Astronomia appunti parte 1

 

 

 

Astronomia appunti parte 1

 

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Astronomia

Elementi propedeutici di fisica

 

Forze e strutture

La caratteristica forse più appariscente dell'universo sta nella grande varietà di oggetti che lo compongono. Dagli atomi alle galassie l'universo rivela una gerarchia di strutture e forme in continua evoluzione.
A ben guardare un universo amorfo, senza struttura potrebbe teoricamente esistere, costituito solo da particelle elementari e radiazione in moto caotico, senza possibilità di legami reciproci. Le strutture si producono infatti perché esiste un qualche genere di restrizione al movimento disordinato della materia. Possiamo allora affermare che l'esistenza nell'universo di materia strutturata rivela inequivocabilmente l'esistenza di restrizioni, di forze che costringono le particelle ed i corpi in genere ad aggregarsi in modo più o meno ordinato.

In fisica il concetto di forza viene descritto attraverso le tre leggi della dinamica (Newton).

1) Il principio di inerzia afferma che un corpo mantiene il suo stato di quiete o di moto uniforme lungo una linea retta se non esiste una forza ad esso applicata.

2) Quando una forza viene applicata ad un corpo libero di muoversi essa produce una variazione della velocità del corpo (accelerazione) per tutto il tempo durante il quale la forza agisce. Tale accelerazione risulta direttamente proporzionale alla forza applicata ed inversamente proporzionale alla massa del corpo ( F = ma). Naturalmente se la forza agisce su di un corpo già in movimento, essa può produrre un'accelerazione positiva se agisce nel senso del moto, negativa se agisce in senso opposto. Se infine una forza viene applicata perpendicolarmente alla direzione del moto essa non produce variazioni sul modulo della velocità, ma esclusivamente sulla direzione, costringendo il corpo a muoversi di moto circolare uniforme.

3) Se un corpo esercita una forza su di un secondo corpo, allora il secondo esercita sul primo una forza uguale e contraria.

Nel sistema internazionale di unità di misura (SI) l'unità di misura della forza è il newton (N). 1 newton è la forza che, applicata ad una massa di 1 kg, le imprime un'accelerazione di 1 m/s2.
Nel sistema cgs l'unità di misura delle forze è la dina (dyn). 1 dina è la forza che, applicata ad una massa di 1 g, le imprime un'accelerazione di 1cm/s2. I fisici ritengono oggi che in natura esistano 4 tipi fondamentali di forze o interazioni in grado di giustificare tutte le strutture esistenti.

Le 4 forze  naturali

 

L'interazione gravitazionale

E' la forza che si esercita tra corpi in virtù della loro massa. E' una forza esclusivamente attrattiva che agisce in modo proporzionale alla massa dei corpi, mentre risulta inversamente proporzionale al quadrato della distanza che separa i corpi. Viene descritta dalla legge di gravitazione universale enunciata per la prima volta da Newton.

dove G è la costante di gravitazione universale.
L'esperienza dimostra che la forza gravitazionale tra corpi anche molto vicini è estremamente debole, a meno che non siano in gioco masse enormi. Per questo motivo l'interazione gravitazionale non può essere invocata per spiegare la stabilità dei corpi di piccole dimensioni. Essa diventa invece l'unica forza in grado di strutturare corpi molto massicci ed è quindi considerata la forza principale capace di governare le grandi strutture dell'universo, dai pianeti alle stelle, alle galassie. Il suo raggio d'azione è infinito, nonostante che alle grandi distanze la sua intensità diventi naturalmente molto piccola.

 

Interazione elettromagnetica

Mentre la forza gravitazionale è una proprietà della massa ed è quindi sempre presente tra due corpi qualsiasi, la forza elettromagnetica agisce solo tra corpi elettricamente carichi. In natura esistono due tipi di cariche elettriche, convenzionalmente designate come positive e negative. La forza elettromagnetica risulta attrattiva solo tra cariche di segno opposto, mentre diventa repulsiva per cariche dello stesso segno. L'intensità della forza varia in funzione dell'intensità delle cariche in gioco e della loro distanza con una legge analoga a quella di gravitazione universale, nota come legge di Coulomb.

dove K è una costante di proporzionalità pari a , con eo costante dielettrica del vuoto.
Nel sistema SI la carica elettrica si misura in coulomb (C).
Poiché gli atomi di cui è composta la materia sono formati da un nucleo di protoni carichi positivamente, intorno al quale orbitano elettroni negativi, la forza coulombiana risulta essere responsabile della struttura atomica e molecolare, producendo tutti quei legami che noi definiamo 'chimici', i quali garantiscono la stabilità dei corpi ordinari. Le forze elettriche hanno come le forze gravitazionali raggio d'azione infinito, ma risultano circa 1036 volte più intense di queste ultime.

 

Interazione forte

Dopo aver verificato che la forza repulsiva che si esercita tra i protoni positivi è enormemente più intensa di quella attrattiva dovuta alla loro attrazione gravitazionale, diventa inevitabile postulare l'esistenza di un qualche altro tipo di forza capace di giustificare la stabilità dei nuclei atomici. L'esistenza di tale forza attrattiva estremamente intensa, chiamata interazione forte, venne confermata dopo che nel 1932 Chadwick ebbe scoperto il neutrone nei nuclei atomici. Successivi esperimenti durante i quali i neutroni vennero fatti collidere con protoni e con nuclei atomici dimostrarono infatti l'esistenza di una attrazione tra nucleoni (protoni e neutroni), che si rendeva efficace solo quando questi venivano portati a distanze inferiori a 10-13 cm. Oltre tale distanza l'interazione forte non è più in grado di far sentire i suoi effetti ed è per questo motivo che le dimensioni tipiche dei nuclei atomici sono tutte di questo ordine di grandezza (10-13 cm). Il minuscolo raggio di azione dell'interazione forte spiega anche perché sono richieste energie enormi per portare due protoni ad unirsi in un processo di fusione nucleare, come quello che avviene all'interno delle stelle.
Forza di colore
In realtà oggi i fisici ritengono che l'interazione forte non sia una forza fondamentale di natura ma una specie di residuo di una forza, detta forza di colore, che tiene uniti i quark all'interno di ciascun adrone.
Secondo tale modello ciascun adrone è formato da tre quark di colore diverso, rosso, verde e blu. Naturalmente i colori indicano semplicemente tre diversi tipi di cariche, nello stesso modo in cui i termini positivo e negativo indicano convenzionalmente i due tipi di carica elettrica. I tre quark all'interno di un adrone si attirano per la presenza delle tre cariche di colore, le quali complessivamente appaiono neutre, come un atomo appare neutro per il fatto di essere costituito da tanti protoni positivi quanti elettroni negativi. I fisici si riferiscono al fatto che gli adroni non possiedano complessivamente una carica di colore residua dicendo che gli adroni sono bianchi (la somma dei tre colori fondamentali, rosso verde e blu).
Ma quando due adroni sono sufficientemente vicini è possibile che il quark di un certo colore di un adrone attiri un quark di colore diverso dell'altro adrone. Tali interazioni tra quark di adroni diversi sarebbero dunque responsabili delle forze che tengono uniti protoni e neutroni nei nuclei atomici e che noi abbiamo finora descritto come interazione forte. L'interazione forte rappresenterebbe quindi un residuo della forza di colore, in modo analogo a quanto accade per le forze intermolecolari che rappresentano un residuo della più fondamentale attrazione elettromagnetica che tiene uniti protoni ed elettroni all'interno degli atomi e delle molecole.

Infatti solo quando due protoni possiedono un'energia cinetica (e quindi una temperatura) tale da vincere la repulsione elettrostatica fino a portarsi a distanze di 10-13 cm, l'interazione forte può produrre i suoi effetti attrattivi. L'interazione forte risulta 137 volte più intensa della interazione elettromagnetica. Tutte le particelle soggette ad interazione forte sono classificate come adroni.

 

Interazione debole

L'interazione debole venne introdotta nel 1935 da Fermi per descrivere il fenomeno del decadimento beta. Si tratta dell'interazione naturale più sfuggente e difficile da descrivere Poiché i suoi effetti sono quelli di provocare particolari tipi di decadimenti a livello di particelle elementari. In generale possiamo affermare che l'interazione debole è responsabile di tutti quei decadimenti in cui sono implicati neutrini. L'esistenza del neutrino venne postulata nel 1930 da Pauli per salvare il principio di conservazione dell'energia che sembrava altrimenti violato nel decadimento beta, visto che la somma della quantità di moto del protone e dell'elettrone non era pari a quella iniziale del neutrone.

L'interazione debole presenta raggio d'azione dell'ordine di 10-16 cm ed è 1013 volte meno intensa dell'interazione forte. Tutte le particelle che non sentono l'interazione forte e che sono in grado di 'sentire' l'interazione debole sono dette leptoni (gli adroni sentono sia l'interazione forte che l'interazione debole). Sono leptoni l'elettrone, il muone (m), il tauone (t) ed i rispettivi neutrini.

 

Le Particelle elementari  e i quanti di forza

Le 4 forze naturali agiscono essenzialmente sulla materia. Attualmente i fisici possiedono un modello estremamente sintetico ed elegante che descrive la materia.
Quando una porzione di materia viene ritenuta non ulteriormente divisibile (l'atomo dei greci) prende il nome di particella elementare o quanto di materia. Si ritiene che esistano 2 tipi di particelle materiali elementari (non composte da altre particelle): Quark e Leptoni.
Si conoscono 6 Quark e 6 Leptoni, comunemente raggruppati in 3 famiglie, ciascuna contenente due Quark e due Leptoni secondo il seguente schema (la massa è espressa in MeV (l'elettronvolt è l'energia acquistata da un elettrone quando viene accelerato dalla differenza di potenziale di 1volt.    1 MeV = 106 eV) e la carica elettrica come frazione della carica unitaria dell'elettrone)

QUARK


I  famiglia

II  famiglia

III  famiglia

nome

sigla

carica

massa

nome

sigla

carica

massa

nome

sigla

carica

massa

up

u

+2/3

2-8

charm

c

+2/3

1000-1600

top

t

+2/3

175600

down

d

-1/3

5-15

strange

s

-1/3

100-300

bottom

b

-1/3

4100-4500

 

 

I  famiglia

II  famiglia

III  famiglia

nome

sigla

carica

massa

nome

sigla

carica

massa

nome

sigla

carica

massa

elettrone

e

-1

0,511

muone

-1

105,66

tauone

-1

1777

neutrino
elettron.

e

0

< 0,0051

neutrino
muonico

0

< 0,27

neutrino tauonico

0

< 31

 

LEPTONI
La prima famiglia va a costituire la materia ordinaria con la quale è costruito l'intero universo materiale dagli atomi alle galassie. Le rimanenti due famiglie sono costituite da particelle instabili che si formano attualmente solo in condizioni termodinamiche particolari (ad esempio nei grandi acceleratori di particelle) e si trasformano (decadono) rapidamente nelle particelle stabili della prima famiglia.
Ciascuna delle 12 particelle presenta inoltre la sua antiparticella che si distingue solo per avere carica elettrica opposta. Le antiparticelle vengono rappresentate con il simbolo della particella con una barretta sopra. Ad esempio l'elettrone (e o e-) ha come antiparticella l'antielettrone o positrone ( o e+).

A differenza dei Leptoni, i Quark non esistono liberi in natura, ma si aggregano a gruppi di 2 o 3. Le particelle composte da 3 Quark sono chiamate barioni, quelle composte da 2 Quark sono dette mesoni. Barioni e mesoni costituiscono un unico gruppo di particelle note come adroni.
Gli unici due barioni stabili nelle attuali condizioni termiche dell'universo sono il protone (duu) formato da due Quark up ed un Quark down e il neutrone (ddu) formato da un quark up e due Quark down.
La carica elettrica degli adroni si ottiene come somma algebrica della carica elettrica dei singoli Quark che li compongono. Non esistono adroni con cariche elettriche frazionarie. I mesoni si formano dall'unione di un Quark e di un Antiquark. Ad esempio il pione negativo - presenta la seguente struttura . I mesoni presentano un quark di un colore ed un antiquark del rispettivo anticolore (antirosso = ciano; antiverde = magenta; antiblu = giallo), in modo che anch'essi si presentano globalmente neutri (bianchi) per quanto riguarda la carica di colore.

 

I barioni possiedono tutti spin semintero e sono perciò fermioni (ubbidiscono al principio di esclusione di Pauli), mentre i mesoni presentano spin intero e sono perciò bosoni (non ubbidiscono al principio di esclusione di Pauli).

Quark e Leptoni interagiscono attraverso i 4 tipi di forze fondamentali già descritte. Oggi però anche le forze o interazioni vengono descritte attraverso teorie quantistiche. Ciò significa che quando due particelle materiali interagiscono tramite una delle quattro forze di natura lo fanno, secondo le attuali vedute, scambiandosi un quanto di forza. I quanti associati alle quattro forze di natura possono a tutti gli effetti essere considerati come particelle portatrici di forza (vettori di forza).
Le particelle che mediano le interazioni sono tutte bosoni (bosoni intermedi).

 

                                                  interazione                        quanto                            spin                    carica elett.
                   
gravitazionale            gravitone  (ipotetico)                 2                             0
elettromagnetica          fotone                                        1                             0
forte (di colore)           8 gluoni                      1                             0
debole                       3 bosoni deboli
W+                                         1                             + 1
W-                                          1                             -  1
Z°                                           1                             0

L'interazione gravitazionale è una forza puramente attrattiva che agisce tra corpi dotati di massa tramite scambio di gravitoni. La descrizione quantistica di tale interazione non è ancora soddisfacente.

L'interazione elettromagnetica è una forza che agisce sia in modo attrattivo che repulsivo tra particelle dotate di carica elettrica tramite scambio di fotoni.

L'interazione di colore agisce tra i Quark tramite scambio di 8 gluoni, mantenendo legati i Quark all'interno degli adroni. I leptoni non possiedono carica di colore e su di essi non agisce pertanto l'interazione forte.

L'interazione debole è alla base di tutti i processi tra particelle in cui sono coinvolti neutrini. Sia quark che leptoni presentano carica debole. In tutte le reazioni di interazione debole sono coinvolti 4 fermioni. Il decadimento del neutrone è una tipica interazione debole mediata dal bosone W-

I bosoni deboli elettricamente carichi (W+ e W-) sono in grado di trasformare i Quark l'uno nell'altro secondo il seguente schema

Così il decadimento beta del neutrone deve essere interpretato come una trasformazione di un Quark d in un Quark u per emissione di un bosone debole W- il quale decade poi in un elettrone e in un antineutrino elettronico

In modo analogo i leptoni possono trasformarsi l'uno nell'altro per interazione debole secondo il seguente schema

Ad esempio il muone decade in un elettrone, un neutrino muonico e in un antineutrino elettronico secondo la seguente reazione

Le 4 interazioni fondamentali presentano ovviamente una diversa intensità (o adesività).Tali differenze tendono però ad annullarsi con l'aumentare della temperatura.
L'intensità dell'interazione debole e di quella elettromagnetica diventano ad esempio paragonabili ad una temperatura di circa 1015°K, che corrisponde ad una energia cinetica media () delle particelle di circa 1011 eV.
L'ipotesi che l'interazione debole e l'interazione elettromagnetica potessero essere a tutti gli effetti indistinguibili ed unificarsi a tali energie ha trovato una conferma sperimentale nel 1983 ad opera dell'équipe del CERN guidata da C. Rubbia.
Al di sopra di 1015°K non ha quindi più senso distinguere fotoni e bosoni deboli e sarebbe più opportuno parlare di un unico tipo di vettori intermedi, i bosoni elettrodeboli che trasportano un'unica forza elettrodebole unificata.

Anche se non è ancora stato possibile effettuare una verifica sperimentale, pochi scienziati hanno oggi dei dubbi che anche l'interazione forte possa unificarsi con l'interazione elettrodebole. Vi sono diverse teorie che prevedono tale unificazione al di sopra di 1027°K (1023 eV) e che sono note come Teorie di Grande Unificazione (GUT).
Secondo la più semplice di tali teorie (SU5) al di sopra di tale temperatura risultano stabili 24 bosoni vettori intermedi, noti come bosoni X che trasportano un'unica forza grandunificata. Lo scambio di tali bosoni tra Quark e Leptoni trasforma gli uni negli altri. Sopra tale temperatura non avrebbe nemmeno più senso distinguere tra Quark e Leptoni che vengono spesso indicati come lepto-quark.
Al di sotto di tale temperatura 12 bosoni X decadono negli 8 gluoni e nei 4 bosoni elettrodeboli, mentre gli altri 12 bosoni X decadono in quark e leptoni stabili.

Esistono infine ipotesi teoriche, sulle quali non vi è ancora sufficiente convergenza da parte degli specialisti, che prevedono una completa unificazione di tutte e 4 le forze a 1032 °K (1028 eV). Tra queste sollevano particolare interesse tra i fisici le teorie supersimmetriche (SUSY) che prevedono che sopra una certa temperatura anche fermioni e bosoni diventino indistinguibili. Secondo tali teorie ogni particella elementare nota dovrebbe essere associata ad una particella supersimmetrica (superpartner) che differisce, oltre che per la massa molto elevata solo per mezza unità di spin. Così tutti i fermioni avrebbero dei bosoni per superpartners e viceversa. I fermioni supersimmetrici (tutti con spin 1/2 tranne il gravitino con spin 3/2) vengono indicati aggiungendo la desinenza -ino al nome del loro partner normale (fotino, gluino, Wino, Zino, gravitino), mentre i bosoni supersimmetrici (tutti con spin zero) vengono indicati anteponendo il prefisso s- al nome dei loro partners normali (selettrone, sneutrino, squark).

 

La radiazione elettromagnetica

La maggior parte delle informazioni che ci pervengono dallo spazio sono sotto forma di energia elettromagnetica. La conoscenza della natura e delle leggi che governano la radiazione elettromagnetica risulta quindi fondamentale nello studio dei corpi celesti.
Nel 1820 il fisico danese Hans Christian Oersted scoprì che un magnete ed un filo percorso da corrente elettrica si attirano reciprocamente.
Nel 1831 l'inglese Michael Faraday trovò che a sua volta un magnete in movimento esercita una forza su di una carica elettrica ferma costringendola a muoversi, fenomeno oggi noto come induzione elettromagnetica.
Divenne dunque presto evidente che la forza elettrica e la forza magnetica, fino ad allora ritenute separate, dovevano essere due aspetti di uno stesso fenomeno.
Qualche decennio più tardi lo scozzese James Clerck Maxwell sintetizzò tali risultati sperimentali con uno straordinario lavoro teorico. Servendosi esclusivamente del calcolo differenziale Maxwell dimostrò infatti che un campo elettrico di intensità variabile nel tempo produce nello spazio circostante un campo magnetico anch'esso di intensità variabile. Il campo magnetico indotto, variando di intensità, induce a sua volta un campo elettrico variabile e così via.
In conclusione l'iniziale perturbazione del campo (elettrico o magnetico che sia) non rimane confinata nello spazio, ma si propaga come una serie di campi magnetici ed elettrici concatenati di intensità variabili. Le variazioni di intensità si presentano con tipico andamento sinusoidale, tanto da meritare al fenomeno il nome di onda elettromagnetica.
La teoria di Maxwell permette anche di ottenere per via teorica la velocità di propagazione dell'onda, la quale risulta essere pari al reciproco della radice quadrata del prodotto della costante dielettrica del vuoto (eo) per la permeabilità magnetica del vuoto (mo).
v =  = 300.000 km/s
La straordinaria coincidenza numerica tra la velocità di propagazione dell'onda elettromagnetica e la velocità di propagazione della luce nel vuoto 'c', portò Maxwell a formulare l'ipotesi, in seguito confermata sperimentalmente da Hertz, che la luce non fosse altro che un onda elettromagnetica di particolare lunghezza d'onda.

Un'onda elettromagnetica, essendo un campo di forze di intensità variabile che si propaga nello spazio, agisce su tutte le particelle cariche e sui magneti che incontra costringendoli a vibrare al suo stesso ritmo, così come un sughero sull'acqua viene fatto oscillare dal passaggio di un'onda d'acqua.

Essendo la radiazione elettromagnetica un fenomeno ondulatorio, essa è descrivibile attraverso i caratteristici parametri associabili a qualsiasi onda:

1) il periodo T viene definito come il tempo impiegato dal campo elettromagnetico per eseguire una vibrazione completa o, il che è lo stesso, il tempo impiegato da una cresta d'onda per raggiungere la posizione precedentemente occupata dalla cresta che la precede.

2) viene definita frequenza n, il reciproco del periodo (1/T). La frequenza misura il numero delle oscillazione nell'unità di tempo. Si misura in cicli al secondo o hertz.

3) Si definisce infine lunghezza d'onda l, lo spazio tra due creste successive. La lunghezza d'onda rappresenta anche lo spazio percorso dall'onda nel tempo T.

Poiché la velocità di propagazione 'c' delle onde elettromagnetiche è costante ed essa è pari al rapporto tra lo spazio percorso l ed il tempo impiegato a percorrerlo T, se ne deduce che l e T sono direttamente proporzionali
c = l/T
inoltre, poiché n = 1/T, la relazione si può scrivere
c = l n
lunghezza d'onda e frequenza sono inversamente proporzionali.
L'onda elettromagnetica trasporta energia. Ce ne possiamo facilmente convincere pensando al fatto che le onde elettromagnetiche sono in grado di mettere in movimento le cariche elettriche investite, eseguendo su di esse un lavoro.
Quando però si prendono in considerazione fenomeni in cui sono coinvolti scambi energetici tra radiazione elettromagnetica e materia, il nostro modello ondulatorio diventa purtroppo inadeguato ed incapace di dar ragione di molti fatti sperimentali.
In tal caso viene utilizzato un modello corpuscolare in cui la radiazione risulta costituita da pacchetti di energia detti fotoni.
L'energia portata da ciascun fotone risulta direttamente proporzionale alla frequenza della radiazione secondo una costante di proporzionalità 'h', detta costante di Planck.

E = h  n
Dunque la radiazione ad alta frequenza (e piccola lunghezza d'onda) risulta composta da fotoni altamente energetici, mentre la radiazione a bassa frequenza (ed elevata lunghezza d'onda) è costituita da fotoni poco energetici.

La classificazione delle radiazioni elettromagnetiche in base alla lunghezza d'onda (o, il che è lo stesso, in base alla frequenza) prende il nome di spettro elettromagnetico.
Le onde elettromagnetiche che il nostro occhio riesce a percepire, indicate come frazione visibile dello spettro o spettro visibile, possiedono una lunghezza d'onda compresa tra 0,39 m e 0,77 m.
Noi percepiamo ciascuna lunghezza d'onda della radiazione visibile come un colore diverso. Alla radiazione di maggior lunghezza d'onda corrisponde il rosso (0,62 - 0,77 m). Al diminuire della lunghezza d'onda corrisponde l'arancione, il giallo, il verde, il blu ed infine, alla radiazione di minor lunghezza d'onda corrisponde il violetto ( 0,39 - 0,43 m).
Al di là del violetto troviamo radiazioni di minor lunghezza d'onda e di maggior energia, invisibili all'occhio umano, corrispondenti all'ultravioletto, ai raggi X ed ai raggi gamma.
Al di qua del rosso troviamo radiazioni di maggior lunghezza d'onda e di minor energia, corrispondenti all'infrarosso, alle microonde ed alle onde radio.

Attraverso una tecnica detta spettroscopia è possibile suddividere una radiazione proveniente da un corpo e composta da onde elettromagnetiche di diversa lunghezza d'onda nelle sue componenti, dette radiazioni monocromatiche. Si ottengono così una serie di righe colorate aventi ciascuna una particolare lunghezza d'onda, che definiscono lo spettro di quel corpo.
Esistono due tipi fondamentali di spettri: gli spettri di emissione e gli spettri di assorbimento.

 

Spettri di emissione

Gli spettri di emissione sono prodotti direttamente dai corpi e rappresentano una forma di emissione di energia da parte della materia. Trattandosi di un caso di interazione materia/radiazione tali fenomeni vanno trattati utilizzando il modello corpuscolare.
Esistono due tipi di spettri di emissione: spettri di emissione continui e spettri di emissione discontinui o 'a righe'.

1) Gli spettri di emissione continui vengono prodotti da corpi solidi o liquidi a qualsiasi temperatura al di sopra dello zero assoluto (0°K). La radiazione emessa è identica per qualsiasi tipo di corpo ad una stessa temperatura. In altre parole lo spettro che si forma non dipende dalla natura chimica del corpo emittente, ma è funzione esclusivamente della sua temperatura. Lo spettro che si forma si dice continuo in quanto sono presenti tutte le righe spettrali anche se con intensità diversa. L'intensità delle righe spettrali  cresce da sinistra verso destra, raggiunge un massimo per poi decrescere. Affermare che ciascuna riga spettrale presenta una diversa intensità, significa dire che ciascuna riga trasporta una diversa quantità di energia. Se costruiamo il diagramma che mette in relazione la distribuzione di energia dello spettro in funzione della lunghezza d'onda si ottiene una curva di questo tipo

                                               

La lunghezza d'onda in corrispondenza con il massimo della curva trasporta la maggior quantità di energia ed è detta lunghezza d'onda di massima emissione (lmax), mentre le radiazioni di lunghezza d'onda minore e maggiore risultano meno intense e trasportano quindi una minor quantità di energia.
Si noti che l'intensità massima non è necessariamente situata in corrispondenza delle lunghezze d'onda più energetiche (lunghezze d'onda minori). Ciò perché queste ultime, pur essendo formate da fotoni più energetici, sono evidentemente costituite da un numero di fotoni molto esiguo rispetto a quello che costituisce le lunghezze d'onda in corrispondenza delle quali è situato il picco.
La posizione del picco di energia dipende dalla temperatura del corpo emittente. Diminuendo la temperatura il massimo si sposta verso lunghezze d'onda maggiori e contemporaneamente la curva si abbassa.       

Il valore della lunghezza d'onda di massima emissione è ricavabile in base alla legge dello spostamento di Wien
lmax  T = K
Temperatura assoluta e lunghezza d'onda di massima emissione risultano dunque inversamente proporzionali. E' per questo motivo che un corpo portato ad alta temperatura ( ad esempio una sbarra di ferro) ci appare prima rosso, poi arancione, poi giallo, poi bianco-azzurro. Per lo stesso motivo vedremo che esistono stelle superficialmente 'più fredde' che ci appaiono rosse e stelle via via più calde che vediamo gialle, arancioni etc. Ciò non significa che emettono solo quella lunghezza d'onda, ma che le altre lunghezze d'onda emesse sono talmente deboli da essere sovrastate dalla lunghezza d'onda di massima emissione.

Per temperature molto basse il massimo di emissione non cade più nella banda della luce visibile, ma si sposta nella zona dell'infrarosso, fino a raggiungere, per temperature bassissime le microonde e le onde radio.

Naturalmente un corpo a maggior temperatura deve emettere complessivamente anche una maggior quantità di energia e viceversa. Infatti diminuendo la temperatura la curva non solo si sposta ma si abbassa. Si può dimostrare che l’area sottesa alla curva (integrale della funzione) rappresenta l'energia totale emessa nell'unità di tempo e per unità di superficie radiante.
La relazione che descrive la variazione di energia emessa in funzione della temperatura del corpo emittente è detta legge di Stefan-Boltzmann

E = s T4

Per inciso ricordiamo che la curva di spettro continuo è detta anche curva di corpo nero (così viene chiamato un radiatore integrale, cioè un corpo in grado di riemettere tutta l'energia che assorbe) e che tutti i tentativi di descrivere matematicamente tale curva applicando il modello ondulatorio di Maxwell rimasero infruttuosi fino all'inizio del '900, quando l'introduzione della costante di Planck 'h' aprì le porte ad un modello corpuscolare e quantizzato dell'emissione di energia radiante.

2) Gli spettri di emissione a righe si producono quando un gas o un vapore assorbe una opportuna quantità di energia che poi riemette sotto forma di particolari e caratteristiche righe spettrali.
Facendo attraversare la radiazione proveniente da un gas eccitato attraverso uno spettrografo non si ottengono tutte le righe spettrali, ma uno spettro composto da poche righe separate da spazi vuoti in cui le righe sono assenti.
L'interesse di tali spettri è dovuto al fatto che il tipo di righe emesse da ciascun elemento o composto chimico allo stato gassoso, dipende dalla sua particolare struttura atomica e quindi esiste uno spettro a righe specifico e caratteristico per ciascun elemento o composto. In tal modo analizzando le righe spettrali provenienti dai corpi celesti è spesso possibile risalire ai composti di cui sono costituiti, eseguendo una vera e propria analisi chimica a distanza.

 

Spettri di assorbimento

Quando una radiazione termica di corpo nero, dopo aver attraversato un vapore o un gas, viene analizzata allo spettrografo, si constata che dallo spettro continuo mancano alcune righe spettrali, le quali sono state assorbite dal gas interposto.
In pratica si osserva che i gas ed i vapori assorbono le stesse radiazioni che emettono quando vengono eccitati (legge di Kirchhoff - 1859), per cui lo spettro di assorbimento risulta l'esatto negativo dello spettro a righe. Le righe nere degli spettri di assorbimento vengono dette righe di Fraunhofer, dal nome del fisico che per primo le osservò nel 1815 nello spettro solare.

 

Effetto  Doppler

Quando osserviamo gli spettri provenienti da corpi in moto relativo rispetto a noi essi ci appaiono deformati. In particolare le righe risultano spostate verso lunghezze d'onda maggiori se la sorgente luminosa possiede un moto relativo di allontanamento, mentre risultano spostate verso lunghezze d'onda minori se la sorgente è animata da un moto relativo di avvicinamento.
Poiché nello spettro visibile le lunghezze d'onda maggiori corrispondono al rosso, mentre le lunghezze d'onda minori corrispondono al blu, il fenomeno di "dilatazione" della lunghezza d'onda proveniente da un corpo in allontanamento è indicato come spostamento verso il rosso o red-shift, mentre il fenomeno di "compressione" della lunghezza d'onda proveniente da un corpo in avvicinamento è indicato come spostamento verso il blu o blu-shift.
Naturalmente ciò non significa che una radiazione che ha subito un red-shift o un blu-shift ci appaia effettivamente rossa o blu, significa solo che ci appare con una lunghezza d'onda rispettivamente maggiore o minore di quella che possedeva al momento di emissione.
L'intensità del fenomeno è tanto maggiore quanto maggiore è la velocità radiale di allontanamento o di avvicinamento. Il fenomeno è analogo, come fece notare Doppler nel 1842 e come dimostrò sperimentalmente Fizeau nel 1848, a quello che si produce nelle onde acustiche. E' noto infatti che una sorgente sonora in avvicinamento produce un suono più acuto, mentre in allontanamento produce un suono più grave (effetto Doppler).
Supponiamo ora che una sorgente luminosa emetta onde elettromagnetiche di periodo Te e che la sorgente si stia allontanando dall'osservatore ad una velocità v.
Dopo aver emesso la prima cresta, la seconda verrà emessa dopo un tempo Te.
Ma nel tempo Te compreso tra un'emissione e la successiva la sorgente si allontana di uno spazio vTe. Questa distanza aumenta il tempo richiesto perché la seconda cresta raggiunga l'osservatore: alla velocità della luce c, lo spazio vTe verrà infatti percorso dalla seconda cresta in un tempo vTe/c.

L'osservatore dunque non misurerà più un periodo Te, ma un periodo più lungo. Il tempo compreso tra l'arrivo di una cresta e l'arrivo di quella successiva sarà infatti pari al periodo normale Te più il tempo necessario per percorrere il tratto vTe

To = Te + vTe/c

In base a tale nuovo periodo l'osservatore calcolerà una lunghezza d'onda pari a

lo = cTo

mentre la lunghezza d'onda in partenza è in relazione con il periodo originario Te  

le = cTe

Dividendo membro a membro le due ultime relazioni si ottiene


da cui semplificando

ed infine

 viene comunemente indicato come 'z', parametro di red-shift. Si dimostra dunque che se z è dovuto ad effetto Doppler esso è pari al rapporto tra la velocità relativa del corpo emittente e la velocità della luce. Poiché è piuttosto semplice calcolare di quanto è aumentata o diminuita la lunghezza d'onda di uno spettro a righe, confrontandola con gli spettri standard dei vari elementi e composti ottenuti in laboratorio, rimane di conseguenza subito determinata la velocità di allontanamento o di avvicinamento espressa come percentuale della velocità della luce.
Se ad esempio misuriamo un aumento della lunghezza d'onda delle righe spettrali dell'idrogeno che costituisce una galassia dell'1%, possiamo dedurne che tra la terra e tale galassia esiste un movimento di allontanamento reciproco che avviene ad una velocità dell'1% di quella della luce (v/c = 0,01), pari a 3.000 km/s.
Determinando il parametro di red-shift (z) di alcuni corpi celesti sono stati calcolati valori superiori ad 1. Ciò non può naturalmente significare che tali corpi possiedono velocità superiori a quelle della luce. Significa invece che essi si allontanano con velocità talmente prossime a quelle della luce (velocità relativistiche) che è necessario utilizzare una relazione relativistica per il calcolo di z.
Nella relatività speciale z è legato alla velocità di allontanamento v dalle seguenti relazioni

Si tenga presente che per valori di z < 0,01, cioè per velocità inferiori all’1% della velocità della luce, la relazione classica e quella relativistica forniscono valori praticamente coincidenti.

 

Unità di misura in astronomia

Per distanze relativamente piccole, dell'ordine di grandezza del nostro sistema solare si usa l'unità astronomica(UA), inizialmente definita come la distanza media sole-terra (semiasse maggiore orbita), circa 150 milioni di km. Tuttavia, poiché il semiasse maggiore dell’orbita terrestre ha una dimensione variabile con il tempo, l’Unità Astronomica è stata ridefinita come la distanza dal centro del Sole alla quale una particella di massa trascurabile si muoverebbe su di un orbita circolare con periodo pari ad un  anno gaussiano (anno gaussiano = 365.2568983 giorni. Fu adottato da Carl Friedrich Gauss come lunghezza dell'anno siderale nei suoi studi sulla dinamica del sistema solare). Una Unità astronomica è pertanto pari esattamente a 149.597.870.691 m, mentre il semiasse maggiore dell’orbita vale attualmente 1,0000001124 UA (149.597.887.506 m nell’anno 2000).

Per distanze superiori, galattiche ed extragalattiche, si usano l'anno-luce ed il parsec.

L'anno-luce (al) è la distanza percorsa dalla luce in un anno alla velocità di circa 300.000 km/s, pari a circa 10.000 miliardi di km (9,46053 1012 km).

Poiché l’anno tropico dura 365,2422 giorni (pari a 31.556.926 s) e la luce viaggia a 2,99792458 105 km/s, un anno-luce sarà pari a 31.556.926 s x 299.792,458 km/s =  94.605.284.124.640 km

 

Il parsec e la parallasse

Il parsec (pc), abbreviazione di parallasse-secondo, è la distanza alla quale il raggio medio dell'orbita terrestre verrebbe visto sotto l'angolo di un secondo di grado.
1 parsec corrisponde a 3,26 anni-luce e a 206.265 UA.

Tale unità di misura deriva dal fatto che le prime misure di distanza in astronomia, effettuate per le stelle più vicine, si basavano su metodi trigonometrici, tramite determinazione dell'angolo di parallasse.
Il termine parallasse indica lo spostamento apparente di due punti situati a distanza diversa dall'osservatore quando quest'ultimo si sposta lungo una retta trasversale alla linea di osservazione.
E' il medesimo effetto prospettico che si produce quando, osservando un dito proteso davanti a noi, prima con il solo occhio destro e poi con il solo occhio sinistro, esso sembra muoversi rispetto allo sfondo.

La distanza tra i due punti di osservazione è detta base parallattica. Nel caso dell'esempio precedente la base parallattica è costituita dalla distanza interoculare. Le due proiezioni che si ottengono saranno evidentemente tanto più separate quanto maggiore è la base parallattica e/o quanto più vicino è l'oggetto all'osservatore. L'angolo compreso tra le due visuali è detto angolo parallattico o parallasse.

Per ottenere uno spostamento parallattico di un pianeta rispetto allo sfondo delle stelle fisse è necessaria una base parallattica sufficientemente estesa, ad esempio il diametro terrestre.  Per utilizzare il diametro terrestre come base parallattica è sufficiente eseguire 2 osservazioni a distanza di 12 ore, aspettando che la terra compia mezzo giro intorno al suo asse. La metà dell'angolo compreso tra le due visuali è detto parallasse diurna.

Per poter ottenere effetti parallattici per oggetti più distanti dei pianeti (come sono appunto le stelle) è necessario prendere come base parallattica l'asse maggiore dell'orbita terrestre, eseguendo le osservazioni a distanza di 6 mesi. In 12 mesi le stelle più vicine sembrano infatti percorrere un ellisse sullo sfondo delle stelle più lontane (fisse). Tale ellisse non è altro che la proiezione dell'orbita della terra sulla sfera celeste. L'angolo 2 sotto il quale noi osserviamo l'asse maggiore di tale ellisse apparente è lo stesso sotto cui un osservatore posto sulla stella osserverebbe l'asse maggiore dell'orbita terrestre. La metà di tale angolo, pari ad , è detto parallasse annua della stella. Tale angolo permette la misura della distanza d della stella (o del pianeta in caso di parallasse diurna). Ricordando infatti che in un triangolo rettangolo il rapporto tra le misure dei cateti è pari alla tangente dell'angolo opposto al primo cateto, potremo scrivere:

Naturalmente lo spostamento apparente e il conseguente valore della parallasse risulterà tanto maggiore quanto più la stella è vicina alla terra, mentre diminuirà, al punto da non essere più misurabile per stelle molto distanti. Quando la parallasse annua di una stella è di 1" (1/3600 di grado), la relazione precedente fornisce una distanza di

Una stella dista quindi 1 parsec dalla terra quando misuriamo per essa un angolo di parallasse di 1 secondo di grado (1"). Nessuna stella, per quanto vicina, presenta una parallasse superiore al secondo di grado. La stella più vicina, Proxima Centauri (cielo australe), presenta una parallasse di 0,76" e quindi dista da noi 3,26/0,76 = 4,3 al. Le prime determinazioni di una parallasse stellare annua si devono a Struve (1822 - Aquilae 0,181") e a  Bessel (1837 - 31 Cygni 0,314").

È facile verificare che la distanza della stella, espressa in parsec è inversamente proporzionale all’angolo di parallasse. Se p è la parallasse annua, allora

Se misuriamo un angolo di mezzo secondo di grado la stella si trova ad una distanza doppia (2 pc), se misuriamo un angolo di 1/10 di secondo la distanza è dieci volte maggiore (10 pc) e così via.  Attualmente i nostri strumenti non ci permettono di apprezzare angoli inferiori al centesimo di secondo ed è quindi impossibile determinare la parallasse di stelle la cui distanza sia superiore a 100 parsec (circa 300 al).


Immaginiamo che l’orbita terrestre giaccia su di una circonferenza che abbia come centro la stella di cui vogliamo misurare la distanza d.
Poiché le parallassi stellari presentano, come abbiamo appena visto, valori molto piccoli, sempre inferiori al secondo di grado, possiamo ragionevolmente confondere l’arco TT1 con la corda ad esso sottesa, la quale rappresenta il diametro dell’orbita terrestre. Ricordando che un radiante è l’angolo che sottende un arco lungo quanto il raggio della circonferenza, potremo scrivere la seguente proporzione
1 rad : d = a : 1 UA
Poiché ovviamente in una circonferenza sono contenuti 2p radianti pari a 360°, un radiante corrisponde a 360°/2p = 57,29578 ° = 206.264,8 “. Se dunque esprimiamo gli angoli in secondi di grado, la proporzione precedente diventa 206.264,8 : d = a : 1 UA  e la distanza d della stella, espressa ovviamente in UA, varrà    .
Ma essendo 1 pc = 206.264,8 UA, la distanza in parsec è pari a

 

 

Il sistema solare: Leggi di Keplero

Secondo le nostre conoscenza attuali il sistema solare è composto da 9 pianeti orbitanti intorno al sole, alcuni dei quali con uno o più satelliti. Tra l'orbita di Marte e quella di Giove si muove inoltre una larga cintura di corpi rocciosi, detta fascia degli asteroidi. L'intero sistema solare dovrebbe poi essere circondato, fino ad una distanza di circa 2 anni-luce da una specie di guscio o alone, costituito da qualche centinaio di miliardi di corpi cometari.

Le leggi fondamentali che descrivono le orbite planetarie sono state enunciate verso i primi anni del '600 da Johannes Kepler, il quale si avvalse dell'enorme quantità di osservazioni e di dati ricavati negli ultimi decenni del '500 dal suo maestro, l'astronomo danese Tyge Brahe.

prima legge di Keplero

I pianeti percorrono orbite ellittiche quasi complanari, di cui il sole occupa uno dei due fuochi.
Il punto di massima distanza dei pianeti dal sole è detto afelio, mentre il punto di minima distanza è detto perielio. La linea ideale che congiunge afelio e perielio è detta linea degli apsidi. Le orbite presentano modeste eccentricità.
Per l’eccentricità e di un ellisse valgono le seguenti relazioni:

  • )
  • , con c = semidistanza focale (distanza centro/fuoco) = Rmax –  a = a – Rmin

da cui           

Se ne deduce che il semiasse maggiore è pari alla media aritmetica della distanza massima e minima 

seconda legge di Keplero

Il raggio vettore che congiunge il centro del sole al centro dei pianeti descrive aree uguali in tempi uguali.
La conseguenza più notevole di questa legge è che la velocità di rivoluzione dei pianeti intorno al sole non è costante, ma varia in relazione alla distanza, in modo che i pianeti accelerano avvicinandosi al perielio, mentre rallentano nel tratto che va da perielio ad afelio (in corrispondenza degli apsidi l’accelerazione è nulla, mentre la velocità è minima in afelio e massima in perielio). 
È possibile capire tale comportamento ricordando il principio fisico noto come costanza del momento angolare o momento della quantità di moto (mvr = k).
Essendo infatti m, massa del pianeta, costante v ed r devono essere inversamente proporzionali.

terza legge di Keplero

I quadrati dei tempi di rivoluzione (P) di ciascun pianeta sono proporzionali ai cubi del raggio medio dell'orbita (R)                                                            P2 = K R3.
Poiché si può dimostrare che il raggio medio dell’orbita è pari al semiasse maggiore a dell’ellisse la relazione può essere scritta                            P2 = K a3

L’ellisse è una curva simmetrica. Se consideriamo due punti P e P* disposti simmetricamente sull’ellisse possiamo osservare come la loro distanza media da un fuoco F sia pari a  (FP + FP*)/2. Ma per ragioni di simmetria la distanza FP* del secondo punto dal primo fuoco è uguale alla distanza F’P del primo punto dal secondo fuoco. La distanza media è perciò pari alla semisomma delle distanze di un punto dai due fuochi. Nell’ellisse la somma delle distanze di un punto dai due fuochi vale 2a per costruzione e quindi la distanza media vale a (cvd).

La conseguenza di tale legge è che passando da un pianeta più interno (più vicino al sole) ad uno più esterno, la velocità di rivoluzione non è inversamente proporzionale al raggio (come avviene all'interno di una stessa orbita), ma al suo quadrato. Assumendo infatti che la velocità di rivoluzione media sia pari al rapporto tra la lunghezza dell'orbita approssimata come circolare (2pR) ed il periodo di rivoluzione (P)   . Sostituendo opportunamente nella terza di Keplero si ottiene

La terza legge di Keplero, come del resto anche le prime due, può essere dedotta per via teorica dalla legge di gravitazione universale.
Essendo infatti la terra in equilibrio dinamico intorno al sole, la forza centripeta (gravitazionale) deve essere perfettamente bilanciata dalla forza centrifuga. La prima è espressa dalla legge di gravitazione universale, mentre la seconda è espressa dalla seconda legge della dinamica
        
con  ms massa del sole e  mt massa della terra
Eguagliando i due secondi membri e nell'ipotesi che la  massa gravitazionale della terra, che compare nella legge di gravitazione, abbia lo stesso valore della sua massa inerziale, che compare nella seconda legge della dinamica,  si ottiene

Approssimando ora le orbite planetarie a delle circonferenze ed indicando con R il raggio medio dell'orbita terrestre e con V la sua velocità media, il valore della sua accelerazione è pari a                   
  
Sostituendo opportunamente nella precedente e semplificando otteniamo

 

Sostituendo infine alla velocità media il rapporto tra la lunghezza dell'orbita (al solito approssimata come circolare 2pR) ed il periodo di rivoluzione (P) , la relazione diventa

 
ed in definitiva

dove è la costante di proporzionalità che compare nella terza legge di Keplero. Tale valore è in realtà approssimato, in quanto non è esatto affermare che i pianeti orbitano intorno al sole. Newton ha infatti dimostrato che due corpi che si attraggono gravitazionalmente ruotano intorno ad un baricentro comune. Le distanze dei due corpi dal baricentro risultano inversamente proporzionali alle relative masse. Così se indichiamo con Rs ed Rt la distanza del sole e della terra dal baricentro comune, vale la seguente relazione.
Ms Rs = Mt Rt

Il fatto che comunemente si accetti di considerare il moto planetario come un movimento dei pianeti intorno al sole è dovuto all'elevato valore della massa solare, enormemente più grande di quella di qualsiasi altro pianeta. In tal modo la distanza del sole dal baricentro comune è talmente piccola che il baricentro viene quasi a coincidere con il centro del sole.  La terza legge di Keplero rappresenta perciò una approssimazione, anche se molto buona della situazione reale. Infatti se si tiene conto anche della massa dei pianeti e non solo della massa del sole la relazione diventa

Si vede in tal modo che la costante di proporzionalità contiene la somma della massa del sole e della massa del pianeta preso in considerazione, così che essa è leggermente diversa per ciascun pianeta. Se si tiene però conto del fatto che la massa dei pianeti è trascurabile rispetto alla massa del sole, l'errore commesso è accettabile.

Il risultato corretto può essere ottenuto introducendo la massa ridotta. Si può infatti dimostrare che la condizione di equilibrio dinamico tra due corpi che ruotano intorno al baricentro comune rimane inalterata se allontaniamo il corpo di massa minore m1 portandolo ad una distanza dal baricentro pari a R = R1 + R2, a patto di assegnargli una massa minore, detta appunto massa ridotta pari a . Moltiplicando ora entrambi i membri per m2 e riordinando otterremo

Così la forza centrifuga del corpo di massa minore diventa

che, eguagliata alla forza gravitazionale

La relazione così ottenuta è d'altra parte molto utile per calcolare le masse dei pianeti una volta nota la massa solare, le loro distanze medie dal sole (R) e i loro periodi di rivoluzione (P).

Nel caso in cui si esprimano i periodi di rivoluzione ed i semiassi maggiori in unità terrestri (anni terrestri ed UA) la relazione diviene particolarmente semplice.

Ad esempio, sapendo che Giove dista dal sole 5,2 UA, è possibile calcolare agevolmente il suo periodo di rivoluzione in anni terrestri


 

La terza di Keplero può essere infine utilizzata per calcolare le masse di corpi in rotazione reciproca, come ad esempio sistemi di stelle doppie, mettendola a sistema con la relazione che lega le masse alle rispettive distanze dal baricentro comune.
Ad esempio, sapendo che il Sole dista circa 30.000 al dal centro galattico e percorre un’intera orbita intorno ad esso alla velocità di circa 250 km/s in un periodo di circa 230 milioni di anni, è possibile, trattando in prima approssimazione l’intera galassia come un sistema kepleriano, stimarne la massa, la quale risulta essere circa 200 miliardi di volte superiore a quella del Sole.

Calcolo alternativo
Consideriamo la condizione di equilibrio del corpo di massa m2 che ruota intorno al baricentro B alla distanza R2, percorrendo nel tempo P la circonferenza 2R2.

La sua forza centrifuga sarà pari a

Eguagliamo ora la forza centrifuga F2 alla  forza gravitazionale

da cui

Applicando lo stesso ragionamento al corpo m1 si ottiene

Osservando ora che R = R1 + R2, si ottiene

da cui

 

Il sistema solare: I pianeti

Il pianeta più vicino al sole è Mercurio, cui seguono Venere, la Terra, Marte, la fascia degli asteroidi, Giove, Saturno, Urano, Nettuno e Plutone. Gli antichi conoscevano solo 5 pianeti, oltre alla Terra. Urano fu scoperto nel 1781 e Nettuno nel 1846 sulla base di perturbazioni gravitazionali dell'orbita di Urano. Lo stesso accadde nel 1930 per Plutone, la cui esistenza fu ipotizzata per spiegare alcune irregolarità nell'orbita di Nettuno.  Il sistema planetario presenta forti regolarità e simmetrie che ci inducono a considerare l'ipotesi di un'origine comune del sole e dei pianeti. Se infatti i pianeti fossero degli intrusi casualmente catturati dal campo gravitazionale del sole essi non presenterebbero le seguenti regolarità:

a) tutti i pianeti si muovono intorno al sole nello stesso verso antiorario, se osservati dal polo nord celeste. Tale verso risulta concorde con il movimento di rotazione del sole intorno al suo asse.

b) le orbite dei pianeti giacciono tutte sullo stesso piano o quasi. Fa eccezione Plutone che risulta inclinato di 17° rispetto al piano dell'orbita terrestre (eclittica). Questa ed altre anomalie di Plutone fanno d'altra parte ritenere che esso abbia avuto una genesi diversa rispetto agli altri pianeti. Alcuni sostengono ad esempio che si tratti di un ex satellite di Urano entrato in orbita intorno al sole.

c) i moti di rotazione dei pianeti intorno al loro asse sono tutti concordi e antiorari se osservati dal polo nord celeste. Fanno eccezione Plutone e Venere che presentano un moto di rotazione orario o retrogrado.

d) le distanze dei pianeti dal sole seguono una legge empirica, che rimane peraltro ancor oggi misteriosa, scoperta nel 1766 da Tietz (Titius) e successivamente divulgata da Bode. Espressa in termini moderni, con le distanze medie dei pianeti dal sole (R) misurate in unità astronomiche, la legge di Titius e Bode prende la seguente forma:
R = 0,4 + 0,3 (2n)
con n che può assumere i valori - ¥ (meno infinito), 0, 1, 2, 3.......
con n = -  ¥    R = 0,4 U.A. (Mercurio)   
con n =  0         R = 0,7 U.A. (Venere)
con n =  1         R = 1    U.A. (Terra)
etc
I valori così ottenuti si approssimano in modo piuttosto soddisfacente alle distanze reali, con l’eccezione dei pianeti più esterni. E' inoltre interessante notare che fino a tutto il '700, la legge di Titius e Bode mostrava un 'buco' per n = 3, prevedendo in tale posizione la presenza di un pianeta tra Marte e Giove.
La lacuna fu colmata nel 1801 quando l'astronomo italiano Piazzi scoprì in quella posizione il più grande degli asteroidi, Cerere. 

  • i pianeti possono essere suddivisi in due grandi gruppi omogenei per quanto riguarda le proprietà fisiche e chimiche,  se si esclude ancora una volta Plutone. I 4 pianeti terrestri (Mercurio, Venere, Terra, Marte) ed i 4 pianeti gioviani (Giove, Saturno, Urano, Nettuno).

 

  • I pianeti terrestri presentano dimensioni relativamente piccole, ma, essendo costituiti di materiali prevalentemente silicatici (rocciosi), hanno densità elevate (4 - 5,5 kg/dm3). Presentano pochi o nessun satellite e le loro velocità di rotazione  sono piuttosto basse.   
  • I pianeti gioviani sono di grandi dimensioni (pianeti giganti), ma essendo composti essenzialmente di elementi chimici leggeri, prevalentemente Idrogeno, presentano densità molto basse, in alcuni casi (Saturno) addirittura inferiori a quella dell'acqua. Presentano in genere un elevato numero di satelliti ed elevate velocità di rotazione intorno al loro asse (10 - 15 ore).

Il sistema solare: i corpi meteorici

 

Il materiale solido extraplanetario appartenente al nostro sistema solare può essere classificato in relazione alle dimensioni in polvere meteorica (< 1 mm), meteoroidi (1 mm - 1 km) e asteroidi (1 km - 1000 km).
Gli asteroidi sono per lo più concentrati in un fascia compresa tra l’orbita di Marte e quella di Giove. Si ritiene siano il residuo dei planetesimi che durante la formazione dei pianeti non sono stati in grado di aggregarsi a causa delle forti perturbazioni gravitazionali di Giove. Sono stati finora osservati più di 15.000 asteroidi, anche se solo di settemila se ne conosce l’orbita con sufficiente precisione. Si stima tuttavia che il numero totale dei pianetini sia dell’ordine delle centinaia di migliaia. Il primo fu individuato la notte del 1° gennaio 1801 da Giuseppe Piazzi e battezzato Cerere.
La polvere forma un disco lenticolare nel quale sono immerse le orbite dei pianeti. Le particelle di polvere diffondono la luce solare e sono pertanto responsabili di quella tenue luminosità, nota come luce zodiacale, osservabile in particolari condizioni in corrispondenza dell’alba e del tramonto.
Anche i meteoroidi sono distribuiti prevalentemente sul piano su cui giacciono i pianeti. Si ritiene che polveri e meteoroidi provengano in parte dalla disgregazione delle comete ed in parte dalla fascia degli asteroidi.

 

 Si valuta che ogni giorno il nostro pianeta sia bombardato da circa 20 milioni di particelle meteoriche più o meno consistenti. Nella maggior parte dei casi il materiale meteorico che colpisce l’atmosfera terrestre ha dimensione minuscole. I corpi con diametri compresi tra 0,1 ed 1 mm costituiscono quasi l’80% di tutta la massa meteorica che penetra nell’atmosfera, ma sporadicamente possono raggiungere dimensioni relativamente elevate.
I corpi di dimensioni minori non riescono a raggiungere la superficie terrestre venendo completamente bruciati e vaporizzati a causa dell'attrito atmosferico. I meteoroidi che presentano una massa sufficientemente elevata da giungere a colpire il suolo, producendo in alcuni casi veri e propri crateri, sono detti meteoriti.  Il calore generato dal forte attrito con l'atmosfera produce sempre sulla superficie delle meteoriti una caratteristica patina di fusione.
I meteoroidi attraversano la nostra atmosfera con velocità elevate (12 - 72 km/s) ed il calore che si libera eccita e ionizza i gas (sia atmosferici che il materiale sublimato dal corpo) limitrofi producendo caratteristiche scie luminose (stelle cadenti).

La velocità delle particelle interplanetarie  in prossimità della Terra deve essere minore o uguale a 42 km/s, velocità di fuga del Sistema Solare alla distanza della Terra. Poiché la velocità orbitale media della Terra attorno al Sole è di circa  30 km/s, la velocità relativa del materiale meteorico intercettato dalla Terra sarà  42 + 30 = 72 km/s per le particelle in collisione frontale, 42 – 30 = 12 km/s per le particelle che inseguono la Terra.

 

La relazione esistente tra comete e sciami meteorici fu suggerita per la prima volta nel 1866 dall’astronomo italiano Giovanni Virginio Schiaparelli, il quale scoprì le analogie fra i parametri della cometa Swift-Tuttle e quelli dello sciame delle Perseidi (lacrime di San Lorenzo, il 10 agosto), stabilendo una connessione definitiva tra le comete e le stelle cadenti. Successivamente, attraverso studi sistematici, queste analogie furono riscontrate anche per altre comete. Durante il suo moto di rivoluzione intorno al sole la terra attraversa periodicamente alcuni di questi sciami che producono piogge meteoriche particolarmente intense. Gli sciami oggi riconosciuti in maniera ufficiale sono circa un centinaio, ma molti di essi sono poco evidenti.
Le scie luminose prodotte da uno sciame meteorico che interagisce con la nostra atmosfera  sembrano apparentemente provenire da un punto della volta celeste, chiamato radiante. Generalmente gli sciami meteorici prendono il nome della costellazione in cui si trova il loro radiante. Abbiamo così lo sciame delle Liridi, delle Acquaridi, delle Orionidi, e così via. Ma gli sciami meteorici più noti sono, il 10 agosto, lo sciame delle Perseidi ed il 17 novembre  quello delle Leonidi, così chiamati poiché sembrano provenire rispettivamente dalla costellazione di Perseo e del Leone. Il radiante non è in realtà puntiforme, ma è una regione più o meno estesa. Più le traiettorie di caduta convergono in un’area ristretta, più lo sciame meteorico è giovane. Infatti i disturbi gravitazionali, che la Terra e gli altri corpi celesti producono sugli sciami, hanno l’effetto di deviare il tragitto dei meteoroidi, i quali mutano progressivamente le loro orbite. Si ritiene che col passare del tempo i meteoroidi appartenenti ad uno sciame andranno ad occupare una fascia sempre più ampia di spazio, finché diverrà impossibile riconoscerne il radiante, e quel che resta dello sciame andrà ad incrementare il numero delle meteore sporadiche.
Il flusso di meteore non è uniforme durante le ore notturne, ma aumenta progressivamente e diviene massimo verso il mattino. Ciò dipende dal fatto che la Terra si muove lungo la sua orbita e l’emisfero anteriore (rivolto nel verso del moto) terrestre spazza più particelle interplanetarie di quello posteriore. In definitiva, verso sera e durante le prime ore della notte la Terra intercetta solo i meteoroidi abbastanza veloci da raggiungerla, mentre verso mattino essa si scontra con tutti gli oggetti che trova sulla propria orbita.

I fenomeni luminosi che accompagnano un meteoroide si definiscono meteore, se presentano una luminosità inferiore a quella di Venere (m = - 4), bolidi se risultano più brillanti.

I meteoriti si dividono in:
- aeroliti o meteoriti rocciosi o litoidi  (92%), composti di silicati pesanti di Ferro e Magnesio;
- sideriti o meteoriti metallici  (7%), composti di leghe di Nichel e Ferro;
- sideroliti o meteoriti miste o metallico-litoidi  (1%).

Le meteoriti litoidi sono di gran lunga le più frequenti e vengono ulteriormente suddivise in condriti e acondriti a seconda che presentino o meno al loro interno dei granuli tondeggianti detti condrule.

Lo studio delle meteoriti è di particolare interesse in quanto si ritiene che i meteoroidi rappresentino frammenti primordiali della nube protosolare derivanti dalla disgregazione di corpi di dimensioni maggiori (soprattutto asteroidi e secondariamente comete). Le meteoriti più vecchie finora analizzate (condriti) presentano un'età, calcolata con metodi radiometrici (Rb/Sr) in 4,57 miliardi di anni. Ciò avvalora naturalmente l'idea che tale materiale si sia formato contemporaneamente al nostro sistema solare.

Secondo l'ipotesi che attualmente appare più probabile le condriti rappresenterebbero le meteoriti più antiche e primitive, formatesi dalla disgregazione di corpi in fase di accrezione non ancora differenziatisi al loro interno in strati a diversa densità. Particolarmente interessanti risultano, a sostegno di tale ipotesi, un particolare tipo di condriti ricche di composti del carbonio (condriti carbonacee). Le condriti carbonacee presentano infatti la stessa composizione chimica della fotosfera solare (eccetto naturalmente l'idrogeno e l'elio) a testimonianza del fatto che sia il sole che le condriti carbonacee si sarebbero condensate contemporaneamente dalla stessa materia che costituiva la nebulosa protosolare.

Acondriti, sideroliti e sideriti si sarebbero invece formate successivamente, a causa della disgregazione di corpi planetesimali (piccoli pianeti in fase di accrescimento) che, fortemente riscaldatisi (impatti meteorici, decadimenti di isotopi primordiali (Al-26 che decade in Mg), trasformazione di energia potenziale in energia cinetica durante lo sprofondamento del nucleo) avrebbero differenziato al loro interno (differenziazione gravitativa) un pesante nucleo metallico ed un mantello più superficiale e leggero. Le acondriti rappresenterebbero frammenti del mantello, le sideriti frammenti del nucleo, le sideroliti frammenti della zona di confine tra mantello e nucleo.


Lo studio della composizione chimica delle meteoriti permette quindi di comprendere ed interpretare la struttura e la probabile composizione chimica dei pianeti ed in particolare dell'interno della terra.

 

Il sistema solare: corpi cometari

 

I corpi cometari sono oggetti celesti di forma irregolare e di dimensioni variabili, mediamente con diametri di qualche decina di chilometri. Analisi dettagliate delle orbite cometarie hanno rivelato l'appartenenza di questi oggetti al sistema solare. Se infatti le comete fossero corpi estranei al nostro sistema, sarebbero caratterizzate da traiettorie iperboliche, mentre presentano tipiche orbite ellittiche intorno al sole, anche se, a differenza dei pianeti, caratterizzate da grande eccentricità.

Il primo a supporre che le comete compiano un’orbita ellittica intorno al Sole e ripassino quindi periodicamente in vicinanza della Terra, fu Halley, il quale riuscì a prevedere il ritorno della cometa che da lui prende il nome per il 1759. Halley calcolò analiticamente l'orbita  della cometa utilizzando i passaggi avvenuti nel 1531, 1607, 1682, sulla base della nuova teoria di gravitazione universale scoperta da Isaac Newton.

I corpi cometari sono costituiti da materiale meteorico e da gas solidificatisi alle bassissime temperature cosmiche. E' il cosiddetto modello a "palla di neve sporca", proposto negli anni '50 dall'astronomo americano Whipple e sostanzialmente confermato dalla sonda Giotto che nel 1986 ha potuto osservare da vicino la cometa di Halley.

Tra i gas ghiacciati predomina, di gran lunga, l’acqua, seguita dall’anidride carbonica, dal metano, dall’idrogeno, dalla formaldeide e dall’ammoniaca.
Le polveri meteoriche sono invece composte prevalentemente da silicati, granuli di ferro-nickel, carbonati e da una miscela di sostanze organiche, tra cui sono presenti anche precursori di aminoacidi.
Il rapporto tra ghiacci e polveri risulta fortemente variabile da cometa a cometa e questo si riflette in un ampia gamma di densità, stimate fra  0,2 e 1,5 grammi per centimetro cubo. La superficie è di colore scuro, con una albedo estremamente bassa, pari a 0,04, a causa di una sottile incrostazione superficiale di molecole organiche sottoposte all’azione delle radiazioni ionizzanti.
Le osservazioni effettuate dalla sonda Giotto hanno inoltre dimostrato che i corpi cometari possiedono una struttura estremamente porosa, in cui le cavità interne giungerebbero ad occupare fino al 95% del volume totale. La cometa di Halley presentava ad esempio una densità inferiore a quella dell'acqua (0,2-0,6 g/cm3).
Quando il corpo cometario, detto nucleo, si avvicina al sole, inizia a sublimare producendo un'atmosfera gassosa che lo inviluppa, detta chioma (il termine cometa deriva dal latino coma = chioma). La chioma può raggiungere dimensioni enormi. Recenti osservazioni hanno evidenziato diametri paragonabili a quelli del sole. I gas e le polveri non evaporano uniformemente da tutta la superficie, ma escono con getti violenti da alcuni crateri. Ad ogni passaggio attorno al sole il nucleo cometario perde parte della sua massa, fino al punto in cui l'attrazione gravitazionale esercitata dal sole non ha il sopravvento sulla gravità interna e la materia che lo compone si sgretola, andando a formare materiale incoerente (gas, polveri e meteoroidi) che continua a muoversi nello spazio come un enorme sciame meteorico

Man mano che si avvicina al sole la chioma inizia a sfumare in una coda allungata, composta di gas e polveri estremamente rarefatti che vanno disperdendosi nello spazio. La coda viene prodotta dall'interazione della radiazione e del vento solare con la chioma ed è per questo motivo sempre disposta in senso opposto rispetto al sole. Essa può raggiungere lunghezze di centinaia di milioni di chilometri.

 

Si possono formare due diversi tipi di code:

  • La coda di polveri o di tipo II. Di aspetto biancastro, deve la sua luminosità alla capacità dei suoi costituenti di riflettere e diffondere la luce solare. Essa si presenta leggermente incurvata rispetto alla congiungente nucleo-Sole a causa della azione gravitazionale di quest’ultimo.
  • La coda di gas ionizzati o di tipo I. Prodotta dall’azione dei fotoni solari più energetici che eccitano le molecole della chioma. La sua luminosità è determinata essenzialmente dallo spettro di emissione dei gas eccitati. In particolare la dominante blu è dovuta a una particolare riga  dello ione positivo dell'ossido di carbonio. La coda di gas ionizzati è in genere più rettilinea, breve e sottile rispetto a quella di polveri.

Il tipo di coda sviluppato viene determinato essenzialmente dalla composizione del nucleo. Si possono pertanto originare sia code di un solo tipo, sia  code miste.

La maggior parte delle comete finora osservate presentano periodi di rivoluzione intorno al sole molto elevati (103 – 106 anni). Vengono definite comete a lungo periodo le comete che presentano un periodo superiore ai 200 anni). Le orbite di tali comete presentano tutte le possibili inclinazioni rispetto al piano dell'eclittica. Dal numero di comete osservate, dall'analisi delle loro orbite e della loro periodicità l'astronomo olandese Jan Oort  (1950) dedusse l'esistenza nel nostro sistema solare di miliardi di corpi cometari. Secondo  Oort essi formerebbero un guscio (nube di Oort) intorno al sistema solare. Secondo recenti stime la nube di Oort avrebbe la forma di un enorme sferoide avente il diametro maggiore pari a 3,2 al ed il diametro minore di 2,5 al. I corpi cometari si muoverebbero all'interno della nube di Oort molto lentamente su orbite praticamente circolari, impiegando milioni di anni per percorrerle interamente. Ogni anno tuttavia alcuni di essi, forse per urti reciproci o per interazioni gravitazionali (anche con le stelle più vicine), perdono energia e cadono verso il sole. Le comete a breve periodo (P < 200 anni) presentano invece orbite poco inclinate rispetto al piano dell'eclittica. Secondo l'astronomo olandese Gerard P. Kuiper (1951) esse formerebbero un anello di corpi cometari, detto cintura di Kuiper, posto appena fuori dell'orbita di Plutone.

La presenza nelle comete di sostanze volatili in grandi quantità suggerisce che i nuclei cometari debbano essersi formati in una regione relativamente fredda e quindi esterna della nebulosa protoplanetaria, ma i rapporti esistenti tra nube di Oort e cintura di Kuiper e le modalità della loro formazione sono attualmente ancora oggetto di dibattito.

Secondo un’ipotesi ormai classica la nube di Oort rappresenterebbe il residuo della nebulosa primordiale dalla quale ebbero origine il sole e i pianeti, mentre la cintura di Kuiper si sarebbe formata in un secondo tempo, a causa della progressiva modificazione delle traiettorie delle comete a lungo periodo. Attraversando le regioni centrali del nostro sistema solare le loro traiettorie verrebbero infatti fortemente modificate, specialmente da Giove, divenendo così comete di breve periodo con orbite poco inclinate rispetto al piano dell'eclittica.

Le teorie più recenti ribaltano invece tale prospettiva. I corpi planetesimali formatisi nelle regioni periferiche della nube protoplanetaria, e quindi particolarmente ricchi di ghiacci (cometesimi), si sarebbero in parte condensati a formare alcuni dei corpi più esterni del sistema planetario ed in parte sarebbero andati a costituire la cintura di Kuiper. In questo contesto Plutone e Caronte vengono considerati nient’altro che gli elementi di maggiore dimensione della fascia di Kuiper (così come Cerere è il corpo di maggiori dimensioni della fascia degli asteroidi). Allo stesso modo alcune lune ghiacciate dei pianeti esterni potrebbero essere corpi di questo tipo, come ad esempio Tritone, catturato da Nettuno in un’epoca successiva alla sua formazione. Si potrebbe inoltre giustificare la forte inclinazione degli assi polari di Urano e Nettuno mediante l’urto con un gran numero di corpi cometesimali.
I dati ottenuti dal Voyager 2 sulla struttura interna di Urano e Nettuno sembrano dare ulteriore credito a tale ipotesi. I due pianeti, anziché avere un interno a 3 strati, come Giove e Saturno (nucleo roccioso, mantello liquido e spessa atmosfera) sarebbero costituiti da un insieme indifferenziato di miliardi e miliardi di corpi cometari.
Solo in parte questi corpi cometesimali riuscirono ad aggregarsi a formare i pianeti esterni. La frazione residua sarebbe rimasta confinata ai margini a formare la fascia di Kuiper.
Le perturbazioni gravitazionali prodotte dalla materia, stelle gas e polveri, concentrata lungo il piano della Galassia, avrebbero progressivamente estratto corpi cometari dalla cintura di Kuiper distribuendoli nella nube di Oort.

Nel 1992, dopo circa 5 anni di sistematiche ricerche David Jewitt e Jane Luu individuarono il primo corpo appartenente alla cintura di Kuiper, designato QB1. A tutt’oggi ne sono stati individuati alcune decine (ice subdwarf), tutti con una caratteristica dominante cromatica rosso cupo, molto simile a quella dei nuclei cometari.

I parametri orbitali delle comete vengono calcolati tenendo conto della sola azione della gravità solare. Le caratteristiche orbitali così calcolate (periodo, eccentricità etc) non sono tuttavia sufficientemente precise. Due fattori modificano infatti sensibilmente le orbite cometarie: l’effetto razzo e le perturbazioni dei pianeti. L’effetto razzo è una conseguenza del principio di azione-reazione, per il quale l’emissione di gas e polveri dalla superficie del nucleo cometario determina un’accelerazione sulla cometa. L’effetto razzo può produrre variazioni nei passaggi al perielio sino ad alcuni giorni. Di entità molto maggiore sono le perturbazioni indotte dai pianeti, soprattutto dai giganteschi pianeti esterni. Poiché le perturbazioni gravitazionali non possono essere trattate esattamente con gli strumenti della meccanica celeste è necessario limitarsi a previsioni approssimate, valide per un periodo relativamente breve. L’effetto delle perturbazioni è infatti tale da rendere possibili evoluzioni delle orbite nel lungo periodo completamente diverse, anche a partire da osservazioni iniziali pressoché identiche. Per questo motivo il comportamento dinamico delle comete nel lungo periodo è definito caotico e le orbite calcolate con periodi di migliaia di anni risultano poco significative.

 

 

Il sistema solare: il sole

Il sole è una dei miliardi di stelle che popolano la nostra galassia. Non possiede una posizione privilegiata all'interno della galassia ed anche le sue caratteristiche sono  comuni a molte altre stelle.

Alcuni dati sul sole
La distanza media dalla terra, misurabile in base al tempo impiegato da un'onda radio per raggiungere la superficie solare, essere riflessa e ritornare, è di circa 150 milioni di chilometri .
Conoscendo la distanza sole-terra e l'angolo sotto il quale viene osservato il diametro solare è possibile, con un semplice calcolo trigonometrico, calcolare il diametro reale del sole, che risulta essere pari a circa 1,4 milioni di km (1,392.106 km).

Applicando la terza legge di Keplero al sistema sole-terra è possibile infine calcolare la sua massa, pari a 2.1033 g (1,9891.1033 g). Avendo poi calcolato il diametro possiamo facilmente ottenere il valore della sua superficie (approssimando la sua forma ad una sfera) e del suo volume. Conoscendo infine massa e volume è possibile ottenere la sua densità media che risulta pari a 1,41 g/cm3.

Un cm2 di superficie terrestre al di sopra dell'atmosfera riceve dal sole ogni minuto circa 2 calorie, pari a circa 1,4.106 erg/cm2 s (1,368 .106 erg/cm2 s). Tale valore rappresenta la cosiddetta costante solare. Essa viene espressa comunemente in langley ( 1 langley = 1 cal/cm2 min).

Poiché il sole emette energia in tutte le direzioni, la stessa quantità di energia investirà tutti i cm2 di una ideale superficie sferica avente per centro il sole e per raggio la distanza sole-terra. Per ottenere dunque l'energia totale emessa dal sole per unità di tempo (potenza totale), sarà sufficiente moltiplicare la costante solare (potenza unitaria) per la superficie di tale sfera ideale.
Il valore così ottenuto, espresso in erg/s, è pari a 4.1033  (3,847.1033 erg/s).
Sapendo che il sole produce energia tramite fusione nucleare, cioè trasformando direttamente massa in energia secondo la relazione E = mc2, possiamo calcolare che il sole trasforma in energia circa 4,5 milioni di tonnellate di materia al secondo.

E' possibile poi calcolare l'energia emessa da ciascun cm2 di superficie solare dividendo il valore della potenza solare totale (4.1033 erg/s) per la sua superficie. Il valore così ottenuto, introdotto nella relazione di Stefan-Boltzmann (E = sT4), ci permette di risalire alla temperatura superficiale del sole (temperatura efficace) , che risulta essere di 5780 K .
Lo stesso risultato può essere ottenuto misurando la lunghezza d'onda di massima emissione di energia nello spettro solare. Poiché tale lunghezza d'onda risulta essere, come era logico attendersi, nella regione del giallo (il sole è una stella gialla), si risale facilmente alla temperatura di emissione utilizzando la legge di Wien ( lmax T = cost). I valori ottenuti con i due metodi naturalmente coincidono.
Dall'analisi spettroscopica (righe di Fraunhofer) il sole risulta composto essenzialmente di idrogeno, seguito dall'elio e da piccole percentuali di tutti gli altri elementi chimici.

 

% numero di atomi

% in massa

H

92,1

73,4

He

7,8

24,9

O, C, N, Ne

0,1

1,3

Altri

0,01

0,4

 

 

 

Struttura del sole

Il sole emette la sua energia radiante da uno strato superficiale detto fotosfera, la quale si comporta come un corpo nero alla temperatura di 5780 K. La fotosfera non è omogenea. Essa appare costituita da miriadi di grani brillanti sparsi su di un fondo più scuro. Tale strutture granulose, dette grani, hanno un diametro di circa 1000 km. Ciascun grano compare, brilla e scompare nel giro di pochi minuti, producendo complessivamente un effetto brulicante. I grani costituiscono la sommità di enormi colonne di plasma caldo ascendente, che si formano grazie a movimenti di convezione interni al sole. L’entità del loro blu-shift ci permette di calcolare una velocità di risalita di circa 1 km/s.

La mancanza di alcuni grani in certi settori della fotosfera può produrre aree tondeggianti più scure dette pori. I pori hanno una vita media di circa un'ora e poi generalmente vengono nuovamente sostituiti dalle granulazioni luminose. In alcuni casi vengono ad essere perturbate zone molto più estese della fotosfera, con formazione di vaste macchie scure dalla struttura complessa, dette macchie solari. Le macchie sono in genere accompagnate da aree limitrofe che presentano una maggiore intensità luminosa rispetto alla circostante fotosfera, dette facole.
Il colore più scuro delle macchie è dovuto al fatto che esse presentano una temperatura di circa 2000° inferiore rispetto alle zone circostanti della fotosfera. Sono formate da una zona centrale più scura e fredda, detta ombra e da una zona periferica meno scura, detta penombra, che mostra una tipica struttura raggiata, composta da numerosi filamenti chiari e scuri, che si formano e si dissolvono in continuazione. La vita media di una macchia solare va da pochi giorni a pochi mesi, ma le macchie vengono sostituite in continuazione andando a costituire un ciclo caratteristico, che sembra dipendere dall'evoluzione del campo magnetico solare.
Le macchie solari sono infatti sede di forti campi magnetici, qualche migliaio di volte più intensi del campo magnetico generale del sole. Ma mentre il campo magnetico generale del sole è poloidale (come quello della terra) con le linee di forza che corrono parallelamente alla superficie solare, il campo magnetico associato alle macchie è costituito da linee di forza perpendicolari alla superficie solare.                                           
Effetto Zeeman

Gli astrofisici sono in grado di verificare l'intensità dei campi magnetici e la direzione delle linee di forza ad essi associati tramite l'effetto Zeeman. E' infatti noto che la radiazione sottoposta ad un campo magnetico esterno produce righe spettrali sdoppiate (effetto Zeeman). L'entità dello sdoppiamento (Dl) è proporzionale all'intensità del campo magnetico applicato. Inoltre se le linee di forza del campo magnetico risultano perpendicolari alla direzione della radiazione (come avviene al di fuori delle macchie solari) la riga spettrale produce altre due righe laterali, per un totale di tre righe, mentre se le linee di forza risultano parallele alla direzione della radiazione (come avviene all'interno delle macchie solari)  la riga spettrale semplicemente si sdoppia in due laterali.

Il ciclo delle macchie solari inizia quando le macchie cominciano a comparire simmetricamente e contemporaneamente alle medie latitudini (40° - 45 ° Nord e Sud) nei due emisferi. Compaiono solitamente in coppie disposte lungo la direzione E-W. La macchia che precede, nel senso di rotazione del sole è detta macchia P (preceeding), quella che segue è detta macchia F (following). La macchia P ha sempre la stessa polarità magnetica dell'emisfero al quale appartiene, mentre la macchia F ha sempre polarità opposta. Le macchie si spostano quindi lentamente verso l'equatore solare, raggiungendolo dopo circa 11 anni. La produzione di macchie raggiunge un massimo a circa metà ciclo, dopo 5 - 6 anni, e va esaurendosi mentre viene raggiunto l'equatore. Mentre le macchie che raggiungono l'equatore dopo 11 anni provenendo dai due emisferi, scompaiono, nuove macchie si producono alla latitudine di partenza (30° - 40° N e S). Il ciclo ricomincia però con polarità inversa. Infatti il campo magnetico generale del sole si capovolge ogni 11 anni e con esso la polarità delle macchie P ed F. Tenendo quindi conto di tale inversione di polarità, il ciclo delle macchie solari inizia nuovamente con le stesse caratteristiche ogni 22 anni circa.


Le macchie naturalmente oltre a migrare verso l'equatore, accompagnano il movimento di rotazione del sole. Ma la loro velocità di rotazione è maggiore alle basse latitudini. Ciò conferma il fatto che il sole non ruota intorno al proprio asse come un corpo solido. Si calcola infatti che le zone equatoriali compiano una rotazione completa in 25 giorni, mentre le zone polari impiegano circa 30 giorni.
Non esiste ancora un modello organico in grado di dar ragione della dinamica delle macchie solari. Si ritiene comunque che gli intensi campi magnetici ad esse associati si formino a causa del deformarsi del campo magnetico poloidale. Secondo tale ipotesi le linee di forza del campo magnetico, immerse nel plasma solare, verrebbero deformate dal moto differenziale di quest'ultimo, più veloce all'equatore che ai poli, con formazione di un campo magnetico toroidale in cui le linee di forza sarebbero costrette ad avvolgersi più volte parallelamente all'equatore. L'addensarsi delle linee di forza intensificherebbe il campo magnetico nelle regioni adiacenti all'equatore solare. Nei punti di maggior intensità del campo magnetico le linee di forza sarebbero infine costrette ad estroflettersi verso la superficie della fotosfera. Nei punti in cui le linee attraversano la fotosfera, in entrata ed in uscita, si creerebbero le macchie solari, più fredde a causa della difficoltà di risalita in tali zone del plasma caldo dagli strati solari più profondi.


Oltre alle macchie solari la fotosfera presenta anche altri tipi di perturbazioni. Tra queste ricordiamo le cosiddette protuberanze, enormi eruzioni di materiale incandescente che si innalzano  in poche ore per centinaia di migliaia di chilometri al di sopra della fotosfera. Le protuberanze, proiettate sulla superficie del sole, appaiono come filamenti scuri. Alcune di queste invece di dissolversi verticalmente formano immensi archi che ricadono sulla fotosfera (protuberanze a ponte). Spesso nelle zone della fotosfera perturbate dalla presenza di macchie e protuberanze, si producono improvvise vampate di luce, dette brillamenti o flares, che in pochi minuti si estendono su superfici enormi della fotosfera.
I brillamenti emettono grandi quantità di radiazioni altamente energetiche che, causando tempeste magnetiche sulla terra, favoriscono le aurore polari. Si ritiene che si formino a causa di brusche interruzioni delle linee di forza del campo magnetico solare, causate dalla torsione e tensione cui sono sottoposte a causa della rotazione differenziale del sole, in particolare in corrispondenza delle macchie.
Al di sopra della fotosfera vi è l'atmosfera solare. La radiazione emessa dalla fotosfera viene filtrata dall'atmosfera solare, la quale è dunque responsabile della formazione dello spettro di assorbimento solare. L'atmosfera viene divisa in due strati : la cromosfera e la corona solare.
La cromosfera è uno strato sottile, spesso qualche migliaio di chilometri, a diretto contatto con la fotosfera. La cromosfera diventa visibile solo durante le eclissi di sole o attraverso opportune tecniche. In queste occasioni essa appare come un sottile anello rosa carico che borda il sole. A forte ingrandimento la cromosfera rivela una struttura filiforme in continua agitazione. Si tratta di lingue di idrogeno incandescente (spicole) mosse dai forti squilibri termici e da potenti campi magnetici. Il colore della cromosfera è dato essenzialmente dalla cosiddetta riga Ha dell'idrogeno (la prima riga, rossa, della serie di Balmer).
Al di sopra della cromosfera inizia la corona solare, anch'essa visibile solo durante le eclissi di sole.  La corona solare è un'aureola, sfumata in enormi pennacchi, che si spinge fino ad 8 milioni di chilometri dalla superficie solare. La corona è costituita da gas ionizzati sempre più rarefatti. Nella sua parte più esterna le particelle di cui è costituita sono in grado di vincere l'attrazione gravitazionale del sole e di disperdersi nello spazio sotto forma di vento solare
Sorprendentemente la corona solare presenta temperature cinetiche (calcolate sulla base dell'energia cinetica media posseduta dalle particelle) dell'ordine del milione di gradi. La presenza nello spettro del gas coronale delle righe del CaXV (Ca14+) e del FeXIV (Fe13+) confermano tali temperature. Il risultato è paradossale in quanto sembra in contraddizione con il secondo principio della termodinamica, secondo il quale il calore non può fluire spontaneamente da un corpo più freddo (la fotosfera) ad uno più caldo (la corona).
Sembra comunque che la temperatura della corona non abbia nulla a che vedere con la temperatura della superficie solare e le cause di tale fenomeno non sono state ancora definitivamente chiarite.
Tra le ipotesi che attualmente godono di maggior credito: a) propagazione nell’atmosfera di energia sotto forma di onde d’urto prodotte dai moti convettivi del plasma solare; b) correnti elettriche veicolate nell’atmosfera solare dalle linee di forza del campo magnetico.

 

Origine dell'energia solare

Se l'energia solare provenisse da normali reazioni chimiche di combustione, il sole si sarebbe esaurito nell'arco di un migliaio di anni.
Verso la fine dell'Ottocento i fisici Helmholtz e Kelvin concepirono un meccanismo basato sulla trasformazione di energia meccanica in calore. Essi ammisero che gli strati più esterni del sole, cadendo verso il centro per effetto della gravità, producessero calore per trasformazione di energia potenziale in energia cinetica. Successive verifiche teoriche di tale modello misero d'altra parte in luce che anche in tal modo il sole potrebbe sopravvivere non più di una decina di milioni di anni. Troppo poco se pensiamo che esistono rocce terrestri ben più antiche. La via giusta fu imboccata nel 1927 da Atkinson e Houtermans, che ipotizzarono la presenza all'interno del sole di reazioni termonucleari. Se infatti i nuclei di un elemento più leggero possiedono un'energia cinetica (e quindi una temperatura) sufficientemente elevata da vincere la repulsione elettrostatica causata dai protoni, possono avvicinarsi a distanze inferiori ai 10-13 cm, in modo da permettere all'interazione forte di tenerli uniti attraverso un processo detto di fusione nucleare
Si possono in tal modo formare nuclei di elementi più pesanti. Si verifica però che la somma delle masse dei nuclei che si fondono risulta lievemente superiore alla massa del nucleo dell'elemento che si forma per fusione. Tale difetto di massa si trasforma integralmente in energia secondo la nota relazione einsteniana E = mc2.
Il difetto di massa risulta percentualmente inferiore per gli elementi di peso atomico più elevato finché non si arriva alla formazione di nuclei di ferro.

Per tutti gli elementi più pesanti del ferro accade il contrario. Il nucleo dell'elemento che si forma risulta cioè più massiccio della somma dei nuclei che si fondono. Il che significa che la nucleosintesi degli elementi più pesanti del ferro è una reazione endoergonica che richiede cioè energia da trasformare in massa (questo è il motivo per cui il processo contrario di rottura del nucleo dell'uranio in nuclei più leggeri, processo detto di fissione nucleare, risulta essere esoergonico).

 

Tempo di sopravvivenza del sole
1) In caso di combustione
Supponendo che il sole sia formato da Carbonio ed Ossigeno nelle proporzioni necessarie a dare una reazione di combustione, secondo la reazione
C  +  O2    CO2  + 393,51 kj/mol  (3,9351 1012 erg/mol)
12g   32g       44g

L'energia liberata per grammo di reagenti sarà
3,9 1012 erg/mol : 44 g/mol 9 1010 erg/g

Se l'intera massa del sole (M = 2 1033 g) bruciasse si otterrebbe pertanto un'energia pari a
9 1010 erg/g  . 2 1033 g = 1,8 1044 erg

Poiché il sole emette energia al ritmo di L = 4 1033 erg/s = 1,2 1041 erg/anno, sarebbe in grado di sopravvivere per un tempo pari a
1,8 1044 erg : 1,2 1041 erg/anno = 1.500 anni

2) In caso di contrazione gravitazionale
Il sole possiede un'energia gravitazionale pari a

se il sole collassasse tale energia si trasformerebbe completamente in energia cinetica e quindi irradiata in un tempo
2,3 1048 erg : 1,2 1041 erg/anno 19 milioni di anni
valore trovato da Kelvin un secolo fa

3) In caso di fusione nucleare
Una mole di Idrogeno atomico pesa 1,00794 g , 4 moli pesano quindi 4,03176 g
Una mole di Elio pesa 4,00260 g, con un difetto di massa rispetto all'idrogeno da cui si è formato pari a 0,02916 g
La diminuzione percentuale è pari a

Poiché la fusione avviene solo nel nucleo del sole e nell'ipotesi che esso contenga circa un 10% dell'intera massa solare, pari a 2 1032 g e che questa sia costituita per il 75% in peso di Idrogeno, il combustibile a disposizione per il processo di fusione sarà 2 1032 . 0,75 = 1,5 1032 g.  Durante la fusione vi sarà un difetto di massa totale pari a
1,5 1032 g . 0,007 1030 g
Tale massa produrrà un'energia pari a
mc2 = 1030. 9 1020 1051 erg
Tale energia verrà dissipata in un tempo pari a
1051 erg : 1,2 1041 erg/anno 10 miliardi di anni

Naturalmente affinché all'interno del sole, come del resto all'interno di qualsiasi stella, si inneschino le reazioni di fusione è necessario che si producano temperature estremamente elevate, dell'ordine dei milioni di gradi. Tali temperature vengono raggiunte attraverso il meccanismo ipotizzato da Helmholtz e Kelvin. All'epoca in cui il sole era una enorme nube di idrogeno, la contrazione gravitazionale del gas ha dunque sviluppato energia termica sufficiente a portare la temperature delle sue zone centrali ai livelli richiesti dalle reazioni di fusione termonucleare.

In realtà una temperatura di qualche decina di milioni di gradi non sarebbe sufficiente a vincere la repulsione coulombiana tra due protoni, fino a portarli a 10-13 cm l’uno dall’altro. Infatti l’energia cinetica media di una particella è  eguagliando i due secondi membri ed esplicitando la distanza r, otteniamo, per una temperatura all’interno del sole di 15 milioni di kelvin


Ciclo  pp
p + p  Þ  + e+ + ne

                                                      + g

                                                  + 2p

Ma in tali condizioni di temperatura le particelle evidenziano uno spiccato carattere ondulatorio. La meccanica quantistica assegna infatti ad una particella in moto una dimensione caratteristica, nota come lunghezza d’onda di De Broglie, che dipende dalla quantità di moto della particella secondo la relazione , che sostituita nella relazione di De Broglie, ci fornisce (sostituendo ad m la massa del protone)

Le dimensioni quantistiche delle particelle sono dunque dello stesso ordine di grandezza della distanza tra le particelle. Ne consegue che la probabilità di interagire superando la barriera coulombiana (effetto tunnel) è sufficientemente elevata da rendere efficace la reazione.

Le due reazioni fondamentali di fusione che si ritiene alimentino il sole, come la maggior parte delle stelle, sono il ciclo protone-protone (o ciclo di Critchfield) ed il ciclo Carbonio-Azoto (o ciclo di Bethe).
Il ciclo protone-protone prevede la fusione di due protoni con formazione di un nucleo di deuterio, un positrone ed un neutrino (uno dei due protoni si trasforma in un neutrone con un decadimento beta inverso). Il deuterio si fonde in seguito con un altro protone formando un nucleo di Elio leggero con emissione di energia sotto forma di un fotone gamma. Infine due nuclei di Elio leggero si possono fondere per dare un nucleo di Elio e due protoni.

Il ciclo CN prevede invece che il Carbonio funga da catalizzatore alla fusione dell'idrogeno in Elio. Fondendosi successivamente con quattro protoni e subendo due decadimenti beta inversi il carbonio si trasforma in un isotopo instabile dell'Azoto, quindi in un isotopo instabile dell'Ossigeno e poi nuovamente in Carbonio attraverso l'emissione di un nucleo di Elio.

L'unica possibilità che abbiamo di controllare la validità di questi e altri modelli di reazioni termonucleari è di misurare il flusso di neutrini proveniente dal sole. Il compito non è dei più facili poiché i neutrini interagendo "debolmente" con la materia vengono intercettati con estrema difficoltà ed è inoltre necessario impedire che i rilevatori di neutrini subiscano l'azione della rimanente radiazione cosmica che disturberebbe eccessivamente la ricezione. E' per questo motivo che i rilevatori sono posti nel sottosuolo a grandi profondità (laboratorio del Gran Sasso). Finora il flusso di neutrini misurato risulta essere notevolmente inferiore a quello atteso sulla base dei modelli teorici, e ciò rappresenta uno dei principali problemi astrofisici in attesa di soluzione.

La struttura interna del sole

All'interno del sole agisce un meccanismo omeostatico, una specie di termostato naturale che permette il mantenimento di un equilibrio dinamico. Impercettibili movimenti della superficie solare in espansione ed in contrazione rappresentano il risultato di tale equilibrio. Si calcola che tali pulsazioni ritmiche avvengano con un periodo regolare in cui il raggio solare varia di una decina di chilometri ogni 2 ore e 40 minuti circa.
L'equilibrio complessivo viene raggiunto grazie ad un equilibrio meccanico, in cui la forza gravitazionale viene eguagliata dalla forza centrifuga legata al moto termico delle particelle e ad un equilibrio termodinamico, in cui l'energia prodotta viene interamente dissipata dalla fotosfera sotto forma di energia radiante.
Il meccanismo termostatico è piuttosto semplice: quando il sole produce un eccesso di energia rispetto a quanto ne irradia la fotosfera, esso tende a riscaldarsi e ad espandersi. L'espansione tende a raffreddare il sole sia perché il gas si espande adiabaticamente sia perché un aumento della superficie radiante consente uno smaltimento della radiazione più efficiente. La diminuzione della temperatura interna produce infine un rallentamento delle reazioni di fusione che producono energia ed in definitiva una diminuzione della quantità di energia prodotta. Quando invece il sole produce energia in difetto, la diminuzione di temperatura porta ad una contrazione della massa gassosa. Il conseguente riscaldamento, legato in parte alla compressione adiabatica ed in parte alla minor superficie radiante, induce un aumento della velocità delle reazioni termonucleari ed in definitiva aumenta la quantità di energia prodotta.
Gli astrofisici hanno proposto diversi modelli solari, costruiti sulla base degli equilibri ora descritti, calcolando densità e temperature solari alle diverse profondità. Il valore di temperatura ottenuto per le zone centrali del sole varia a seconda del modello considerato, aggirandosi comunque attorno ad un valore di 15 milioni di gradi.

Le temperature necessarie a mantenere i processi di fusione vengono raggiunte solo in una zona centrale del sole detta nucleo. Gli strati esterni al nucleo non producono energia, ma la convogliano verso la fotosfera. Si distinguono altri due strati, oltre al nucleo, che si caratterizzano essenzialmente per le diverse modalità attraverso le quali l'energia viene trasportata: lo strato radiativo e lo strato convettivo.

  • Lo strato radiativo si trova appena sopra il nucleo solare. In questo strato l'energia viene trasportata sotto forma di radiazione elettromagnetica. I fotoni impiegano milioni di anni per attraversare tale strato Poiché sono continuamente assorbiti e riemessi dalle particelle cariche che formano il plasma solare.
  • Lo strato convettivo è lo strato più superficiale al quale appartiene la fotosfera. In esso la temperatura  è scesa sufficientemente da permettere al plasma di assorbire la radiazione proveniente dal sottostante strato radiativo. Tale processo produce un aumento di temperatura del plasma che forma la base dello strato convettivo. Si generano in tal modo dei movimenti convettivi di risalita del plasma caldo che si manifestano in superficie attraverso il caratteristico aspetto granulare della fotosfera.

Il sistema solare: origine

 

Possiamo classificare le teorie sulla genesi del sistema solare in catastrofiche e nebulari.
Le prime, oramai completamente abbandonate, ipotizzano la formazione dei pianeti attraverso l'espulsione violenta di materia solare per cause diverse. Ricordiamo ad esempio l'ipotesi del naturalista francese Buffon il quale, nel 1745, avanzò l'idea che i pianeti si fossero formati in seguito alla condensazione di uno spruzzo di materia solare generato dalla caduta di una cometa sulla superficie del sole. Teorie di questo genere vennero riprese anche nel nostro secolo. Agli inizi del '900, ad esempio, trovò un certo credito l'ipotesi che i pianeti si fossero formati per aggregazione di materia solare strappata al sole dall'attrazione gravitazionale di una stella passata casualmente nelle vicinanze (Chamberlin, Moulton, Jeans). L'ipotesi venne presto abbandonata quando divenne chiaro che le probabilità di collisione tra due stelle sono talmente basse da risultare trascurabili e che la materia solare eventualmente strappata al sole sarebbe comunque troppo calda per potersi condensare in pianeti.

Verso gli anni '40 del secolo scorso iniziò dunque a prendere definitivamente piede la teoria di una nascita del sistema solare per evoluzione di una nebulosa primordiale. Si trattava della riedizione di una vecchia ipotesi nota come teoria nebulare di Kant-Laplace.
Nel 1755 Kant ipotizza che il sole ed i pianeti si siano formati per aggregazione gravitazionale (ricordiamo che la legge di gravitazione newtoniana aveva da poco dimostrato tutta la sua potenza) all'interno di una nebulosa discoidale di gas e polveri in lenta rotazione.
Nel 1796 Laplace tentò di giustificare dal punto di vista scientifico le affermazioni di Kant, cercando di dimostrare che mentre la nube primordiale si contraeva essa doveva aumentare la sua velocità di rotazione (per la conservazione del momento angolare) fino a produrre nelle sue regioni periferiche una forza centrifuga tale da permettere la separazione di anelli di materia, all'interno dei quali si sarebbero successivamente formati i pianeti.
La teoria laplaciana si affermò durante la prima metà dell'ottocento soprattutto grazie all'enorme fama ed autorità di cui godeva l'autore presso il mondo scientifico contemporaneo. Ma nella seconda metà dell'ottocento Maxwell dimostrò che l'ipotetica nube in contrazione non poteva avere velocità sufficiente per espellere anelli di materia per forza centrifuga.
La teoria nebulare non era inoltre in grado di spiegare l'attuale distribuzione del momento angolare all'interno del nostro sistema solare. Se infatti il sole ed i pianeti si sono formati per contrazione e frammentazione di una massa di gas in rotazione, il momento angolare complessivo della nebulosa si sarebbe dovuto suddividere proporzionalmente alle masse dei diversi componenti del sistema solare. Così ci si dovrebbe attendere che la maggior parte del momento angolare si trovi concentrato nel sole il quale possiede il 99,9% della massa del sistema solare. In realtà il sole contribuisce solo per il 2% al momento angolare complessivo, mentre il rimanente 98% è concentrato nei pianeti.

Nel 1943 Carl von Weizsäcker ripropone la teoria nebulare di Kant-Laplace integrando e rendendo più solida l'ipotesi originaria. La teoria nebulare, nella formulazione odierna, può essere così riassunta.
La nebulosa primordiale, costituita prevalentemente di idrogeno, elio e piccolissime quantità di elementi pesanti aggregati in granuli microscopici, si trovava in lenta rotazione intorno ad un asse. Il moto di rotazione costrinse il materiale in fase di collasso a distribuirsi su di un disco appiattito, rigonfio al centro. E' infatti facile verificare che mentre la forza gravitazionale ha la stessa intensità in tutti i punti periferici della nebulosa equidistanti dal suo centro, la forza centrifuga risulta maggiore per il materiale più distante dall'asse di rotazione. La composizione di tali forze produsse quindi una risultante diretta non verso il centro della nebulosa, ma verso il suo piano equatoriale.
Possiamo inoltre facilmente convincerci che durante tale processo di sedimentazione sul piano equatoriale, il materiale che si trovava nelle adiacenze dell'asse di rotazione era in quantità maggiore rispetto a quello che si trovava a maggiori distanze da esso. Ciò spiega la formazione della massiccia protuberanza centrale destinata a formare il protosole.

Nelle fasi iniziali il protosole era ancora instabile ed emetteva enormi quantità di materia sotto forma di un intenso vento solare. E' lo stadio T-Tauri (dal nome della giovane stella variabile nella costellazione del Toro, in cui per la prima volta venne rilevato tale fenomeno), attraverso il quale il sole avrebbe allontanato dalla zona più interna del disco nebulare gran parte dei gas più leggeri e si sarebbe alleggerito di una frazione notevole della sua massa.
L'introduzione dello stadio T-Tauri nel modello nebulare permette di giustificare l'anomala distribuzione osservata del momento angolare. Perdendo massa il sole diminuisce infatti anche il suo momento angolare.
Nelle regioni adiacenti al protosole poterono accumularsi solo gli elementi più pesanti, in grado di non evaporare e di non essere spazzati via dal vento solare. Essi precipitarono sul piano del disco fornendo il materiale col quale si formarono poi i pianeti interni. I composti più leggeri, come l'elio, l'idrogeno, l'acqua, l'ammoniaca ed il metano si accumularono invece nella parte più esterna del disco nebulare, più lontana dal protosole e quindi più fredda, diventando il materiale da cui si formarono in seguito i pianeti gioviani e i corpi cometari.
A poco a poco le particelle iniziarono ad aggregarsi all'interno del disco nebulare, creando agglomerati di dimensioni maggiori, detti planetesimi, che divennero centri di attrazione gravitazionale per i frammenti più piccoli. Ogni planetesimo spazzava così lo spazio intorno a sé, accrescendosi a spese del materiale intercettato, in modo analogo a quanto fa una valanga.
Non tutti i planetesimi erano destinati a diventare pianeti. Negli urti reciproci alcuni si disgregarono ritornando a formare materiale meteorico di piccole dimensioni, mentre altri prevalsero definitivamente diventando i protopianeti.
Le differenze di dimensioni tra Giove e Saturno, da una parte, ed Urano e Nettuno, dall'altra, possono essere interpretate sulla base della diversa velocità orbitale. Urano e Nettuno più distanti dal sole e quindi più lenti furono meno efficienti di Giove e Saturno nel catturare il materiale nebulare.
La grande massa acquisita da Giove divenne infine causa di disturbi gravitazionali così elevati da impedire l'ulteriore accrescimento di altri pianeti nelle immediate vicinanze. Si spiega in tal modo la presenza della fascia degli asteroidi tra Marte e Giove.
I residui della nebulosa troppo lenti e distanti per aggregarsi in pianeti rimasero a ruotare ai bordi del sistema solare andando a formare la nube di Oort.

Le stelle: classificazione e sistemi di riferimento

 

Il sole è una dei 100 miliardi di stelle che costituiscono la nostra galassia. Fin dall'antichità le stelle sono state raggruppate in costellazioni, alle quali sono stati attribuiti nomi di animali, di oggetti e di figure mitologiche. Una costellazione è un raggruppamento di stelle vicine le une alle altre solo per ragioni prospettiche e non prodotto da una reale prossimità fisica. Nel 1928 l'Unione Astronomica Internazionale decise di uniformare l'utilizzo delle costellazioni per individuare una stella sulla volta celeste. L'intera sfera celeste venne così suddivisa in 88 aree poligonali, diverse per forma e dimensioni, ognuna contenente una precisa costellazione. Quando oggi gli astronomi si riferiscono ad una qualche costellazione, in realtà individuano in maniera univoca un settore ben determinato della sfera celeste.  La sfera celeste è un'astrazione che noi utilizziamo per comodità, al fine di poter individuare in modo univoco nel cielo un oggetto celeste, tramite opportuni sistemi di coordinate. Per poter costruire un sistema di coordinate celesti è necessario individuare sulla sfera celeste alcuni elementi di riferimento. Tra questi i più importanti sono:

  • L'asse del mondo, prolungamento dell'asse terrestre, che interseca la sfera in corrispondenza di due punti detti poli celesti (nord e sud). A causa della rotazione terrestre l'intera sfera celeste sembra quindi ruotare intorno ai poli celesti da est verso ovest. 
  • L'equatore celeste, proiezione dell'equatore terrestre sulla sfera celeste.
  • L'eclittica, il percorso apparente che il sole compie tra le costellazioni zodiacali in un anno. L'equatore celeste e l'eclittica giacciono su due piani inclinati di 23° 27' e si intersecano in due punti opposti detti rispettivamente punto (gamma) o punto d'Ariete o punto vernale e punto (omega) o punto di Bilancia o punto autunnale. Il punto d'Ariete è il punto che il sole occupa durante l'equinozio di primavera (21 marzo). Esso deve il suo nome al fatto che nell'antichità tale punto era situato nella costellazione dell'Ariete (attualmente si trova nei Pesci), il cui segno zodiacale è la lettera greca gamma () che ricorda la testa di un ariete. Il punto di Bilancia è il punto che il sole occupa durante l'equinozio di autunno (23 settembre). Esso deve il suo nome al fatto che nell'antichità tale punto era situato nella costellazione della Bilancia (attualmente si trova in Vergine), il cui segno zodiacale è la lettera greca omega () che richiama la forma di una bilancia.
  • Il meridiano celeste fondamentale, o colùro equinoziale, è il cerchio massimo passante per il punto Gamma (ed ovviamente anche per il punto Omega) e per i poli celesti e quindi perpendicolare all'equatore celeste.

Questi elementi sono comuni a tutti gli osservatori, in qualsiasi punto della terra l'osservatore si trovi. Esistono poi alcuni elementi propri di ciascun osservatore:

  • Lo Zenit, il punto delle sfera celeste che si trova sulla perpendicolare dell’osservatore ed il Nadir,  in posizione diametralmente opposta e non è quindi visibile;
  • L'orizzonte celeste, il cerchio massimo perpendicolare alla verticale dell'osservatore, che individua la porzione di sfera celeste osservabile in un certo istante (volta celeste).

Un sistema di coordinate celesti che faccia riferimento alla posizione dell'osservatore si dice relativo, in caso contrario si dice assoluto.
A) Il sistema altazimutale o orizzontale è un sistema relativo, usato fin dall'antichità. Utilizza come asse di riferimento l'orizzonte. Le due coordinate sono

  • l'altezza h della stella (da 0 a 90°) definita come la distanza angolare della stella rispetto all'orizzonte, misurata perpendicolarmente ad esso (in direzione dello zenit)
  • l'azimut A è la distanza angolare (da 0° a 360°) che il piede dell'altezza della stella forma con il Sud (misurata in senso orario, da sud verso ovest).

Le coordinate altazimutali di una stessa stella sono ovviamente diverse a seconda del luogo di osservazione e, per uno stesso luogo, cambiano con l'ora a causa dell'apparente moto di rotazione della sfera celeste
B) Il sistema equatoriale mobile è un sistema assoluto. E' detto mobile poiché è ancorato alla sfera celeste e la segue nel suo moto apparente. Utilizza come elementi di riferimento l'equatore celeste ed il meridiano celeste fondamentale. Le due coordinate sono

  • la declinazione (da 0° a 90°), definita come la distanza angolare della stella rispetto all'equatore celeste misurata perpendicolarmente all'equatore stesso (lungo l'arco di meridiano passante per la stella)
  • l'ascensione retta  o AR, definita come la distanza angolare tra il punto Gamma ed il piede del meridiano passante per la stella (misurata in senso antiorario). L'ascensione retta si misura in genere in unità di tempo siderale (ore, minuti, secondi) da 0 a 24h siderali, piuttosto che in gradi (da 0° a 360°).

Il giorno siderale è il tempo necessario affinché la terra effettui una rotazione completa rispetto al punto Gamma e misura quindi l'intervallo di tempo tra due culminazioni successive del punto Gamma sul meridiano del luogo (circa 23h 56m 4s solari). Gli orologi degli osservatori astronomici sono sincronizzati sul tempo siderale e non sul tempo solare. Così se una stella ha un'ascensione retta di 2h e 20m essa culminerà sul meridiano del luogo esattamente 2h e 20m dopo il punto Gamma e quindi nel momento in cui l'orologio siderale dell'osservatorio segnerà proprio tale ora. Le stelle di ogni costellazione vengono classificate in base alla loro luminosità. Secondo la convenzione introdotta da Johann Bayer nel 1603, la stella più brillante di una costellazione è indicata con la prima lettera dell'alfabeto greco (alfa) seguita dal nome della costellazione al genitivo o dalle sue prime tre lettere (-Centauri o Cen). La seconda in ordine di luminosità con la seconda lettera dell'alfabeto greco (beta) e così via. Fanno eccezione le stelle dell'Orsa Maggiore (Grande Carro) in cui le lettere greche accompagnano la successione delle stelle nella costellazione.
Ben presto ci si rese conto che le stelle in una costellazione sono più numerose delle lettere dell’alfabeto. Nel 1725 Flamsteed, nel suo libro Historia Coelestis Britannica introdusse un nuovo sistema di classificazione ancor oggi comunemente usato, secondo il quale a ciascuna stella di una costellazione viene assegnato un numero arabo progressivo in ordine di ascensione retta.

Abbrev.                Nome                                    Genitivo                               Traduzione

And                        Andromeda                         Andromedae                       Andromeda (figlia di Cèfeo) (B)
Ant                         Antlia                                     Antliae                                 Macchina Pneumatica, Pompa
Aps                        Apus                                      Apodis                                  Uccello del Paradiso
Aqr                         Aquarius                               Aquarii                                  Aquario (Z)
Aql                         Aquila                                   Aquilae                                 Aquila
Ara                         Ara                                         Arae                                      Altare
Ari                          Aries                                      Arietis                                    Ariete (Z)
Aur                         Auriga                                   Aurigae                                 Auriga (B)
Boo                        Bootes                                  Bootis                                    Boote, Vaccaro (B)
Cae                        Caelum                                Caeli                                     Scalpello, Bulino
Cam                      Camelopardalis                  Camelopardalis                  Giraffa (B)
Cnc                        Cancer                                  Cancri                                   Cancro, Granchio (Z)
CVn                       Canes Venatici                   Canum Venaticorum         Cani da Caccia, Levrieri (B)
CMa                       Canis Major                         Canis Majoris                      Cane Maggiore
CMi                        Canis Minor                         Canis Minoris                      Cane Minore (B)
Cap                        Capricornus                         Capricorni                            Capricorno (Z)
Car                         Carina                                   Carinae                                Carena
Cas                        Cassiopeia                          Cassiopeiae                        Cassiopea, (madre di Andromeda) (B)
Cen                        Centaurus                            Centauri                                               Centauro
Cep                        Cepheus                              Cephei                                  Cèfeo (re d’Etiopia) (B)
Cet                         Cetus                                    Ceti                                        Balena
Cha                        Chamaeleon                       Chamaeleontis                   Cameleonte
Cir                          Circinus                                Circini                                   Compasso
Col                         Columba                              Columbae                            Colomba
Com                      Coma Berenices                Comae Berenices              Chioma di Berenice (B)
CrA                        Corona Australis                 Coronae Australis              Corona Australe
CrB                        Corona Borealis                 Coronae Borealis                               Corona Boreale (B)
Crv                         Corvus                                  Corvi                                     Corvo
Crt                          Crater                                    Crateris                                 Coppa
Cru                         Crux                                      Crucis                                   Croce del Sud
Cyg                        Cygnus                                 Cygni                                    Cigno     (B)
Del                         Delphinus                            Delphini                                               Delfino (B)
Dor                         Dorado                                 Doradus                                               Pesce Spada
Dra                         Draco                                    Draconis                               Dragone (B)
Equ                        Equuleus                              Equulei                                 Cavalluccio (B)
Eri                          Eridanus                               Eridani                                  Eridano, (il fiume Po)
For                         Fornax                                  Fornacis                                               Fornace
Gem                      Gemini                                  Geminorum                         Gemelli (Z)
Gru                         Grus                                      Gruis                                     Gru
Her                         Hercules                               Herculis                                Ercole (B)
Hor                         Horologium                         Horologii                              Orologio
Hya                        Hydra                                    Hydrae                                  Idra
Hyi                         Hydrus                                  Hydri                                     Serpente d’acqua
Ind                          Indus                                     Indi                                        Indiano d’America
Lac                         Lacerta                                 Lacertae                                               Lucertola (B)
Leo                        Leo                                        Leonis                                   Leone (Z)
LMi                         Leo Minor                             Leonis Minoris                    Leoncino (B)
Lep                        Lepus                                    Leporis                                 Lepre
Lib                          Libra                                      Librae                                   Bilancia (Z)
Lup                        Lupus                                    Lupi                                       Lupo
Lyn                         Lynx                                      Lyncis                                   Lince (B)
Lyr                          Lyra                                       Lyrae                                     Lira (B)
Men                       Mensa                                   Mensae                                Tavola
Mic                         Microscopium                     Microscopii                          Microscopio
Mon                       Monoceros                           Monocerotis                         Unicorno
Mus                        Musca                                   Muscae                                 Mosca
Nor                         Norma                                  Normae                                Squadra
Oct                         Octans                                  Octantis                                Ottante
Oph                        Ophiuchus                           Ophiuchi                               Ofiuco, Serpentario
Ori                          Orion                                     Orionis                                  Orione, (cacciatore)
Pav                        Pavo                                      Pavonis                                Pavone
Peg                        Pegasus                                               Pegasi                                  Pegaso (cavallo alato) (B)
Per                         Perseus                                Persei                                   Persèo (figlio di Zeus) (B)
Phe                        Phoenix                                Phoenicis                             Fenice
Pic                          Pictor                                     Pictoris                                  Cavalletto del Pittore
Psc                         Pisces                                   Piscium                                Pesci (Z)
PsA                        Piscis Austrinus                  Piscis Austrini                      Pesce Australe
Pup                        Puppis                                  Puppis                                  Poppa
Pyx                         Pyxis                                     Pyxidis                                  Bussola
Ret                         Reticulum                             Reticuli                                  Reticolo
Sge                        Sagitta                                  Sagittae                                Freccia, Saetta (B)
Sgr                         Sagittarius                            Sagittarii                                               Sagittario, (arciere) (Z)
Sco                        Scorpius                               Scorpii                                  Scorpione (Z)
Scl                          Sculptor                                Sculptoris                             Scultore
Sct                          Scutum                                 Scuti                                      Scudo
Ser                         Serpens                                               Serpentis                              Serpente
Sex                         Sextans                                Sextantis                              Sestante
Tau                        Taurus                                  Tauri                                      Toro (Z)
Tel                          Telescopium                       Telescopii                            Telescopio
Tri                           Triangulum                          Trianguli                                               Triangolo (B)
TrA                         Triangulum Australe          Trianguli Australis              Triangolo Australe
Tuc                         Tucana                                 Tucanae                                               Tucano
UMa                       Ursa Major                           Ursae Majoris                      Orsa Maggiore (B)
UMi                        Ursa Minor                           Ursae Minoris                      Orsa Minore (B)
Vel                         Vela                                       Velorum                                               Vele
Vir                          Virgo                                     Virginis                                 Vergine (Z)
Vol                         Volans                                  Volantis                                Pesce Volante
Vul                         Vulpecula                             Vulpeculae                          Volpetta (B)

B = costellazioni boreali   Z = costellazioni zodiacali

Le stelle note fin dall'antichità sono ancor oggi contraddistinte da un nome proprio, spesso di origine araba. Ad esempio: Sirio (9 CMa / CMa = alfa Canis Maioris);  Betelgeuse (58 Ori / Ori = alfa Orionis); Vega (3 Lyr / Lyr = alfa Lyrae);  Mizar (79 Uma / UMa = zeta Ursae Maioris).
Le 88 costellazioni sono disposte 26 sopra l’eclittica, 50 sotto e 12 giacciono sull'eclittica e sono dette costellazioni zodiacali. Mentre la terra ruota intorno al sole, quest'ultimo sembra dunque muoversi sullo sfondo delle costellazioni zodiacali.

Le stelle: Caratteristiche fisiche

 

Le stelle sono corpi celesti caratterizzati da  un bilancio energetico negativo. In altre parole l’energia che ricevono dal cosmo è inferiore rispetto a quella che irradiano e ciò grazie alla presenza al loro interno di rezioni in grado di generare enormi quantità di energia. I principali parametri fisici attraverso i quali vengono descritte le stelle sono: la luminosità, la temperatura superficiale, la massa, il raggio ed il tipo spettrale.

Luminosità e variabilità

Le stelle vengono classificate in base alla loro luminosità sulla base di una scala introdotta nel II secolo a.C. dall'astronomo greco Ipparco. In essa si attribuiscono alle stelle più luminose il valore 1 ed a quelle al limite della visibilità ad occhio nudo il valore 6, alle altre valori intermedi.
Tale scala naturalmente non riflette la vera luminosità delle stelle, la quale dipende evidentemente dalla distanza, ma solo la luminosità percepita dall'osservatore e viene oggi chiamata scala delle magnitudini apparenti (m).
In realtà la scala delle magnitudini apparenti è ingannevole in quanto il nostro occhio non reagisce alle variazioni dell'intensità dello stimolo luminoso producendo una sensazione visiva ad esso proporzionale. Per avere una misurazione oggettiva dell'intensità della luminosità è necessario ricorrere ad un fotometro, uno strumento che trasforma, tramite una cellula fotoelettrica, la luce in corrente elettrica.
Fu proprio usando un rudimentale fotometro che il grande astronomo tedesco Herschel, verso la fine del '700, scoprì che una stella di 1a magnitudine non è solo 5 volte più luminosa di una di 6a magnitudine, come ci suggerisce il nostro occhio, ma è ben 100 volte più luminosa.

Verso la metà dell'ottocento la relazione esistente tra intensità dello stimolo luminoso (I) e sensazione visiva percepita dall'osservatore (S), venne chiarita da Fechner e Weber. Essi dimostrarono infatti che quando le nostre sensazioni visive aumentano o diminuiscono in modo lineare, l'intensità dello stimolo sta variando in modo esponenziale.  In tal modo lo stimolo percepito S risulta proporzionale al logaritmo dell'intensità I, misurata tramite un fotometro.
S = k log I  + cost

Ciò significa che la sensazione è proporzionale alla variazione relativa (DI/I) e non alla variazione assoluta (DI) di intensità
L’occhio, come tutti i nostri sensi, non è un trasduttore lineare della sensazione, ma è un trasduttore logaritmico.

In forma differenziale risulta infatti che la variazione dS dello sensazione risulta proporzionale alla variazione relativa dI/I dell’intensità luminosa.

Integrando, si ottiene infatti S = K log I + C, con C costante di integrazione che dipende dalle unità di misura usate.
La legge psico-fisica di Fechner e Weber descrive in realtà il comportamento della maggior parte dei nostri sensi. Si noti, ad esempio, come sia più facile distinguere le differenze di peso tra 100g e 200g, piuttosto che tra 50kg e 51kg. Infatti, nonostante nel primo caso vi sia una variazione assoluta di soli 100g contro una di 1 kg, la variazione relativa è nei due casi rispettivamente del 100% e del 2%.

Se noi applichiamo tale relazione alla luminosità percepita dal nostro occhio, di due stelle di 1a e  6a magnitudine, in cui le rispettive intensità misurate con un fotometro siano quindi le luminosità apparenti  l1 e l6, otteniamo
6 - 1 = k log l6 - k log l1 = k log
Ricordando ora che già Herschel aveva dimostrato che il rapporto tra l'intensità fotometrica di una stella di  1a magnitudine ed una di  6a è di 100 a 1, possiamo scrivere

5 = k log 10-2                           
e quindi  k = - 2,5.   La relazione fondamentale della fotometria stellare diventa quindi (con I1 > I2)

nota come relazione di Pogson (dal nome dell’astronomo inglese N.R. Pogson, che la introdusse nel 1856) che lega la differenza di magnitudine al rapporto delle intensità luminose.

Esplicitiamo ora il rapporto tra le intensità luminose

In altre parole fra un  grado e l'altro della scala di Ipparco vi è in realtà una differenza di luminosità di  2,512 volte. Quindi se tra due stelle esiste una differenza di magnitudine pari a m, ciò significa che una stella è  2,512m più luminosa dell'altra. Ogni 5 gradi di magnitudine comportano perciò una differenza di luminosità fotometrica pari a 2,5125 = 100 volte.

Se dobbiamo ad esempio confrontare la luminosità di Sirio m = - 1,45 con quella di Aldebaran (m = 0,85)  troveremo

Sirio dunque è apparentemente circa 8,3 volte più luminoso di Aldebaran. Naturalmente ciò non significa che siamo ora in grado di conoscere la luminosità effettiva o intrinseca della stella. Per poterlo fare dovremmo infatti conoscere anche la distanza della stella dalla terra.
Conoscendo la distanza D terra-stella e misurando con un fotometro l'intensità della radiazione l che colpisce l'unità di superficie terrestre è possibile calcolare la luminosità intrinseca totale L tramite la relazione
l 4 p D2 = L

relazione analoga a quella utilizzata per calcolare la quantità di energia totale emessa dalla superficie solare partendo dalla costante solare e dalla distanza terra-sole.
La relazione può essere scritta

dove si evidenza il fatto che la luminosità apparente fotometrica è direttamente proporzionale alla luminosità intrinseca L ed inversamente proporzionale al quadrato della distanza.
Tale relazione viene utilizzata non solo per ottenere la luminosità intrinseca di stelle di distanza nota (la luminosità apparente l è sempre misurabile), ma in alcuni casi per ottenere la distanza di oggetti celesti di luminosità intrinseca nota e riconoscibili per altre caratteristiche. Tali oggetti vengono detti in astronomia indicatori di distanza. Ad esempio gli astronomi ritengono che tutte le esplosioni stellari note come supernove producano grosso modo la stessa quantità di energia e quindi presentino la stessa luminosità intrinseca. Una volta quindi che una supernova viene riconosciuta all'interno di una galassia, misurandone la  luminosità apparente e data come nota la luminosità intrinseca, se ne può agevolmente calcolare la distanza.
Per confrontare la luminosità intrinseca delle stelle in modo più semplice, si è convenuto di esprimerla secondo la scala di Ipparco, in gradi di magnitudine assoluta (M). Viene quindi convenzionalmente definita magnitudine assoluta la magnitudine apparente di una stella una volta posta a 10 parsec dalla terra.
In questo modo si ottengono stelle con magnitudine assoluta addirittura negativa. Ad esempio una stella di magnitudine apparente del 1° grado della scala di Ipparco che si trovi ad una distanza reale dalla terra molto maggiore di 10 parsec, una volta avvicinata fino ai 10 parsec convenzionali, risulterà più luminosa e quindi presenterà una magnitudine assoluta minore di 1. Per ragioni opposte esistono stelle di magnitudine assoluta superiori al sesto grado.
Quando noi confrontiamo due gradi di magnitudine assoluta, ad esempio una stella con M = 13 con una con M = 8, possiamo affermare che la seconda è effettivamente 100 volte più luminosa della prima. in quanto le due stelle si trovano idealmente alla stessa distanza dalla terra.
La relazione che lega magnitudine apparente m, magnitudine assoluta M e distanza D (in parsec) è


Una stella di luminosità intrinseca L e distanza D presenta un luminosità apparente l  pari a   . Applicando ora la relazione di Pogson a questi due valori di luminosità apparente, si ottiene

Essendo la quantità (m-M) correlata alla distanza della stella, essa viene detta modulo di distanza.

Sapendo ad esempio che Sirio dista 2,64 pc e Aldebaran 18,4 pc, possiamo calcolarne la magnitudine assoluta
La magnitudine assoluta di Sirio (m = - 1,45) sarà              
La magnitudine assoluta di Aldebaran (m = 0,85) sarà       

Così la differenza di magnitudine assoluta tra Sirio e il Aldebaran è 1,44 - (- 0,47) = 1,91
Scopriamo dunque che Sirio è in realtà circa 2,5121,91 = 5,8 volte meno luminoso di Aldebaran.
Il sole che ha una magnitudine apparente m = - 26,8 presenta una magnitudine assoluta M = 4,8.
A 10 parsec diventerebbe quindi una stellina appena visibile ad occhio nudo.
La luminosità di una stella e quindi anche la sua magnitudine, misurate tramite l'occhio si definiscono visuali(Mv). Quando in astronomia iniziarono ad essere utilizzate le emulsioni fotografiche fu possibile ottenere anche valori di magnitudine fotografica (Mpg). I valori ottenuti sono in genere tra loro diversi in quanto l'occhio presenta un massimo di sensibilità nel giallo-verde, mentre la lastra fotografica nel blu-violetto. Applicando ad una macchina fotografica un filtro giallo si riesce a simulare la sensibilità dell'occhio umano e le magnitudini così ottenute sono dette fotovisuali (Mpv).
Le magnitudini ottenute con un fotometro sono dette fotoelettriche. Le magnitudini fotoelettriche vengono determinate in corrispondenza di particolari intervalli di lunghezze d'onda. In genere si ottengono per l'ultravioletto (MU o U) per il blu (MB o B) e per il giallo (visuali) (MV o V). La magnitudine fotoelettrica B è correlabile alla magnitudine fotografica (MB = Mpg + 0,11), mentre la magnitudine fotoelettrica V corrisponde alla magnitudine visuale o fotovisuale.  Infine la magnitudine ottenuta misurando l'energia proveniente da una stella su tutte le lunghezze d'onda è detta magnitudine bolometrica o integrale (Mb).
Le differenze nei valori di magnitudine misurati nei diversi intervalli di lunghezze d'onda sono importanti poiché sono correlabili alla temperatura superficiale di una stella. Infatti per la legge di Wien un corpo nero che aumenta la sua temperatura emette, in proporzione, sempre più energia in corrispondenza delle regioni a minor lunghezza d'onda (blu violetto). Così una stella molto calda presenterà una magnitudine nel blu minore della sua magnitudine visuale, mentre per una stella molto fredda avverrà l'opposto(valori minori di magnitudine corrispondono infatti a luminosità più elevate). Un indice di colore molto usato è proprio fornito dalla differenza tra la magnitudine fotografica  e la magnitudine visuale (o fotovisuale).
I.C. = Mpg - Mpv
e utilizzando i valori fotoelettrici
I.C. + 0,11 = B – V
Gli indici di colore hanno il vantaggio di essere determinabili indipendentemente dalla conoscenza della distanza. Ad esempio scriviamo le relazioni che legano la magnitudine assoluta nel blu e la magnitudine assoluta nel visuale alle rispettive magnitudini apparenti

sottraendo ora membro a membro le due relazioni è facile vedere come

e quindi il valore dell’indice di colore costruito su tale differenza è indipendente dalla distanza della stella e può essere ottenuto anche dalla semplice differenza dei valori di magnitudine apparente.

Più basso è il valore di tale indice, più la stella emette nel blu e più elevata è la sua temperatura. L'indice di colore del sole è + 0,53, mentre l'indice di colore di una stella a 15.000°K è - 0,27.

Come tutte le scale convenzionali anche la scala delle magnitudini va tarata.
Si assume come grado zero delle magnitudini apparenti visuali una luminosità apparente (misurata fuori dall'atmosfera terrestre) pari a 2,67 10-10 lumen/cm-2.
Si assume come grado zero delle magnitudini apparenti bolometriche una luminosità (misurata fuori dall'atmosfera terrestre) pari a  2,56 10-5 erg/(s cm2)

Il corrispondente punto zero delle magnitudini assolute si ottiene moltiplicando tali valori per una superficie sferica di raggio 10 parsec.

Tenendo conto che 10 pc = 3,0856775 1019 cm, si ottiene
come grado zero delle magnitudini assolute visuali, il seguente valore di luminosità intrinseca visuale

come grado zero delle magnitudini assolute bolometriche, il seguente valore di luminosità intrinseca bolometrica

 

Fonte: http://rodomontano.altervista.org/downloads/Astronomia.zip
sito web: http://rodomontano.altervista.org/
Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

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