine di Panofsky)4 la sua "forma simboli ca" nella linea retta, l'età elettrica (elettronica) si identificherà piutto sto nel circolo, che è anch'esso, qui più che mai, una schematizzazio ne, una riduzione planimetrica, poiché in realtà la corrente elettricí è di natura ondulatoria, simbolizzabile quindi con maggior aderenzí attraverso la figura geometrica della sfera; ma certo il circolo, per 1 meno, sancisce il carattere di strutturalità (il darsi la mano, il fare gi rotondo), che è forse il più rilevante dell'età contemporanea.
Vediamo ora come si traduce una simile periodizzazione "forte' nell'ambito delle arti visive. Il terminus a quo della "modernità" si im pone da solo: è appunto la costituzione della prospettiva rinascimenta le; ma quale il terminus ad quem? Ebbene, qui forse si deve avere i coraggio di un'affermazione paradossale: esso è dato dall'Impressioni smo, in cui quindi è da vedere l'evento ultimo, il perfezionament estremo della "modernità", piuttosto che il punto d'avvio della con temporaneità.
L'Impressionismo, o per meglio intenderci, e per riportarlo ai suo: termini essenziali, l'arte di Pissarro, Monet, Sisley, ha quei grand: meriti che tutti conoscono, e che fecero si che esso infliggesse uno de primi, fondamentali choc alle abitudini psico-sociali di quei tempi. Ma ciascuno di questi grandi meriti si presta, ambiguamente, a esser vistc appunto come un perfezionamento ultimo dei criteri prospettici rina scimentali, e dunque come una vittoria estrema della modernità, ir piena affinità e concorrenza con lo strumento tecnico che frattantc sembrava esser venuto a sancire in modo perentorio il carattere "ve ro", scientifico, inoppugnabile di quella stessa visione "moderna", cioè la fotografia, ovvero la tecnica in cui il principio della camera oscura si realizza a livello materiale, e non più soltanto ideale, di ipotesi mentale. Il primo dei grandi meriti concordemente riconosciuto dell'Impressionismo è di aver eliminato, dalla rappresentazione della realtà, gli elementi letterari, di posa, di eloquenza, per una constatazione nuda e spoglia, ove la parte dell'uomo e dei suoi valori viene ridimensionata a favore di una più equa ricettività dei dati di natura. Ma non è forse questo l'ideale che, in quegli stessi anni, cercava di conseguire la macchina fotografica, nelle sue applicazioni più schiette, cioè nell"'istantanea", quando insomma la fotografia segue la sua vocazione non cercando di imitare la bella pittura attraverso pose studiate e declamatorie?


In secondo luogo l'Impressionismo è importante perché fa saltare, con una decisione fin li non raggiunta da altri, le nozioni distaccate e chiuse delle singole cose, in nome di un continuum, di una pasta mondana unica in cui si compenetrano cose e carni umane, abiti e vegetazione, cielo e acqua.
Si costituisce un complesso sinergico unitario di nozioni (forme) + colore medio + colore "portato" o atmosferico (luce); ogni pennellata di un quadro impressionista porta contributi congiunti alla co-determinazione di questi tre fattori (mentre in tutta la pittura precedente essi intervenivano separatamente). Ed è in ciò senza dubbio un estremo ardimento, come di un matematico che lascia le rive sicure delle equazioni a una sola incognita per impostare di colpo un sistema a tre incognite. Ma, ancora una volta, che cosa consente agli Impressionisti un tale ardimento, se non appunto la consapevolezza di un controllo estremo da potersi esercitare sui dati informi e confusi mediante l'applicazione della gabbia prospettica? Questo il segreto, invisibile sistema di riferimento che permette loro di muoversi con estrema scioltezza nel caos delle impressioni locali e di riportarle entro un ordine finale, benché tutt'altro che appariscente. Certo, il principio della piramide rovesciata e della convergenza in un unico punto di fuga si impone ora quasi alla chetichella, non più appoggiato a scoperti grafismi, a tracce "disegnate". Ma il disegno, cui per quasi quattro secoli la "modernità" pittorica aveva appoggiato prevalentemente l'affermazione della prospettiva, che cos'era, se non un atto arbitrario una correzione ideale-umanistica apportata ai criteri stessi della "camera oscura" e della fotografia? La foto non conosce disegno, se non là dove i bordi di un qualche corpo massiccio offrono un confine perentorio e ineliminabile; per il resto, essa è fatta di passaggi continui e sfumati: le si possono riconoscere, semmai, valori icastici (di estrema, sfumata sottigliezza ricettiva), ma in nessun modo iconici (di netta sagomatura degli oggetti). Ricordiamo che ad avviso di McLuhan, se la televisione, a differenza del cinema, è un medium tipicamente "contemporaneo", lo si deve al fatto che sul video (diversamente che sullo schermo) rinascono, appunto, valori iconici, le immagini cioè ci appaiono sagomate, stilizzate, perché costituite in base a un reticolo rado e povero di impulsi luminosi, costrette cosi a stampare i loro profili con netta evidenza. Anche per questo verso insomma gli Impressionisti competono con la fotografia nel riportare lo spettacolo della natura a un fatto di gradazioni icastiche, tonali, sfumate, e non certo brutalmente evidenziate dal "disegno". La "piramide", nelle tele impressioniste, è sottilmente resa attraverso pennellate via via più compendiarie, man mano che si trattano i "lontani"


Il più sicuro terminus a quo della contemporaneità è fornito da chi sistematicamente e di proposito affronta, viola, ristruttura i cardini della prospettiva tradizionale. Il primo artista ad avere in pieno tutti questi crismi è incontestabilmente Paul Cézanne. C'è un paradosso nella sua data di nascita, quel 1839 che lo fa perfettamente coetaneo di Sisley, di appena un anno più vecchio di Monet, e solo di una decina d'anni più giovane di Pissarro (1830) e di Manet (1832). La sua carriera del resto sarà a più riprese intrecciata alla loro. Si sovrappongono cosi le date, i percorsi di quanti hanno avuto il ruolo storico di portare al più alto compimento l'impresa "moderna", e di chi al contrario ne è stato il più coerente e completo eversore, in netto anticipo sui tempi. McLuhan, qui, invocherebbe il ruolo anticipatore spettante ai grandi intellettuali. Del resto, c'è una suggestiva coincidenza: Cézanne ci dà le prime prove di una resa spaziale fondata sulla circolarità in quello stesso settimo decennio in cui elettromeccanica e telegrafo fanno i primi passi tra i media materiali, incominciando a imporre subliminalmente il modello circolare.


Chi può essere affiancato a Cézanne? Tra i suoi coetanei, soltanto Odilon Redon, ma in modi incerti e intuitivi. Bisognerà attendere, in una generazione successiva, l'avvento di Seurat, o, soltanto una mezza generazione dopo, i tormentati percorsi di Gauguin e di Van Gogh, del resto fecondati dai "giovani" nati attorno al 1860, per avere altri apporti sostanziali alla istituzione di nuovi criteri prospettici. Ma Cézanne, oltre che essere il primo, resta anche il più influente fra tutti: non c'è nessuno, fra quanti, nella contemporaneità, hanno lavorato a livello di rappresentazione di modelli spaziali, a potergli essere paragonato per vastità d'influenza. Gettando uno sguardo ad altre zone dell'attività culturale potremmo stabilire un arrischiato parallelo con il culturologo tedesco Wilhelm Dilthey, il primo grande profeta, nelle scienze umane, del nuovo stile strutturale. Gli altri filosofi che, per usare una felice immagine di McLuhan, saranno chiamati a "fare il surf" sulla grande onda della civiltà elettrica, cioè Dewey, Bergson, Husserl, nascono quasi una generazione dopo Cézanne, tra il 1850 e il 1860. Gli artisti visivi che sanciranno definitivamente la pluralità dei punti di vista, la percezione estesa nel tempo e mossa nello spazio, passando poi a surrogarla addirittura con elementi ideali, nasceranno solo attorno al 1880.


Converrà ora osservare che non a caso si è definito Cézanne come l'artista più influente e maggiore fra quanti, nella contemporaneità, si sono occupati del problema di come rappresentare la percezione, o anche l'intellezione dello spazio. In ciò è adombrata una limitazione, del resto storicamente motivata e inevitabile: Cézanne è il primo, anche in ordine di tempo, e il più rigoroso nell'abbattere i criteri "moderni" di rendere su una superficie piatta l'illusione, I'immagine virtuale di uno spazio a tre dimensioni: ma d'altra parte, dalla modernità, egli continua ad accettare l'istituto della superficie piana, o della tela dipinta, o del quadro: istituto che è, al tempo stesso, di natura percettiva-epistemologica e sociale-economica. Mentre una radicale interpretazione della contemporaneità (ovvero della cultura riposta sulle vibrazioni sferiche dell'energia elettrica) vuole che si ragioni in termini tridimensionali, non soltanto simbolicamente, cioè rimanendo pur sempre a una trascrizione virtuale dello spazio, ma in termini concreti, cioè di tangibile spazialità, o spazio-temporalità. E questa una delle matrici dell'arte contemporanea oggi in piena espansione, che non si può far uscire dalla rivoluzione cezanniana.


Forse certe prime avvisaglie in tal senso si possono già scorgere presso il Simbolismo (Gauguin e i Nabis che, pur tanto meno influenti di Cézanne nelle loro proposte di spazio virtuale, cominciano però a ragionare in termini di manipolazione diretta dell'ambiente, dandosi a fabbricare da sé le proprie suppellettili, i mobili, i vestiti, o a decorare il proprio domicilio). Una forte ripresa, ma con tutt'altro segno, si avrà poi con il Dadaismo, e una decisa continuazione sul filo dei movimenti che, in tempi più recenti, portano dall'happening alle ricerche di environment e di comportamento.
Infine, sarà bene indicare anche un terzo filone maggiore presente nella contemporaneità. Un valido spunto per introdurlo ci può essere fornito ancora una volta da McLuhan, il quale prevede, per il nostro tempo, due esiti principali, uno dei quali è quello già visto, corrispondente anche a una scelta originale e autentica dell'era elettrica a favore della circolarità di vita e di esperienze (sia poi essa "rappresentata" virtualmente su una superficie piatta, come è nella discendenza cézanniana, o concretamente vissuta e gestita, come nella discendenza dadaista); l'altro esito consiste, all'opposto, nel disperare circa la possibilità che il nostro tempo giunga a costituirsi uno stile autentico: troppa è la sedimentazione di stili e forme del passato che, grazie alla rapidità stessa di informazione, grava su di noi; non si può pretendere di aggiungere altre forme all'infinito repertorio già depositato nei musei della nostra cultura; meglio allora "rivisitare" i musei stessi, compiere una sorta di operazione combinatoria, a sfondo essenzialmente ludico, fra tutte quelle forme già acquisite affrontandone il carattere inevitabilmente stereotipato; basterà questa stessa consapevolezza di osare l'inosabile, per ritrovare cosi da ultimo un margine seppur esiguo di originalità. Il kitsch, il cattivo gusto, il "già visto" e "già fatto", se affrontati consapevolmente, possono essere scaricati dei loro veleni e resi nuovamente fruibili. In fondo, i vari revivals, che dalla fine del Settecento e per tutto l'Ottocento si sono succeduti con ritmo regolare rientrano tutti in questa prospettiva e trovano una continuazione in territorio novecentesco nella Metafisica, nel Surrealismo, nella Pop Art, fino al fenomeno della Ripetizione differente. Naturalmente le cose non sono mai cosi nette e separate, ciascuno dei tre filoni qui indicati vive di continue intersezioni con gli altri; e forse solo in via ipotetica può essere estratto e nettamente distinto.

 

2. Il periodo cosiddetto "romantico "

Tutte le tappe del percorso cézanniano sono state ampiamente sviscerate dalla critica,5 tranne la prima, quella del periodo cosiddetto "fantastico" o "romantico" (comprendente all'incirca il primo decennio di attività dell'artista, tra il 1860 e il 1870). Eppure si tratta di un periodo di estremo interesse, suscettibile di fondamentali illuminazioni su tutto il percorso successivo, non privo neppure di indicazioni valide a lungo termine, e non soltanto entro la storia personale di Cézanne. Che quei lavori si possano dire "romantici", è vero ma soltanto dal punto di vista tematico: infatti il primo Cézanne, pur non mancando di incontri anche approfonditi con Manet, Pissarro, Monet (nel corso dei suoi non rari viaggi a Parigi dalla natia Aix-en-Provence), dedica un interesse minore al motivo di natura (paesaggi, nature morte, ritratti), preferendo assorbirsi nelle composizioni a sfondo letterario-mitologico. Ma di qui a inferire che anche l'animus con cui affronta tali temi sia romantico (nel qual caso il termine perderebbe il suo significato originario per assumere quello più diffuso e comune, di rispondenza a un ardore e a un'impetuosità soggettiva), ci passa molta distanza. Va bene che siamo ai primi passi, ma in un artista di tanta concentrazione e determinazione è possibile supporre un inizio opposto agli svolgimenti della maturità? Ora, il Cézanne maturo combatterà senza posa, anche nelle dichiarazioni scritte (le lettere) e in quelle orali raccolte dall'amico Gasquet,6 lo spirito littérateur, che a parer suo interviene a falsare la logica della percezione visiva e miete vittime tra gli artisti anche più dotati. I maestri del museo cui il giovane artista si ispira sono Tintoretto, Veronese, Rubens, Delacroix (il Greco, per espressa dichiarazione di Cézanne, è un'induzione dei critici, non suffragata dalle sue effettive conoscenze).~ Naturalmente a contatto con questi nomi si riconferma, anzi si potenzia l'equivoco "romantico", magari corroborato da quello di un animus barocco indebitamente aggiunto, poiché a stretto rigore storiografico quasi nulla vi è di comune tra il barocco e il romanticismo. Non sono forse, quegli artisti, altrettanti campioni della pennellata esuberante e contorta? Ma Cézanne dichiara risolutamente di non averli "letti" secondo un tale spirito: in loro, fin dagli inizi, egli ha visto soprattutto dei campioni della "resa" piena e matura della realtà; delle loro curve e guizzi egli non ha affatto una coscienza distaccata: li avverte anzi come potenti fremiti della materia (della carne nel mondo), necessari per darle un conveniente grado di pienezza. Del resto il Veronese, inserito nella pattuglia e con ruolo dei più autorevoli, è una controindicazione degna di nota (e anche Tiziano e Poussin sono della partita). Anticipiamo allora l'ipotesi che cercheremo di verificare attraverso l'esame delle opere del primo decennio: fin da quel momento l'artista segue l'imperativo di tutta la sua vita, che consiste nell'analizzare la logica del visibile, nello svelare i principi della percezione, imperativo rispetto al quale i temi romantici assunti hanno solo un compito strumentale. La logica del visibile, poi, già in quest'ora iniziale, per Cézanne è profondamente diversa da quella codificata nella prospettiva rinascimentale e quindi nel principio della piramide tronca rovesciata. Il sistema che egli sostituisce è basato invece sull'immagine dello sferoide, i cui elementi portanti sono curvilinei (parabolici o iperbolici, a seconda dei casi).


Trova verifica fin d'ora la curiosa espressione, usata dall'artista in maturità, che l'occhio convenientemente educato si debba fare quasi concentrico. E trova anche verifica una specie di legge geologica per cui le punte estreme, in su o in giù, si trovano sulle linee di frontiera: l'Himalaya sorge vicino alla più profonda fossa oceanica: analogamente, le più pure indicazioni di prospettiva sferica ci vengono date dal "primo" Cézanne, cioè contemporaneamente alle più canoniche applicazioni della prospettiva rinascimentale-rettilinea, quali vengono offerte dai suoi amici Impressionisti. Ed è anche una sorprendente coincidenza con le teorie di McLuhan: un grande intellettuale sceglie come "forma simbolica" dello spazio lo sferoide, nel momento stesso (anni Sessanta) in cui i medla elettrotecnici iniziano a imporre al nostro senso comune quello stesso schema di organizzazione sensoriale, ci abituano cioè a ragionare e a sentire sfericamente, e non più linearmente.
Alla luce di queste ipotesi, conviene recuperare perfino i due primissimi dipinti di un Cézanne appena ventenne (Bambino con pappagallo, Due bambini). La fattura non meriterebbe quest'attenzione, perché sembrerebbe di doverla mettere in conto dei passi timidi di un "dilettante" Ma balza agli occhi una contrazione delle figure lungo un asse verticale, come se fossero state schiacciate tra due pesi, e ne uscissero con una grave deformazione anatomica: cosi pronunciata, cosi priva di rispondenze, in tutta la produzione di quei tempi, da far pensare appunto di doverla ascrivere a un errore da principiante, da giovane agli inizi di carriera, che non conosce bene l'anatomia e quindi commette errori grossolani. Viceversa è il primo annuncio di un deciso atto d'eversione rispetto alla "forma simbolica" della "modernità": questa, come si notava sopra, colloca le grandezze distribuite lungo l'asse verticale in una specie di zona franca, che non patisce deformazioni; grave arbitrio, poiché al contrario, in base al criterio di una prospettiva sferica, solo le zone centrali mantengono le proporzioni reciproche; le altre, in alto e in basso, subiscono per l'appunto una contrazione (come avviene anche sul video). Il giovanissimo Cézanne ha già intuito questa diversa logica del percepire e da quel momento in poi la rispetterà sempre; le varie parti del corpo umano non potranno mai sperare, nelle sue tele, di vedere rispettati i reciproci rapporti come vorrebbe una corretta anatomia. In genere le gambe risulteranno schiacciate, o al contrario allungate, e in tal caso sarà il resto del corpo a subire una contrazione.
Ma veniamo ai temi mitologici, che hanno fatto fantasticare i critici circa un periodo barocco e romantico del giovane Cézanne. Questi si annunciano prestissimo, già nel 1860-61, per esempio con Il giudizio di Pande. Eppure come non avvedersi che le figure "fantastiche" sono, già qui, dei puri pretesti per esibizioni plastiche, né più né meno di come avverrà per tutti i bagnanti e le bagnanti degli anni successivi, fino alle ultime prove della piena maturità? Le carni di questi nudi si allargano, si gonfiano, o viceversa si contraggono e restringono solo per esigenze di resa dello spazio (inteso come un antro sferico colmo di attrazioni e risucchi): non c'è una sola deformazione che mostri di rispondere a esigenze "letterarie", iconologiche. Ed è già stabilito inoltre il rapporto con Poussin, che ovviamente è da leggere nei due sensi: non soltanto cioè come un richiamo dell'artista contemporaneo verso il passato, ma anche come una riabilitazione a nuova fortuna del maestro lontano.


Continuiamo con Autopsia, senza troppo insistere, a differenza di altri,9 sul fatto che la composizione sembra distribuirsi per il lungo, "a fregio", scartando la profondità e quindi ricercando, in apparenza, un effetto bidimensionale. Ma in realtà Cézanne non è mai bidimensionale: il suo problema è pur sempre di ordine "prospettico", volto cioè a dare un'illusione di profondità, benché con elementi curvilinei, il che quindi implica inevitabilmente una contrazione della profondità. Infatti la parete di una sfera non può mai allontanarsi da noi quanto il vertice di una piramide, al quale invece è consentito di fuggire via praticamente all'infinito, con una netta sproporzione tra il primo piano e lo sfondo. In una visione sferica, invece, tra questo e quello esiste una stretta implicazione reciproca. Ma conta soprattutto rilevare, nell'Autopsia, un "fare" stilistico che è tipico di tutto il primo tempo cézanniano, consistente in un ritmo alternato di dilatazioni e contrazioni: a tratti i corpi si aprono in vaste campiture, restando vittime però, subito dopo, di improvvisi riflussi inflitti da un disegno imperioso, pronto ad applicare come delle strozzature. Si deve scorgere in tutto ciò il risultato tangibile di uno spazio che è di natura pulsante-vibratoria, che ritmicamente apre e chiude come una pompa cardiaca. Ne viene, anche, una configurazione predominante che potremmo dire "a salsicciotto" appunto per il succedersi di gonfiori e restringimenti.


"Colazione sull'erba" è forse il risultato più pieno del periodo "sferoidale". Il tema, intanto, va avvicinandosi a quelli della linea naturalista-impressionista: è chiaro l'influsso delle analoghe composizioni di Manet e Monet; certo, al confronto, il trattamento cézanniano appare più fantasioso, ma di una fantasia al solito docilmente posta al servizio di problemi spaziali piuttosto che psicologici e letterari. La sfera, qui, ha il suo centro gravitazionale nei due frutti intensi e luminosi posti sulla tovaglia: una conferma avanti lettera del detto, già ricordato, che l'occhio dell'artista deve farsi concentrico e porre nel punto focale tutta la luce possibile. Attorno a quel nucleo ruotano, lungo traiettorie leggermente divergenti (paraboliche piuttosto che circolari) le figure umane, fra cui perspicua soprattutto quella di sinistra, ove ritroviamo la fattura a salsicciotto, che si vale in questo caso del particolare, al tempo stesso anatomico e modistico, del vitino, più che mai d'ape: addirittura una strozzatura, da cui, sopra e sotto, la materia mista di corpo e di stoffa sembra emanare quasi per incantesimo, o meglio per erogazione ectoplasmatica, o uscendo da qualche bomboletta nascosta.
E cosi si dica più o meno di ogni altra figura. Meritano poi particolare attenzione le traiettorie dei due tronchi d'albero ai margini della composizione: nel loro caso, la divergenza, già rilevata nell'inarcamento descritto dalla donna di sinistra, si è talmente accentuata da assumere ormai un netto valore centrifugo: quei fusti spingono decisamente "fuori", mandano all'aria ogni ipotesi centripeta. E importante rilevarlo, a parziale rettifica del modello sferoidale cui insistiamo a ricondurre la prospettiva cézanniana (e non soltanto in questo "primo tempo"). Uno spazio regolarmente sferico, infatti, rischierebbe di apparire troppo chiuso, simmetrico al suo interno, in equilibrio olimpico. Al contrario lo spazio cézanniano è drammaticamente aperto, illimitato ai suoi confini, onde meglio rappresentare la stessa apertura del nostro campo percettivo, il quale è sempre pronto ad afferrare "con la coda dell'occhio" fette di spettacolo via via più vaste. Quei fusti d'albero centrifughi e spioventi sono quindi simili in buona misura a degli explorers inviati fuori del sistema gravitazionale terrestre, anche se destinati a perdersi negli spazi cosmici, non senza però farcene giungere qualche segnale e ronzio, seppur debole e incerto.
Colazione sull'erba offre anche la migliore occasione per dire qualche parola sull'assetto cromatico di "questo" Cézanne: esso è concepito in modo da assecondare i caratteri spaziali già visti; colore dunque steso a vaste campiture, là dove si producono i momenti di dilatazione, e tenuto su tinte notturne, plumbee, anche qui non certo per una "tempestosità" e un "notturno" interiori, e quindi d'origine psicologica, ma per il fatto che non c'è un lume solare, naturalistico, a illuminare queste composizioni, ma solo una fosforescenza endogena, strategicamente disposta in modo da appoggiare la modellazione plastica, e dunque: estrema luminosità degli oggetti al centro (i due pomi), che poi si riverbera su ogni altro luogo in cui il ritmo pulsante dell'opera si produca in qualche escrescenza o rilievo; mentre le "strette", le digitazioni stritolanti vengono sottolineate come da tenaci nastri funerei, punti culminanti del clima notturno, benché subito costeggiati ai loro bordi da luminescenze simili a sbavature filiformi. Questo vale anche per le masse vegetali, che di solito vengono trattate in modo compendiario, affondando nelle tenebre dello sfondo, ma localmente si animano per improvvisi arruffii, che hanno il compito di imporre anche ad esse la tipica cifra sferoidale: e allora le frasche captano anch'esse qualche luminescenza, con tecnica che può ricordare quella dei "primitivi" (una delle poche occasioni in cui sia possibile un tale riferimento, poiché Cézanne, contrariamente a quanto si crede, non fu mai tenero verso i primitivi,l° e neppure inconsapevolmente tributario nei loro confronti).


Un omaggio scoperto a Manet si può considerare Una moderna Olimpia, che del resto è già alle soglie degli anni Settanta. Il riferimento abbastanza puntuale al dipinto manetiano permette d'altra parte di misurare con maggior precisione il totale stravolgimento subito dal tema, nel trattamento che ne fa Cézanne. Il nudo di Olimpia, presso Manet, si distende longitudinalmente come molla allentata e scarica, campeggiando in una vasta e liquida massa lattiginosa. In Cézanne al contrario la molla è caricata, compressa; il nudo cioè se ne sta rattrappito nella zona focale della composizione, pronto a scattare con violenza; e se non bastasse, i tendaggi e le pieghe delle coltri sono pronti a ribadire questo senso di accumulazione-compressione centripeta; salvo a rilevare, ancor più scopertamente di quanto non fosse lecito nel quadro precedente, certe sensibili deviazioni dalla norma di una sfericità troppo regolare: la tenda che si costituisce in quinta sulla destra del dipinto ha in effetti un andamento palesemente parabolico, che poi ritorna verso il basso, ma ribaltato, nelle pieghe delle coltri; inoltre entrambi questi rami parabolici evitano sprezzantemente un innesto centrale, simmetrico rispetto alla posizione focale tenuta dal nudo, ma al contrario spostano violentemente i loro assi sbilanciando la composizione, rendendola eccentrica nel senso letterale della parola. Sempre da Manet, poi, Cézanne è pronto a ricavare un'importante lezione stilistica, quella di un'alternanza tra zone chiare e zone scure; ma mentre in Manet una tale tecnica adempie al compito di afferrare sinteticamente, a larghe masse, una vasta fetta di "vita moderna", in Cézanne essa diviene fattore sussidiario per la resa dello sferoide, ottenuta attraverso un avvicendamento drammatico di parti centrali, luminose, e di quinte periferiche.

 

3. Dallo sferoide aI poliedro

Tra il 1871 e il 1872 Cézanne sembra accorgersi all'improvviso della presenza degli Impressionisti. Li frequentava già da tempo, ma ne traeva più che altro degli spunti tematici: probabilmente li vedeva come dei buoni continuatori della migliore tradizione dei Tintoretto, Veronese, Rubens, Delacroix, di coloro cioè che (non lo si dimentichi mai) gli erano maestri nell'arte di "rendere" la pienezza della realtà, e non, come vogliono gli affrettati interpreti del suo primo periodo, in quella di compiere evasioni barocche. A un tratto Cézanne deve essersi accorto che, sulla via di quella stessa "resa" del vero, era stato fatto un grande passo avanti con l'introduzione del plein air e del contatto diretto col "motivo": la "realizzazione" non passa più attraverso il museo, ma anzi trova il suo luogo privilegiato fuori di esso. Gli è vicino ad aiutarlo in questo grande mutamento l"'humble et colossal" Pissarro, che sarà vicino anche a Gauguin e a Seurat, meritandosi quindi il titolo di iniziatore per eccellenza di tanti aspetti dell'arte contemporanea~ Un paesaggio del 1872, Louveciennes, è il segno di questo discepolato cézanniano, umile come degna risposta all'umiltà del maestro: non gli capiterà mai più, infatti, di mostrarcisi cosi spersonalizzato e anonimo, cosi calato nei panni di un altro.
C'è perfinouna corretta indicazione di convergenza spaziale, nei due bordi della strada (vero è che l'artista ha una specie di rifiuto organico nel trattare uno di essi, quello di sinistra, e lo lascia dileguarsi nel nulla); e c'è una leggera indicazione aneddotica (la donna e la bambina che si allontanano), sul tipo di quelle tanto care a Pissarro e che stanno ad attestare in lui una sopravvivenza del ""primo tempo" milletiano, destinata poi ad avere nuova vita ed espansione al sopraggiungere dell'età simbolista. La pennellata inoltre è minuta e trita, pronta a captare i più tenui movimenti delle frasche. Fedeltà al taglio pissarriano anche nella notissima Casa dell'impiccato, ravvisabile nell'alta ""côte", formicolante di case e di campi, che chiude l'orizzonte, e anche nell'intrico di frasche che si sovrappongono in primo piano alle pareti dei fabbricati. Ma qui la pennellata cézanniana comincia a ""rallentare" quanto a brio e leggerezza, risulta come schiacciata ed espansa, quasi l'artista avesse lasciato i pennelli per lavorare con le dita, conferendo cosi una specie di alone ai tocchi cromatici, portandoli a compenetrarsi tra loro, e anche allineandoli in un modo greve e meccanico, che suona a negazione radicale del canone impressionista della varietà piacevole e iridata. L'effetto complessivo è di fatica, di laboriosità, piuttosto che di brillantezza leggera e cangiante.


Quando però si viene a considerare un'altra tela di poco successiva, La casa del dottor Gachet a Auvers, il docile apprendistato alla scuola impressionista appare ormai al termine; o meglio, il tema resta ancora pissarriano, arroccato com'è attorno al motivo della stradicciola e della compenetrazione di case e di frasche. Ma quello stesso motivo della strada diviene rivelatore di un'""altra" ottica: invece di scorrere via secondo il canone della convergenza, esso si innalza davanti al nostro sguardo, si rovescia in avanti, deciso a non lasciarci troppo presto, ad annullare perfino, con la sua ostinata frontalità, l'effetto sfuggente della curva. Questo tema della strada in curva ritorna con frequenza in questi stessi anni, e anche in altri successivi, e in ogni caso significa l'esibizione compiaciuta di una impossibilità: nessun dato del paesaggio può sfuggire a una compresenza percettiva con gli altri dati: come rialzare gradualmente una superficie contenente delle gocce d'acqua per evitare che queste scorrano via all'altro estremo. E si vedano ancora i ciuffi d'erba, sempre entro i due bordi della strada: ormai trattati con le tipiche striature ""a pettine" che saranno l'inconfondibile marchio di fabbrica cézanniano.


Si sta infatti compiendo il principale evento evolutivo di tutta la carriera dell'artista: lo sferoide appoggiato a linee curve e a ""vele" bombate, che abbiamo visto esser proprio del primo decennio, cede il posto al ""diamante", al trattamento diedrico, quasi a ""occhio di mosca". La profondità è sempre intesa, se si vuole, come una cavità sferoidale, ma misurata, da questo momento, con le facce di un poliedro articolabili a piacere. L'unità di misura diviene ora una superficie rettangolare. Nel che evidentemente sta una certa controindicazione, rispetto alla forma simbolica circolare che, secondo McLuhan, dovrebbe essere propria della contemporaneità: si potrebbe arrivare a dire che Cézanne era stato molto più conseguente e ardito ai suoi inizi; e in effetti quel suo stile puramente curvilineo avrà una riemersione, parecchi decenni dopo, quando frattanto l'ondata rettangolare-diedrica (da Cézanne incontestabilmente inaugurata e in seguito codificata dal Cubismo) avrà esaurito i suoi poteri, quando cioè ne saranno apparsi gli aspetti compromissori rispetto ai requisiti di un'età ancora meccanica, ancora legata al primato dell'angolo retto come forma privilegiata per costruire la pagina a stampa e la macchina. Questa riemersione in forze di un puro stile circolare-sferico, immemore delle spezzature dell'angolo retto, si avrà con l'Informale (pensiamo alle avventure nucleari della pittura di Fautrier, in cui i germi delle cose si disegnano sulla pasta, appunto, attraverso movimenti sinuosi); e si potrebbe giungere perfino a certa costituzione di oggetti su scala gigante operata da Oldenburg, anche qui attraverso tumescenze o al contrario sgonfiamenti, ma sempre rispettando una logica del morbido piuttosto che del rigido.


Ma certo lo stile curvilineo degli inizi poteva risultare soddisfacente finché I'artista lo applicava a motivi di fantasia; non appena invece passa ai motivi circostanziati, colmi di determinazioni, che provengono dal repertorio impressionista, gli occorre uno strumento molto più articolato e analitico: forse è la stessa rugosità e inerzia del reale a imporgli la misura ""squadrata", rigida, che è delle zolle di terra, dei mattoni da costruzione, dei muri di vegetazione, piuttosto che quella morbida e aerea dei corpi più rarefatti, ai limiti coll'immaginario. D'altra parte, si tratta, per cosi dire, di un mutamento tattico e non strategico, poiché il fine ultimo resta pur sempre quello di ""rappresentare" uno spazio sferoidale, ma non più, ora, vorticosamente scorrente da un estremo all'altro, bensi ricco di mille pause e gradazioni interne, in modo da dare ricetto all'estrema varietà degli aspetti di natura. Resta comunque sancita la grande differenza rispetto alla prospettiva tradizionale (che ha negli Impressionisti, come si è detto, l'ultimo e più completo atto di vita); se quindi nei loro dipinti c'è quasi sempre un vertiginoso effetto di lontananza (dovuto alla fuga rettilinea del vertice della piramide rovesciata), in Cézanne l'asse della profondità non può mai allontanarsi di troppo dal punto di vista, perché in sostanza è il raggio di una sfera, che quindi deve essere commisurato al raggio disteso in larghezza. Tuttavia Cézanne ama la suggestione del profondo (niente gli è più inviso dell'à plat di Bernard e di Gauguin) e ha ormai scelto di accogliere il principio impressionista del plein air, di un'atmosfera vibrante, ecco allora il curioso precetto di aggiungere una congrua dose di azzurro ad ogni composizione (soprattutto se si tratti di un paesaggio) appunto per correggere la relativa piattezza che altrimenti ne potrebbe risultare.
All'interno  di  questo   "occhio di mosca", perfetta  ribalta per consentire ad ogni corpo ed elemento di raggiungere il grado di esposizione che lo renda massimamente visibile-leggibile, si devono tuttavia distinguere due possibili livelli di analisi: quello macro e quello microstrutturale; molto spesso cooperanti tra loro, non mancano però i casi in cui entrano in contrasto, aprendo difficili problemi (più ai critici, intrigati dall'ambiguità dei termini teorici da risolvere, che non alla ""resa", quasi sempre perfetta, dei dipinti stessi). Per livello macrostrutturale intendiamo quello in cui si danno le figure corrispondenti a nozioni unitarie (volto umano, cuccuma, tazza, casa, ecc.). In tale ambito Cézanne anticipa con straordinaria penetrazione tutti i principi che poi saranno ritrovati, e verificati in laboratorio, dalla psicologia gestaltica: principio della ""buona forma", in base al quale ogni figura tende a presentarsi nelle modalità che la rendano meglio leggibile ed evidente; è questa la via più conveniente per intendere il famoso detto cézanniano ""trattare la natura attraverso il cilindro, la sfera, il cono''.l3 Sarebbe errato scorgervi un programma di radicale ricostruzione delle cose, programma che non è mai stato di Cézanne. In lui è quasi da vedere un seguace inconsapevole di Kant, per cui il noumeno non può essere raggiunto se non attraverso il fenomeno; il cubo, il cilindro, la sfera non.sono pertanto delle forme valide in sé, ma solo in quanto si attuano, si inverano nelle apparenze. Questa è anche la grande differenza tra Cézanne e il Cubismo e i movimenti ad esso affini, i quali infatti oltrepassano la barriera del fenomeno, cercano di rappresentare direttamente il noumeno, ovvero ciò che è in idea, non raggiungibile con i sensi se non attraverso manifestazioni approssimate e simboliche. Questo spiega, retrospettivamente, il nessun interesse di Cézanne per i primitivi (e anche, supposto che il caso fosse già nato ai suoi tempi, per il disegno infantile): appunto perché primitivi e bambini (infanzia filogenetica e ontogenetica) integrano in larga misura il visibile con l'intelligibile, in un dosaggio favorevole al secondo. Anche in Cézanne il vedere è sempre accompagnato da un sapere, ma con perfetta integrazione tra l'uno e l'altro, secondo quella che, in gergo filosofico, sarebbe da dirsi la sintesi a priori kantiana.l4 C'è in noi da sempre un ""sapere" circa le cose, costituito a priori rispetto al momento in cui le percepiamo, ma d'altra parte, per esercitarsi, esso richiede di incontrarsi con loro, di dare forma a un materiale fenomenico. Rientriamo cosi in un altro dei grandi principi della psicologia gestaltica: la correzione retinica che appunto questo sapere a priori esercita sul puro responso speculare. Gli orli delle tazze e dei piatti dovrebbero apparirci secondo un'ellisse molto schiacciata, invece noi, che ne ""sappiamo" da sempre la circolarità, correggiamo il risultato retinico riportandoli verso profili molto più panciuti ed aperti; e cosi in effetti si comporta immancabilmente Cézanne. Sempre in base al responso retinico, i corpi lontani, per effetto della ""piramide" rovesciata, dovrebbero allontanarsi da noi a precipizio, anche quando si trattasse delle parti posteriori rispetto a quelle anteriori di uno stesso oggetto. Cézanne invece (come il nostro occhio abitudinario) frena questa fuga verso il profondo, anzi, ribalta il lontano verso il vicino in ciò potentemente aiutato dal ""diamante" spaziale per le ovvie ragioni che si sono già illustrate.
Veniamo ora al secondo livello di analisi, quello che abbiamo detto microstrutturale, ovvero rivolto ad analizzare la materia, la sostanza delle cose, all'interno e al di sotto delle loro nozioni o figure di superficie. Qui, a voler sempre ricorrere a un gergo filosofico, bisognerà usare quello della fenomenologia husserliana, che infatti distingue un livello morfologico e uno iletico (""hyle", in greco, significa materia). Livelli che, però, non si oppongono come la forma al contenuto, o la luce alle tenebre, perché, ed è questa una delle grandi rivoluzioni cézanniane, del resto poi suffragata dalla migliore cultura contemporanea, anche la materia tende ad organizzarsi, a raggiungere le proprie strutture. I primi a far esplodere i dati iletici erano stati incontestabilmente gli Impressionisti, che anzi, come si è detto, erano giunti ad abolire in favore di questi il livello morfologico; ma per salvarsi dal caos informe essi avevano dovuto affidarsi all'intelaiatura prospettica e agli assi cartesiani, imposti dall'alto, non verificati nel vivo della mischia percettiva. Cézanne invece è deciso ad assegnare una compiutezza formale anche ai singoli ""quanti" materici (cromatici e di tessuto). Un tratto di acqua o di cielo o di terra non è meno importante di un volto o di una mano, e soprattutto non è meno formato, la forma o disegno consistendo nell'andare a portare un nuovo colpo di accetta per sbozzare l'interminabile poliedro in cui si risolve la profondità spaziale. I conti, ogni pennellata li deve fare, non con le nozioni da tracciare, ma con i piani da descrivere. Ognuna di esse, quindi, raggiunge la sua compiutezza e consistenza quando appunto determina un piano autonomo.l5 Anche gli Impressionisti svincolano le pennellate da obblighi descrittivi, ma le trattano come dati ciechi, atomici, che solo il principio superiore degli assi cartesiani e della piramide prospettica può ordinare. In Cézanne invece i tocchi pittorici si danno ciascuno da sé le proprie leggi, tenuti solo a rispettare vincoli contestuali con gli altri tocchi che si distendono in piani superiori, inferiori o contigui: è un esercito di tessere, di scaglie, di squame a giunti snodabili, pronte a riprendere ciascuna la giacitura di quelle contigue, ma imprimendo loro qualche scarto direzionale. Quanto al colore, di quelle pennellate o manifestazioni di materia, esso non è certo puro pigmento, ma al contrario ""rivelazione d'anima" (come Cézanne ebbe a dire a Gasquet),l6 cioè ""fenomeno", apparizione in superficie del sottostante noumeno o essenza. Noumeno o essenza della carne, del legno, della vegetazione, che emettono tutte le loro vibrazioni possibili, anche con le molte ambiguità che le portano a confondersi tra loro, a far si che la carne sembri legno e il legno carne. Colore locale, ma in versione profonda, poiché non si tratta di esibire l'aspetto di superficie, ma appunto la sub-stantia; e non c'è neppure da temere gli effetti
cangianti imposti dall'illuminazione di fuori, poiché, e sta in ciò una grande differenza tra Cézanne e gli Impressionisti, questa è praticamente abolita come sorgente cromatica esterna e separata per divenire piuttosto una sorgente addizionale a quella endogena della materia. La vibrazione interna di questa risulta potenziata da una radiosità solare che, piuttosto che piovere dall'alto, sembra quasi emergere dal profondo. Non ci sono, in Cézanne, gradi diversi di illuminazione dall'esterno, ma piuttosto gradi diversi di radiazione autonoma. La luce solare cessa di essere un accidente atmosferico, per divenire una specie di detector intrinseco agli spessori materici. Ciò spiega anche perché sia impossibile trovare, nel repertorio cézanniano della maturità, ore diverse da quella meridiana e serena, come sarebbero le albe, i crepuscoli, i cieli coperti e tempestosi: quella varietà di condizioni meteorologiche che fa la gloria e il vanto di Monet. Cézanne non arriva a concepire una luce ""mentale" (come sarà quella dell'arte ""idealista" del primo Novecento) per la solita ragione che in lui non si può dare manifestazione del noumeno senza passare attraverso il fenomeno; per questo, anche in tal caso egli sceglierà un'ora ""fenomenica", appunto il mezzogiorno, l'azzurro pieno e intenso del cielo mediterraneo, quando tutto si colora delle tinte più intense (ocra, rosso mattone, cobalto, verde smeraldo, ecc.); ma evidentemente si tratta di condizioni fenomeniche colte in una fase di sospensione tale da favorire, ancora una volta, il vibrare al diapason di tutti gli attributi della noumenica carne del mondo, della densa pasta delle cose.
Lo splendido Buffet del 1873-77 è la migliore contestazione di tutti gli sforzi critici di drammatizzare la carriera cézanniana dividendola in vari periodi, o descrivendola in termini di una lenta e dura ascesa verso la maturità: in anni cosi precoci, cosi prossimi all'impatto con l'Impressionismo, Cézanne ci dà una prova delle più piene, che al tempo stesso è da dirsi e ""costruttiva" e ""sintetica" quanto lo può essere qualsiasi altra, comprese anche le ultime. Qui, il motivo della circolarità-in-profondità delle bocche del vasellame diviene addirittura una sinfonia, ripetuta, echeggiata da vari elementi: assieme alla schiacciatura e inclinazione da destra a sinistra. E noteremo anche la massiccia esibizione del principio dello squadernamento dei piani, tutti alla ricerca di una loro massima apertura allo sguardo; parlare a questo proposito di una carrellata, decisa a cucire con il suo trascorrere i vari punti di vista e ad aggirare gli ostacoli, a sorprendere dolcemente ondate successive di oggetti altrimenti ostacolantisi gli uni con gli altri, non sembra affatto improprio e forzato. Noteremo ancora il declamato divergere dei biscotti (nel piatto a destra) fuori del quadro: indicazione violentemente oppositiva rispetto al solito criterio della prospettiva rinascimentale, che Cézanne non si limita a ignorare, ma vuole, appena possibile, contraddire palesemente. E si veda ancora la luce di questo quadro: diffusa, non si sa bene da dove spiovente, in realtà aggiunta a quella interna emanante, quasi per fosforescenza, dalla materia stessa. Merita in particolare fermarsi un momento sui lumetti che qui e in ogni altra natura morta cézanniana non mancano di essere debitamente rilevati, in omaggio a una visione pienamente fenomenica. Ma sono lumetti, per cosi dire, eternizzati, non dipendenti da una illuminazione istantanea, tanto vivida quanto precaria: essi ci appaiono come la risultante, la media statistica dei molti lumetti che nel corso di una giornata o di una stagione hanno potuto accendersi su quelle stoviglie, perdendo con ciò stesso di intensità, ma acquistando in estensione e plasticità, poiché anch'essi, da eventi contingenti e perituri, pressoché puntuativi, si sono mutati in elementi stabili debitamente provvisti di un loro statuto a faccetta di diedro, cosi da ""fare piano", da presentarsi come lamelle ben sagomate. E infine si noti ancora la potente sinfonia della materia: il legno del buffet, la stoffa ruvida della tovaglia, animati palmo a palmo, impegnati a tracciare una laboriosa architettura di piani, anche quando ciò non valga a definire la consistenza di un frutto o di una chicchera; ma sempre, nella pittura cézanniana, la materia si manifesta come quantum strutturato e plastico, accettando di allestire uno spettacolo che può sembrare totalmente inutile e antieconomico, rispetto ai compiti di tipo descrittivo.

 

4. I paesaggi
Già si è detto che nei paesaggi la maturazione di caratteristiche proprie è forse più lenta, più intrigata dal radioso esempio pissarriano e impressionista in genere. Ritardo, però, solo di pochi anni, perché quando si viene alla Vasca aI Jas de Bouffan, Cézanne è ormai interamente "uguale a se stesso". Del resto, la data del dipinto, 1878, è indicata per lo più dalla critica, appunto, come termine del periodo impressionista e inizio di quello "costruttivista".
Il tratto dominante della Vasca aI Jas de Bouffan (la tenuta paterna nei pressi di Aix-en-Provence) è dato dalla specchiatura in primo piano, che ha il compito di annullare il primo piano stesso, o meglio, di trasformarlo da distesa orizzontale troppo indugiante, col rischio di allontanare eccessivamente il resto della veduta, in lucida parete verticale, quasi una pedana per consentire allo sguardo di prendere la rincorsa e di giungere, con minimo angolo di rifrazione, a investire i campi e la casa. Il risultato insomma è di accorciare le distanze, di comporre lo spazio secondo le facce di un poliedro molto schiacciato, pronto a "fare parete", a impedire la fuga piramidale verso lontananze remote. Non manca del resto il pronto intervento di una congrua dose di note azzurrine (secondo il precetto enunciato da Cézanne stesso) per evitare che la schiacciatura spaziale dia un senso di angustia, per alleviarla e sommuoverla all'interno, anzi, con ricche vibrazioni aeree; la specchiatura, sotto questo aspetto, ha la virtù di consentire senza palese inverosimiglianza la diffusione dell'azzurro perfino in primo piano, là dove cioè, normalmente, dovrebbero aver sede solo i colori più cupi e terrosi.
Altro grande e noto risultato è Il ponticello, di qualche anno più tardo (1882-85). Non staremo a dilungarci sul motivo della specchiatura, che ritorna con le stesse funzioni or ora illustrate, investite del compito di schiacciare ancor più il poliedro, di portare lo sfondo a premere, quasi, sul primo piano, e di conseguire inoltre un'economia di indicazioni materiche al limite con la monotonia: siamo in presenza di una grande sinfonia di legni e vegetazione, puntualmente ripresi e ""raddoppiati", con la sola variazione dell'ispessimento vitreo, attraverso il loro riflettersi nello stagno. A differenza del lavoro precedente, qui si fanno scarse le indicazioni macrostrutturali, mentre abbondano quelle di microstruttura o di tessuto. E questo forse, in ordine di tempo, il primo grande lavoro in cui il principio iletico celebra i suoi fasti, le sue orge di strutturazione a fascia, a pettine, a stuoia, senza doversi impicciare di restituire qualche nozione figurale: ci sono appena, di elementi leggibili, il ponticello e i suoi supporti in muratura, nonché due o tre fusti in primo piano, ma spezzati anch essi in base alla logica della scomposizione in piani, dell'adeguarsi alle sfaccettature diedriche. In realtà, dominano le esibizioni plastiche del muro vegetale, preoccupato non certo di lasciar decifrare le specie botaniche di appartenenza, ma di tessere una potente architettura di piani, contrafforti, arcate, intersezioni, rifrangenze, ecc. Degno di nota anche l'andamento di certi rami che attraversano tutta la ""luce" della composizione con direzione sghemba, mirando evidentemente all'effetto di ""spiazzare" in modo ancor più netto ogni privilegio degli assi cartesiani, facendo quindi attenzione a non incontrare i fusti ad angolo retto, e a non dare indicazioni di convergenza prospettica, ma al contrario a spingere fuori del quadro, dimostrando che lo spettacolo può estendersi ai lati, sfuggire a destra e a sinistra, tentando come una manovra avvolgente e costringendoci a inseguirlo con la coda dell'occhio.
Non sempre però il ""motivo" naturale offre già di per se stesso un compendio cosi fitto di case e vegetazione, come per effetto di una pressa gigante; altre volte, quando soprattutto il taglio del paesaggio è molto ambizioso e affronta un panorama di vasto raggio, si rischierebbe di avere come delle fasce ben distinte: una per il cielo, un'altra per le montagne, e infine una imminente per la vegetazione in primo piano. Qualche volta (vedremo in seguito) Cézanne affronta il problema di come riuscire a omogeneizzare queste varie fasce pur tenendole nominalmente ben distinte. Ma nei casi che ora ci interessano, egli ricorre a un abile stratagemma, che consiste nell'inviare in pieno cielo qualche fronda d'albero. Si vedano le due celeberrime versioni del Grande pino, in particolare quella della collezione Phillips di Washington, del 1885-'87: quelle frasche cosi vistosamente piazzate in cielo (e cosi propense a smarrire una propria individualità, a evadere dal loro perimetro per far corpo e causa comune con l atmosfera) valgono appunto a ristabilire una continuità materica; ma c'è anche una contropartita, ovviamente, che consiste nei molti tocchi d'azzurro che, secondo il solito precetto di una composizione adeguatamente ventilata vanno ad alleggerire la distesa dei campi. Quanto ai fusti d'albero, oltreché essere gli autorizzati inoculatori dell'elemento terrestre nel bel mezzo dell'aria, rispondono anche al compito di infrangere, al solito, il privilegio della verticale, imprimendo col loro andamento sghembo una specie di rotazione a tutta la veduta: come quelle inclinazioni bombate, panciute, che assumono quasi sempre i margini laterali di una colonna di scrittura a mano, e che costituiscono anche una rivincita dei diritti della grafia personale sui rigori geometrici della pagina a stampa. In questo senso l'inclinazione invariabilmente rilevabile in tutte le tele cézanniane prende il sapore di un tic di scrittura, come mettere di sbieco con gesto preliminare il foglio su cui dobbiamo scrive~e, proprio per effettuarne una ""presa" personale.


Si dovrà ora prestare qualche attenzione al fatto che il quadro in esame è una ""veduta", un panorama di grande latitudine. Ritorna, ovviamente, il dato fisso dello schiacciamento e del ribaltamento in alto del primo piano, onde offrirsi a una lettura piena. Giustamente la Guerry ricorda in proposito che una macchina fotografica, piazzata alla stessa altezza dell'occhio di Cézanne (l'esperimento si può ancora fare, e invero è stato fatto, dato che si tratta di una veduta della notissima Montagne S.te Victoire) offrirebbe un risultato ben diverso di forte schiacciatura dall'alto al basso, per effetto della fuga rettilinea dei piani visti d'infilata: la linea dell'orizzonte sarebbe assai più vasta, e la montagna assai più rimpicciolita, con emergenza molto minore. E cosi pure un impressionista (per es. Monet, sempre più rigoroso nello sfidare, sul suo stesso terreno, la macchina fotografica), si potrebbe compiacere—si è compiaciuto in effetti—di ""vedute" molto al limite, cioè con la linea d'orizzonte bassissima, quasi tendente a confondersi con la base della tela; oppure al contrario molto rialzata (supposto che il punto di vista fosse collocato raso terra), fino quasi a espungere del tutto ogni fetta di cielo dal riquadro: in ogni caso, effetti lontani dalla "'buona" norma, dalla ravvisabilità canonica di un "motivo", effetti quindi paradossali e sconvolgenti. Cézanne viceversa segue anche qui il criterio della "buona forma", ci dà cioè il paesaggio nel grado di maggiore e più piena ravvisabilità che gli sia possibile conseguire quando, a un di presso, la linea d'orizzonte si pone a un'altezza che è sezione aurea, cioè medio proporzionale, tra l'altezza intera del dipinto e la parte superiore assegnata al cielo: anche qui, punto di vista che è la risultante, la media di tutti i possibili punti di vista, tale da consentire una specie di calamitazione verso lo spettatore dei vari elementi, facendoli ruotare verso di lui onde offrire un'ampia superficie di presa.
Visto che si è in tema di panorami, conviene   affrontare  senza indugio la serie che ne costituisce forse il più alto raggiungimento, dedicata, come si sa, al Golfo di Marsiglia visto dall'Estaque. Sarebbe istruttivo esaminare uno per uno i vari pezzi di questa serie, ma limitiamoci ai risultati più noti come quello appartenente al Metropolitan Museum di New York, del 1883-85, e l'altro della stessa data, conservato al Louvre. Trova conferma la normalità, la ""buona forma" entro cui viene atteggiato il paesaggio, con la linea d'orizzonte collocata al medio proporzionale (sezione aurea) tra l'intero dell'altezza e la parte restante. Pleonastico osservare che nessuna ripresa fotografica potrebbe confermare una superficie cosi estesa concessa al mare (esso in una foto dovrebbe accontentarsi di una striscia assai più compressa). Un mare che, inoltre, è leggermente bombato, sferoidale, anzi a stuoia, risultando dall'inarcamento di tante minute tessere snodate: mare, ancora, di luminosità contenuta per cosi dire intracutanea, e plasticizzata; un impressionista si sarebbe buttato ingordamente a fissare i più sfuggenti cangiantismi momentanei, compiacendosi di sorprendere la stessa veduta a varie ore del giorno (come fece Monet con la cattedrale di Rouen). Cézanne invece ne tratta gli splendori allo stesso modo di come tratta i lumetti, ricava cioè la risultante, per forza di cose alquanto smorta, opacizzata, di tanti momenti di splendore locale, ma divenuta in compenso stabile e imperitura. Inoltre, anche la materia marina ha diritto alla sua plasticità, pur essendo uno dei luoghi in cui trionfa il principio iletico informe: ecco perché anch'essa reca i segni di una cagliatura che la porta a rapprendersi in tante squame.
Scrivendo di questi paesaggi a Pissarro,l8 Cézanne si era confessato incapace di dar loro rilievo: portato anzi dalla luce abbagliante a trattarli quasi col tanto deprecato à plat; ma possiamo meglio interpretare il senso di quelle sue parole: in assenza di elementi macrostrutturali, egli poteva affidarsi solo alla plasticità microstrutturale del mare, della terra, del cielo, della loro comune scansione ""a stuoia", i tetti delle case, le ciminiere, gli alberi non potendo far altro, data la distanza, che equipararsi anch'essi a sfaccettature infinitesimali dell'animato poliedro. E anche negli effetti cromatici Cézanne temeva di esser scivolato entro un risultato quasi araldico da ""gioco delle carte"; mai come qui infatti la tavolozza è essenziale: l'ocra e il caffelatte della terra e delle opere in muratura, il cobalto vischioso del mare e in parte del cielo, i verdi della vegetazione pettinati a fibre chiare e scure; ma è la radiosità elementare delle componenti prime della materia, adeguatamente arricchita da quella dell'ora solare, del ""mezzogiorno di fuoco". Anche nei colori tuttavia interviene una rettifica dell'immediato responso fenomenico-retinico: un occhio piazzato in quell'ora meridiana, infatti, probabilmente ne sarebbe abbacinato; in questo caso, il ""sapere" del mare, la nozione di azzurrità che fa parte della sua essenza (del suo noumeno) effettua come una correzione frenante, riportando a una luminosità mediana, comunque sostenibile, quella che, a uno stretto rilevamento fenomenico, sarebbe un'indicazione di bagliore accecante. C'è una ""normalità" di manifestazione cromatica che si accompagna alla ""buona forma" plastica con cui si danno i vari oggetti.

 

5. Le composizioni di figura

Un'altra importante serie tematica è quella delle composizioni di figure, e particolarmente di nudi maschili e femminili: serie che forse risulta la più costante, in tutta la carriera cézanniana, presente dagli inizi degli anni Sessanta (come si è visto a suo tempo) fino all'ultimo momento di vita, con una produzione cospicua di decine e decine di pezzi. In cio sta (se mai ce ne fosse bisogno) una prova in più circa I'infondatezza di quel periodo ""romantico", di incontenibile sensualità, congetturato da quasi tutta la critica: Cézanne non faceva i nudi, nei suoi primi anni, perché spinto da una piena esuberante e incontrollata, che solo l'incontro con i dati di natura, impostigli da Pissarro, avrebbe calmato; egli faceva tanto spesso i nudi (come poi li farà in tutti gli anni successivi) perché gli servivano da docili strumenti per sondare la cavità spaziale. Il nudo, infatti, proprio in virtù della sua inverosimiglianza, può essere atteggiato a piacimento, sottoposto a tutte le giaciture e pose più arbitrarie, mentre le figure vestite e ambientate devono rispettare la logica degli usi e costumi, consentendo cosi un più ristretto margine di manovra. L'unica differenza tra i nudi di prima del 1870 e quelli seguenti, risponde al solito e unico evento decisivo nella carriera cézanniana, cioè al passaggio da un sistema curvilineo ad un altro poggiante su tratti spezzati e sghembi.
Nelle Tre bagnanti il ""tipo" di tutte queste composizioni di figura è ormai stabilmente costituito: le frasche, o più precisamente i tronchi, si intersecano con un punto d'incontro situato in un luogo molto elevato, fuori del quadro; nello stesso tempo, qualche ramo si innesta su di loro, nuovamente sghembo in modo da spezzare una porzione di spazio altrimenti troppo distesa, imprimendo una suddivisione da penta o esaedro abbastanza regolare. Le figure, entro il territorio loro concesso, si aprono al massimo, fino ad assumere proporzioni mostruose: schiene schiacciate, costruite a scaglie attorno a una spina dorsale bestialmente evidente (con evidenza vieppiù ribadita dalle chiome, nelle due figure ai lati, chiome che quasi si incorporano nella spina dorsale, soffocando sotto il loro rigoglio le teste, timide ed incerte).
Merita esaminare, successivamente, Cinque bagnanti, dipinto posto, rispetto al precedente, in un rapporto che si potrebbe dire—e il notarlo non è affatto inutile—improntato a un criterio quantitativo: da tre a cinque, cioè all'insegna del "sempre più difficile". L'indicadione di spazialità sghemba, in questo caso solo debolmente suggerita a la quinta vegetale, quasi assente, è robustamente portata dai nudi stessi, soprattutto da quello a sinistra, in cui è anche da vedere un magnifico caso di cucitura e continuità di punti di vista diversi: quella sagoma, quel rozzo e informe insaccato risulta infatti dalla sintesi di una veduta laterale, che appiattisce il nudo entro lo stampo netto di un profilo, e di una veduta posteriore, tale comunque da assicurare al gluteo della donna una piena, sferica esibizione di sé; cosi come il nudo di destra concilia esso pure la lateralità del profilo con la frontalità di un ventre adiposo e di un volto sfatto. Cézanne realizza, in forma continua e con passaggi sfumati, mantenendo quindi una copertura di verosimiglianza percettiva, quella sovrapposizione di punti di vista che Cubismo e Futurismo tratteranno in modo più scoperto, tracciando assi di scomposizione e sfasando tra loro gli spaccati mediani delle varie figure. Ma la sovrapposizione cézanniana, proprio perché più organica e graduale, risulta più mostruosa e allarmante di quella scoperta, dichiarata, appoggiata a schemi mentali, che poi applicheranno i suoi seguaci indiretti Cubisti e Futuristi. Inutile sottolineare ancora la brutalità, la forza animalesca incredibilmente ""antigraziosa" di questi nudi, ben decisi a non esercitare su di noi alcuna fascinazione erotica.
Problema alquanto diverso è quello affrontato nel Grande bagnante del 1885-87, non costretto questa volta a contrazioni a gomito dalla presenza opprimente di qualche quinta vegetale; il tema, anzi, sembra essere quello di una piena espansione frontale: il corpo, giacente entro un piano parallelo all'osservatore, subisce con ciò stesso una specie di schiacciamento, di trazione in larghezza che lo porta a diffondersi oltremisura. Ma si aggiunge il tema di come conciliare il movimento con la solita normalità e ""buona forma" di esibizione plastica: giacché il movimento, soprattutto se praticato in profondità, cioè lungo un asse ortogonale a noi spettatori, è una di quelle occasioni in cui il responso retinico più si stacca da quello percettivo, corretto dal sapere abitudinario: la retina dice che la parte posteriore del corpo umano ci dovrebbe apparire assai più remota e rimpicciolita che non quella già portata avanti al compiersi di un passo. Ma, per effetto della correzione abitudinaria, noi riequilibriamo i due dati, rendendoli molto meno divaricati. Cézanne ribadisce ancor più questo effetto di appiattimento anche sui dati concernenti l'incedere di una persona, fa in modo che i due piani su cui si collocano rispettivamente le due porzioni di corpo dislocate giungano quasi a coincidere, o "scartino" di molto poco. Un'erogazione supplementare di azzurro serve poi di compenso a una schiacciatura cosi vistosa verso il primo piano. Anche perché si vuol dimostrare che il movimento, pur miniaturizzato spazialmente, ha comunque l'effetto di provocare gorghi e risucchi in un'atmosfera che è pur sempre, non lo si dimentichi, densa e spessa allo stesso titolo del corpo umano, ugualmente provvista di una sua consistenza plastica.
La serie dei grandi quadri di nudo culmina con le celeberrime versioni delle Grandi bagnanti. Particolarmente nota fra tutte quella che si conserva al Museum of Art di Philadelphia: la datazione occupa un lungo lasso di tempo (1898-1905), a conferma di una laboriosità lenta e aticata Le quinte arboree assumono una cupa, densa costituzione di tronchi, con giacitura sghemba, a capanna, o come la faccia di un pentaedro (poiché una porzione del ""timpano" è tagliata fuori dal margine alto del quadro). Le figure risultano ""forzate" da quello stampo pentaedrico: alcune di esse vengono articolate come in una funzione di sostegno o di sottolineatura (si osservi soprattutto il nudo di sinistra, quasi un puntello, un contrafforte); altre giacciono rattrappite come molle tese, per effetto di quella costrizione triangolare. mandria di trichechi mostruosi di null'altro preoccupati che di ostentare, di aprire alla percezione le loro carni adipose. I contorni sono abbastanza marcati~ ma, anche qui, non riescono a chiudere definitivamente il quadro e emorragico, nel senso che terra e carne e fusti legnosi e vegetazione e aria si innestano gli uni negli altri, con scambi incrociati di esalazioni materico-cromatiche.

 

6. Le opere della piena maturità

Ma ritorniamo indietro per seguire le serie tematiche della ritrattistica e della natura morta (del resto confluenti, perché non si dà quasi mai ritratto, in Cézanne, che non sia integrato in un cosmo domestico di utensili e di mob~ Sono anche le serie più ""sue", più equilibrate,mentre ln quella dei paesaggi egli resta più a lungo soggetto all'influsso impressionista e in quella dei nudi si spinge a volte troppo avanti e 1877 circa La signora Cézanne in una poltrona rossa, che come altri rltratti della moglie costituisce un caso eminente di frontalità schiacciata, quasi la figura e il suo cosmo di oggetti fossero stati compressi tra due magli potenti. Un particolare accenno deve andare ai motivi decorativi della carta da parato sullo sfondo. Naturalmente, essi rispondono a una motivazione "'verosimile": l'artista li "fa" perché sono presenti nel suo tema; ma ogni grande artista accoglie, dal motivo, solo cio che si adatti alla sua particolare strategia. Nel caso di Cézanne, quelle decorazioni a croce (quasi come i punti di riferimento su una carta militare) adempiono allo scopo di spezzare la frontalità altrimenti troppo rigida, della parete di fondo, indicando, come in punteggiato, le possibili zone di piegatura seguendo le quali la superficie in pianta potrebbe trasformarsi nel solito poliedro tridimensionale.
Parecchi anni dopo l'artista è pienamente in grado di lasciare la frontalita per collocazioni spaziali più ardite. Nella Signora Cézanne sulla poltrona gialla del 1890-94 la poltrona stessa si dispone trasversalmente, di sghembo; è, come già si è notato più volte, una fortissima indicazione contro lo spazio convergente e raccolto della prospettiva tradizionale, a favore di una costruzione divergente che va indefinitamente allargandosi verso sinistra; e si veda anche quanta mobilità plastica Cézanne riesca a conferire allo sfondo, che pure, in sé e per sé, risulta formato da una liscia parete frontale: lo spigolo destro della poltrona ha un forte impatto su di essa, segnato da pennellate robuste; poi, man mano che ci si porta sulla sinistra, aumentano gli strati d'aria interposti, a indicare il progressivo allontanarsi e divaricare del mobile. Da notare anche la scalastratura dello zoccolo ai piedi della parete i cui due tronconi, di qua e di là dalla poltrona, non combaciano, come se l'artista avesse concesso a ciascuno dei due occhi il proprio campo, non collimante con quello dell'altro (è questa del resto un'esperienza che tutti possiamo fare, chiudendoli alternativamente e vedendo appunto i contorni balzare su e giù con la stessa vicenda alternante). E come se l'asse della figura lo fosse anche di scomposizione, di cerniera fra due versanti distinti, due ante del quadro. Naturalmente, la resa ideografica del Cubismo e del Futurismo non esiterà un solo istante a tracciare la linea di spezzatura, mentre Cézanne, al solito, la lascia inespressa, in omaggio alla naturalezza e continuità della percezione.
Ne La signora Cézanne in rosso, domina la laboriosa macchina della robe de chambre, poderosa architettura di viluppi, di gonfiori e avallamenti, il tutto redatto in una bella tinta rosso-mattone che autorizza il ricordo analogico dei colori della terra, o di tegole assolate—è già in atto il processo di retrogradazione verso i primordi essenziali della materia, per cui le varie sostanze vanno rassomigliandosi sempre più tra loro, o per lo meno concentrandosi in poche famiglie fondamentali.
La stessa sapiente ""macchina" di pieghe gonfie e pesanti ritorna anche nel notissimo Ritratto con caffettiera, che però, a differenza di quello precedente, è campione estremo della categoria delle figure compenetrate in una grandiosa orchestrazione ambientale. Non conta molto il fatto che ora, invece della moglie, posi la domestica; certo il bell'ovale conferito alla signora Cézanne aveva qualche traccia di eleganza in più, rispetto al volto pesante e testardo di questa contadina provenzale; ma si sa che le grazie muliebri non escono mai molto rispettate dal ""trattamento" cézanniano, che anzi le soffoca sotto una laboriosità di fattura, facendole entrare nel comune concerto di tutti i corpi e oggetti presenti sulla scena. Qui del resto, più che il volto, spicca la forte, massiccia evidenza delle mani, anch'esse partecipanti al generale gonfiore e quindi sfatte, quasi deformi: ""macchine" anch'esse per afferrare e lavorare, e non certo sottili, affusolate architetture anatomiche. Ma ciò che domina è evidentemente lo sfondo, cupa sinfonia di vibrazioni basse, dove il legno del mobile rifluisce nell'alveo della madre terra, apparendo opaco e greve come humus in attesa dell'aratura. E al solito l'opportunista Cézanne trae prontamente partito dal motivo a cassettoni del mobile stesso per rinforzare un senso generale di pesante, massiccia opera di falegnameria, tutta incentrata sulle "terre", sulle ocre, sui colori spenti—perfino i lumetti della caffettiera smorzano più del solito il loro luccichio, accontentandosi di una luminosità relativa, spiccante solo per contrasto coi toni spenti diffusi tutto attorno. Siamo veramente a un passo, almeno per quanto riguarda la tavolozza, dalle sinfonie basse e spente del primo Cubismo di Picasso e di Braque.


Qualcosa del genere vale anche per i celeberrimi Giocatori di carte, serie breve ma intensa di almeno cinque dipinti e di numerosi studi preparatori. Si osservi però che da essa non vengono indicazioni spaziali concordi; due di quei lavori infatti, meno spesso citati, più complessi come stesura in quanto risultanti dalla collocazione di ben cinque ""giocatori", mirano a una piena rotondità e sfericità plastica. Mentre le versioni più note (cfr. in particolare quella del Louvre) si dispongono frontalmente, a fascia, con i due giocatori in linea col tavolo e costituenti assieme ad esso un sistema parallelo all'osservatore, anzi leggermente sghembo. I due bordi del tavolo darebbero, è vero, un'indicazione di convergenza verso lo sfondo, ma è una convergenza che quasi scompare di fronte al ben più potente effetto di trascinamento longitudinale da destra verso sinistra, favorito anche dalla solita inclinazione in tal senso dell'asse intero della composizione (evidenziato dal lumetto della bottiglia, spiccante come un ""punteggiato"). I volti dei due giocatori spariscono, si riducono a ben poca cosa, rispetto al concerto pieno, benché sempre tenuto sulle tinte sorde, delle giaccche e dei copricapi, a loro volta più che propensi ad abdicare a ogni guardinga e golosa caratterizzazione, a entrare in sintonia con le radiazioni ugualmente basse e sorde della tovaglia, del legno, del mobile, del tramezzo sullo sfondo, i quali poi riescono anche ad assorbire la breve fetta di paesaggio che si intravede, insolitamente negata ad ogni ariosità. Il segno della terra domina interamente questa composizione, trionfando con vere e proprie orge microstrutturali, che possono approfittare della povertà delle indicazioni aneddotiche; comunque, fa più spettacolo la tovaglia, con le sue pieghe trattate ormai con solidita precubista, che non la fisionomia dei giocatori, del resto attenta e assorta come si conviene agli umili, secondari adepti di un culto totalmente consacrato alla terra e alle sue manifestazioni.


Per la serie paesaggistica, gli ultimi anni sono notoriamente consacrati al trionfo della Montagne S.te Victoire, dapprima, verso la fine degli anni Novanta, colta a media distanza, cosi da farne dominare la masSa imponente, in una composizione prevalentemente assestata sui toni terrosi (per esempio La Montagne S.te Victoire vista da Bibemus), dove tetti e case smarriscono ogni individualità rifluendo nel poderoso sistema di contrafforti terrosi che preannunciano la rotonda apparizione della montagna. Poi, nei primi anni del nostro secolo (e ultimi della sua vita) l'artista si pone a grande distanza, in veduta panoramica; domina allora inevitabilmente il segno del cielo, dell'ariosità azzurrina, che in base al principio ora decisivo dell'osmosi va a piazzare le sue chiazze ovunque, tra gli alberi e i campi e le case, non senza la solita contropartita delle esalazioni terrestri inoculate in cielo, prendendo a pretesto le plastiche nubi cumuliformi. Data la pochezza morfologica di alberi, case e campi, tocca ora alla materia cromatica fare spettacolo da sé, costruire una complessa architettura di piani, quasi privi ormai di appigli aneddotici.
E doveroso obbligo chiudere col Cabanon de Jourdan, l'ultimo dipinto cézanniano, a quanto pare da lui lasciato incompiuto. É anche ovviamente un lavoro straordinario, ormai a contatto di gomito col protocubismo di Picasso e di Braque, da cui lo separano non più anni, ma solo mesi. E infine è lavoro riassuntivo di una perplessità di fondo, che già abbiamo visto nella pittura cézanniana fin dagli anni Settanta: l'autoformatività di ogni brano materico, di ogni rivelazione di sostanza, deve contribuire alla maggior gloria dell'evidenza plastica degli oggetti nominalmente distinti (in questo caso, l'abitazione, il modesto ma essenziale edificio in muratura), oppure smentire quest'ultima, o almeno non curarsene più che tanto, e inseguire prevalentemente unioni sintetiche, cagliature tra elementi di diversa origine: casa + atmosfera, atmosfera + vegetazione, vegetazione + casa. Quest'ultimo quadro cézanniano è eroico per il tentativo assoluto di conciliare entrambe le imprese sintetiche: dare il massimo di pienezza agli oggetti (la casa, gli alberi), e nello stesso tempo farli partecipare a una totale vita cosmica, secondo il principio della continuità della materia. L'alta sintesi, il perfetto equilibrio qui raggiunti da Cézanne appaiono di difficilissima tenuta, miracolosi, insostenibili. In seguito, infatti, si dovrà abbandonare quel livello sovranamente mediano, per alzarlo o abbassarlo. I Cubisti lo alzeranno, nel senso di dare la precedenza ai piani di sviluppo di figure ideali, di macrostrutture, liberandosi dal tormento microstrutturale. Venti o trent'anni dopo, gli Informali sceglieranno invece la via opposta, di un abbassamento, occupandosi più che altro del continuum materico, cioè dell'ambito microstrutturale, preferendo allora misurarlo con tratti curvilinei-gestuali, quasi recuperando la prima maniera di Cézanne: il quale comunque resta il grande ispiratore di quasi tutti gli esperimenti tentati dall'arte contemporanea per trattare la superficie con spirito diverso da quello della ""modernità".

 

VAN GOGH


Van Gogh arrivo' a Parigi nel febbraio del 1886. Aveva trentatre' anni e doveva viverne ancora quattro. Il suo lavoro vero, di pittore, era incominciato solo nell'ottobre del 1880:una vita breve, folgorata, intensa. Cosi' e' stata dunque la sua vicenda d'uomo e di artista.
Ma quali sono i sentimenti, i pensieri, i propositi che Van Gogh porta con se' nella capitale di Francia? Conoscere la storia del la formazione spirituale di Van Gogh, anteriore al suo arrivo a Parigi, e' infatti d'importanza decisiva per capire le reazioni che egli ebbe negli ultimi quattro anni della sua esistenza. Figlio di un pastore calvinista, sensibile e appassionato, in un tempo tutto vivo e commosso per le idee di redenzione sociale che dalla Francia si erano allargate anche alle nazioni vicine, egli aveva finito con lo scegliere, come vocazione della sua vita, la predicazione evangelica tra i minatori belgi del Borinage, il "pa ese nero." A questo "corso gratuito della grande universita' del la miseria," egli aveva preso le prime umanissime e drammatiche lezioni. Gli tenevano compagnia la Bibbia e la Revolution franca ise di Michelet, Dickens e Hugo; e un po' piu' tardi il Germinal di Zola, lo Zola cioe' che stava per scrivere al suo traduttore olandese, Van Santen Kalff: "Tutte le volte che adesso intraprendo uno studio mi imbatto nel socialismo." I libri di Zola erano gia' per Van Gogh "i migliori trattati sull'epoca attuale." Cosi' l'evangelismo e il socialismo umanitario avevano trovato in lui un punto di fusione, di incandescenza che lo ponevano contro la religione di tanti suoi confratelli di predicazione, i quali guar davano "le cose spirituali"egli diceva con linguaggio aspro, "dal punto di vista tipico degli ubriachi" ed "erano incapaci di emo zione umana." Egli invece aveva della religione un'idea vivente, incorporata alla realta' di quegli uomini tra i quali avrebbe vo luto trascorrere la vita; per lui insomma, Paolo di Tarso era "un operaio coi segni del dolore, della sofferenza, della fatica, sen za alcuna apparenza di bellezza, ma con un'anima immortale" e, vi ceversa, il minatore che usciva dai pozzi recava in se' l'immagi ne di Dio.
Le lettere che Van Gogh ha scritto in questi anni sono ricche di indicazioni in tale senso. Tutto quello che vede, osserva e lo commuove si colloca gia' in una prospettiva poetica, figurativa. Egli avverte cio' con chiarezza. Sin dal novembre del '78, infat ti, scrive: "Se io potessi per due o tre mesi lavorare in silen zio in una regione come questa, e imparare e osservare costante mente, non ne ritornerei senza avere qualcosa da dire che valga veramente la pena d'essere inteso, e dico cio' con tutta umilta' e franchezza."


Da Amsterdam a Laeken, Wasmes, Eten, Drenthe, Nuenen, Anversa, in tutti i luoghi dove egli si e' trovato prima del suo viaggio a Pa rigi, la realta' che aveva costantemente osservato era una sola, quella degli uomini che lavoravano nelle fabbriche, nelle miniere e nei campi. Anche quando sospenderanno la sua attivita' di predi catore, e' sempre questo il mondo che ha continuato a interessar lo: "Mi sono alzato di buon'ora e ho visto gli operai arrivare al cantiere con un sole magnifico. Avresti provato piacere a vedere l'aspetto particolare di questo fiume di personaggi neri, grandi e piccoli, prima nella strada stretta dove non c'era che poco so le e poi nel cantiere (agosto 1877)... Gli operai di questa minie ra sono generalmente emaciati e pallidi di febbre, hanno un aspet to emaciato e frusto, sono scuri di pelle e vecchi anzitempo, le donne sono deboli e appassite. Intorno alla miniera miserabili abitazioni di minatori, con qualche albero morto annerito e siepi di rovi, mucchi di concime e di cenere, montagne di carbone inuti lizzabile (aprile '79)... Gli operai delle miniere di carbone e i
tessitori sono una razza un po' diversa da quella degli altri la voratori e srtigiani e io sento per loro una grande simpatia.... L'uomo del fondo dell'abisso, de profundis, e' il minatore, l'al tro dall'aria assorta, quasi da sognatore, da sonnambulo e' il tessitore. Sono quasi due anni che io vivo con essi ed ho impara to a conoscere il loro carattere originale, soprattutto quello dei minatori. E ogni giorno piu' io trovo qualcosa di commovente, e di struggente persino, in questi poveri e oscuri operai, i piu' reietti di tutti si puo' dire, i piu' disprezzati, che in genere, con immaginazione vivace ma falsa e ingiusta, ci rappresentiamo come una razza di malfattori e di banditi (agosto 1880)... Non li senti mai lamentarsi, i tessitori, anche se hanno una vita rude. Supponiamo che un tessitore che lavora sodo faccia una pezza di sessanta aunes in una settimana. Mentre egli tesse e' necessario che una donna stia ai rocchetti per lui, cioe' che avvolga il fi lo sui fusi; sono dunque in due a lavorare e a dover vivere di questo lavoro. Su questa pezza, il tessitore guadagna netto, per esempio, quattro fiorini e mezzo, e quando la porta al fabbrican te si sente dire di frequente, oggigiorno, ch'egli potra' riceve re una nuova ordinazione solo entro otto o quindici giorni. Dun que non soltanto il salario e' basso, ma anche il lavoro e' scar so. Cosi' questa gente e' spesso nervosa e inquieta. E' un altro stato d'animo di quello che ho conosciuto tra i minatori di carbo ne, un anno in cui ci fu uno sciopero e parecchi incidenti (1884) ... Io mi sono cosi' intimamente mescolato alla vita dei contadi ni a forza di vederli continuamente a tutte le ore del giorno, che ormai non mi sento attirato da nessun'altra idea (1885)..."


Questo e' dunque il mondo in cui sono maturati i sentimenti di Van Gogh e la sua vocazione d'artista. E'quindi logico che egli si orientasse in senso realistico e per un realismo preciso, ca rico di contenuto sociale. La sua poetica era ben definita: "La mano di un lavoratore e' meglio dell'Apollo del belvedere." Cosi' egli si esprimeva. E tutta la sua fatica era proprio quella di trovare il modo piu' efficace di rappresentare tale mano. E' per cio' naturale che si scegliesse come maestri proprio quei pittori che si erano maggiormente dedicati a rappresentare contadini, ope rai, artigiani e gente del popolo: Millet, Courbet, Daumier, il Delacroix meno letterario. In questi pittori egli vedeva degli e sempi, delle indicazioni preziose per fare quello che egli "sen tiva." Di Daumier amava soprattutto il modo largo e semplice e la capacita' di cogliere senza esitazioni il centro del proprio argo mento. A proposito di un suo disegno egli affermava: "Deve essere una buona cosa sentire e pensare in questo modo e passar sopra a un mucchio di particolari, per concentrarsi su cio' che da' da pensare e su cio' che concerne in maniera piu' diretta l'uomo co me uomo, anziche' i prati e le nuvole." Daumier gli insegnava il modo di accentuare l'espressione mediante la deformazione reali stica. La grandezza espressiva di Daumier gli era apparsa con chi ara coscienza nel 1882: "Ti chiedo se ci sono in commercio dei fo gli di Daumier a buon mercato e, se si', quali. Io l'ho sempre trovato molto forte, ma e' solo in questi ultimi tempi che ho in cominciato a credere che egli sia di un'importanza ancora maggio re di quanto credessi." Ma anche Millet gli interessa per questa particolare capacita' di "caricare" l'espressione. Il pensiero di Millet che gli piaceva di piu' e' quello che dice: "E' meglio ta cere che esprimersi debolmente." Egli, sin da questi anni, voleva fare dei quadri, dei disegni che avessero come prima qualita' quella di "colpire." Persino in Courbet egli vede soprattutto il valore del colore non usato in senso naturalistico ma espressivo: "Un ritratto di Courbet e' di un valore piu' alto, e' energico, libero, dipinto con ogni gamma di bei toni profondi, di rosso-bru ni, dorati, violetti, piu' freddi nell'ombra, col nero... e' piu' bello del ritratto di chiunque tu voglia, il quale avrebbe imita to il coloro del viso con un'orrenda esattezza. "
E' proprio considerando i ritratti di Courbet che egli, nell'84,
ha la prima rivelazione del valore traslato del colore: "Il colo re esprime qualcosa per se stesso." E' questo dunque che egli ricercava: l'intensita' dell'espressione, a cui sacrificare qual siasi altra preoccupazione. Ma, sempre espressione della realta', meglio ancora: dell'uomo aggiunto alla natura. Questa vecchia de finizione baconiana era ripresa da Van Gogh con un significato spirituale ricco di emozionante tensione: "Non conosco migliore definizione della parola arte di questa: L'arte e' l'uomo aggiun to alla natura; la natura, la realta', la verita', ma con un si gnificato, con una concezione, con un carattere, che l'artista fa uscir fuori e ai quali da' espressione."
L'espressione percio', per lui, consisteva proprio in questo "far uscire fuori" dalle cose il loro piu' vero significato: ma per Van Gogh questo principio era tale da non tradire la verita' del reale, poiche' egli aveva la ferma convinzione che sarebbe venuta meno "una solida base" se ci si dimenticava "che la natura esi ste." E'con questo spirito percio' che si accinge ad affrontare il tema dei Mangiatori di patate. La verita', la realta' il signi ficato di questi contadini erano una vicenda di dura fatica e di penuria. Ed e' questo che bisognava far "uscir fuori." Ecco dove la deformazione realistica di Daumier lo aiutava: semplificare e intensificare, passando dalla caricatura alla concentrazione dram matica. Ma l'anima di Van Gogh restava sempre ancorata ai valori umani piu' profondi dell'Ottocento: "Ho voluto coscienziosamente dare l'idea di questa gente che, sotto la lampada, mangiano le pa tate con quelle stesse mani, le medesime che mettono nel piatto, con le quali hanno lavorato la terra. Il mio quadro dunque esalta il lavoro manuale e il cibo che essi, da se stessi, si sono guada gnati cosi' onestamente."


Ecco dunque chi e' Van Gogh prima di arrivare a Parigi nel 1886. E' un uomo che sta dalla parte dei valori del '48. Immaginando se stesso vivo a quell'epoca, egli non esitava a scegliere il suo po sto come "rivoluzionario e ribelle" sulle barricate e con slancio esclamava: "In fatto d'uomini e in fatto di pittori, la generazio ne intorno al '48 mi e' piu' cara di quella dell'84, ma per cio' che concerne il '48, non gia' i Guizot, ma i rivoluzionari, Miche let, e anche i pittori contadini di Barbizon."
Negli anni che precedono il viaggio a Parigi, egli ha gia' dipin to i suoi quadri bui, i personaggi del suo sentimento, ha delle convinzioni meditate a lungo dentro di se' e degli entusiasmi ge nerosi. Ancora poco prima di partire per la capitale francese, scriveva al fratello Theo: "Noi siamo all'ultimo quarto di un se colo che finira' con una grande rivoluzione. Certo noi non cono sceremo i tempi migliori, l'aria pura e tutta la societa' rinfre scata dopo questi grandi uragani. Ma una cosa importa, ed e' di non farsi ingannare dalla falsita' della propria epoca o almeno non fino al punto da non riscontrarvi le ore funeste, soffocanti e depressive che precedono la bufera. Vedi? Cio' che conforta e' di non dover sempre correre coi propri sentimenti e con le pro prie idee, e' di poter collaborare e lavorare con un gruppo."
A Parigi dunque egli cerca un clima, un ambiente, un gruppo, dei pittori che "sentano" come lui: egli, insomma, cerca ancora una Parigi simile a quella di Millet, di Courbet, di Daumier. Ma Pa rigi e' ormai profondamente cambiata.
Millet e' morto a Baebizon nel '75, Courbet s'e' spento in esilio due anni dopo, Daumier ha chiuso gli occhi a Valmodois nel 1879. Il deflusso rivoluzionario ha creato una situazione dura, diffici le, per tutti quegli artisti, i piu' vivi, i piu' grandi di Fran cia, che in qualche modo si riallacciavano al movimento dell'arte democratica. L'aria della Terza Repubblica era dunque tutt'altro che vivificante.
Sempre verso gli artisti realisti, vi era stata da parte delle sfere ufficiali diffidenza e repulsa. Di fronte ai quadri dei pit tori realisti, il conte Nieuwerkerke, Imperiale Direttore delle Belle Arti sotto Napoleone III, aveva sdegnosamente affermato:"E'
pittura di democratici, di gente che non si cambia la biancheria e che vuole imporsi alla gente di mondo: e' un'arte che non mi piace, anzi che mi disgusta." E questo, in genere, era sempre sta to l'atteggiamento della critica di moda. Si potrebbero mettere insieme centinaia di pagine d'improperi contro gli artisti reali sti sfogliando i giornali dell'epoca. Ma se prima, per fare un ca so, i critici si scagliavano contro l'immagine violenta dell'Uomo con la vanga di Millet, adesso dopo la Comune, vedevano i baglio ri degli incendi dell'89 e le picche dei contadini in rivolta an che dietro le mitissime figure dell'Angelus. Charles Yriarte, nel '76, sulla "Gazette des Beaux-Arts," spiegava le "scene compassio nevoli" e il "linguaggio pieno d'amarezza" del pittore realista ungherese Munkacsy, a Parigi in quegli anni, dichiarando: "Io cre do che i suoi scopi si spieghino con delle ragioni politiche." E sempre parlando di Munkacsy, a proposito del quadro Cristo davan ti a Pilato, il critico Buysson, qualche anno piu' tardi, esclama va: "Ma questo e' un nichilista davanti allo zar!" Le invettive piu' feroci e gli scherni piu' malevoli pero' erano per Courbet. Alexandre Dumas figlio si era accanito contro di lui, dopo la Co mune, con letteraria virulenza: "Sotto qual cielo, con l'aiuto di quale letamaio, di quale mistura di vino, di birra, di muco corro sivo e di flatulenta tumefazione, ha potuto svilupparsi questa zucca sonora e pelosa, questo ventre estetico incarnazione incar nazione dell'Io imbecille e impotente?" E Barbey d'Aurevilly ave va dichiarato: "Sarebbe necessario mostrare a tutta la Francia il contadino Courbet chiuso in una gabbia di ferro ai piedi della Co lonna Vendome. Lo si farebbe vedere a pagamento." Francisque Sar cey, giornalista di moda, aveva proposto invece, con nobile di sprezzo, un'altra forma di castigo: "Sia punito con il silenzio pubblico." Ma non basta. L'idea di esporlo al ludibrio dei benpen santi sembra che piacesse particolarmente ai nemici di Courbet, perche' e' un'idea che si trova espressa in molti articoli con do vizia di particolari. Persino i poetastri unirono le loro voci a questo triste coro. Cosi', per esempio, Emile Bergerat concludeva una sua poesia su Courbet: "Notte e giorno messo alla berlina\pos sa egli crepare di vecchiaia fra quattro gendarmi!"


Questo odio anticourbettiano, che ha il suo culmine nella senten za del pittore Meissonier, despota del Salon del 1872 ("Per noi e' ormai necessario che Courbet sia morto.") si era dunque allar gato anche agli impressionisti, pittori che provenivano in genere appunto, dalle posizioni estetiche del realismo. Questa pregiudi ziale politica verso gli impressionisti continuo' a lungo. Robert Rey, a questo proposito, racconta un episodio assai significati vo, accaduto ancora nel 1919. Una mattina di quell'anno il mini stro dell'Istruzione pubblica visitava il Museo del Lussemburgo, accompagnato da conservatore Leonce Benedite. A un tratto si fer mo' davanti all'Uomo con camicia rossa di Carolus Duran e preso da diffidenza verso una tale abbondanza di carminio, punto' il pa rapioggia verso la tela e disse, rivolto al conservatore, con to no confidenziale e tuttavia pesante e sospetto: "Ditemi dunque, Benedite, ma non e' un po' impressionista, questo vostro amico Ca rolus Duran?"
Tale ostile pressione della critica, promosso dall'arroccamento della borghesia su posizioni ormai di assoluta conservazione, in sieme con lo sfaldarsi e lo spegnersi del fervore ideale di cui era stato ricco il movimento artistico nei suoi momenti di punta, avevano costituito non l'ultima della cause di un allontanamento degli artisti dalla visione realistica precedente e, in genere, da tutta quella pittura di idee, di pensiero, di narrazione, da cui, piu' o meno, tutti i nuovi impressionisti erano partiti. I problemi dei rapporti tra scienza e pittura, i problemi della tec nica, della luce, dell'obbiettivismo nella trascrizione pittorica della visione della natura, tendono ora a sostituire, e sostitui scono, quei problemi di contenuto che avevano gia' assimilato gli artisti sia realisti che romantici. Dalla prima mostra degli im pressionisti, che aveva avuto luogo nel 1874, all'anno in cui Van
Gogh giunge a Parigi, il progressivo evolversi degli impressioni sti in questa direzione, salvo qualche eccezione, si accentua, si no a giungere alle esperienze del divisionismo. Il gruppo degli impressionisti tuttavia rappresentava una forza una unita' vita le. Ma anche tale fatto, proprio in quel 1886, non doveva avere seguito. E' infatti in quest'anno che la compagine impressionista e' destinata a sciogliersi. Anche Zola, l'amico di Manet e di Ce zanne, primo autorevole difensore degli impressionisti, si distac ca da loro, pubblicando nello stesso anno il suo romanzo L'OEuvre dove descrive la disfatta artistica di un pittore in cui si sono voluti riconoscere i tratti propri di Manet e di Cezanne. E que st'opera non era che la premassa di quanto Zola scrivera' alcuni anni piu' tardi, allorche' si dispiacera' esplicitamente di esser si battuto "per quelle macchie, per quei riflessi, quella scompo sizione della luce" in cui, egli affermava, si era esaurita la forza dell'emozione primitiva degli impressionisti davanti alla realta'.


Questo discorso, naturalmente, non vuole togliere nulla al grande merito dell'impressionismo, che e' poi quello d'aver posto l'arti sta a diretto contatto della realta' e d'aver liberato da ogni re siduo accademico la potenza del colore, favorendo cosi' un profon do rinnovamento del linguaggio figurativo. Si tratta tuttavia di un discorso, dal punto di vista storico e culturale, indispensabi le, soprattutto per capire le reazioni di Van Gogh a Parigi. Van Gogh, infatti, arriva a Parigi coi problemi, con le ansie, coi de sideri di un uomo del '48, con la passione di un'arte realista, e si trova in un ambiente del tutto diverso. Il terreno storico e culturale su cui era cresciuta l'arte che egli amava era ormai sconvolto o distrutto; gli impressionisti, unici eredi di quelle premesse, stavano dilaniandosi in "disastrose guerre civili", cer cando di "mangiarsi il naso a vicenda con uno zelo degno di migli or causa." Egli che sino a quel momento aveva fatto una pittura oscura, quasi senza colore, adesso e' vivamente colpito dalle te le luminose, chiare, brillanti degli impressionisti; ne accoglie anzi con entusiasmo le nuove teorie e la nuova tecnica, di cui vede le straordinarie possibilita'; ma dentro di lui cresce anche un insopportabile sgomento. Pensava di trovare a Parigi un soste gno ai suoi sentimenti, alle sue aspirazioni, credeva di trovare degli "uomini" e invece, come scrive nell'estate del 1987, trova solo dei "pittori che (lo) disgustano come uomini." Il suo fervo re si scontra con una realta' fredda, limitata, dove ormai sono considerate "letteratura" le verita' in cui egli, tra i minatori, i contadini e i tessitori del Belgio e dell'Olanda, aveva impara to a credere. Era crollato un mondo, la sconfitta della Comune aveva scavato un solco profondo e definitivo col passato e Van Go gh, nell'acuta sensibilita' della sua anima, avverte cio' come uno spasimo, come una contrazione dolorosa.
Egli sente che ormai gli artisti non sono piu' inseriti nella so cieta', ma "opposti" alla societa', "rifiuti" della societa', co me la prostituta, "nostra amica e sorella" in questa sorte. Ma non per questo desiste dal cercare quello che gli sta a cuore. Tutta la sua vita, adesso, avra' questo scopo unico e disperato: cercare cio' che ormai, storicamente, non potra' piu' trovare. Di conseguenza, quella carica sentimentale che e' venuto accumulando in se', non trovando modo di allargarsi di espandersi all'esterno gli esplode dentro, dilacerandolo. Cosi' e' attraverso questa esa sperazione che egli incomincia a guardare la realta'. Egli cioe' getta sulla realta' la sua esaltata fame di amore per gli uomini, investe la realta' col suo sentimento, che non ha trovato i natu rali sfoghi in un concreto movimento, in una storia comune. Ma cio' non lo salva. Egli si sente solo con questi sentimenti e di questi stessi sentimenti infatti la sua esistenza sara' bruciata come una torcia.
Nei quadri degli impressionisti Van Gogh avverte la iniziale frat tura che si va stabilendo fra arte e vita. Non la tecnica, la lu
ce, le teorie divisioniste possono decidere dell'opera: "Ah, mi sembra di piu' in piu' che gli uomini siano la radice di tutto e da cio' viene di continuo un sentimento di malinconia per non es sere nella vera vita, nel senso che vorrei lavorare piu' nella carne che nel colore."
E' questa, una lettera dell'88. Ormai egli e' ad Arles. Il pitto re che piu' lo interessa e' Gauguin, il Gauguin che gia', nei di scorsi, ha formulato la critica fondamentale dell'impressionismo, anche se poi i termini di tale critica li fissera' sulla carta so lo piu' tardi: "Gli impressionisti guardano attorno con l'occhio e non al centro misterioso del pensiero... Quando parlano della loro arte, di che si tratta? Di un'arte puramente superficiale, fatta tutta di civetterie, meramente materiale, dove non risiede pensiero." Questo, in fondo, una pittura di pensiero, d'intensi ta' espressiva, non "positivistica," e' cio' che vuol fare Van Go gh, riprendendo l'esperienza formale dei Mangiatori di patate, cioe' i modi espressivi della deformazione: "Il mio grande deside rio e' di imparare a fare della deformazioni, o inesattezze o mu tamenti del vero; il mio desiderio e' che vengano fuori, se si vuole, anche delle bugie, ma bugie che siano piu' vere della veri ta' letterale." Non dunque un'arte d'impressione ma d'espressio ne, un'arte che esprima non la verita' apparente delle cose, ma la loro profonda sostanza. E ancora e sempre questa verita' del l'uomo egli la cerca tra la semplice gente operaia e contadina:


"Ah, mio caro fratello... le brave persone non vedranno in questa  esagerazione che della caricatura. Ma noi abbiamo letto La Terre e Germinal e se dipingiamo un contadino, vorremmo far vedere che questa lettura ha finito per fare tutt'uno con noi."
Cercare una spiegazione di Van Gogh nell'ambito della patologia, come qualcuno ha fatto, e' un modo per evitare il problema. Van Gogh non e' un "caso," o per lo meno non e' un "caso isolato". Ri dotto Van Gogh al puro caso patologico, spiegato il suo suicidio al lume esclusivo della scienza medica, ci resterebbero da spiega re numerosi altri casi in parte o in tutto simili a quello di Van Gogh. Van Gogh e' invece il primo caso evidente di tutta una se rie di altri casi e cessa proprio per questo di essere un caso per indicare una situazione, la quale, appunto, e' la situazione di crisi che stava per manifestarsi come fatto generale della cul tura: distrutta la base storica su cui gli intellettuali si erano formati, entravano in crisi, dentro di essi, i valori spirituali che prima sembrava dovessero durare permanentemente.
Van Gogh e' il primo caso evidente dell'arte come Rimbaud, negli anni che seguono la Comune, e' il primo caso evidente in lettera tura. La prosa convulsa della Saison en Enfer somiglia a certi quadri allucinanti di Van Gogh: "La mia salute fu minacciata. Ve niva il terrore. Cadevo in sonni di parecchi giorni e, alzato, continuavano i sogni piu' tristi. Ero maturo per la morte e la mia debolezza mi conduceva per una strada di pericoli, verso i confini del mondo..." Come Van Gogh, Rimbaud aveva visto distrug gere cio' in cui credeva. Anch'egli aveva avuto un sogno di reden zione: "Vi sono distruzioni necessarie... Vi sono vecchi alberi che bisogna tagliare e altre secolari ombre di cui noi perderemo l'amabile abitudine. Questa stessa societa': vi passeranno sopra le scuri, le zappe, i rulli livellatori. Ogni valle sara' ricolma e le colline abbassate, i sentieri tortuosi diventeranno diritti e quelli accidentati piani. Si raderanno al suolo le fortune, sa ranno abbattuti gli orgogli individuali. Un uomo non potra' piu' dire: "Io sono potente perche' sono piu' ricco". L'†mara invidia e la stupida ammirazione saranno sostituite con la pacifica con cordia e il lavoro di tutti per tutti."
Non c'e' in queste righe la stessa visione vangoghiana di una fu tura rivoluzione? Non c'e' la stessa ansia che in Van Gogh si esprimeva col desiderio di "tempi migliori", di "aria pura", di una "societa' rinfrescata dopo questi grandi uragani"? La rinun cia di Rimbaud alla poesia e alla sua vera vocazione di uomo, e' un fatto, matura con la caduta di questo sogno; la febbre turbi
nosa di Van Gogh si scatena quand'egli, da solo, vorrebbe ripara re a furia d'amore la frana di quegli ideali nei quali, unicamen te, vedeva la salvezza.
Non restare soli, non "essere ammalati, perche', se lo siamo, ri maniamo piu' isolati, lavorare in gruppo": ecco dove Van Gogh ri pone ancora una fiducia di successo per superare l'angoscia e fa re un'arte vera: "Sempre piu' mi convinco che i quadri che biso gnerebbe fare perche' la pittura attuale diventasse veramente se stessa e salisse a un'altra equivalente alle cime serene raggiun te dagli scultori greci, dai musicisti tedeschi, dai romanzieri francesi, dovrebbero sorpassare la potenza di un individuo isola to. Essi saranno dunque probabilmente creati da gruppi di uomini che si mettono insieme per dare esecuzione a una idea comune." E' ancora una lettera dell'88. In questo stesso periodo Paul Si gnac, che e' andato a trovarlo, racconta: "Io non dimentichero'
mai quella camera tappezzata di paesaggi deliranti di luce... Tut to il giorno egli mi ha parlato di puittura, di letteratura, di socialismo." Ma proprio lui, che piu' di ogni altro sentiva la ne cessita' di non essere solo, finira' col restare in solitudine. Anche Gauguin infatti,arrivato ad Arles a meta' ottobre dell'88, lo lascera' poco tempo dopo.
Van Gogh ha dato un significato al colpo di rivoltella col quale ha posto fine alla sua vita il 28 luglio 1890. Al suicidio, infat ti, aveva gia' pensato da qualche anno come al solo modo di "pro testare contro la societa' e di difendersi." Che cos'altro poteva fare un uomo solo, ingombro di speranze frustrate, senza una via d'uscita, senza una via di scampo alla propria inquietudine? Negli ultimi tempi egli aveva cercato uno stordimento, una specie di ebrietudine nel lavoro. Sono ormai la sua inquietudine e il suo ardore a guidargli la mano sulla tela. Attraverso la lente della sua agitazione interiore la realta' delle cose si deforma va: "Al posto di cercare di rendere esattamente cio' che ho davan ti agli occhi, io mi servo dei colori arbitrariamente per espri mermi in maniera piu' forte." In questo "arbitrio," in questo uso violentemente psicologico del colore e' una delle chiavi del sog gettivismo moderno: "Ho cercato di esprimere col rosso e col ver de -egli continua- le terribili passioni degli uomini." La legge del colore naturalistico degli impressionisti e' caduta. Il colo re per Van Gogh ha adesso il valore di una violenta metafora, ac quista una virtu' di persuasione autonoma, anche se non distinta dall'ispirazione generale dell'opera: "Nel mio quadro Caffe' di notte, ho cercato di esprimere come il caffe' sia un luogo dove ci si puo' rovinare, diventare folli, commettere un delitto. In fine io ho cercato con dei contrasti di rosa tenero, di rosso san gue e feccia di vino, di dolci verdi Luigi XV e Veronese, contra stanti coi verdi-gialli e i duri verdi-blu, e tutto cio' in un'at mosfera di fornace infernale, di pallido zolfo, di esprimere qual che cosa come la potenza delle tenebre di uno scannatoio."


Gia' egli aveva osservato in Delacroix come il colore diventasse forma, come cioe' si potesse modellare direttamente col pennello. Ed e' proprio questo che egli ora fa, impadronitosi della liber ta' del colore conquistata dagli impressionisti. Ma alla pennalla ta impressionistica e soprattutto neo-impressionistica, che tende al tocco fitto e minuto, egli sostituisce una pennellata piu' lunga, ondeggiante, circolare: "Io cerco di trovare una tecnica sem pre piu' semplice, che non sia impressionistica," egli scrive. E infatti "impressionistica" non e' piu'. Per Van Gogh, quindi, il colore non ha una funzione decorativa come per Gauguin, non punta sull'armonia dei rapporti, non e' un veicolo di d'evasione in un sogno di astratte suggestioni. Ancora nel febbraio del 1890, a proposito di un articolo dove si parla di lui, scrive: "L'artico lo d'Aurier mi incoraggerebbe, se io osassi lasciarmi andare, a rischiare un'evasione dalla realta' e a fare con il colore come una musica di toni... Ma essa mi e' cosi' cara, la verita', il cercare di fare il vero, che infine io credo di preferire il me stiere di calzolaio a quello del musicista di colori!"
Testimone vivente della crisi dei valori spirituali dell'Ottocen to, Van Gogh apre quindi la strada a quella larga corrente arti stica di contenuto che e' la corrente espressionista moderna, una corrente che avra' esiti diversi e, a volte, addirittura contra stanti, ma che tuttavia, quasi sempre, riconoscera' nell'uomo il centro dei suoi interessi.


PAUL GAUGUIN


L'Arte ufficiale aveva assunto in quegli anni un carattere puramente celebrativo; la sua funzione non era più l'espressione della verità, ma l'occultamento della stessa; si definiva realista ma era antirealista; protraeva le illusioni delle passate virtù che erano ormai vizi profondi.
Dopo il 1870 i prodotti di quest'arte si diffusero in modo sfacciato, mentre contemporaneamente alcuni artisti prendevano coscienza della crisi in atto.
già nel 1850, all'istituzione di premi per le "migliori opere teatrali", Baudelaire aveva protestato violentemente per la morte della poesia. Il distacco degli intellettuali diventa sempre più protesta di evasione: troppo chiara é la forza del potere.
Nel '59 nel suo "Viaggio" Baudelaire invocava la morte che lo portasse lontano dalla volgarità del presente.
Rimbaud lascia la Francia e fugge in Africa. Diventare selvaggi é dunque uno dei modi per evadere dalla società divenuta insopportabile agli uomini di pensiero.
Tradizione francese dell'Illuminismo. L'uomo di "natura" di Rousseau ne è l'esempio.
In effetti con la Rivoluzione si era parlato a lungo dell'eliminazione della schiavitù; ora da mito convergente sulla realtà sociale, il selvaggio diventa mito divergente.
Proprio negli '70 la Francia si stava ricostituendo come Impero Coloniale; da qui derivava la diffusione di un fenomeno di "esotismo" in senso deteriore.
In Gauguin cresce un vero e proprio odio verso la società "criminale e governata dall'eros"; il Cristianesimo ha ucciso la bellezza degli istinti primitivi.
A Parigi si sente ed é un emarginato; tenterà anche lui il suicidio.
L'esotismo di Gauguin é vera denuncia di crisi e muove dalla fede in due miti:
1) la rivalutazione della spiritualità popolare
2) il mito del primitivo
1) Ritrova tali valori nei suoi viaggi in Bretagna dove dipinge crocefissioni rozze, ingenue e piene di forza primordiale.
2) Nei viaggi a Tahiti e nel definitivo soggiorno ritrova il Paradiso Terrestre prima del peccato originale.
Bisogna liberarsi dalla convenzionalità della morale per uscire dalla convenzionalità della pittura.
L'erotismo é il mezzo unico per raggiungere un equilibrio tra la natura esterna e quella interna a noi.
Sulla sua abitazione di Tahiti scrive: "Qui si fa l'amore", in polemica violenta con i missionari che corrompono la vera spiritualità dei primitivi con una falsa morale.
Ma l'evasione é impossibile: Gauguin é un europeo, la sua cultura ha radici ben precise che non si possono cancellare; a Tahiti Gauguin troverà l'inferno.
Rimane per noi la lezione del gesto, nel tentativo di superare la alienazione dell'uomo tipico di questa società; nella ricerca di vincere il progressivo impoverimento dei valori umani e spiritua li. Nel mito del selvaggio c'é tutta una ricerca affannosa di ritrovare se stessi al di fuori dell'ipocrisia e della corruzione. Quando anche questa via risulterà inutile all'uomo non resterà che cercare altre strade nel sogno (surrealismo), o nel silenzio del proprio Io, o in soluzioni metafisiche.
La pittura di Gauguin é all'opposto di quella divisionista: piani di colore campiti in modo molto sintetizzato, che saranno poi ripresi da molti artisti successivi (Nabis e Fauves), piuttosto che non la via dell'analisi e della divisione propria di Seurat.
Grande ammiratore di Manet e di Degas piuttosto che di Monet.
I piani prospettici sono appiattiti, aperti al massimo sul cui fondo le figure vanno a schiacciarsi.
Negli anni '80 era parso esprimersi con accenni di divisionismo: una tecnica "a righine", a tratteggio tremulo e sfilacciato, mentre il disegno é alla maniera di Degas e poi di Toulouse Lautrec. Già dopo la prima fuga in Bretagna nell'87, si aprono nuovi interessi tecnici: accanto ad una economia di pennellate, condotte brevemente talvolta in modo non regolare, compaiono i primi accenni di pittura "à plat", in una coesistenza di tecniche diverse. ê dal contatto con la scuola di Pont-Aven che nasce in lui l'esi genza di sintesi. La sintesi é la strada all'astrazione, al generale e quindi un possibile superamento della fenomenicità impressionista. (vedi "Visione dopo la predica").
Le pettinature di Gauguin si saldano in un blocco unico: un rosso scarlatto diviso in due da un tronco d'albero; i copricapi delle donne bretoni sono di una compattezza del tutto nuova.
Gauguin non e' amante del ritratto; i personaggi sono privi di caratterizzazioni; cio' che interessa a Gauguin e' da ora quasi sempre un quadro nel quadro, un elemento o piu' che definiscano una realta' interiore parallela alla realta' esterna.
L'incontro con VanGogh ad Arles fu un fallimento; troppo personale la ricerca dell'olandese, troppo influenzata segnicamente dal neo-impressionismo e nello stesso tempo svincolata dalla realta' pittorica del tempo.
Un secondo viaggio in Bretagna gli apre l'orizzonte di una societa' arcaica, immobile, ignara del progresso tecnologico, immersa in solide certezze.
Aumentano le tendenze sintetico-simboliste del pittore, fino a consentirgli di individuare una specie di manifesto simbolista in pittura che si svolge in 5 punti:
1) la nuova arte deve essere "idealista", in contrapposizione al "naturalismo";
2) sintetica; le parole e i gesti espressi in modo stilizzato; pochi schemi essenziali, aperti ed indeterminati; lo stesso termine del primo punto espresso come "ideista",in omaggio alla sintesi;
3) simbolista; si produce una immagine non piu' solo visiva ma evocativa di valori trascendenti per arricchire una realta' altrimenti troppo povera e arida (la realta' borghese-industrialepositivista);
4) soggettiva; la conoscenza e' aperta a pochi dotati di capacita' intuitive, costituenti una elite non di denaro ma di sensibilita';
5) decorativa; la pittura non e' riproduzione istantanea, ma il risultato del fare pittorico; nobilitare la vita quotidiana conferendole maggiore tensione estetica.
La scuola di Pont-Aven avra' ripercussioni notevoli sull'arte successiva: nel 1888 Gauguin detta il "Talismano", manifesto di un nuovo paesaggismo dove la natura e' vista come simbolo di valori sovrannaturali; questo esercitera' una forte influenza sui Nabis; lo sviluppo di interni finemente decorati sara' approfondito da Bonnard e Vouillard.
Nel '90, Gauguin va nelle isole dell'Oceania; a partire dal '91 la sua pittura rafforza la tendenza alla generalita'; un nuovo modello di razza maori rappresentato con grande solidita' nel corpo muscoloso e sodo, nei capelli neri che creano massa, nella pelle scurissima e uniformemente resa.
Gauguin introduce quasi subito la scritta sul dipinto, che toglie carattere di immagine fotografica e trasforma il dipinto in una specie di icona pagana.
Gauguin oltre che pittore e' antropologo; molto disponibile ad apprendere anche sul piano etico;in antagonismo ad un sesso chiuso di tipo europeo, basato sul concetto del possesso dell'uomo sulla donna, scopre una sessualita' aperta in cui sono attenuati i privilegi del maschio.
In "Noa noa" la posa della fanciulla, sconcia secondo il nostro codice morale, esprime invece abbandono indifeso alle forze della natura descritte in un inquietante notturno. Trionfo dell'elemento decorativo negli arabeschi della coperta dotati come di una luce interna contro lo sfondo nero.
Dopo un ultimo intervallo parigino,Gauguin inizia nel '95 l'ultimo soggiorno a Tahiti che fu caratterizzato da composizioni piu' complesse e monumentali: "Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Logici interrogativi in una ottica in cui si sono abbandonate le certezze "positive" fornite dalla scienza,per lasciare il posto ai grandi problemi trascendenti che riportano ad una primordiale religiosita'.
Le tre domande sono iscritte, come un fumetto, in un tutt'uno con le immagini.
Sono qui rappresentate le stazioni simboliche della vita umana: nascita, infanzia, adolescenza, giovinezza,amore,vecchiaia. Tutto e' manifestato in modo naturale e contemporaneamente sacrale.
Nelle ultime opere si nota una maggiore approssimazione accompagnata da un ritorno alle "pettinature" del primo periodo.
In "Seni con fiori rossi" rappresentata la bellezza femminile a meta' tra la grazia simbolista e la solidita' pesante pre-espressionista.
Analisi di "Te Tamari No Atua".

 

fonte: http://www.istitutobalbo.it/autoindex/indice/Liceo%20Classico/Lezioni%20di%20storia%20dell%27Arte/1800/cezanne_vangogh_gauguin.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

Cezanne Van Gogh Gauguin

 

 

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