Ortaggi cereali legumi

 

 

 

Ortaggi cereali legumi

 

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti. Se vuoi saperne di più leggi la nostra Cookie Policy. Scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie.I testi seguenti sono di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente a studenti , docenti e agli utenti del web i loro testi per sole finalità illustrative didattiche e scientifiche.

 

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Ortaggi cereali legumi

 

Cereali legumi, orticole, aromatiche, spontanee: “Finchè non ci si impegna, allora regnano l'esitazione, la possibilità di tirarsi indietro, e sempre l'inefficacia. A proposito di ogni gesto di iniziativa, c'è una verità elementare, ignorare la quale vuol dire uccidere un'infinità di idee e splendidi progetti: nel momento in cui ci si impegna definitivamente, allora anche la Provvidenza inizia a muoversi. Cominciano a succedere cose che altrimenti non sarebbero mai accadute. Un intero flusso di eventi scaturisce dalla decisione, portando a favore di chi si impegna ogni sorta di accadimento imprevisto, ogni incontro, ogni assistenza materiale, come nessuno avrebbe mai potuto immaginare. Qualsiasi cosa puoi fare o sogni poter fare, comincia a farlo. Nell'ardimento ci sono genio, potere e magia. Comincia, Ora." Johann Wolfgang Goethe

 


 

 

gioco di squadra sulle aiuole sinergiche: liliacee sulle fasce; crocifere/ombrellifere a centrocampo; solanacee/legumi rampicanti in attacco; officinali in porta; fiori (calendula, tagete, nasturzi, iperico) in difesa; spontanee varie a bordo campo (ruchetta, finocchietto, pimpinella e raperonzolo); pacciame a copertura . Arbitro e spettatore: cielo, terra uomo e microvita


Famiglie botaniche dei principali alimenti da campo e da orto

Graminacee: grano, riso, orzo, avena, segale, miglio, mais
Leguminose: tutte le specie di fagioli, fave, piselli, cicerchia, lenticchie, ceci, arachidi, lupini, lupinella, erba medica
Liliacee: aglio, cipolla, porri, erba cipollina, lampagione, scalogno, asparago
Composite: carciofi, cardi, cicoria, tarassaco, lattuga, topinambur, bardana, dragoncello, girasole, crisantemo
Crocifere/brassicacee: cavolfiore, cavolo broccolo, cavolo cappuccio, cavoli verza, cavoletto di rapa, daikon, rucola, crescione, senape, ramolaccio, ravanello, colza; Chenopodiacee: spinaci, bietole, barbabietole
Cucurbitacee:  zucche di tutti i tipi, zucchini, cetrioli, cocomeri, meloni
Solanacee: patate, pomodori, melanzane, peperoni, peperoncino
Labiate: salvia, basilico, origano, timo, menta, puleggio (menta romana)
Ombrellifere: carote, sedano, prezzemolo, finocchio, anice, cerfoglio, pastinaca, coriandolo, sedano equino
varie: amaranto, malva, okra, borragine, nasturzo, portulaca, fragole, pimpinella, valerianella, valeriana, rabarbaro, acetosa

Avena/Biada: la biada è ogni sorta di semente di genere frumentaceo/cereali (avena, segale, orzo, farro) e legumi (fava, veccia) che si dà come nutrimento per il bestiame (asini, cavalli, mucche). La biada per eccellenza, consumata in vario modo anche dall’uomo, e coltura foraggera principe per gli equini, resta la granella di avena.

Focacce, Pani e farine: la scoperta del pane, con ogni probabilità, avvenne in modo casuale quando, lasciata la poltiglia di cereali vicino ad un fuoco ci si accorse che si induriva cambiando sapore. I chicchi dei cereali, già nel neolitico, venivano pressati tra due pietre e la farina così ottenuta veniva mescolata con acqua per preparare una pappa cruda molto nutriente. Già gli Egizi si accorsero che dopo aver lasciato l’impasto a riposo (levitazione naturale), il pane era più soffice e buono da mangiare. L'impasto così ottenuto veniva cotto su pietre o in una buca scavata nel terreno e rivestita di pietra nella quale si accendeva un fuoco. Quando la temperatura era abbastanza alta il fuoco veniva spento, la cenere tolta e al suo posto veniva messo il pane. La buca veniva chiusa con  una  grossa pietra mentre al suo interno il pane cuoceva lentamente. Poi venne cotta in forni a forma conica costruiti con mattoni di argilla del Nilo. Il cibo, posto nella parte superiore, veniva cotto grazie al calore trasmesso da una lastra di pietra, riscaldata dal fuoco. Poi un nuovo forno internamente diviso in due parti; nella parte inferiore ardeva il fuoco e in quella superiore, cuocevano il pane, consentendo una cottura a temperature più elevate. I greci aggiunsero nuove spezie e nuovi aromi al pane, arrivando a creare 72 tipi diversi di pani i cui nomi prendevano origine dalle forme, dal tipo dei cereali usati, dagli ingredienti e dal modo di cottura. I fornai greci iniziarono a lavorare il pane di notte, in modo che la gente al mattino, lo trovasse cotto, fresco e croccante. Istituirono le prime caste di panificatori e le regole per il lavoro notturno dei fornai. I Romani allestirono nel 168 a.C i primi forni pubblici  cittadini e utilizzarono farine bianche in nuovi modi. Anche per loro il pane era la base dei pasti, ma il suo uso si diffuse nel II secolo a.C. Prima mangiavano il puls, una pappa di farro e di grano. Poi sostituirono la macina in pietra,azionata da schiavi o animali, con il mulino facente leva sulla forza dell'acqua. Nel rinascimento viene introdotto l’uso del lievito di birra e farine di grano di altre specie

Riso – (a cura di Elena Nelli e Francesco Sodi) Oryza sativa, francese riz; inglese rice; spagnolo arroz; tedesco: Reis). Fam: Gramineae, Tribù: Orizeae. Pianta di antichissima coltivazione, originaria del sud-est asiatico a clima tropicale e subtropicale. Il riso è una delle principali risorse alimentari dell'umanità: oltre la metà di essa basa sul riso la sua alimentazione. Nel mondo si producono annualmente oltre 550 milioni di t di riso su oltre 150 milioni di ettari, prevalentemente nelle regioni a clima caldo e molto umido dei tropici e dei subtropici, dove gli altri cereali non prosperano.
In Italia la risicoltura è estesa su circa 220.000 ettari e localizzata quasi totalmente nella Valle Padana ed in particolar modo nelle zone dove sono disponibili per l'irrigazione grandi quantità d'acqua a basso costo. In Italia in consumo annuo pro capite di riso è pari a circa 5,5 kg (nel Laos si raggiungono i 170 kg pro capite/anno). Le province maggiormente risicole sono quelle di Vercelli, Pavia, Novara, Milano, che da sole raggruppano il 90% della totale superficie investita a riso; altre province risicole sono Mantova, Verona, Rovigo e Ferrara. Tracce sporadiche nell'Italia centrale (Siena, Grosseto) e insulare (Sardegna); il riso si può coltivare ovunque, purché ci sia acqua a basso prezzo.
Quasi tutto il riso coltivato nel mondo appartiene alla specie Oryza, solo in Africa si è originata ed è limitatamente coltivata una specie a sé stante: l'Oryza glaberrima. L'Oryza sativa è ricchissima di forme ascritte a 2 sotto­specie: Oryza sativa indica e Oryza sativa japonica. I risi del tipo indica sono molto sensibili al fotoperiodo (sono brevi­diurni) e adatti quindi ai climi tropicali (diffusi tra 0° e 25° di latitudine), hanno ciclo lungo, sono rustici ma soggetti all'allettamento e la granella è lunga, stretta, appiattita, resistente alla cottura e non incollante.
I risi di tipo japonica sono diffusi nelle zone temperate, essendo poco sensibili al fotoperiodo; hanno esigenze termiche minori rispetto ai risi indica, ma maggiori esigenze nutrizionali; la paglia è piuttosto corta e robusta, la produttività elevata; la granella è corta e tozza, poco resistente alla cottura e tendente ad incollarsi.
Analogamente ai cereali microtermi, il riso è dotato di un sistema radicale costituito da radici embrionali e da radici avventizie, percui ha una fase di accestimento e di emissione delle radici avventizie, più vigorose delle embrionali (fase di levata alla cui corrisponde lo sviluppo in lunghezza degli steli). Nelle radici avventizie non più giovani compaiono vasi aeriferi, che assicurano l'aerazione delle radici anche nell'ambiente sommerso in cui il riso vive. Il culmo ha internodi cavi e nodi pieni e si sviluppa in modo analogo al frumento. Le foglie, in numero diverso secondo la varietà (di solito 5-7 per culmo), sono costituite di una guaina e una lamina ruvida per la presenza di peli corti e duri. La ligula è lunga e le auricole pelose. L'infiorescenza è un panicolo terminale ramificato che porta spighette uniflore, formate di glume piccole, molto sviluppate, sovrapposte ai margini, appiattite e racchiudenti la cariosside in astuccio. Il fiore è ermafrodito e comprende un gineceo uniovulare, con stilo bifido e stigma piumoso e un androceo di sei stami. Il frutto è una cariosside sempre vestita (che costituisce il «risone»), compressa ai lati, oblunga, con un pericarpo bianco o pigmentato, costituita in modo analogo alla cariosside del frumento. La fecondazione è autogama. Il peso di 1.000 cariossidi vestite varia da 25 a 45 grammi. Variabili sono la taglia del culmo, il portamento del fogliame, le dimensioni dei panicoli, la loro forma e portamento, le dimensioni delle spighette e cariossidi, il loro aspetto (vetroso od opaco) nonché la resa alla lavorazione, la produttività, la precocità, e le caratteristiche organolettiche. L'altezza media è 1 m  circa.  Esigente in fatto di calore e acqua, la sua caratteristica ecologica è di tollerare la saturazione idrica del terreno per cui, pur non essendo una pianta acquatica, è adattato alle zone umide dei tropici e dei subtropici soggette anche a sommersione. La temperatura deve essere elevata e costante in quanto il riso risente grave danno degli sbalzi termici. Nelle regioni equatoriali, dove la temperatura è costantemente alta, si fanno anche 2-3 raccolti all'anno. Nei climi temperati l'unica stagione di coltura possibile è quella primaverile-estiva e con l'ausilio di irrigazione fatta con sistemi tali da svolgere anche importanti funzioni termoregolatrici.
Il ciclo dalla semina alla maturazione è di 150-180 giorni. Le temperature minime vitali sono 12 °C per la germinazione; la levata e la fioritura si svolgono in modo ottimale a 23-25 °C. Minori sono i fabbisogni termici nel corso della granigione. Il riso è molto sensibile alle escursioni termiche giornaliere. Le varietà che si coltivano in Italia hanno una sensibilità al fotoperiodo molto attenuata, tanto da fiorire anche in regime di 15 ore giornaliere di luce.
Il riso può essere coltivato senza irrigazione (upland rice) solo là dove cadono regolarmente più di 200 mm di pioggia al mese per almeno 3-4 mesi.
Nella coltivazione tradizionale del riso, l’acqua piovana viene raccolta sui campi dall'ubicazione più elevata, l'acqua alluvionale viene arginata tramite dighe, l'acqua dei fiumi viene deviata intervenendo sul decorso e in alcuni luoghi viene anche semplicemente prelevata a secchi da fiumi, laghi o serbatoi, e portata ai campi. Bufali indiani che tirano l'aratro nell'ostico terreno fangoso, incitati dai contadini. Vengono così lavorati nella terra anche i residui vegetali e il letame bovino. Si tratta di un lavoro estenuante per le persone e per gli animali. Le zolle di terra rivoltate vengono accuratamente frantumate con gli erpici: quanto più la struttura granulare della terra è omogenea, tanto più regolarmente potranno essere ripartite le sementi. Infine il campo viene spianato. Gli argini vengono controllati e liberati dalle erbacce. Le anatre affamate si nutrono dei parassiti del riso, quali larve e farfalle.
Durante i lavori di preparazione, nei semenzai germinano le giovani pianticelle. Le sementi si compongono di chicchi di prima qualità, selezionati da donne che prima del raccolto principale vagano attraverso i campi per tagliare le spighe più grandi e più sane. Qualunque sia la forma della semina, le sementi madre devono essere fatte macerare, o perfino leggermente germinare, in acqua pulita. Quando le piantine hanno raggiunto le dimensioni necessarie, vengono estratte accuratamente dal terreno e trapiantate a intervalli di 20 cm nelle risaie già sommerse. Dopo cinque o sei mesi, le spighe di riso sono dorate e mature. Tre settimane prima del raccolto l'acqua viene fatta defluire. Le spighe vengono mietute a mano con le falci e quindi fatte essiccare al sole, sciolte o in covoni. Nella fase di trebbiatura, le spighe vengono battute sul terreno o su supporti di legno. i chicchi ricavati vengono "spulati", cioè gettati in aria con dei cesti piani, in modo che il vento porti via la pula (cascami) più leggera
In Italia, dove il clima è temperato e dove le precipitazioni sono insufficienti, il riso è coltivato in terreno sommerso. In tal modo l'acqua, oltre a soddisfare le elevatissime esigenze idriche della pianta, costituisce anche un insostituibile soccorso termico per l'apporto diretto di calore (quando l'acqua abbia temperatura superiore a quella dell'aria) e per l'azione termoregolatrice, cedendo di notte e nei giorni freddi il calore accumulato nei periodi di insolazione intensa. Con la sommersione un'escursione termica giornaliera di 10-15 °C viene ridotta a 3-4 °C. Riso si adatta ad ogni tipo di terreno: sabbioso, argilloso, basico o acido, ecc. purché umido. Nella risicoltura sommersa il suolo dev’essere abbastanza impermeabile da potervi mantenere la lama d'acqua necessaria: circa 0,3 m di spessore. Nella risaia sommersa il profilo del terreno è caratterizzato da un sottile strato ossidato in corrispondenza dell'interfaccia suolo-acqua, al di sotto del quale il terreno si trova in condizioni fortemente riducenti. Il terreno deve essere sistemato in modo da rendere possibile l'uniforme distribuzione dell'acqua e un rapido prosciugamento per poter compiere le «asciutte» necessarie per certe operazioni colturali.
In base alla precocità le varietà italiane sono distinte in Precoci (maturano entro 150 giorni), Medie (maturano entro 155-165 giorni), Tardive (maturano entro 170-185 giorni, precocissime (140 giorni) e lampo (125 giorni), utilizzate per la coltura intercalare trapiantata, oggi scomparsa. Fin quasi la fine del XX secolo tutte le varietà di riso coltivate in Italia erano del tipo japonica. Nel giro di pochi anni il riso «indica» è entrato geneticamente nella risicoltura italiana.
Nei terreni acquitrinosi o a falda troppo superficiale, dove quella del riso è l'unica coltura fattibile, il riso succede a se stesso indefinitamente (risaia permanente) poiché è specie che tollera la coltura ripetuta anche se inconvenienti di natura parassitaria tendono a manifestarsi. Nella maggior parte delle zone risicole italiane la risaia si avvicenda, anche se con qualche difficoltà, con altre colture. Tra un riso e l'altro, ove possibile, si intercala una pianta da sovescio.
In Italia si riscontrano due modelli sistematori delle risaie, legati a differenze pedologiche, topografiche e di struttura fondiaria: uno è diffuso nella Val Padana occidentale (Piemonte e Lombardia), l'altro nella Val Padana orientale (province emiliane e venete). Nel primo caso (irrigazione a camere dipendenti) le aziende non sono molto estese e la pendenza dei terreni non è trascurabile per cui la superficie delle unità colturali, dette camere, sono modeste (2-3 ettari o meno); le camere sono delimitate da arginelli temporanei rifatti tutti gli anni. Per lo più le varie camere sono digradanti e l'acqua entra dalla bocchetta d'immissione posta a quota più elevata e passa successivamente nelle camere a quota più bassa. Nel caso, frequente in quest'area, che l'acqua dei fiumi alpini sia fredda, è necessario riscaldarla; a tal fine si predispone la caldana: una porzione della camera più alta viene sistemata con arginelli a pettine contrapposti che costringono l'acqua a fare un lungo percorso tortuoso, nel corso del quale l'acqua si riscalda prima di essere immessa nella risaia vera e propria. Nella risicoltura veneta ed emiliana i terreni sono già naturalmente quasi perfettamente piani per cui lo spianamento, poco impegnativo, consente di fare unità colturali, dette bacini, di grande estensione (10-12 ettari) delimitati da grandi argini funzionanti da capezzagne.
Nelle zone risicole nord-occidentali la lavorazione del terreno è preceduta dal rifacimento o dal ripristino (mediante il riporto e il costipamento di terra) degli arginelli. Gli attrezzi impiegati sono l'arginatore e il rullo per arginelli. Nella risicoltura delle province orientali, invece, non esistono arginelli, ma solo i grandi argini permanenti. La preparazione del terreno per il riso consiste in lavori eseguiti in inverno-primavera: aratura, affinamento, arginellatura, slottamento, livellamento, costipamento/intasamento.
Nella coltura del riso la scelta delle varietà da seminare è subordinata alle condizioni climatiche, temperatura dell'acqua, precessione colturale. Essa s'orienta di solito su due o tre tipi di riso che differiscono tra loro per la durata del ciclo di sviluppo e per le caratteristiche mercantili del prodotto: non conviene coltivare molte razze. Varietà precoci sono da preferire quando si debba liberare presto il terreno per la successiva semina del frumento, quando occorra distribuire nel tempo i lavori e quando le acque siano fredde.
La stagione di semina varia a seconda della temperatura dell'acqua, della coltura precedente, della precocità della varietà, ecc. In genere è compresa tra metà aprile e metà maggio, con varietà molto precoci fino alla fine di maggio.
Per avere un'emergenza soddisfacente occorre che la temperatura raggiunga i 12-14 °C. La quantità di risone che comunemente si usa va dai 150 ai 220 kg per ha; l'obiettivo è di realizzare un popolamento di 250-300 piante per m2. La semina viene preceduta dall'ammollamento che consiste nell'immersione in acqua per parecchie ore dei sacchi contenenti la semente, onde facilitare l'affondamento delle cariossidi al momento della semina e anticipare la germinazione e la nascita del riso. La semina su terreno asciutto (cui seguirà la sommersione dopo 20-35 giorni a riso già nato e con 2-3 foglie), semplifica il controllo delle infestanti. 
Il riso, oltre che direttamente in posto, può essere seminato in semenzaio per essere poi trapiantato. Il trapianto (completamente scomparso in Italia), è ancora molto seguito ai tropici perché fa guadagnare tempo, consentendo fino a tre raccolti all'anno, e fa risparmiare semente. Governo dell'acqua: la conduzione dell'irrigazione in risaia assicura alla coltura, nelle sue varie fasi, condizioni di temperatura, disponibilità di elementi nutritivi, controllo delle infestanti e di vari parassiti, richiede grande perizia in chi deve regolare i flussi di alimentazione e di scarico dei bacini. Non c'è una regola generale precisa Il consumo d'acqua nella risaia dipende da minore o maggiore permeabilità del terreno. 
L'urea è il concime azotato ideale per la risaia. La flora infestante delle risaie è caratteristica per avere come habitat ambienti palustri o saturi d'acqua, comprende specie diverse come: alghe, piante acquatiche (Potamogeton, eterantera); palustri (ciperacee, butomacee, alismatacee) e tolleranti gli ambienti umidi (giavoni e riso selvatico).
L'impiego generalizzato di diserbanti sulle colture di riso che si ripetono sullo stesso terreno anche per parecchi anni, ha dato luogo ad un progressivo e profondo cambiamento della flora infestante le risaie perché specie che in passato avevano importanza secondaria sono diventate dominanti in quanto resistenti ai diserbanti più diffusi. Ciò ha reso incessante la ricerca di nuove armi chimiche contro di le piante emergenti e immissione nell'acqua della risaia di ulteriori sostanze tossiche. Il controllo delle alghe (disalgo) nel primo sviluppo del riso si rende necessario per il feltro ch’esse formano con l'intreccio dei loro filamenti sul fondo della risaia o in superficie. Le alghe prevalenti nelle risaie sono quelle verdi e azzurre. Le alghe verdi formano un feltro galleggiante che ostacola l'emergenza dall'acqua delle piantine di riso, le cui foglie restano invischiate nel feltro algale trovando difficoltà ad uscire alla luce. Le seconde formano il loro feltro prima sul fondo, dove le plantule di riso stanno compiendo il loro primo sviluppo, per poi sollevarsi diventando galleggianti: in questo modo le plantule di riso vengono sradicate e portate in superficie dove tra l'altro le aspetta il rischio di essere spinte alla deriva dal vento e dal moto ondoso, finendo ammassate nella parte sottovento del campo. I giavoni comprendono parecchie graminacee del genere Echinochloa e sono le infestanti del riso più frequenti e invadenti, contro le quali è quasi sempre necessario intervenire perché bastano pochissime piante per metro quadro (6-7) per causare perdite di produzione gravi. Il riso selvatico o crodo, ha la caratteristica di disseminare la granella (crodatura) prestissimo, già dopo la maturazione lattea, determinando nel terreno una carica di piante di riso selvatico incontrollabile in mezzo al riso coltivato. Per entrambe queste specie la lotta si basa sulla tattica di fare una «finta semina» e ritardare la semina del riso per dar tempo ad esse di emergere e venir controllate.
Le avversità che il riso incontra sono meteoriche, il vento è dannoso quando, dando origine a moti ondosi, compromette il radicamento delle piantine, poi può essere causa di allettamento o sgranatura. Tra i parassiti che attaccano le piante nel periodo tra la germinazione e l'emergenza dall'acquavi sono i ditteri, larve del lecca­riso (Cricotopus spp.), che erodono i germinelli e le foglie sommerse o adagiate sull'acqua, la Hidrellia griseola, le cui larve provocano diradamenti minando il tessuto verde delle foglie delle giovani piante appena emerse dall'acqua. Si combattono indirettamente con asciutte. Il crostaceo Triops cancriformis (coppetta) Parassiti vegetali, il fungo (Piricularia oryzae) responsabile di una sindrome molto variata che prende nome di brusone che colpisce precocemente le foglie e di mal del nodo e di mal del colletto quando colpisce la pianta ai nodi o all'ultimo internodo. La diffusione della malattia è favorita da elevata umidità dell'aria durante o subito dopo la spigatura, da eccesso di azoto, da semine fitte, da abbassamenti bruschi di temperatura. L'impiego di varietà resistenti è il mezzo di prevenzione più efficace. l'elmintosporiosi (Helminthosporium oryzae) arreca danni gravissimi, fuori d'Italia, colpendo tutte le parti aeree della pianta. in tutti questi casi il rimedio migliore è l'adozione di varietà resistenti.
Il riso seminato in aprile giunge alla maturazione fisiologica in epoche diverse secondo la precocità della varietà: le precoci a settembre, le tardive alla fine di ottobre. La raccolta è preceduta dall'asciutta definitiva che si fa un paio di settimane avanti la maturazione per accelerare questa e rendere praticabile il terreno. La raccolta sia fatta con tempestività perché un ritardo aumenta le perdite per crodatura (o sgranellatura). Si può fare, come per il frumento, con il sistema della mietitura. La trebbiatura dei covoni veniva fatta con trebbiatrici fisse, sull'aia. Il prodotto che si ottiene dalla trebbiatura è il risone o riso vestito che ha sempre un'umidità alta (25% in media) che non permette di conservarlo o lavorarlo; perciò va sottoposto ad essiccazione. In passato si utilizzava il calore solare stendendo il riso sull'aia sebbene il decorso stagionale potesse ostacolare l'operazione. Oggi l'essiccazione artificiale avviene in essiccatoi ad aria calda sui 35-40 °C, subito dopo la raccolta e non oltre 15-20 ore da questa, pena la fermentazione.
Il riso uscito dall'essiccatoio subisce una pulitura per ventilazione e vagliatura onde liberarlo dai semi di altre piante e dalla granella vuota, immatura, ecc. Poi si immagazzina in attesa di essere ceduto all'industria.
Lavorazione del risone: il prodotto della trebbiatura è composto dalle cariossidi di riso ancora avvolte nelle glumelle. Scopo della lavorazione è staccare le giumelle e parte del pericarpo della cariosside insieme a parti proprie del seme, mediante una serie di operazioni: sbramatura (distacco e separazione dalla cariosside delle glumelle, che vanno a costituire la lolla), sbiancatura o raffinatura (si allontanano gli strati esterni del granello e l'embrione, o gemma, con ripetuti passaggi alle macchine). Il riso raffinato, bianco e conservabile, può subire altri trattamenti: oleatura o brillatura. Nel corso della lavorazione si ottengono successivamente questi prodotti.
- Riso greggio (cargo), privato della lolla, che conserva ancora pericarpo ed embrione.
- Riso sbramato speciale, cioè semigreggio, che ha subito una lavorazione incompleta alla sbiancatrice.
- Riso mercantile adatto al consumo, però non lavorato a fondo (due passaggi di sbiancatrice).
- Riso raffinato bianco passato 3-4 volte alla sbiancatrice che ha privato completamente la cariosside.
- Riso oleato, si ottiene oleando la superficie del riso raffinato con olio inodoro di lino o di vasellina.
- Riso brillato, preparato dal raffinato rendendolo brillante a seguito di lavorazione con talco e glucosio.
Il riso raffinato, oleato, brillato si usa nell'alimentazione umana; quello sbramato trova impiego nella fabbricazione della birra. Sistemi speciali di lavorazione migliorano lo rendono più resistente alla cottura (parboiling).  Da 100 kg di risone lavorato si ricavano 60-66 kg di raffinato. La lavorazione modifica notevolmente la composizione del riso, oltre che della lolla, la cariosside viene privata del pericarpo, del germe e dello strato aleuronico, perdendo quindi una notevole quantità di cellulosa, di sostanze minerali, di grassi e di sostanze proteiche. La paglia del riso trova usi analoghi a quella del frumento sebbene sia meno assorbente di questa, e viene anche destinata alla fabbricazione di cellulosa da carta.  Il riso è di sapore dolce e natura neutra-fresca, si rivolge allo Stomaco e Pancreas che tonifica e nutre, tonifica il qi, calma la sete, esercita effetto antidiarroico e leggermente diuretico

Orzo (Hordeum vulgare, Fam. Poaceae/Graminaceae tribus Triticeae). l'orzo comune, polistico e distico, uno tra i più antichi cereali coltivati in Europa come alimento per l'uomo, mangime zootecnico o produzione di bevande fermentate (birra). Protagonista assieme a frumento e la vite (vino). L'orzo è un complesso eterogeneo, caratterizzato da spighette sessili, disposte in più file lungo il rachide e riunite a gruppi di tre. Le spighette possono essere tutte fertili o, più frequentemente, una fertile compresa tra due sterili. La principale differenza tra le singole varietà d'orzo è data proprio dal numero di file di spighette fertili presenti in ogni spiga, che possono essere due (orzi distici), quattro (tetrastici) o sei (esastici). Altra distinzione di tre gruppi di varietà, in base alle esigenze colturali e adattamento alle condizioni locali: varietà invernali dotate di elevata resistenza al freddo; varietà primaverili, che non richiedono vernalizzazione e hanno debole risposta fotoperiodica (neutrodiurne) e varietà alternative, con fioritura rapida in condizioni di giorno lungo e inibita da giorno corto, dotate di buona resistenza al freddo, ma seminabili anche in primavera, si da rimediare a eventuali danni invernali con una risemina. Nel 2005 la produzione mondiale di orzo è stata di 137 milioni di tonnellate (International Grains Council), al quarto posto dopo frumento, riso e mais. Alimento base nel Medio Oriente, in Occidente è usato soprattutto nel settore zootecnico (50% della produzione) e per la produzione di birra e distillati (20%). Il centro di sua massima biodiversità colturale è oggi localizzato nell'Altipiano Etiopico, dove sono frammiste varietà distiche, polistiche e a spighe irregolari, con colore variabile nei lemmi (nero, bianco, violaceo) e nell'aleurone (bluastro, viola, nero). Nessuna delle forme coltivate sembra esistere in natura, tutte derivano dalla specie Hordeum spontaneum del Vicino Oriente. Tutte le cultivar d'orzo risultano completamente interfertili con l'orzo selvatico. Il genere Hordeum L. comprende circa una ventina di specie, alcune delle quali perenni, altre annuali, molte crescono spontanee anche in Italia, dove si comportano come pioniere in prati aridi a siccità estiva, sabbie marittime, incolti e margini di strada, più raramente come infestanti nei coltivi: le più comuni sono Hordeum secalinum, H. bulbosum, H. marinum, H. hystrix, H. murinum, leporinum; è inoltre segnalato come avventizio nel Veneto e in Trentino-Alto Adige H. jubatum, originario dell'America settentrionale e dell'Asia orientale e talvolta coltivato per ornamento per le grandi spighe lungamente ristate. L’orzo selvatico annuale è diploide (2n = 14) e autoimpollinantesi. Originario dell'Asia, il suo areale è stato artificialmente esteso fino al Nord Africa, alla Turchia occidentale, Creta, Cipro, Iraq, Iran. Hordeum vulgare, Orzo comune, è pianta annuale alta 50-150 cm, con culmi eretti e cavi. Foglie nastriformi, alterne, verdi o glauche, denticolate, con lunghe guaine, auricolate all'apice. Infiorescenza a spiga, molto variabile in forma e dimensioni, con spighette riunite in due serie di tre, le centrali sempre fertili, le laterali fertili o sterili. Cariosside 3 x 10 mm, con solco longitudinale da un lato. All'interno di questa specie possono essere comprese forme, da taluni considerate specie: Hordeum hexastichum (orzo maschio, con spighette tutte fertili e lungamente aristate, disposte in sei serie, originario dell'Africa nord-orientale e Asia occ.), Hordeum distichum (orzo francese o scandella, distico, con spiga lunga e sottile) e Hordeum zeocriton (orzo di Germania, distico, con reste a ventaglio divergenti dal rachide, originario dell'Abissinia). STORIA: L'addomesticamento dell'orzo avvenne probabilmente in Asia Minore attorno al 9000-10000 a. C. successivo all'ultimo periodo glaciale, il relativo miglioramento climatico rese disponibili numerosi habitat per i cereali spontanei, provocando una rapida variazione nelle abitudini alimentari delle popolazioni umane. I manufatti litici, che si erano mantenuti sostanzialmente inalterati per più di 10.000 anni, mostrano una rapida evoluzione che conferma l'aumentata importanza della raccolta dei cereali selvatici e l'affinarsi delle tecniche per la loro macinazione. La prima cultura ad aver lasciato evidenze archeologiche in merito alla raccolta e alla macinazione dei cereali fu quella Natufiana, studiata in decine di siti nella Valle del Giordano e databili tra il 9000 e l'8000 a. C. Poiché l'orzo si autoimpollina, le varietà coltivate si incrociano raramente con quelle selvatiche. Questo rende più facile la selezione di numerosissime cultivar, anche poco differenziate tra loro. Per la specie coltivata ai primordi dell'agricoltura, i reperti portano invariabilmente a Hordeum distichum. (6000 a. C. in Anatolia) che, grazie alla maggiore produttività, soppiantò rapidamente le altre forme. Gli orzi distici si mantennero soprattutto nelle aree originarie, diffondendosi solo localmente in Europa, dove prevalsero di gran lunga le forme tetrastiche ed esastiche. Come per altri cereali, una delle principali fasi della domesticazione fu l’acquisizione della persistenza del seme sul rachide. Infatti, nelle forme selvatiche le cariossidi si staccano spontaneamente dalla spiga non appena conclusa la maturazione, disperdendosi nel terreno. Questo fenomeno, di ovvio vantaggio per la disseminazione in condizioni naturali, è aggravato dal punto di vista colturale dalla scalarità della maturazione. Il carattere della rachide tenace è conseguenza di una sola mutazione recessiva, facile da isolare e propagare. La disposizione delle spighette in gruppi di tre, con le due esterne sessili, è un adattamento alla disseminazione ad opera di animali. Questa struttura permise di ottenere un aumento della produttività selezionando le mutazioni che provocavano la trasformazione delle cariossidi sterili in fertili. Le file di cariossidi, in origine solo due, divennero quattro o sei grazie a singole mutazioni geniche, anche queste recessive, seguite da selezione. Si ricorda che negli orzi tetrastici le file di spighette fertili sono sei, ma due di esse sono sovrapposte in modo da apparire una singola fila. Infine, vennero selezionate varietà mutiche per facilitare la pulizia dei chicchi e altre prive di dormienza invernale per permettere la semina primaverile.
L'orzo fu il cereale più importante nella progressione dell'agricoltura verso l'Europa. Nel Neolitico veniva coltivato in tutta Italia, assieme ai frumenti primitivi Triticum monococcum e T. dicoccum. Uno dei principali usi di questo cereale è il maltaggio per la produzione di birra. I cereali maltati venivano conservati sotto forma di pani non lievitati e cotti al forno, che venivano poi trattati con acqua prima di avviare la fermentazione. La coltura divenne ecologicamente bipolare: da un lato veniva praticata negli ambienti semiaridi dell'Asia sudoccidentale e del Mediterraneo orientale, dall'altra nelle valli alluvionali irrigue del Nilo, del Tigri e dell'Eufrate. Rispetto al frumento, che ha migliori qualità nutrizionali e panificabilità, l'orzo ha il vantaggio di essere più rustico e resistente ai climi aridi o freddi, pertanto maggior grado di diffusione nel mondo. Tra il 6° e il 5° millennio a. C. l'orzo divenne la principale coltura cerealicola dei paesi a clima freddo. La bassa Valle del Reno e il bacino del Mar Baltico ne furono interessate nel 4000 a. C., le Isole Britanniche e la Scandinavia nel 3000 a. C.. In questo stesso periodo iniziò anche la domesticazione di avena e segale, giunte in Europa come infestanti a seguito di orzo e frumento. Una seconda corrente migratoria aggiunse la Penisola Iberica attraverso l'Africa settentrionale, nel 4000 a. C. circa. Nei due millenni successivi la coltura dell'orzo si spinse verso l'Estremo Oriente, fino alla Cina e all'Arcipelago Giapponese. Nell'antichità, l'importanza dell'orzo come cereale era almeno pari a quella del frumento, soprattutto in Mesopotamia ed Egitto, divenne il cereale più economico e disponibile per le classi semplici e venne massicciamente diffuso durante la grave crisi agricola dovuta all'aumento della salinità dei terreni irrigui. In molte parti della Grecia l'orzo rimase a lungo il cereale più diffuso, soprattutto a causa della rocciosità e della scarsa fertilità del territorio montano. In Italia l'orzo, meno pregiato del frumento, venne progressivamente relegato nelle zone più marginali. Presso i Romani, l'orzo era il secondo cereale più coltivato, per erbai, pascoli e per la produzione di granella e di paglia; la produzione di granella arrivava a dieci volte la semente impiegata. Tuttavia, le classi abbienti dell'Italia centrale non lo consideravano un cibo degno, potendolo agevolmente sostituire con il più redditizio frumento per la panificazione e con la vite per la produzione di bevande fermentate. Se gli orzi distici erano impiegati nell'alimentazione delle classi inferiori, i tetrastici e gli esastici erano coltivati solo per uso zootecnico, per essere impiegati soprattutto in momenti particolari come gravidanza, parto, ingrasso e produzione di carne pregiata. Plinio, che correttamente considerava l'orzo il più antico cereale usato nell'alimentazione umana, notava come ai suoi tempi non servisse quasi più per fare il pane ma solo per l'alimentazione degli animali. Era ancora molto usato per preparare una salutare tisana e anche la farina serviva ormai quasi solo per usi medicamentosi. Il quadro varietale fornito da Plinio si limita alla constatazione dell'esistenza di orzi distici, tetrastici ed esastici ("alcune spighe hanno due file di grani, altre di più, fino a 6"), oppure alla descrizione di differenze qualitative nelle cariossidi: "più o meno allungate e leggere, o più corte, o più rotonde...". Meno parco di notizie è Columella, che mostra di non disprezzare l'uso alimentare dell'orzo, considerandolo comunque "più salutare del cattivo frumento" e utile soprattutto nei periodi di carestia, perché più adatto ai terreni asciutti. Tra le varietà, cita un esastico (Cantherinum, Cavallino), un distico (Galatico), che diventa, "mescolato al grano, ottimo cibo agli schiavi" (e soprattutto ai gladiatori, per questo chiamati hordearii). Ai tempi di Columella la selezione per la persistenza della granella non era ancora completa: la raccolta dell'orzo doveva ancora essere eseguita prima della maturazione completa, per evitare che i chicchi "non rivestiti di pula e sorretti da uno stelo fragilissimo" cadessero nel terreno. L'autore fa notare come questo cereale andasse piantato in terra "fertilissima oppure poverissima, perché si sa che da esso i campi vengono resi più magri, e per questo si pone o in un terreno tanto grasso che non possa nuocere alle sue sovrabbondanti risorse, o tanto magro che non si possa piantare niente altro". Nelle sue ultime fasi, l'Impero Romano adottò una politica agraria volta a favorire, in Italia, la coltura degli strategici cereali a spese dei tradizionali vite e olivo. Il ripetersi delle invasioni barbariche e la diffusione del pascolo portarono però a una profonda crisi di tutta la cerealicoltura, che comunque sopravvisse per poi rifiorire quasi ovunque al ritorno di una relativa pace in Europa. Nel Medio Evo l'orzo venne di nuovo coltivato nelle zone in cui non poteva essere coltivato il frumento e nelle zone in cui veniva consumata la birra. Nel Nord Europa, il pane d'orzo era l'alimento base dei poveri, contrapponendosi al pane di frumento consumato dalle classi ricche. Ancora nel 1800 l'orzo era uno dei cereali più coltivati nell'Europa centro-settentrionale, sia per la produzione di mangimi zootecnici che di birra; pertanto la selezione varietale ebbe in queste regioni risultati notevoli: l'inglese Maris Otter e la tedesca Perga saranno poi alla base del rilancio dell'ordeicoltura nel resto d'Europa.  In Italia, l'orzo era molto coltivato soprattutto al Sud, nei terreni poveri e aridi. In queste condizioni di sopravvivenza, la semente veniva prodotta localmente e tramandata di generazione in generazione, con il risultato di una pletora di tipi molto variabili e con media produttività. Nelle zone fertili del Veneto l'orzo fu sempre un cereale secondario, ma nei settori più difficili, come le Prealpi, le Alpi e l'alta pianura, poteva dare buoni risultati nei terreni poco fertili e ricchi di scheletro. Gli impieghi nell'alimentazione umana erano limitati alla preparazione di minestre, modesta panificazione e come surrogato del caffè, scopo per il quale l'orzo veniva talvolta coltivato appositamente in piccoli appezzamenti familiari, mentre il grosso della produzione veniva impiegato per uso zootecnico. In tempi recenti l'orzo è stato presente in pianura, a spese del frumento, per la sua maturazione precoce che gli permette di essere seguito dal mais o dalla soia in secondo raccolto. Nella produzione della birra, l'Italia, paese tradizionalmente viticolo, ha una tradizione molto recente, si diffuse dapprima al Nord, Piemonte, Lombardia e Veneto e più tardi nella penisola e nelle isole. La più antica birreria veneta, (Canale d'Agordo), che ha aperto attorno al 1847, causò la conversione di gran parte delle locali colture di patate in colture d'orzo; cessò l'attività negli anni Trenta del '900. Nel corso degli anni '70, la birreria venne acquisita dall'olandese Heineken e la sua storia industriale prosegue fino ai giorni nostri, nonostante crisi varie e gravi. A Padova, nel 19° secolo, iniziò a produrre birra la ditta Cappellari (Itala Pilsen), poi confluita nella Moretti di Udine. Nel Vicentino il settore ebbe uno sviluppo temporale breve ma tormentato. Il primo stabilimento fu costruito nel 1868 a Piovene-Rocchette, allo sbocco della Val d'Astico, da Pietro Rossi (parente dell'industriale laniero di Schio, Alessandro Rossi), con due caldaie di bollitura della capacità di circa 6 quintali.
Farro: Triticum dicoccum (Fam: Gramineae/Poaceae, tribù: Hordeae, Specie: Triticum spp). Conosciuto e coltivato nell'antico bacino del Mediterraneo. Ezechiele lo usava come uno degli ingredienti per il suo pane (Ezechiele 4:9). La farina di farro costituiva la base della dieta delle popolazioni latine. Il pane di farro veniva consumato congiuntamente dagli sposi nel rito della cumfarreatio, la forma più solenne di matrimonio dell'antica Roma.
Denomina tre specie diverse del genere Triticum, comunemente chiamate frumenti vestiti. Fino agli inizi del '900 la loro coltivazione era diffusa in alcune valli dell'Appennino e in diverse zone montane d'Italia; in seguito è quasi scomparsa. Caratteristiche comuni ai tre tipi sono la fragilità del rachide della spiga e l’aderenza delle glume e delle glumelle alla cariosside, in conseguenza delle quali durante la trebbiatura il rachide si disarticola facilmente liberando spighette intere contenenti cariossidi che rimangono avvolte (vestite) dagli involucri glumeali. Per ottenere la granella nuda è necessaria un’ulteriore lavorazione di svestitura, detta anche sbramatura o sgusciatura.
Da alcuni anni il farro è diventato oggetto di una forte ripresa di interesse, per un insieme di fattori legati alla riscoperta di cibi tipici e alternativi, a provvedimenti di politica agraria volti a diversificare gli indirizzi produttivi ed al recupero di aree marginali e svantaggiate attraverso forme di agricoltura ecocompatibili. Le più importanti aree italiane di coltivazione sono la Garfagnana (il farro della Garfagnana, ai piedi delle Alpi Apuane, in provincia di Lucca, ha ottenuto la certificazione di qualità IGP) e l'area umbro-laziale, (valle del Corno, Valnerina, altopiano di Leonessa e altri territori di confine tra la provincia di Rieti e l’Abruzzo).  
Il farro si adatta alle zone marginali dove grazie alla rusticità, alle modeste esigenze in fatto di fertilità dei terreni, alla resistenza al freddo e a caratteristiche morfologiche e fisiologiche, inadatte a sistemi colturali intensivi, come:
– forte potere di accestimento, che entro certi limiti, può consentire il recupero di una sufficiente fittezza delle colture nei casi di semine mal riuscite o di diradamenti dovuti ad eccessi termici invernali;
– ciclo di sviluppo tardivo, non compatibile con profili climatici meno piovosi e più caldi di quelli di collina e montagna;
– taglia alta della pianta, che in concorso con la tardività del ciclo ed il forte potere di accestimento conferisce elevata suscettibilità all’allettamento, avversità che la modesta fertilità del suolo degli ambienti marginali permette di contenere;
– cariosside vestita dagli involucri glumeali, valida protezione contro avversità biotiche e possibili alterazioni della granella causate dalla piovosità che di norma accompagna la granigione e la maturazione negli ambienti altocollinari.
Farro piccolo o gonococco, il meno produttivo dei tre farri, ha culmo sottile e debole, spiga distica, aristata, compressa lateralmente. Le spighette hanno glume consistenti (quella esterna è aristata; quella interna è membranosa), che racchiudono una, molto raramente due, cariossidi schiacciate lateralmente, a frattura semivitrea. Spiga e matura 10-20 giorni dopo le comuni varietà di frumento tenero, ciò che lo rende inadatto agli ambienti con precoce innalzamento delle temperature accompagnato da assenza di precipitazioni. La debolezza del culmo, unitamente all’elevata facoltà di accestimento ed alla tardività, lo rendono molto suscettibile all’allettamento. Le sue cariossidi però, hanno elevato contenuto in proteine e carotenoidi. E' il farro di più antica origine e coltivazione. Reperti fossili del suo progenitore selvatico, Triticum boeticum, ne indicano il centro principale di origine nelle aree montagnose dell’odierna Turchia; e risalgono al VII-VI millennio a.C.
Farro medio: presenta, come il farro piccolo, spiga compatta e ristata; discende per processo di domesticazione dalla specie selvatica T. dicoccoides, la cui area di diffusione è dal Mediterraneo fino al Caucaso. La domesticazione del dicoccum fu molto più rapida di quella del farro piccolo, fatto che è da collegare alla superiore produttività della prima specie, capace di formare due cariossidi per spighetta invece dell’unico seme caratteristico del T. monococcum. È il più importante e il più diffuso farro coltivato in Italia, tanto da essere considerato il farro per antonomasia. Più adattabile ad ambienti difficili, è la specie tipica delle aree tradizionali di coltivazione del farro dell’Italia centro-meridionale. Nell’ambito di tali areali la coltivazione e la riproduzione in loco da lunghissimo tempo dei medesimi genotipi hanno differenziato delle popolazioni autoctone (ecotipi) caratteristiche, e caratterizzanti, degli areali medesimi . Le particolarità caratterizzanti i tipi di farro dei vari ambienti riguardano soprattutto habitus di sviluppo e produttività e sue componenti più che la morfologia della pianta. Per quanto riguarda il primo carattere sono ad habitus di sviluppo nettamente autunnale i farri della Garfagnana e del Molise, che dimostrano elevate esigenze di freddo collegate al fenomeno della vernalizzazione. Sono pertanto tipi “non alternativi”, non adatti alla semina di fine inverno. La popolazione dell’Italia centrale, viceversa, si caratterizza per elevato grado di primaverilità: è dunque tipo “alternativo” idoneo a semine“marzuole” (fine inverno-inizio primavera), quali di norma sono realizzate sull’altopiano di Leonessa.
Farro grande: farro di origine più recente (due millenni più tardi di farro piccolo e medio), ha come progenitore, oltre la specie selvatica Aegilops squarrosa, il dicoccum coltivato. Il suo centro di origine è dal Mar Caspio all’Afghanistan. Possiede potenzialità produttive superiori al farro medio, che tuttavia possono esprimersi appieno solo in ambienti non troppo sfavorevoli. In situazioni pedoclimatiche difficili non risulta competitivo col farro medio, anche in conseguenza del più lungo ciclo di sviluppo. Non presente in Italia sotto forma di popolazioni autoctone, è disponibile in numerose varietà commerciali, selezionate in paesi centroeuropei.
La tecnica di coltivazione tradizionale è semplice, assente è l'impiego di prodotti chimici di sintesi come erbicidi e concimi azotati, di solito è sufficiente la fertilità lasciata dall'erba medica. Il farro ha infatti modeste esigenze in fatto di elementi nutritivi. Nelle aree tradizionali di coltivazione, non sono adottati regolari schemi di successione delle colture. La preparazione del letto di semina non è accurata come gli altri cereali vernini. L’attuale tendenza agronomica alla semplificazione delle lavorazioni, con un minor numero e intensità degli interventi, presenta aspetti di grande interesse anche nel caso della coltura del farro, per i vantaggi derivanti dalla riduzione del costo delle lavorazioni e contenimento dell’impatto ambientale. La semina, a spaglio, è di norma autunnale, salvo in ambienti ad altitudini elevate dove viene eseguita a fine inverno per evitare i rischi connessi con le temperature molto basse. La semina post-invernale può cadere da fine febbraio ad aprile inoltrato, a seconda delle condizioni locali. La quantità di seme vestito da impiegare è molto variabile (da 70 a 150 kg/ha), per un investimento non superiore a 150-200 cariossidi a metro quadrato. Il farro presenta una rapida crescita iniziale e un elevato accestimento, risultando quindi molto competitivo nei confronti delle infestanti.
Raccolta a partire da metà luglio fino a metà agosto, a seconda delle aree e del tipo di farro. A causa dell'elevata fragilità del rachide, Viene trebbiato lentamente, con le pannocchie raccolte in covoni legati da steli, deposti a terra i circolo e calpestati da asini od ovini. Le produzioni sono molto variabili: dai 28-30 quintali ad ettaro nei terreni di pianura ai 10-18 delle zone di montagna e marginali. La granella, di elevato valore alimentare, oggi è impiegata quasi esclusivamente nell'alimentazione umana, ma può essere impiegata anche nell'alimentazione zootecnica. Può essere impiegato pur nella panificazione (litofagi delle derrate: Tignola del grano delle derrate, Cappuccino del grano, Verme delle farine Tenebrio molitor, Calandra del grano e Acaro delle farine Acarus siro).
Il farro si trova in commercio in due forme: farro decorticato (farro normale) e il farro perlato. Il farrotto è un cereale "vestito", in quanto la glumetta, la pellicola esterna del chicco, ricca di fibre, è perfettamente aderente e quindi non viene eliminata. Il farro decorticato conserva la glumetta intatta, che viene invece eliminata nel farro perlato, che si presenta di colore molto più chiaro e cuoce in un tempo decisamente inferiore. La granella di farro brillata può essere ulteriormente macinata per la preparazione di paste, pane o biscotti. La farina di farro è utilizzata anche nell'industria dolciaria. Con la farina di farro si produce un ottimo pane, preferibile a quello di frumento integrale poiché a parità di fibre non ha il tipico sapore di crusca, ma si avvicina molto al sapore del pane bianco, anzi è addirittura più aromatico e per certi aspetti migliore. In cucina è utilizzato soprattutto come ingrediente di zuppe e minestre, ma si unisce molto bene coi legumi e le verdure, esaltando gusti e profumi. Ottimo per insalate fredde, risotti ai funghi porcini. Si abbina in maniera eccellente ai vini rossi.
Soia: Glycine max., ordine: Leguminose, Fam.: Papilionaceae, Tribù: Phaseoleae. Francese/spagnolo: Soya; Inglese: Soybean.
Pianta erbacea annuale estiva, originaria dell'Asia centro-orientale, interamente coperta di peli bruni o grigi, alta da 70 a 130 cm, a portamento eretto o cespuglioso. L'apparato radicale fittonante ha una media capacità di penetrazione nel terreno. Le radici sono colonizzate da uno specifico simbionte (Rhizobium japonicum). Le foglie sono trifogliate (unifogliate il primo paio). I fiori, riuniti in gruppi di 2-5 a formare delle infiorescenze, dette racemi, sono in posizione ascellare nelle varietà indeterminate (con accrescimento che continua anche dopo l'inizio della fioritura), mentre sono posti anche all'apice in quelle determinate (si ha l'arresto dello sviluppo quando compare all'apice un lungo racemo composto da diversi fiori). I fiori, di colore bianco o viola, sono caratterizzati da fecondazione autogama. Non tutti danno luogo a frutti fertili: si ha, infatti, una elevata percentuale di aborti. I frutti sono baccelli villosi, appiattiti, penduli, contenenti 3-4 semi. I frutti sono tondeggianti(ma anche ovale e più o meno appiattito), di colore giallo, bruno, verdognolo o nero, con ilo piccolo e poco marcato. I semi hanno un peso oscillante tra 50 e 450 mg (100-200 nelle cultivar da olio). L'olio e le proteine sono concentrati per la massima parte nei cotiledoni. Fino alla fine dell'Ottocento era coltivata solo in Cina. Nella seconda metà del XX secolo ha avuto un notevole sviluppo. Gli Stati Uniti sono il maggiore produttore mondiale. In Europa è coltivata in Francia e Italia per via della ricchezza dei semi in olio (18-20%) e proteine (40%).
Pianta originariamente brevidiurna (per fiorire ha bisogno di notti piuttosto lunghe); nelle varietà attualmente coltivate presenta comportamenti diversi nei confronti della luce, tanto che molte varietà precoci sono fotoindifferenti. Per quanto riguarda l'acqua, la soia consuma la metà dell'acqua rispetto al mais. Per il terreno la soia non ha particolari esigenze: sono sconsigliabili solo i terreni troppo umidi e quelli troppo sciolti. Per quanto riguarda il pH predilige terreni con pH 6,5. E' in grado di tollerare, senza apparenti riduzioni produttive, una moderata salinità.
Nell'avvicendamento la soia ha il ruolo di pianta miglioratrice della fertilità del suolo a ciclo primaverile-estivodopo l’ orzo, con semina entro metà giugno. La soia entra in simbiosi con un microrganismo azotofissatore specifico, Rhizobium japonicum, che nei terreni nuovi alla coltivazione della soia è assente. Per questo, quando si vuole coltivare la soia su un terreno che non l'ha mai ospitata, è indispensabile inoculare il seme con apposite colture microbiche. La semina viene fatta a righe distanti 40-45 cm con una quantità di seme atta a produrre 30-35 piante a metro quadrato alla raccolta per le varietà tardive e di circa 40 piante a metro quadrato per quelle in secondo raccolto. La soia, se normalmente nodulata, è in pratica autosufficiente per l'azoto.
La raccolta ha inizio quando la pianta è quasi completamente defogliata e presenta steli e semi di colore marrone. L'epoca di raccolta in Italia cade in settembre nel caso di coltura principale, in ottobre avanzato nel caso di coltura intercalare. L'umidità del seme alla raccolta deve essere intorno al 12-14%; se superiore è necessaria l'essiccazione. Per una buona conservazione il seme di soia, in quanto oleaginoso, deve essere immagazzinato con un'umidità del 10-12%. Prodotti tradizionali orientali derivanti dal seme intero
- Latte di soia: prodotto tradizionale asiatico ottenuto da seme macinato, estratto a caldo in acqua e bollito.
- Tofu o formaggio di soia: latte di soia coagulato con sali di magnesio o aceto; l'umidità varia per preparazioni e stagionatura;
- Tempeh: seme decorticato, bollito in acqua e fermentato per 24-48 ore da un fungo (gen. Rhizopus); si hanno forme che vengono affettate e fritte.
- Prodotti fermentati (salse e bevande), tipici della cucina orientale.
- Le varietà a seme piccolo forniscono, se fatte germinare, i germogli di soia, consumati come ortaggio fresco.

Cicerchia: è una leguminose da granella originaria del bacino del Mediterraneo, di antichissima coltura, ma limitata a causa della cattiva qualità alimentare dei suoi semi, che producono una sindrome neurotossica (latinismo), con convulsioni e paralisi, se consumata in grande quantità dagli uomini o dagli animali. Pianta annuale, ramificata, a portamento semiprostrato, con steli glabri, glauchi, caratteristicamente alati; le foglie sono alterne, costituite da un picciolo alato portante un paio di foglioline ellittiche, oblunghe e un cirro semplice o ramificato, molto lungo; i fiori sono singoli e dopo la fecondazione, che è autogamia, formano un baccello compresso contenente da 2 a 5 semi; i semi sono schiacciati, piuttosto angolosi, di colore bianco o bruno marezzato, di 4-6 mm di diametro e di circa 270 mg di peso.  È pianta microterma che ha esigenze termiche intermedie tra quelle della lenticchia e quelle del cece. Si adatta ai terreni anche molto magri e ciottolosi, purché non soggetti a ristagni d’acqua. Si semina per lo più in autunno per essere raccolta in giugno-luglio. La sua estrema rusticità consente a questa pianta di dare produzioni superiori a quelle di altre leguminose, ad esempio della lenticchia, in ambienti molto magri e avversi. Può essere danneggiata dai venti caldi e dall'eccessivo calore, ai quali va spesso attribuito lo striminzimento dei semi. Nocivi alla coltura risultano anche i tonchi e Afidi vari

Cece: non esiste allo stato selvatico, ma solo coltivato. La regione di origine è l’Asia occidentale da cui si è diffuso in India, in Africa e in Europa in tempi molto remoti: era conosciuto dagli antichi Egizi, Ebrei e Greci.
Il cece è la terza leguminose da granella per importanza mondiale, dopo il fagiolo e il pisello. La superficie coltivata nel mondo è di circa 11 milioni di ettari. La maggior parte del prodotto è consumata localmente. I semi secchi del cece sono un ottimo alimento per l’uomo, ricco di proteine (15-25%) di qualità alimentare tra le migliori entro le leguminose da granella. In Italia la superficie a cece è scesa a meno di 3.500 ettari, quasi tutti localizzati nelle regioni meridionali e insulari. pianta annuale, con radice ramificata, profonda (fino a 1,20 m), il che la rende assai aridoresistente; gli steli sono ramificati, eretti o semiprostrati, lunghi da 0,40 a 0,60 m; le foglie sono composte, imparipennate, con 6-7 paia di foglioline ellittiche denticolate sui bordi, i fiori sono generalmente bianchi, per lo più solitari, dopo la fecondazione del fiore, che è autogamia, si forma un legume ovato oblungo, contenente 1 o talora 2 semi. Tutta la pianta è verde grigiastra e pubescente per la presenza su tutti gli organi di fitti peli ghiandolari che secernono una soluzione acida per presenza di acido malico e ossalico. I semi sono rotondeggianti e lisci in certi tipi, rugosi, angolosi e rostrati (“a testa di ariete”) in altri, il colore più comune è il giallo, ma ci sono ceci con tegumento seminale rosso o marrone. Le dimensioni dei semi sono determinanti del pregio commerciale dei ceci: esistono varietà a seme grosso e varietà a seme piccolo; certi mercati (Italia, Spagna e Nord-Africa, dove questo legume è consumato intero) accettano solo ceci a seme grosso, apprezzandoli tanto più quanto più grosso è il seme, su altri mercati (Medio Oriente, Iran, India) prevalgono i ceci a semi piccoli, che trovano impiego in preparazioni alimentari che ne prevedono la sfarinatura. Germina con sufficiente prontezza con temperature di circa 10 °C. la germinazione è ipogea e le plantule non hanno particolari difficoltà ad emergere dal terreno. Resiste al freddo meno della fava tant’è che in tutto il bacino del mediterraneo il cece si semina a fine inverno e si raccoglie in luglio-agosto, mentre solo nei Paesi a inverno molto mite (India, Egitto, Messico) l’epoca di semina è l’autunno. Il cece è una pianta a sviluppo indeterminato, che incomincia a fiorire a partire dai nodi bassi e la cui fioritura prosegue per alcune settimane. L’allegagione in genere è piuttosto bassa: per cause varie (alta temperatura o alta umidità o attacchi crittogamici) è normale che quote assai forti di fiori abortiscano. Pianta assai rustica, adatta al clima caldo-arido, perché resiste assai bene alla siccità mentre non tollera l’umidità eccessiva.
Per quanto riguarda il terreno il cece rifugge da quelli molto fertili, dove allega male, e soprattutto da quelli argillosi e di cattiva struttura, quindi asfittici e soggetti a ristagni d’acqua. I terreni più adatti sono quelli di medio impasto o leggeri, purché profondi, dove il cece può manifestare appieno la sua caratteristica resistenza alla siccità. Il cece ha un basso livello di tolleranza alla salinità del terreno. Nei terreni molto ricchi di calcare i ceci risultano di difficile cottura. La raccolta del cece si fa estirpando le piante a mano e lasciandole completare l’essiccazione in campo in mannelli; la sgranatura fatta a mano. La paglia di cece non è apprezzata come foraggio così come lo è quella di altre leguminose.

 

Fava e favino: La raccolta dei baccelli di fava da orto per consumo fresco si fa a mano. La raccolta dei semi secchi si fa quando la pianta è completamente secca. L’epoca di raccolta è la metà di giugno nell’Italia meridionale, la fine di giugno in quella centrale, la metà di luglio nell’Italia settentrionale con semina primaverile. Produzioni medie più frequenti in Italia, con alti rischi di avere in certi anni rese anche assai inferiori a causa di fattori non o mal controllati dall’uomo (freddo, siccità, attacchi di ruggini o di afidi, virosi).
La produzione di baccelli per il consumo fresco (fava da orto) è dell’ordine di 20-30 t/ha. La produzione di semi freschi per l’industria è considerata buona quando giunge a 5-6 t/ha. I semi di fava secchi hanno un alto contenuto proteico: la loro composizione media è infatti la seguente: sostanza secca 85%, sostanze azotate 23-26%, ceneri 3%, grassi 1,2%, fibra grezza 7%, estrattivi in azotati 48%.

Cavolo: Conosciuto fin dall'antichità il cavolo (Brassica oleracea - fam. crucifere) era considerato sacro dai Greci; i Romani lo utilizzavano per curare le più svariate malattie e lo mangiavano crudo. Presso le popolazioni marinare il cavolo (insieme alla cipolla) era l'alimento tipico degli equipaggi delle navi, utilizzato per compensare le diete necessariamente povere durante i viaggi per mare (contro lo scorbuto). Tempo balsamico da dicembre a marzo.
Azione farmacologica: é una delle verdure più "benefiche": rinforza le difese immunitarie, ha una funzione preventiva nei confronti di molti tumori. Le sue foglie ed in particolare quelle esterne è bene mangiarle in insalata, affinché non perdano le loro prerogative. Esse contengono una buona quantità di vitamine A- B1- B2- C- K- ed U (una delle ultime vitamine arrivate, con la funzione di combattere l'ulcera gastrica, l'ulcera duodenale e le ulcere intestinali), zolfo, ferro, calcio, fosforo, potassio, e magnesio. Il cavolo svolge anche una funzione depurativa dell'organismo, poiché partecipa all'eliminazione dei residui e dei veleni che causano o mantengono una malattia. Inoltre favorisce le cicatrizzazioni prevenendo ogni conseguenza. Per uso esterno è vulnerario (cicatrizzante delle ferite). Per quanto riguarda invece l'uso interno il cavolo ha proprietà nutritive: è antianemico, rivitalizzante ed autoimmunizzante. E' molto utile contro bronchiti, coliti, congiuntivite, contusioni, sinusite, diabete, diarree e dissenterie, dolori gastrici ed intestinali, dolori muscolari e reumatici e influenza. La cottura distrugge la vitamina U: è quindi opportuno consumare il cavolo sotto forma di succo fresco, poiché sembra che la sua azione sia minore quando viene preparato molto tempo prima del consumo. Si può anche preparare il cavolo a strisce sottili, come antipasto crudo. Occorre rilevare inoltre che, contrariamente a tenaci pregiudizi, il cavolo si rivela estremamente prezioso per lo stomaco e l'intestino, sia che venga utilizzato come succo o crudo come antipasto o ancora cotto a stufato. E' tollerato da tutti gli organismi. La ricchezza del cavolo in zolfo, arsenico, calcio, fosforo, rame, iodio può spiegare le sue virtù digestive, rimineralizzanti e ricostituente cerebrale (1 kg di cavolo da un apporto di 2,5 gr di fosforo). Infine grazie al suo contenuto di vitamina B1, è un fattore di equilibrio nervoso. Sciacqui con il succo di cavolo curano l'afonia. Sempre con il succo si cura la sordità. Il più salutare è quello rosso da consumare crudo, in caso di intolleranza anche cotto. 

Senape selvatica: (sinapsis arvensis o brassica arvensis) piante erbacea annuale polimorfa, originaria dell'Europa, Infestante di colture erbacee ed arboree e degli incolti, ruderi; da 0 a 1.400 m. Costituisce ciuffi di fusti sottili, rigidi, eretti o ascendenti, striati e ramosi (altezza sino a 120 cm) che portano numerose foglie di colore verde scuro, opache, sessili, ovali allungate, dentate, lunghe fino a 15-20 cm; da maggio a settembre all'apice dei fusti sbocciano numerosi piccoli fiorellini di colore giallo vivo a simmetria dimera; in autunno i fiori lasciano spazio ai frutti: lunghi baccelli contenenti piccoli semi scuri. S. alba è molto simile, ma produce baccelli più corti con semi gialli. Con i semi della Senape si preparano ottime salse utilizzate per accompagnare piatti di carne e di verdure; le foglie si possono consumare cotte ed hanno un sapore simile agli spinaci; i semi appena germinati si consumano in insalata. la Senape ama zone molto soleggiate, muore all'arrivo dei freddi, va quindi posta a dimora all'inizio della primavera, per raccogliere i semi alla fine dell'estate; i piccoli semi si possono conservare subito, oppure vanno conservati in contenitori ermetici dopo averli fatti ben seccare. Cugine: Sinapis alba cresce negli stessi ambienti, ma si differenzia per i frutti pubescenti e per i semi di colore giallastro. (coltivata per la produzione della senape bianca).
Per uso esterno la Senape è indicata in caso di reumatismi e affezzioni delle vie respiratorie, indicata anche per pediluvi. Le foglie giovani, possono essere utilizzate come condimento per insalate a cui aggiungono un sapore piccante, oppure possono essere bollite e utilizzate come gli spinaci. Le cime apicali, prima della fioritura, possono essere cucinate come i broccoli, di cui ricordano anche il sapore. I semi contenuti nelle silique, la rendono appetibile ai più comuni uccelli granivori, per i quali rappresenta un ottimo alimento. Dai semi è possibile ricavare un olio commestibile, impiegato anche nella fabbricazione di sapone. Buona mellifera.
Piedi freddi? Pestate i semi di Senape e distribuiteli nelle calze!!!

Cardo: (Cynara cardunculus) ortaggio simile al carciofo (anche detto carciofo selvatico, caglio, cardo spinoso). Del cardo si consumano le coste, che vanno cucinate e consumate subito dopo averle pulite. Prima della cottura è consigliabile lessare i cardi in acqua con il succo di mezzo limone; in questo modo si evita che le coste anneriscano. Giunge a maturazione in inverno, ed è in questa stagione che viene consumato soprattutto in Piemonte
Cardo Mariano: (Silybum Marianum Gaertn, fam. compositae), esistono molte varietà di cardi, ma quello mariano, sembra derivare il suo nome dal greco “ardis” che significa punta dello strale, alludendo con ciò alle numerose spine che ha la pianta. Un’antica leggenda associa il cardo al pastore siciliano Dafne, caro a Pan e Diana, alla cui morte la terra, per esprimere il suo dolore, fece nascere la pianta e le sue spine. Nella tradizione ariana il cardo era sacro a Thor, dio della guerra e dei fulmini, mentre nella leggenda teutonica portava disgrazia ai malfattori. Secondo la tradizione cristiana si vuole che le macchie bianche delle foglie siano rimaste a testimonianza delle gocce di latte cadute dal seno di Maria (da cui mariano), mentre fuggiva in Egitto per sottrarre Gesù alla persecuzione di Erode. Simbolo della casa reale degli Stuart, fu anche simbolo della Scozia, perché secondo una leggenda, durante il regno di Malcom, i Danesi, giunti furtivamente di notte, mentre tentavano di attraversare il fossato per assalire il castello, lo trovarono secco e pieno di cardi, così che le imprecazioni e le grida di dolore dei soldati punti dalla pianta fecero svegliare gli scozzesi i quali furono in grado di respingere gli invasori.
È un’erba bienne, robusta a fusto eretto i cui rami sono ricoperti da una peluria ragnatelosa. L’altezza è variabile da 30 cm. a 1,5 mt.; tutte le foglie hanno la superficie vistosamente variegato-reticolata e ampie macchie bianche che spiccano su un fondo verde, lucido, con il margine a lobi ovali e triangolari che terminano con spine giallastre. I capolini sono grandi e porporini, raramente bianchi, l’involucro è costituito da squame foliacee, quelle esterne prolungate in un apice scanalato. Frutti ad achenio, obovati compressi, lisci e glabri; pappo pluriseriato composto da setole denticolate caduche. Cresce nei rudereti, negli incolti, ai margini di campi abbandonati e ai bordi di strade campestri, zone di scarico di rifiuti, da 0 a 1100 metri s.l.m.
L’epoca di fioritura è Luglio –Agosto. 
Castore Durante ci riferisce che “la radice cotta provoca i mestrui e favorisce la moltiplicazione del latte”; Mattioli lo propone nel mal di denti e nelle nevralgie intercostali. Molto sfruttato nel periodo rinascimentale, è stato poi dimenticato e giudicato persino inutile. Rademacher però nel 1855 intravide nei semi la possibilità di trattare le malattie del fegato ed in particolare quelle venose.
Parti Usate: Foglie, radici, semi (Fructus Cardui Mariae). Il principio attivo fondamentale è la Silimarina (la silimarina ripristina la cellula epatica, proteggendola e curandola), appartenente al gruppo dei flavonolignani (silibina, silidianina, silicristina), paraossifenil etilamina, tiramina, tracce di inulina, mucillagini, tannini catechici. Pianta a tropismo epatobiliare e renale tale da considerarsi di primissimo piano nel drenaggio di questi due importanti filtri. I flavonolignani possiedono proprietà moderatamente antipiretiche e simpaticolitiche. Il frutto migliora la circolazione addominale, è utile nelle emorragie uterine e nelle turbe mestruali. Si utilizza anche come principio amaro coleretico e contro i calcoli biliari. La tiramina è ipertensiva. Le radici sono emmenagoghe e diuretiche, i semi ipertensori e colagoghi, utili nel trattamento di varici ed ulcere varicose. È utile nella litiasi biliare, stipsi, angiocolite cronica, insufficienza epatica, obesità, cellulite, gotta, ipercolesterolemia, varici, reumatismi cronici degenerativi, acne, insufficienza renale, iperuricemia, iperazotemia, oliguria, herpes, eczema, scorbuto, piorrea, ipocondria, ipertensione portale, ipertensione arteriosa.
Uso interno: foglie e radici in infusione o estratto fluido. Uso esterno: il succo lattigginoso e biancastro è usato in collirio e contro le verruche. Si sconsiglia l’uso dei semi ai pazienti ipertesi per le ben note proprietà ipetensive. Il miele di Cardo: in Sardegna (per l'abbondanza di cardi selvatici nelle zone agricole abbandonate) e' uno dei tipi di miele più prodotti; ha sapore decisamente forte e aroma vagamente speziato; il suo profumo intenso ricorda quello dei fiori della campagna mediterranea. Invece il miele di macchia mediterranea e' il millefiori tipico delle zone montagnose della Sardegna, dove le fioriture spontanee di Erica Arborea, Lavandula, Asfodelo, Cisto, Rosmarino ed uno svariato numero di cardi selvatici, danno origine ad un mix sempre nuovo ed intrigante. Il suo sapore cambia di anno in anno, rimanendo, però, sempre legato ad un certo aroma, che gli permette di essere riconosciuto in mezzo alle numerosissime specie di millefiori degli altri paesi. Se il miele e' più ricco di lavandula avrà un sapore più morbido ed un aroma balsamico, se predominano il cardo, l'aroma più speziato.

Temperature minime per gli ortaggi
a partire da 5 °C: barbabietola, carota, cavolo cinese, piselli
a partire da 7 °C: fava, broccoli
a partire da 10 °C: bietole, sedano, cipolla, porri, cavolfiori, lattughe,m prezzemolo
a partire da 13 °C: crescione, carciofi, ravanelli, soia
a partire da 15 °C: cavolo rapa, cavolo verza, spinaci, tarassaco, patate, rafano, scorzanera
a partire da 16 °C: cicoria, fragole
a partire da 17 °C: cardi, zucchine
a partire da 20 °C: peperoni, zucche, cetriolo, fagioli, peperoncino, girasole
a partire da 25 °C: pomodori, melanzana, mais, meloni, anguria
l’orto sinergico si risemina da solo. Ne manderemo alcuni in seme, però necessitando di impollinazione giusta, nell’orto ospiteremo fiori e piante indigene per attrarre gli insetti impollinatori. Alla raccolta, gli ortaggi non verranno mai sradicati, ma tagliati al piede dando la possibilità di ricacciare dal ceppo radicale, sebbene meno belli, saranno sempre molto saporiti

erbe spontanee odorose commestibili  se ti nutrirai del cibo della terra, tu diventerai quella terra…" "... i contadini non producono il cibo della vita. Soltanto la natura ha la capacità di creare qualcosa dal nulla e gli agricoltori possono esclusivamente farle da assistenti..." Masanobu Fukuoka *
Sperimentarsi con la Terra è istinto primordiale, malattia del sangue, che ti fa cercare sempre quella relazione perduta con l’aspetto primitivo, animale di noi stessi, con il contatto dei piedi, del corpo con l’erba, così come noi facevamo da bambini e antenati. E’ la ricerca di un’armonia da ristabilire, spezzata ma ardentemente ricercata, con ciò che ci circonda nonostante i tentativi di cementificazione, con ciò che esce da ogni regola e previsione e vive, gioca una esistenza a sé: la Natura. E’ desiderio di un ritorno ad una autonomia che è sussistenza e libertà: di pensiero, di nutrimento, di essere soggetto della propria vita e non solo oggetto. Infine è il desiderio di costruire un ponte nuovo, ripristinare quel legame con lo Spirito delle cose, della Vita intesa come manifestazione e presenza del Divino.In questa ricerca dello Spirito, la Terra gioca la parte primaria, come manifestazione tangibile della bellezza delle leggi divine e si offre a noi, con grande umiltà, affinché possiamo perfino calpestarla e da questa relazione, imparare.
(Ferrante Cappelletti “Dalle erbe la salute Piante medicinali dell'arco alpino” Publilux Trento 1977) Fitoalimurgia (Ottaviano Targioni Tozzetti, 1767), è l’arte di alimentarsi con ciò che la natura offre spontaneamente in ogni stagione così come praticato da sempre nelle società di caccia e raccolta. Alimurgia: urgenza alimentare spontanea stagionale. A primavera le parti giovani delle piante hanno alto contenuto di fitormoni (auxine e principi attivi con azione drenante/depurativa) concentrati negli apici e nelle gemme quali tessuti meristematici da cui sviluppano le altre parti della pianta. L’alimentazione è un fatto culturale e i condizionamenti, stereotipi e ignoranza da oblio, portano a ignorare e a disprezzare ciò che la natura ci mette a disposizione per alimentarci (sapori dolci, amari, piccanti ecc.) vantaggi della fitoalimurgia: • energeticamente economica: le piante si seminano e crescono da sole, spesso togliendole si pulisce in contemporanea il prato, il giardino e l’orto, riempire il frigo senza svuotare il portafoglio; • le piante spontanee crescono in perfetta armonia con l’ecosistema che le ospita pertanto sono molto più ricche di elementi (spesso sono piccole di stazza pertanto contengono dosi “concentrate” di nutrimento e non di rado hanno sapori forti), pertanto son alimento ideale, donan molta energia in poco cibo.
• raccogliete solo le piante di cui siete sicuri di aver riconosciuto la specie e assaggiatene sempre prima modiche quantità per verificare eventuali allergie o intolleranze. Non preoccupatevi: se siete tranquilli e attenti le piante si faranno riconoscere da sé ed è difficile sbagliare!

Raccontare quante meraviglie nascono spontaneamente in campagna e sono lì, a disposizione di tutti quelli che abbiano il giusto atteggiamento di curiosità e di rispetto per la terra. Un tempo le erbe selvatiche contribuivano a sfamare intere famiglie. Le erbe spontanee odorose commestibili, sia crude che cotte, usate intere, o a seconda delle proprietà contenute nelle loro varie parti (radici, foglie e fiori), sono ingredienti di molti piatti legati alla tradizione; abbinando ad esempio le foglie di primula con rapanelli e lattuga e per ottenere i ripieni unendo ortica, borragine, lattuga e farinello, o ortica, parietaria e malva; luppolo, ortica e agliaria o bardana, malva e farinello. Per ciascuna varietà c'è un utilizzo specifico (crudi, bolliti, stufati, in torte salate, ecc.) e un tempo di raccolta. Alcuni vanno raccolti in pieno inverno, altri tra inverno e primavera, altri in primavera, altri prima che facciano il fiore. Il vero problema è saperli conoscere. Non hanno mercato, e quindi commercialmente non creano interesse. A parte i pochi contadini all'antica e alcune persone oculate, che ne apprezzano le inconfondibili caratteristiche di gusto, è realmente difficile trovare qualcuno che li apprezzi e li utilizzi in cucina. Ci si può imbattere in una pianta chiamata cicerbita (da raccogliere, come quasi tutte le erbe selvatiche, all'attaccatura della radice, nel periodo che va da ottobre a febbraio), utilizzabile sia cruda (purché tenera) sia bollita e condita con olio e limone oppure stufata con spezzati di maiale.
In collina, negli oliveti, si trovano tra ottobre e febbraio i gratinepoli, eccezionali in insalata: delicatissimi e per niente amari, dal gusto davvero elegante. Il profumatissimo finocchio selvatico, con i cui germogli più teneri fare ad esempio la zuppa.
Negli oliveti incolti, a marzo si trovano i prelibati asparagi selvatici, migliori dei coltivati, più raffinati e saporiti. Molto più esili e sottili, difficili da individuare e da raccogliere perché crescono tra rovi e cespugli (nel cercarli non bisogna dimenticare di fare intenzione a eventuali spiacevoli incontri con le vipere, che in questi periodi si risvegliano dal letargo). Il massimo gli asparagi selvatici lo danno col risotto (col vialone nano il connubio è perfetto). Il trucco sta nel non buttare niente: la parte terminale dell'asparago va nel risotto, mentre con le parti del gambo più dure si fa preventivamente il brodo per cuocere il riso. Il risultato è di una delicatezza e di un sapore impagabili.
Il radicchio selvatico, nelle varianti comune e bianco è buona tra ottobre e febbraio; il suo gusto amarognolo fa sì che sia consigliabile mangiarla mischiata con altre erbe. In estate il radicchio comune fa dei fiori blu meravigliosi, mentre la sua variante detta radicchio bianco fa i fiori gialli.
Acetosa: o acetosella Fam. Ossidalaceae) erba spontanea acidula, viene mangiata per calmare la sete e se utilizzata in insalata riduce la quantità di aceto da usare. Si cuoce come gli spinaci, buttando via la prima acqua di cottura.
Oxalis acetosella deriva l’etimo dal greco oxys = acuto, pungente e da hals = sale, per il sapore acidulo che ricorda l'aceto. L'Acetosella è pianta erbacea perenne, rizomatosa, alta 8-15 cm. molto comune in Europa, Asia e Nordamerica. In italia è frequente in tutta la penisola, eccetto le zone litoranee e nelle isole. Cresce nei boschi ombrosi, ricchi d’humus, dal piano ai 2.000 metri. Ha foglie trilobate, portate da un picciolo arrossato, simili a quelle del trifoglio. Col tempo piovoso si contraggono piegandosi verso il basso, assumendo l'aspetto di un piccolo ombrello. I petali e le foglie si chiudono nelle ore nottune. Il fiore è unico sullo stelo e compare ad aprile-maggio con petali bianchi o rosati, solcati da sottili venature violette. Il frutto è una capsula allungata provvista di un sistema per diffondere i semi: questi, immersi in una massa mucillagginosa, vengono sospinti attraverso una fessura che, essendo stretta ed elastica, si contrae bruscamente proiettandoli lontano con un effetto "esplosivo". Sotto la piantina striscia un fusticino sotterraneo, che si divide formando una fitta rete negli strati superficiali del suolo.
Assaggiando le foglie si percepisce subito un gusto acidulo dovuto alla presenza notevole di acido ossalico (anche più dell'1%). Ciò comporta un uso attento della pianta, che se ingerita in quantità notevoli risulta dannosa all'attività renale e può persino causare la morte. L'acetosella è nota da tempo per le sue numerose proprietà, che però si perdono in gran parte con l'essiccazione. In campo alimentare, dal Medioevo e ancora oggi, viene usata per insaporire le insalate. Si combina con altre essenze selvatiche in salse di vario uso. Dalle foglie si ricava anche un infuso depurativo e una bevanda dissetante simile alla limonata, mentre consumate crude calmano la sete in caso di mancanza d'acqua e disinfettano le piccole ulcere del cavo orale. Le foglie sono diuretiche, decongestionanti, depurative, astringenti, rinfrescanti, febbrifughe. Tutta la pianta contiene acido ascorbico, biossalato di potassio, vitamina C, mucillagine, ciò la rende controindicata per chi soffre di disturbi gastrici, intestinali, epatici, calcoli renali e biliari e gotta. Usata esternamente serviva a preparare rimedi per pelli arrossate e infiammate, dato il suo potere decongestionante, mentre nella pratica quotidiana serviva a pulire oggetti di rame, bronzo e cuoio; il "sale di acetosa", ora ottenuto industrialmente, un tempo veniva preparato dai droghieri con l'acido ossalico contenuto nella pianta. Era usata anche per smacchiare la biancheria da ruggine e inchiostro, nonché come mordente per i colori e disincrostante per i radiatori delle automobili
Agliaria: ha le foglie cuoriformi, se strizzate sprigionano un profumo d'aglio, perciò è adatta per arricchire e insaporire insalate, verdure e funghi come, ad esempio, le spugnole.
Balsamite: erba spontanea comunemente conosciuta come erba San Pietro o erba amara, cresce nei prati di zone collinari e pianeggianti, nelle boscaglie umide, nel greto dei fiumi o in luoghi incolti. In cucina vengono usate le foglie per preparare aromatici tè, digestivi e anche sedativi. E' uso molto comune aggiungere alcune foglie di questa pianta nelle frittate o nelle zuppe.
Bardana: fin dall'antichità la bardana ha fama di pianta medicinale che non si è mai smentita attraverso i secoli. I giovani getti lessati si consumano come asparagi conditi con olio aceto e sale. Le radici, dopo essere state lessate e private delle fibre più dure, si mangiano in insalata. I ragazzi, durante le loro passeggiate in campagna, raccoglievano i capolini dei fiori muniti di piccoli uncini per utilizzarli come proiettili nel gioco della guerra.
Borragine: pianta mellifera, ha un aspetto ruvido e peloso e può essere avvolta da una peluria bianca. cresce spontanea nelle campagne, ha foglia lanceolata e grandi fiori azzurri, si mangia in insalata o in ingrediente di ripieni o frittelle, se raccolte tra ottobre e marzo, sono gustosissime per preparare ad esempio una zuppa di lenticchie e borragine. I suoi fiori sono aggiunti alle insalate o per decorare i formaggi freschi. La rigidità dei peli svanisce per effetto dell’aceto. Le stesse foglie, come pure le cime, vengono consumate lessate e poi condite con olio e limone oppure saltate al burro, strascicate con olio e limone o anche passate al setaccio sottoforma di purè verde. In minestra, per le loro proprietà emollienti, sono buoni succedanei degli spinaci. Già gli Etruschi consigliavano l’uso della Borragine in diverse pietanze per il particolare gusto che ricorda quello del cetriolo. In Toscana, le foglie lessate e mescolate a quelle della cicoria e ai semi del finocchio costituiscono un caratteristico piatto regionale, la zuppa frantoiana. Nella cucina ligure L’erbaggio viene usato per preparare l’impasto delle tipiche lasagne verdi. Vari aceti aromatici assumono un bel colore turchino per aggiunta dei suoi fiori. Nel territorio etneo, è usata sia come piatto di verdura, lessata in poca acqua e condita con olio, sia come ingrediente di minestre o zuppe, fra cui principalmente quella di lenticchie. All’impiego culinario della Borragine si attribuisce, oltre al potere nutritivo, anche valenza curativa in quanto la pianta possiede una buona quantità di mucillagini ad azione antinfiammatoria e rinfrescante. Della Borragine si utilizzano pure i boccioli, conservati sotto aceto e consumati allo stesso modo dei capperi. Infine, dalle foglie pestate in un mortaio si ottiene un succo altamente dissetante e rinfrescante. Quando v’è poco freddo invernale, piante spontanee di borragine crescono rigogliose e fiorite; mentre in stagioni "normali", il freddo le segna visibilmente. Il suo nome deriva dalla parola latina "borra", che significa ruvida stoffa di lana. E’ originaria dell’oriente e i medici della scuola salernitana le attribuivano la virtù di "scacciare la malinconia". Se si vuole che "ricacci" anche l’anno successivo, bisogna lasciarla fiorire. Nel passato c’era l’abitudine di succhiare i fiori per il loro contenuto dolce e da ciò è derivato il nome dialettale sucamelo. Le foglie hanno proprietà emollienti, mentre le sommità fiorite sono depurative, diuretiche e sudorifere. In cucina si usa come ripieno per i ravioli (al posto degli spinaci) o nell’impasto per lasagne, fettuccine e tagliolini. I petali possono essere usati come colorante naturale per aceti aromatici o consumate in insalata ( buona l’insalata mimosa: petali di borragine, cicoria, tarassaco mescolati con uova sode a pezzetti). Per unire le foglie di borragine "all’erua pazza", bisogna lessarle a parte, in pochissima acqua, e con pentola coperchiata. Altri usi del sucamèlö: foglie immerse in pastella di farina di mais e fritte, oppure scottate, per pochi secondi, in acqua bollente salata poi, ripiegate con in mezzo alici e mozzarella, quindi passate nella pastella e allineate in una pirofila per il forno. RAVIOLI DI MAGRO CON BORRAGINE, ingredienti: mezzo chilo di ricotta, un etto di parmigiano grattugiato, due uova, (uno intero ed un tuorlo), duecento grammi di foglie di borragine lessata e passata al tritatutto, sale quanto basta. Amalgamare tutti gli ingredienti. Preparare una sfoglia con due uova e duecento grammi di farina, tirarla sottile e mettervi sopra dei mucchietti di composto. Con una rondella formare dei ravioli della grandezza desiderata. Una volta lessati, i ravioli saranno conditi con burro fuso e salvia o con crema di latte al parmigiano (prepara con latte caldo più parmigiano da girare fino all’addensamento ) alla quale puoi aggiungere gherigli di noci tritati. buon Appetito!!
Camomilla: pianta spontanea dalla caratteristica infiorescenza dal sottile profumo, è molto utilizzata in fitoterapia come antispastico, nell'insonnia, nei dolori mestruali e come sedativo.
Calendula: C. officinalis o fiorrancio (famiglia Composite), è pianta erbacea annuale, biennale o perenne, con fusticini eretti o ascendenti, alti fino a 50 cm, foglie intere o sinuato-dentate ai margini obovato-spatolate. capolini larghi 3-5 arancio vivo. Fiorisce da giugno a novembre. Coltivazione fatta ponendo a terra i semi in primavera in semenzai con terriccio leggero. poi trapiantate in vaso o in piena terra, in luoghi soleggiati. Spesso si dissemina spontaneamente. Vengono utilizzate le foglie e i capolini appena sbocciati. La raccolta viene fatta in estate. Si possono usare freschi in cataplasmi o fatti essiccare in stati sottili, evitando di farli annerire. Devono essere conservati al riparo della luce e dell'umidità. Proprietà terapeutiche: emmenagoghe, antispasmodiche, diaforetiche, emollienti. Per uso esterno lenitivo e antiarrossante.
Cedrina: è un'erba odorosa apprezzata soprattutto per la deliziosa fragranza delle sue foglie che, come denota il suo nome, profumano di agrumi e anche seccate mantengono a lungo inalterata la loro fragranza. In cucina le foglie raccolte in primavera sono utilizzate per aromatizzare creme e salse dolci e salate, verdure e pesce, mentre i rametti freschi si usano come nei liquori casalinghi. Inoltre, con le foglie fresche o essiccate si può preparare un'ottima tisana digestiva, tonificante e calmante.
Consolida maggiore: cresce presso i margini dei campi in luoghi umidi e ombrosi. I fiori si mangiano in insalata e le foglie, ricche di mucillagine, si prestano per i ripieni e per arricchire il composto dei malfatti. La consolida è considerata un vegetale ricchissimo di vitamina B12. Inoltre le sue foglie macerate a lungo diventano un ottimo fertilizzante, bollite invece diventano una tintura dorata.
Crescione: cresce lungo i corsi d'acqua e nei fossi. Le sue foglie sono usate sia crude che cotte. Ha anche proprietà depurative e diuretiche, ma se si vuole utilizzarle per questo scopo è consigliabile consumare le foglie appena colte poiché la cottura toglie loro tutte le proprietà.
Cicoria - Cichorium intybus. Il nome deriva dal greco Kichore; Intybus, termine latino usato da Virgilio con il significato di indivia. E’ una pianta perenne, ma, a seconda del clima, può comportarsi da annuale o biennale. Sia in primavera che in autunno dalla radice si sviluppa una rosetta di foglie che aderiscono al terreno e possono essere pelose o glabre. I fiori sono ligulati e di colore azzurro e si schiudono al mattino. Molto comune e conosciuta, cresce spontanea nei prati o coltivata negli orti, presenta in piena fioritura dei caratteristici fiori di un azzurro cielo intenso. La cicoria contiene la "cicorina" ed altri principi amari che la rendono molto pregevole ed importante come tonico, digestivo, lassativo e depurativo. Non solo, ma il sale contenuto nella cicoria - il nitrato di potassio - è un efficace stimolante dei reni ai quali facilita la liberazione del sangue da tutte le impurità in esso contenute. Il più usato terapeuticamente è il decotto di cicoria che si prepara bollendo un buon pugno di cicoria in mezzo litro di acqua. Di questo decotto se ne berranno tre bicchieri al giorno, a stomaco vuoto, prolungando la cura per diversi giorni. In breve sarà realizzata una completa ed efficace depurazione generale, ed anche dalle pelle scompariranno impurità ed affezioni varie, grazie alla maggiore attività sviluppata dal fegato e dall'intestino. Questa cura depurativa e tonificante delle funzioni epatiche ed intestinali può essere sostituita o, meglio, completata da abbondanti scorpacciate di cicoria fresca condita con olio e limone. Le radici torrefatte e polverizzate, possono essere utilizzate come surrogato del caffè. Le foglie basali, ancora tenere, possono essere consumate in insalata, oppure lessate e condite con olio d’oliva e limone o ripassate in padella con l’erua pazza di cui è la principale componente. Lo stomaco - grazie ai principi attivi contenuti nella cicoria fresca - assumerà un ritmo più armonico, digerirà meglio e, infine, sarà messo in grado di sopportare anche qualche peccatuccio di gola. Una cura prolungata di questa insalatina amarognola serve, con risultati talvolta sorprendenti, a rassodare il seno, tonificandone la muscolatura. Ecco dunque a nostra completa disposizione una di quelle piante medicinali facili a trovarsi è vero, ma dai principi attivi e medicamentosi molto efficaci e, spesso, sconosciuti. Crescendo dalla primavera fino ad autunno inoltre la cicoria ci mette in grado di provvedere, in qualsiasi momento, ad una sana e completa azione depurativa. Cura che, in un mondo sempre più sfrenato, in un'atmosfera sempre più inquinata, in presenza di cibi non sempre genuini, se non sofisticati, si rende ogni giorno più necessaria, come un buon sonno o una lunga passeggiata distensiva nei boschi.
ZUPPA del Frantoio: Lessare piantine di cicoria, foglie di borragine e semi di finocchio, versare il tutto su bruschette, strofinate con aglio, e condire con olio d’oliva paesano e sale. Ricordare che le verdure vanno sempre salate dopo la lessatura che deve avvenire in poca acqua bollente e con la pentola coperchiata. Pasta ai FUNGHI PORCINI: Ingredienti: olio d’oliva, aglio, funghi porcini o misto funghi, cicorietta di campo senza radici, pachino, prezzemolo e a scelta, parmigiano reggiano. Cuocere i funghi con olio, prezzemolo, aglio intero e, aggiungere a fine cottura i pomodori pachino tagliati a metà facendogli fare una media cottura. Ripassare la cicorietta precedentemente lessata e privata delle radici, con aglio olio e peperoncino. Unire tutti gli ingredienti e far amalgamare per qualche minuto. Lessare i fusilli al dente, condire con il preparato e servirli cosparsi di prezzemolo tritato ed a parte con parmigiano.
Farinello Buon Enrico: erba infestante dalle foglie nutrienti e ricche di mucillagine che si prestano per ripieni, minestre e spezzatini.
Lavanda: arbusto perenne cespuglioso dal caratteristico fiore azzurro dal profumo intenso, deve il suo nome all'uso che ne facevano gli antichi Romani per profumare i bagni, mentre il suo olio essenziale era usato per massaggi tonici e stimolanti. Nella medicina naturale si utilizzano i fiori essiccati per la sua azione carminativa, antispasmodica, antisettica e stimolante.
Luppolo: cresce lungo le siepi. I germogli si raccolgono all'inizio della primavera e vengono consumati come gli asparagi.
Malva: pianta spontanea dei campi incolti molto comune e resistente, ne vengono utilizzati sia i fiori che le foglie come medicamento grazie alle sue proprietà emollienti e antinfiammatorie in caso di infiammazioni del tubo digerente, dell'apparato urinario e delle vie respiratorie. Dice il proverbio 'La malva tüt i mal a i a salva', ovvero è un rimedio per tutti i mali. Erba medicinale usata moltissimo dai vecchi per curare infiammazioni al cavo orale e mal di gola, può essere raccolta (in zone lontano dal traffico) e usata fresca per fare decotti o essiccata al sole e conservata per un anno, per tisane rinfrescanti e sfiammanti. Anche in questo caso l'inverno mite ha risparmiato le piante, che hanno già foglie rigogliose e verdissime.
Melissa: Melissa officinalis cresce in luoghi ombrosi, ha un gradevole profumo di limone e le sue foglie si usano sia cotte che crude, sia per piatti salati che per dolci. Il suo utilizzo è stato continuo in tutti i tempi e particolarmente rinomata fu l'acqua di Melissa dei Carmelitani Scalzi di Parigi usata come digestivo. questa erba, chiamata anche cedronella ha virtù medicinali contenute nelle sommità fiorite, oppure nelle foglie che contengono uno speciale olio essenziale che dà alla pianta il grato odore e gustoso sapore. La melissa è sempre stata consigliata nei postumi delle paralisi, nelle debolezze muscolari, nei tremori dei vecchi, nei languori fisici e morali susseguenti a lunghi patimenti. Molto indicata nelle convulsioni, nelle nevrosi, nell'isterismo ed in ogni forma patologica afferente il sistema nervoso. Risulta molto utile, ancora, nello stimolare l'appetito, nel rinforzare lo stomaco in caso di indigestioni, nell'espellere gli eccessivi e noiosi gas intestinali.
Se famoso era lo "spirito di melissa", altrettanto celebre era "l'acqua di melissa" dei Carmelitani scalzi. Si prepara con 150 grammi di melissa fresca o 60 di secca, 30 grammi di buccia di limone grattugiata, 15 grammi di cannella, 15 di chiodi di garofano, 15 di polvere di noci moscate, 5 grammi di radice di angelica e 5 di coriandoli. Il tutto viene bollito per cinque minuti in mezzo litro di acqua, vi si aggiunge mezzo litro di grappa e si espone al sole in un vaso ermeticamente chiuso per circa tre settimane. Alla fine si filtra e si conserva il liquido così ottenuto in bottiglie ben chiuse. Quest’acqua di melissa si prende nella misura di un cucchiaino di caffè diluito in un po' d'acqua prima dei pasti principali. L'acqua di melissa dà gli stessi risultati se presa nella misura di trenta o quaranta gocce su di una zolla di zucchero.  Per i bambini o le persone allergiche all'alcol, l'acqua di melissa può essere sostituita, con gli stessi effetti, dal decotto. Lo si prepara bollendo per qualche minuto due cucchiai di melissa in mezzo litro d'acqua e si prende nella misura di un bicchiere prima dei pasti. Nei disturbi nervosi questo decotto sarà più efficace se con la melissa verrà bollito un cucchiaio di radici di valeriana. L'infuso, invece, preparato con un cucchiaino di melissa, uno di menta ed una tazza di acqua bollente, sarà efficace ristoro nei vomiti nervosi delle donne incinte.
Il vecchio famoso spirito di melissa è un ottimo calmante, facilita le digestioni difficili, combatte le nausee ed il vomito, ridà colore alla faccia nei frequenti mal d'auto o di mare. Si prepara con 150 grammi di melissa, 450 di alcol puro e 450 di acqua. Si mette in bottiglia, si espone al sole per tre giorni, si filtra e se ne prende un cucchiaino da caffè in una tazzina d'acqua o trenta gocce su una zolletta di zucchero tre volte al giorno. Nelle fredde sere invernali, poi, non c'è niente di più indicato di un cucchiaio di acqua o di spirito di melissa in una tazzina di acqua molto calda da prendersi prima di coricarsi.
Ortica: Il nome ortica (Urtica Dioica, Urtica Urens) deriva del verbo latino URERE che significa bruciare; l’aggettivo DIOICA vuol dire che ogni pianta reca fiori maschili e femminili. E’ una pianta molto comune, nota soprattutto per la sua azione irritante quando viene a contatto con la pelle. Le foglie hanno il picciolo, la base cuoriforme e l’apice (la punta) acuto, i margini sono molto incisi e sulla superficie sono coperte da peli urticanti. I fiori sono riuniti in spighe maschili dritte in su e spighe femminile pendule situate alle ascelle delle foglie. La pianta preferisce i terreni ricchi di azoto ed è assai comune nelle zone incolte, vicino a ruderi, lungo le strade di campagna, ai piedi dei muri e nei pressi delle concimaie. L’ortica, lasciata a macerare per una ventina di giorni insieme con piante di Equiseto, costituisce un ottimo bio-antiparassitario. Chi soffre di dolori reumatici, può alleviarli frustando la parte dolorante con piante di ortiche. RISOTTO CON PESTO DI ORTICHE. Tagliuzzare un mazzetto di cime e foglie tenere di ortiche e poi farle rosolare in olio con erba cipollina. Passare parte del composto al frullatore con l’aggiunta di un cucchiaio di parmigiano reggiano o grana padano, un cucchiaio di farina ed una tazzina di latte. Cuocere il riso sul fondo rimasto aggiungendo, al bisogno acqua bollente. A metà cottura unire al riso il pesto e, a fine cottura, mantecare il tutto con parmigiano e poca panna da cucina. I getti giovani, teneri e freschi, sono i migliori in cucina per fare ottime frittate con cipolla oppure ripieni di ortica e ricotta chiusi in una sfoglia sottilissima e conditi con burro del pastore e salvia, utili anche in campo medico, in quanto il loro potere curativo è massimo. Il momento migliore per coglierli, naturalmente dotati di forbici e guanti, è dopo una pioggia e il periodo più adatto è la primavera. Se raccogliendola con le mani nude si incappa in irritazioni cutanee, niente paura: la natura fornisce l'antidoto. Di solito nelle vicinanze, su qualche muretto, si può trovare la parietaria (chiamata anche vetriola). Basta strofinarne un rametto con gambo e foglie sulla parte di pelle irritata dall'ortica, e in breve si ha un effetto lenitivo del dolore.
Parietaria: Cresce comunemente sui muri e sulle macerie. Si consuma come gli spinaci. Contiene un'alta percentuale di salnitro e per questa caratteristica fu usata fin dall'antichità come efficace diuretico, utilissimo in tutte le affezioni urinarie. Un tempo, quando non c'erano i detersivi, la parietaria veniva usata per pulire i fiaschi del vino o dell'olio. Infilando un po' di parietaria triturata e una manciata di sassolini nel fiasco e agitandolo energicamente, si riusciva a portare via i sedimenti depositati all'interno. Un rimedio un po' spartano, per gente con ben altre esigenze rispetto a oggi...
Piantaggine: pianta perenne con foglie ovali un po' spesse, ricca di mucillagine. E' ottima per i ripieni o da consumarsi insieme ad altre erbe di stagione con la pancetta, l'aglio e l'olio. Utilizzata come decotto per combattere la diarrea e le infiammazioni intestinali.
Pimpinella: erba spontanea dal sapore di cetriolo, viene usata nelle insalate.
Papavero: il rosso papavero che cresce spontaneo tra i campi coltivati e lungo gli argini, veniva usato come sedativo facendo un infuso dei suoi petali essiccati e come calmante della tosse, sotto forma di sciroppo.
Rafano selvatico: il rafano cresce allo stato selvatico in corrispondenza di terreni freschi ed ombrosi presso le abitazioni. Le sue foglie sono ottime in insalata condite con olio di oliva e sono apprezzate per il loro leggero sapore piccante che dà tono alle verdure. eccellente diuretico e depurativo del sangue e, quindi, particolarmente indicato per chi soffre di reumatismi, gotta e ritenzione idrica.
Rapastrello: Raphanus raphanistrum: (Brassicaceae) Altri nomi volgari: Ravastrello, Ravanello selvatico, Ramolaccio selvatico,  Gramolaccio. Pianta erbacea annuale, molto ramificata e ispida, dotata di una radice gracile e sottile e foglie inferiori lirato-pennatosette con segmento terminale slargato, le superiori ovali-lanceolate, dentate. Da marzo a giugno, produce fiori bianchi, venati di violetto. I frutti sono silique provviste di tipiche strozzature fra un seme e l`altro. Il Rapastrello è diffuso su tutto il territorio italiano, dove cresce dal livello del mare fino a ca. 1000 m di altitudine negli incolti e nei coltivi, soprattutto seminativi. Si raccolgono le cime (spicuneddi), le foglie ed il colletto (zona tra radice e fusto). Allo stadio giovanile il Rapastrello può essere confuso con altre giovani verdure mangerecce, quali il Cavolicello (Brassica fruticolosa Cyr.) e la Senape canuta (Hirschfeldia incana, detta in dialetto Amareddu), normalmente non cresce su terreno vulcanico, ma nelle zone di confine coi terreni sedimentari, dove i due erbaggi possono coesistere, la confusione è frequente per la notevole somiglianza.Le radici si utilizzano come il ravanello, mentre le foglie allo stesso modo degli spinaci, si consumano lessate e poi ripassate in padella con olio, aglio e peperoncino, per la delizia dei nostri palati. Tutte le parti del Rapastrello hanno un tipico sapore piccante che conferisce alla verdura un “carattere” deciso non gradito a tutti. In qualsiasi modo venga cucinato, il Rapastrello è considerato una verdura più rustica dell`affine Cavolicello; da qui il detto popolare a razza non fa cauliceddi, alludendo a una persona grossolana che non ha speranza di divenire raffinata oppure a una stirpe infima che inevitabilmente resta tale. Il colletto, abbastanza tozzo, si prepara tranciando la pianta alla radice e troncando le foglie verso la base; si ottiene così un torso che si consuma crudo come si fa con i Ravanelli. Le popolazioni dell`Est europeo, ad esempio, amano il forte sapore pizzicante del Rapastrello per meglio gustare la birra; a tale scopo masticano le radici della pianta allo scopo di stimolare la sete
Raperonzolo: (Campanula rapunculus, Fam. Campanulacee). Spontanea nei prati e pascoli. Ha foglie lineari lanceolate, finemente seghettate. fiori grandi a grappolo semplice, è facilmente riconoscibile per i suoi fiori blu o violacei che compaiono da maggio a luglio. Si trova nei prati asciutti e nei vigneti. in passato era molto coltivato a scopo alimentare, la radice simile a quelle di rapa ma più piccole, si raccoglie in primavera, ha un sapore delicatissimo, si usa insieme alle insalate di campo dal gusto delicato per non coprirne il profumo caratteristico. Si consuma crudo all'inizio della primavera, dopo averle pulite e condite con un filo d'olio e pizzico di sale.si possono utilizzare poi sia i getti primaverili che le foglie per eccellenti insalate.
Salsapariglia: Smilace, Strappabrache, Stracciabrache, Rovo-cervone, Rovo-cerrone, Salsa paesana, Salsa siciliana, Edera spinosa, Ellera spinosa, Taxon: Smilax aspera, Famiglia: Liliaceae. Etimologia: antichissima denominazione data alla pianta in Grecia, dove è largamente presente, deriva dal greco smilé = raschietto, in riferimento alla spinosità delle foglie. Il secondo termine deriva dal latino asper = scabro, pungente, per la presenza nella pianta di abbondanti spine. Salsapariglia, termine di origine spagnola, deriva da zarza = arbusto (derivato dall’arabo scharac) e parilla = piccola vite, in riferimento al portamento rampicante e alla presenza di viticci. L’appellativo salsapariglia è utilizzato anche per indicare la droga estratta dalle radici di alcune specie, quali S. officinalis, S. medica, S. syphilitica, S. saluberrima, proprie dell’America centrale e meridionale; le radici di queste piante contengono la sarsaponina, nonché olî eterei, resine e altre saponine con proprietà toniche, sudorifere, antireumatiche, depurative e, secondo la tradizione popolare, antisifilitiche. In realtà, poiché la Smilax aspera non possiede proprietà medicamentose, sarebbe più consono utilizzare il termine Smilace, derivato direttamente dal nome greco della pianta e comunemente usato in Toscana. Esso risulta, legato al mito secondo il quale le Baccanti, dovendo compiere i loro riti tersicorei e non trovando l`edera per ornarsi il capo, usarono i tralci di Smilace, che hanno foglie simili ma spinose. Quando la danza divenne più frenetica, le acuminate spine della pianta cominciarono a trafiggere la fronte delle Baccanti le quali iniziarono ad urlare e gesticolare in modo inconsulto, facendo degenerare il rito in un vero e proprio baccanale. I termini Stracciabrache, Strappabrache e indicano le conseguenze dovute alla presenza delle acuminate spine nella pianta. Pianta lianosa, perenne, sempreverde, provvista di lunghi fusti rampicanti, teneri e arrossati nelle parti giovani, legnosi a maturità, flessuosi, muniti di spine uncinate. Le foglie sono coriacee, sagittato-cordate, spinose ai margini e lungo la nervatura centrale, provviste di un picciolo tortuoso con due viticci laterali, lunghi e tenaci. I fiori, che compaiono da settembre a novembre, sono esameri, unisessuali su piante dioiche, piccoli, bianchi, profumati, riuniti in ombrelle sessili multiflore, raggruppate in grappoli ascellari e terminali. I frutti sono piccole bacche globose, di colore rosso, non commestibili ma innocue, che maturano nell’autunno successivo, contemporaneamente ai nuovi fiori. Salsapariglia si rinviene nei boschi di Leccio (Quercus ilex L.), nella macchia, come pure nelle zone più aperte, nelle sciare, nelle siepi e sui muri a secco, dove sovente forma intricati cespugli. E’ comune in Liguria, nell’Italia centro-meridionale e nelle isole. Parti commestibili: i nuovi getti dei rami, in primavera, quando sono rossastri e tenerissimi; assomigliano ai turioni degli Asparagi ma presentano giovanissime foglie con picciolo provvisto dei due viticci stipolari. Le giovani cime si preparano in cucina allo stesso modo degli Asparagi; hanno un sapore amarognolo piuttosto gradevole. Spesso le sue qualità alimentari sono sconosciute.
Semprevivo: è una pianta grassa che negli anni passati compariva sui tetti e sui muretti di cinta. Già dal tempo dei romani si diceva che ogni casa doveva averne perché proteggeva dai fulmini. Era tenuta in considerazione anche per le sue qualità terapeutiche contro le piccole ferite, le scottature e i calli. Produce delle rosette con le radici che in primavera danno vita ad altre piantine. E' robusta, ha poche esigenze e sopravvive a parecchi gradi sotto zero durante le gelate.
Salvia splendens: pianta ornamentale eliofila, nativa delle foreste del Brasile, dove raggiunge il metro e mezzo di altezza. Chiamata in inglese 'St. Johns Fire', cresce anche nana fin 35cm dove ogni giovane foglia fiorisce in rosso scarlatto. Creswce facilmente da seme e talea. Poche foglie lentamente masticate, hanno effetto rilassante e conciliante la meditazione.
Tarassaco: Taraxacum Officinale, Dente Di Leone, Tarassaco, Piscialetto. TARASSACO deriva dal greco TÁRASSO che significa guarire, con riferimento alla proprietà medicinale della specie. E’ una pianta erbacea perenne e che vive per molti anni. Ha una radice carnosa e laticifera (contiene latice) che sviluppa una rosetta di foglie, più o meno roncinate, aderenti al terreno se intorno non c’è vegetazione, altrimenti erette. Si trova quasi per tutto l’anno, se il clima non è molto rigido. I fiori sono gialli, solitari e con il gambo vuoto e, dopo il ciclo si trasformano nei soffioni, insieme di acheni che formano una palla di "bambagia" che si disperde nel vento, riproducendo le piante. Il tarassaco è un’ottima insalata selvatica, ricca di vitamine e sali minerali e quindi depurativa e diuretica. In insalata, si può consumare da solo o con altre verdure, lessato, va condito con olio e limone oppure ripassato con l’erua pazza. I boccioli si possono conservare sott’aceto come i capperi. RICETTA: ACQUACOTTA CON UOVO SPERSO: bollire alcune piantine di tarassaco, a cottura quasi ultimata aggiungere un paio di uova (tipo stracciatella) e poi versare su crostoni di pane raffermo o "abbrusco", condire con olio d’oliva. TORTA RUSTICA PISCIASOTTO. Far bollire in poca acqua alcune piantine di tarassaco e bieta; strizzare per bene la verdura e ripassarla in padella con olio, aglio e peperoncino. Stendere in una pirofila uno strato di pasta di pane di mezzo centimetro, duecentocinquanta grammi di farina, quindici grammi di lievito di birra, 125 ml di acqua tiepida: far bollire per due ore sotto una copertina, disporvi sopra l’erba ripassata e fettine di provola o fontina. Ricoprire con altro strato di pasta più sottile e spennellarlo con un tuorlo d’uovo battuto. Far cuocere in forno a duecento gradi per una trentina di minuti. La torta rustica è ottima anche fredda.

Edera (Hedera helix) pianta rampicante, legnosa, perenne e sempreverde. Possiede 2 tipi di rami: i giovanili sono dotati di radici aeree, con le quali si attacca su ogni superficie, i rami adulti, che crescono in seguito ai precedenti,sono privi di radici, e formano fiori e frutti. FOGLIE picciolate, coriacee, la lamina superiore è di colore verde scuro, mentre la lamina inferiore è più chiara.
Le foglie dei rami giovanili sono palmato-lobate, la lamina è divisa in 3-5 lobi , quello centrale più lungo è più largo, le foglie dei rami adulti hanno margine intero e sono di forma ovale Proprietà medicinali: Tutti i derivati dell'edera sono velenosi e da usarsi con estrema cautela, soprattutto nei bambini o in soggetti defedati.
L'infuso di foglie raccolte in estate e fatte seccare lentamente, ha proprietà emmenagoghe, balsamiche ed espettoranti.
Le foglie fresche pestate o ridotte in succo applicate per uso esterno sono detersive, antireumatiche, antinevralgiche.
Il decotto di foglie fresche viene utilizzato per bagni antireumatici. La pomata (ottenuta con il 15% di prodotto secco polverizzato e il restante 85% da grasso) viene usata per frizioni antidolorifiche. L'infuso di una manciata di foglie in circa due litri d'acqua, può essere usato dopo lo shampoo come trattamento per rendere i capelli più scuri e lucidi. Il succo o il decotto delle bacche velenose, raccolte dall'inverno alla primavera, ha proprietà purgative, emetiche, antibiliari, sudorifere. CURIOSITA':questa pianta è ideale per creare siepi sempreverdi, infatti viene anche coltivata e non richiede particolari attenzioni; resiste in situazioni di scarsità d’acqua e non teme particolarmente l’umidità, l’unica condizione necessaria è che il terreno sia ben drenato. I frutti che produce, ATTENZIONE, sono velenosi per l’uomo, possono portare a morte per complicanze respiratorie, ma sono comunemente mangiati dagli uccelli.
Le foglie possono provocare reazioni allergiche. L’edera contiene diversi principi attivi : glucosidi,ederina, ederangerina, ederacoside, flavonidi, alcaloidi,gomma resina, acidi malico,formico,caffeico e cloregenico.

alla base della ferula communis (finocchiaccio) crescono funghi molto saporiti il fusto cavo di tale piantaveniva usato dalle menadi per fare il tirso entro cui ponevano le erbe selvatiche raccolte

Ruta - Ruta graveolens Habitat: terreni aridi dal piano alla montagna.
piccoli fiori gialli che, una volta sbocciati, ricordano delle croci in miniatura, l'erba ruta è stata ritenuta, fin dai tempi più antichi, una magica cura, una vera e propria panacea di qualsiasi malanno.
la ruta è una pianta velenosa, il cui uso sconsiderato ed eccessivo potrebbe provocare seri disturbi o, avvelenamenti letali. Le sostanze medicamentose dell'erba ruta sono tutte contenute nell'olio dall'odore sgradevole che si trova raccolto in vescichette sulle foglie.Le foglie dell'erba ruta vengono usate per farne degli infusi, nella misura massima di un grammo per ogni tazzina di acqua bollente. Questi infusi servono a calmare gli attacchi isterici, a favorire e a rendere più facili e meno dolorosi i cicli mestruali, a eliminare, infine, le coliche intestinali flatulenti. Lo stesso infuso, inoltre, può servire nei casi di glaucoma per ripetuti lavaggi.
Per chi soffre di rinite cronica fetida, che provoca quelle abbondanti secrezioni nasali, è consigliabile l'uso di un decotto di erba ruta preparato con un cucchiaio di foglie e due bicchieri di acqua. Si fa bollire per alcuni minuti e, tre volte al giorno, si introduce nelle narici per qualche minuto un batuffolo di ovatta bene imbevuta del liquido così ottenuto.
L'erba ruta ha dei discreti effetti digestivi, anche se inferiori a molte altre erbe. A questo proposito va per la maggiore la cosiddetta grappa alla ruta, preparata immergendo nella grappa un ramoscello di ruta. ha potente azione abortiva.

Rovo - Rubus fruticosus: pianta selvatica comunissima che cresce vigorosa un po' dappertutto, formando folti cespugli dotati di spine abbondanti e pungenti. Sul finire dell'estate giungono a maturazione quei frutti tipici, neri, simili a quelli del lampone e che vengono comunemente chiamati more. I rovi non sono così fastidiosi se se ne considera l'utilità in cucina: a parte le more, che producono in estate e in autunno, i loro germogli più teneri possono avere un impiego "alimentare". Ai bambini di campagna un tempo i nonni insegnavano il trucco di staccare la parte terminale del germoglio, sbucciare alla buona la pellicola esterna, e mangiarne il cuore, assaporando il particolare gusto amarognolo e la consistenza croccante. Ad inizio primavera i germogli di rovi non sono così "grassi" e succosi; basterà attendere le piogge d'aprile e il sole di giugno per poterne trovare in gran quantità. Nelle more sono contenuti zuccheri, albumine, numerosi acidi organici e soprattutto calcio e potassio, dei quali ultimi ogni corpo in fase di sviluppo sente una esigenza, si può dire, incontrollata. Per questa ragione i fanciulli ne sono particolarmente ghiotti ed è una ghiottoneria che li aiuta a crescere e a svilupparsi. La preparazione di marmellate di more è molto semplice: basta cuocere a fuoco lento le more con doppio peso di zucchero, fintantoché non si sia raggiunta una consistenza sciropposa. Qualche cucchiaio al giorno od anche più somministrato ai bambini porterà loro dei giovamenti inaspettati. Le more bollite con acqua e un po' di zucchero forniscono, in estate, una delicata bibita rinfrescante, utile sia ai grandi che ai più piccini.. Bevanda, inoltre, che costituisce un ottimo rimedio contro i bruciori di urina. Le foglie ed i teneri germogli di rovo contengono tannino in quantità notevole. Sono perciò astringenti ed il loro decotto, preparato facendo bollire per qualche minuto in mezzo litro di acqua una manciata di foglie secche, si usa con successo contro la diarrea anche dell'età infantile, la dissenteria, gli sputi sanguigni.
Felce - Polystichum filix    Habitat: luoghi ombrosi fino a 2.000 metri. Nella pagina inferiore delle fronde, ai lati delle nervature, si trovano dei corpiccioli, i"sori"(1,5 millimetri di diametro), ricoperti da una sottile membrana. All'interno dei "sori" si trovano dei corpi rotondi, microscopici, le cosiddette "spore" la cui funzione è di riprodurre la pianta. Sotto terra c'è una radice o "rizoma" orizzontale, nodosa e molto grossa. Questa pianta, che viene spesso raccolta anche a scopo ornamentale, è la felce maschio, molto comune anche da noi. La parte medicinale è la radice o rizoma che si raccoglie in estate e che deve presentare, all'atto della raccolta e della frattura, un bel colore verde. Questa radice, conosciuta fin dall'antichità, ha un deciso potere vermifugo, si usa molto secca, si polverizza e se ne prendono quindici grammi, mescolati magari con miele o qualche liquido sì da renderla più appetibile. E' necessario, prima dell'ingestione della polvere, essere digiuni da almeno 12 ore. All'ingestione della polvere si farà seguire, dopo circa mezz'ora, un efficace purgante non oleoso. Con questa cura vermi e tenia scompaiono facilmente. La radice debitamente bollita dà un ottimo decotto per bagni totali o parziali in grado di combattere crampi e reumatismi.  Anche l'aceto, nel quale siano stati bolliti rizomi di felce e usato per frizioni, è in grado di eliminare il gozzo e ridare elasticità ai muscoli irrigiditi da reumatismi. Nei crampi fastidiosi ai polpacci o al piede è sufficiente legare sulla zona afflitta una foglia verde.
Alloro - Laurus nobilis   Habitat: giardini ed orti dal piano alla collina. Le foglie e le bacche di alloro hanno proprietà medicinali di una certa importanza. Infatti, sminuzzando 5 o 6 foglie secche di alloro e mettendole in una tazza di acqua bollente si ottiene un ottimo infuso che, bevuto caldo prima di coricarsi, fa sudare abbondantemente riuscendo, quasi sempre ad impedire l'evolversi di un raffreddore o di un'incipiente influenza. Lo stesso infuso sorseggiato dopo i pasti, riesce, grazie alle essenze contenute, a facilitare la digestione e ad eliminare i fastidiosi gas intestinali. L'infuso, ancora, rinforza lo stomaco, eccita l'appetito e, come tutti gli infusi fatti con piante contenenti oli essenziali, è un ottimo e prezioso anticatarrale. Le bacche dell'alloro, piccoli frutti che assomigliano a minuscole ciliege nere dai semi molto grossi, sono ancora più attive delle foglie, contenendo un olio ricchissimo di numerose sostanze medicamentose. La polvere ottenuta dalle bacche perfettamente essiccate, presa nella dose di uno o due cucchiaini da caffè al giorno, è un rimedio efficace contro l'influenza, i raffreddori, le malattie nervose, le paralisi, le debolezze di stomaco e i gas intestinali. L'olio laurinato si ottiene con una manciata di bacche pestate e fatte macerare in mezzo litro di puro olio di oliva e serve per lenire gli spasmi reumatici o per facilitare la ripresa dell'uso delle articolazioni dopo ingessature o traumi di varia natura.  L'olio verrà frizionato adeguatamente sulle parti interessate alcune volte al giorno. Ottimo, sempre per uso esterno, l'unguento laurino che si prepara aggiungendo settanta grammi di olio di lauro, ottenuto per pigiatura delle bacche, un cucchiaio di trementina e mezzo cucchiaio di acido salicilico a 150 grammi di grasso di maiale e 50 grammi di grasso di pecora fatti fondere a fuoco lento. Raffreddato che sia, l'unguento viene conservato in un vaso a chiusura ermetica. Una buona manciata di queste bacche fatte bollire a lungo in acqua non molto abbondante, danno un decotto oleoso che, applicato con impacchi, serve quale ottimo emostatico, astringente e rinforzante dei capillari sanguigni.
Ginepro - Juniperus communis. Habitat: luoghi incolti dal piano al monte. Il ginepro contiene un olio essenziale volatile - la gineprina - che, assorbendo l'ossigeno dall'aria, depone la canfora di ginepro ed altre sostanze aromatiche. Naturalmente la parte più usata è costituita dalle bacche di ginepro: facendone una cura intensa che inizia da cinque bacche ben masticate il primo giorno ed aumentando la dose di una bacca per ogni giorno di cura fino al massimo di quindici e, quindi, regredire fino a tornare a cinque, non solo si faranno scomparire quegli odiosi bruciori di stomaco che tanto spesso ci affliggono, ma lo stomaco stesso ne uscirà rinforzato, mentre l'appetito aumenterà di pari passo. Questa cura può essere proficuamente sostituita da due tazze al giorno di un infuso preparato versando una tazza d'acqua bollente su sei o sette bacche di ginepro accuratamente schiacciate. L'infuso preparato con tre cucchiai di bacche di ginepro bene schiacciate ed un litro d'acqua bollente e preso nella misura di 3 o 4 tazze al giorno porterà sensibili benefici ai sofferenti di acido urico, quindi agli artritici, ai reumatici, ai gottosi, o a chi è affetto da itterizia, calcoli vescicali, idropisia cardiaca e nefritica, di leucorrea e di blenoraggia.  
All'infuso fa seguito, naturalmente, il celebre vino di ginepro, preparato con 60 grammi di bacche schiacciate messe a macerare per sei giorni in un litro di buon vino bianco. Di questo vino - diuretico e digestivo - se ne bevono due mezzi bicchieri al giorno. Per le essenze volatili in esse contenute e che vengono eliminate attraverso i polmoni, le bacche di ginepro sono pure indicate nei catarri cronici polmonari, nella tubercolosi e nell'asma. Un cucchiaio di bacche schiacciate poste in mezzo litro d'acqua bollente, danno un ottimo tè che preso ben caldo, nella misura di una tazza ogni due ore, farà sudare abbondantemente, faciliterà la respirazione, permetterà un abbondante e facile espettorazione. Anche le regole mensili saranno promosse prendendo la sera, prima di coricarsi, una tazza di tè preparato con acqua bollente e venti bacche di ginepro schiacciate. E, infine, per i numerosi malanni, acciacchi e ... bisogni invernali sarà sufficiente una buona manciata di bacche schiacciate di ginepro in un litro di vecchia grappa nostrana. Si otterrà il migliore gin di questo mondo, in grado di fugare i malanni invernali e gli altri poco sopra ricordati.
Lichene - Cetraria islandica Habitat: terreno nudo o rocce montane. E' facile in montagna imbattersi in rocce ricoperte da una pianta che vive e si sviluppa come le alghe, che si allarga, quasi, in foglie inodore, coriacee, di color rosso oliva nella faccia superiore, biancastre in quella inferiore, formando, il tutto, strani cespuglietti alti da terra sei o sette cm. Quando una tosse secca e persistente scuote il petto, affatica il cuore e toglie il sonno è la Cetraria islandica che porta un immediato sollievo, decongestionando ogni mucosa e favorendo così una pronta espettorazione di catarro. In questi casi si usa il decotto preparato con una mezza manciata di lichene che si fa bollire per mezz'ora in un litro di acqua. Quest'ultima di butta via e si fa ribollire il lichene per mezz'ora in un altro litro di acqua, si cola, si addolcisce con zucchero o miele, si allunga con un po' di latte e si somministra il decotto così ottenuto quattro o cinque volte al giorno, in tazzine da tè e molto caldo. Se invece si soffre di debolezza generale, di cattiva digestione, di dissenteria cronica, di febbri intermittenti, di enterogastrite cronica, di gastrite catarrale il decotto si prepara senza rigettare la prima acqua. Ne risulterà una bevanda molto amara - che però si può zuccherare - ma molto efficace per i malanni sopra ricordati. Se al primo decotto pettorale di lichene precedentemente ricordato - quello cioè al quale si toglie la prima acqua di ebollizione - si aggiunge mezzo cucchiaino di potassio, o calcio carbonato, e si lascia macerare il tutto per 24 ore, si otterrà una sostanza gelatinosa, costituita prevalentemente da amido di lichene. Questa gelatina, che può essere convenientemente mescolata con marmellata o amalgamata e dolcificata, a piacere, con del miele, costituisce una sostanza nutritiva di primo ordine che, mangiata, è indicatissima, inoltre, per le persone o convalescenti, nelle infiammazioni intestinali, nei raffreddori ribelli e, in particolare, per i bambini sfiancati ed esauriti dai numerosi accessi di tosse convulsa o tosse canina.

Creature Arboree
Limone (Citrus limon), originario dell'India e dell'Indocina. ibrido naturale tra il cedro (Citrus medica) e il lime (Citrus aurantifolia).
L'albero del limone (alto fin 6 metri) ha un portamento aperto ed i rami a frutto sono procombenti; i rami sono normalmente spinosi.
Foglie alterne, rossastre da giovani poi verde scuro sopra e più chiare sotto, generalmente ellittiche; il picciolo è leggermente alato.
I fiori, dolcemente profumati, possono essere solitari o in coppie, all'ascella delle foglie; in condizioni climatiche favorevoli sono prodotti praticamente tutto l'anno. Il bordo dei petali è violetto. I frutti sono ovali oppure oblunghi, con apici appuntiti: Normalmente la buccia è gialla, ma ci sono varietà variegate di verde o di bianco: ricca di olii essenziali, può essere più o meno sottile: la polpa è divisa in otto-dieci spicchi; generalmente è molto aspra e succosa: molte varietà sono prive di semi.
Il limone è una specie rifiorente. I flussi principali di fioritura sono in primavera, con la produzione dei limoni invernali, e in settembre, da cui derivano i cosiddetti verdelli (che maturano nell'estate seguente). Per favorire la produzione di questi ultimi, che ottengono prezzi migliori sul mercato, si utilizzano tecniche particolari come l'interruzione delle irrigazioni per un certo periodo.
Il limone è piuttosto sensibile al freddo e si defoglia completamente con temperature di -4/-5°C, mentre temperature inferiori possono danneggare anche il legno; i fiori e i frutti, invece, sopportano valori fino a -2°C. D'altra parte, non ha invece bisogno di temperature estive molto elevate per la maturazione dei frutti. Le piante sono sensibili anche al vento (frangivento). In periodi prolungati di siccità è necessaria l'irrigazione. Cresce bene anche in terreni poveri e il pH ottimale è intorno a 5,5-6,5°C.
Si innesta su diversi portinnesti, dal franco al limone volkameriano fino all'alemow, al mandarino cleopatra e all'arancio amaro, incompatibile però con alcune varietà come la Monachello. A differenza di altri agrumi, i limoni possono maturare anche una volta staccati dalla pianta.
Lime (Citrus aurantifolia) specie originaria dell'Asia. Ibrido naturale di Citrus medica (il cedro) con un'altra specie. E' alberello di forma irregolare (alto fino a 3-5 metri) con rametti spinosi. Le foglie sono ovali, finemente crenate, arrotondate alla base e appuntite all'apice, verde chiaro, le infiorescenze, a racemo, hanno da due a sette piccoli fiori bianchi e profumati, prodotti in diversi periodi dell'anno. I frutti sono leggermente ovali, per lo più verdi o verdi-giallastri, anche se alcune varietà hanno frutti gialli a maturazione; la polpa è acida e la buccia sottile e ricca di olii essenziali. Tra le cultivar ricordiamo la Limetta messicana, la Neapolitanum e La Valletta". Dal Lime sono derivati vari ibridi come il Limequat, incrocio tra Citrus aurantifolia e Fortunella margarita.
La Limetta dolce (Citrus limetta) ha origini sconosciute; è presente nei giardini del bacino del Mediterraneo da molti secoli.
Forma alberelli o grandi cespugli eretti, ramificati e spinosi. Le foglie, ovato-ellittiche, hanno apice appuntito, piccioli brevi e raramente provvisti di alette. I fiori, bianchi e profumati, singoli o in infiorescenze, vengono prodotti dalla primavera all'autunno. I frutti sono tondi o un po' allungati, depressi ai poli, con umbone; buccia di colore giallo, ricca di olii essenziali e polpa verde. giallo chiaro, succosa, dolciastra o leggermente acidula. apprezzata come pianta ornamentale per la resistenza al freddo e la lunga persistenza dei frutti. Limetta dolce di Roma o Pursha (Citrus limetta "Pursha"), specie originaria dell'India ed ibrido, forse tra limetta e arancio o limetta e chinotto, oppure tra lime e chinotto. Forma piante cespugliose, a chioma irregolare con foglie ellittiche, appuntite all'apice e di color verde scuro lucido;. I fiori bianchi e molto profumati, sono prodotti continuamente dalla primavera all'autunno. Frutti globosi e depressi ai poli; la buccia non resta aderente alla polpa che è agrodolce e gustosa.
Arancio amaro (Citrus aurantium) originario della Cina, fu portato in Europa dagli Arabi nel X secolo. Ha chioma arrotolata; alto fino a 10 metri. Le foglie hanno colore verde intenso, ovate e appuntite all'apice, provviste di grandi alette sul picciolo. I rami più vigorosi sono molto spinosi; ha un robusto apparato radicale con fittone. I fiori sono ermafroditi, bianchi e molto simili a quelli dell'Arancio dolce, come i frutti che però sono più rugosi e ricchi di olii essenziali. La polpa è acida, amarognola e ricca di semi; L'Arancio amaro ha una resistenza alle basse temperature molto più alta rispetto all'arancio dolce. Utilizzato prevalentemente come portinnesto di molti agrumi, i suoi frutti sono oggetto di utilizzazione da parte dell'industria alimentare per ottenere scorze fresche o essiccate per la pasticceria o per la produzione di liquori (es. "Curaçao") ed in farmacologia per la preparazione di tonici. Apprezzato come pianta ornamentale. Molte sono le cultivar. Singolare è la "Bizzarria": essa presenta contemporaneamente frutti dell'arancio amaro e del limone cedrato, nonché particolari frutti bitorzoluti, gialli, arancioni e verdi, con caratteristiche di entrambe le specie.
L'Arancio amaro (Citrus aurantium L.) è probabilmente un reincrocio di Citrus maxima (il pomelo) x Citrus reticulata (il mandarancio). Originario dell'Asia (Cina), fu portato in Europa dagli Arabi nel X secolo; in Italia sembra sia stato portato dai Crociati.
Ha una chioma arrotolata; alto fino a 10 metri. Le foglie hanno colore verde intenso, ovate e appuntite all'apice, provviste di grandi alette sul picciolo. I rami più vigorosi sono molto spinosi; ha un robusto apparato radicale con fittone. I fiori sono ermafroditi, bianchi e molto simili a quelli dell'Arancio dolce, come i frutti che però sono più rugosi e ricchi di olii essenziali.
La polpa è acida, amarognola e ricca di semi; l'epicarpo è abbastanza sottile. Di colore arancio, resistono a lungo sulla pianta.
L'Arancio amaro ha una resistenza alle basse temperature molto più alta rispetto all'arancio dolce.
Utilizzato prevalentemente come portinnesto di molti agrumi, i suoi frutti sono oggetto di utilizzazione da parte dell'industria alimentare per ottenere scorze fresche o essiccate per la pasticceria o per la produzione di liquori (es. "Curaçao") ed in farmacologia per la preparazione di tonici. Molto apprezzato anche come pianta ornamentale.
Molte sono le cultivar. Singolare è la "Bizzarria": essa presenta contemporaneamente frutti dell'arancio amaro e del limone cedrato, nonché particolari frutti bitorzoluti, gialli, arancioni e verdi, con caratteristiche di entrambe le specie.
Arancio dolce (Citrus sinensis) è l'agrume più coltivato nel mondo. E' originario del Vietnam, dell'India e della Cina meridionale. Gli alberi hanno una chioma compatta, simmetrica e rotondeggiante e possono raggiungere gli 8-10 metri di altezza.
I rametti, su alcune cultivar, possono essere spinosi. Le foglie, ovate, lucide e cuoiose, presentano un picciolo leggermente alato.
I fiori (zagare) sono bianchi e profumati; possono essere singoli o riuniti in gruppi fino a sei per infiorescenza. La fioritura è primaverile, mentre i frutti arrivano a maturazione nell'autunno o nell'inverno successivo; in alcuni casi i frutti dell'anno precedente possono essere ancora sulla pianta durante la fioritura successiva. I frutti dell'arancio dolce non maturano dopo la raccolta: vanno quindi lasciati sulla pianta fino al grado di maturazione desiderato. Nelle zone tropicali i frutti rimangono verdi, e per far assumere loro la colorazione arancione vengono trattati con etilene, un gas che è anche un ormone che interviene nella loro maturazione. Resiste abbastanza bene alla siccità, ma richiede irrigazioni abbondanti per la massima produzione. Si innesta su arancio amaro, limone volkameriano e arancio trifogliato (specie per le piante in vaso e nelle zone con basse temperature invernali).
Arancio trifogliato o Ponciro (Poncirus trifoliata o Citrus triptera) è un agrume originario della Cina settentrionale e centrale. Il nome Ponciro deriva dal francese pomme de Syrie (pomo della Siria). E' l'unico agrume a foglie decidue. Piccolo albero a crescita rapida, ha un portamento cespuglioso irregolare. I rami hanno normalmente lunghe spine appuntite, ma sui rami di un anno si sviluppano anche speroni privi di spine, con internodi ravvicinati. Presenta foglie trifogliare. I boccioli fiorali si formano all'inizio dell'estate ma si aprono solo la primavera seguente, prima dell'emissione delle foglie. I fiori sono singoli e di medie dimensioni. I frutti, piccoli, globosi o leggermente piriformi, hanno un colore giallo a maturazione e un sapore molto acido. E' un albero molto resistente al freddo (fino a -15°C), coltivato a scopo ornamentale e come portinnesto per altri agrumi (conferisce una buona resistenza al freddo, una elevata adattabilità ai terreni umidi, resistenza al nematode degli agrumi e alla gommosi del colletto, un'entrata precoce in produzione e una buona qualità dei frutti; per le piante in vaso perché ha un effetto leggermente nanizzante e apparato radicale superficiale. Si propaga facilmente per seme e talea. La varietà Monstruosa ha rami molto contorti e spine ricurve.
Bergamotto. in Calabria il primo bergamotteto sarebbe stato impiantato intorno al 1750. Deriva probabilmente da un incrocio fra arancio amaro e limetta acida anche se non manca chi lo ritiene una specie vera e propria denominandola Citrus bergamia Risso (di origine cinese).  Albero di modesto vigore, con habitus vegetativo variabile e con rami nei quali raramente si riscontrano spine rudimentali all'ascella della foglia. I fiori, numerosi e bianchi, odoratissimi, con cinque petali, possono essere sia ascellari che terminali, per lo piu' riuniti in gruppi e sono ermafroditi. Il frutto e' simile a un’arancia, ma di colore dal verde al giallo, secondo la maturazione, ha buccia sottile e liscia e un peso che va dagli 80 ai 200 grammi. La buccia risulta molto ricca di olii essenziali. La polpa, suddivisa in 12-15 spicchi, fornisce un succo molto acido e amarognolo. I semi, in numero limitato, sono monoembrionici.
Gli oli essenziali di bergamotto, in virtù della loro straordinaria fragranza, sono indispensabile nell'industria profumiera dove sono utilizzati non solo per fissare il bouquet aromatico dei profumi (elemento di base per la produzione di numerose acque di colonia e cosmetici), ma anche per armonizzare le altre essenze contenute esaltando le note di freschezza e fragranza. L'essenza è anche usata nell'industria farmaceutica (per il suo potere antisettico e antibatterico, in odontoiatria, ginecologia, ecc.) e nell'industria alimentare e dolciaria come aromatizzante di liquori, dolci e bevande. La Calabria è il maggior produttore mondiale di bergamotto e nel 2001 ha ottenuto il riconoscimento DOP . Il 90% della produzione totale arriva, infatti, da questa regione. Si coltivano tre varietà: Femminello, a rami esili e frutti lisci, Castagnaro, più vigoroso, con frutti meno sferici, un po’ rugosi, e Fantastico (circa il 75% della produzione riguarda questa varietà).
Cedro (Citrus medica) originario dell'India, Burma ed Indovina, dalla Persia è arrivato nei Paesi Mediterranei e, probabilmente nel III secolo a.C., in Italia. Forma arbusti o piccoli alberi, alti fino a 8 metri, con rami spinosi e portamento irregolare. Le foglie, ovali-oblunghe, con margine dentato, medio-grandi, sono rossicce appena emesse e poi verde scuro. I fiori sono grandi e in boccio rosso-violacei. Quando si aprono hanno interno bianco ed esterno soffuso di viola. Riuniti in racemi all'apice dei rami, possono essere ermafroditi o maschili per aborto del gineceo. Ha fioritura continua, con flussi principali in primavera e autunno. I frutti sono grandi, oblunghi od ovali, a superficie liscia o rugosa e piena di protuberanze. La scorza viene utilizzata per la preparazione di canditi, acqua e sciroppo di cedro e per l'estrazione di olii essenziali. Con il succo si preparano bibite. In medicina si utilizza per la preparazione di infusi. Non molto resistente alle basse temperature, d'inverno il cedro si può defogliare per poi riprendere l'attività vegetativa in primavera. Le cultivar sono divise in due gruppi: cedri acidi e cedri dolci. Le prime, come la specie tipica, hanno fiori e germogli rosso-violocei e polpa acida; le seconde hanno fiori bianchi e polpa più dolce. Tra i cedri acidi ricordiamo la Diamante (o Liscia), la Etrog e la Mano di Budda (con frutti ornamentali privi di polpa); tra le cultivar dei cedri dolci ricordiamo la Corsican e la Salò.
I limoni cedrati, ibridi fra limoni e cedri, producono frutti che ricordano il cedro per la pezzatura e lo spessore della buccia, idonea alla candidatura, mentre simile al limone è l'aspetto della pianta, che risulta meno esigente del cedro per la temperatura.
Chinotto (Citrus myrtifolia) è un agrume originario della Cina meridionale da cui deriva il nome comune. E' presente in Europa da molti secoli. In Italia viene coltivato esclusivamente nella Riviera Ligure di Ponente. E' un piccolo albero (fino a tre metri di altezza), compatto, con lenta crescita e privo di spine. Le foglie ricordano quelle del Mirto (da cui il nome scientifico) e sono piccole, ellittiche, appuntite, cuoiose e color verde lucente. I fiori sono piccoli, bianchi, molto profumati, solitari o riuniti in gruppi e in posizione ascellare o terminale. I frutti hanno modeste dimensioni, schiacciati alle due estremità e, maturi, sono di color arancio intenso. La polpa è amara e acida e suddivisa in 8-10 segmenti. I frutti sono utilizzati per produrre canditi, liquori, marmellate e la classica bibita. Viene innestato soprattutto su arancio amaro. si presta molto bene alla coltivazione in vaso.
Mandarini, gruppo eterogeneo di agrumi di grande importanza economica mondiale (seconda solo all'arancio). Il Mandarino King (Citrus nobilis - Citrus deliciosa), di origine cinese, è stato portato in Europa all'inizio dell'Ottocento. Pare un ibrido tra Citrus reticulata (mandarancio) e Citrus sinensis (arancio dolce), e' pianta robusta con chioma espansa, alta fino a 4,5 m. Le spine sono presenti soltanto sui succhioni. Le foglie, da ovato-oblunghe a ovato-lanceolate, hanno picciolo con alette sottili. I fiori sono piccoli, bianchi, profumati e singoli. I frutti sono di taglia media, globosi e depressi ai poli, con buccia sottile non aderente alla polpa; quest'ultima è color arancio, aromatica e succosa e ricca di semi. Molto diffusa è la varietà "Avana" e il Tardivo di Ciaculli. Il Mandarino Cleopatra (Citrus reshni), originario dell'India, forma piante a portamento compatto e arrotondato. Le foglie sono piccole, strette, verde scuro. I fiori sono piccoli e bianchi e i frutti, globosi e depressi ai poli, sono simili alle clementine; la buccia è di color arancio, poco aderente alla polpa, che ha un sapore gradevole ed è ricca di semi.. Resiste bene al freddo e viene usata come portinnesto. Le origini del Mandarancio (Citrus reticulata - Citrus clementina) sono antiche e si perdono nell'Estremo Oriente. Piccolo albero, a volte con rami spinosi, con chioma arrotondata, simmetrica e aperta. Le foglie sono lanceolate, verde vivo, con picciolo leggermente alato. I fiori sono singoli o riuniti in piccole infiorescenze, molto profumati. I frutti arancioni, hanno una buccia arancione facile da togliere e una polpa dolce, ricca di succo, con semi piccoli e appuntiti (oggi sono molte le varietà apirene). Numerose le varietà, dal gruppo delle classiche clementine (nome che deriva dal frate missionario, Clemente Rodier, che le coltivò in Algeria) a quello delle Satsuma, ottenute in Giappone più di quattro secoli fa. La loro maturazione è più precoce rispetto ai mandarini e sono più resistenti al freddo. Le varietà più note di clementine sono la Monreal, Di Nules, Oroval e Tardivo. Si innesta su franco della stessa specie o di specie simili, ma si utilizza anche il Mandarino Cleopatra (Citrus reshni). Non maturando dopo la raccolta, devono essere colti allo stadio di maturazione desiderato.  Il Mandarino Satsuma (Citrus unshiu), come detto, è originario del Giappone (più di quattro secoli fa) e in Italia è stato portato verso la fine dell'Ottocento. Pianta medio piccola, in genere dal portamento espanso. Foglie grandi, verde scuro, ellittiche e con apice appuntito. I fiori, singoli o in gruppi, bianchi, appaiono in primavera. I frutti sono color arancio, hanno buccia sottile, facile da togliere; la polpa è succosa e in genere priva di semi, sono maturi quando ancora non hanno raggiunto la completa colorazione della buccia. Resiste bene al freddo.
Mapo, gruppo di ibridi con caratteristiche intermedie tra il mandarancio (Citrus reticulata) e il pompelmo (Citrus paradisi).
Il più conosciuto è il Mapo, incrocio tra mandarino "Avana" e pompelmo "Duncan", molto precoce. I suoi frutti hanno una buccia molto sottile che resta in buona parte verde anche a piena maturazione. La polpa, giallo-arancio uniforme, ha un sapore gradevolmente acido. E' un albero di vigoria medio-forte, a portamento globoso espanso, con rami tendenti a piegarsi verso il basso e presentanti spine solo su quelli più vigorosi.
Drupacee
Ciliegio due specie primarie: l'avium (dolce), molto diffuso in Italia, con portamento assurgente, e il cerasus (amarena), acido, più cespuglioso e pollonifero, diffuso più nel nord Europa. Altra specie è il Prunus mahaleb, noto come magaleppo o ciliegio di S. Lucia, albero piuttosto piccolo, con foglie di forma variabile rotondo-ovata, di colore verde chiaro e fiori piccoli, bianchi, e frutti piccoli, non eduli, gialli o rossi, talvolta molto scuri. L’'origine è collocata tra il Mar Nero e il Mar Caspio; il dolce è prodotto più che altro in Europa, ed USA anche, mentre l'acido è della zona ad est. In Italia si trova un po' ovunque, specie in Campania, Puglia, Veneto ed Emilia. Appartiene alle Rosaceae, sottofamiglia Prunoideae, pertanto l'albero presenta rami a legno e rami a frutto e il frutto è una drupa; la corteccia si presenta come costituita da una serie di anelli. Del ciliegio dolce si distinguono la varietà juliana che fornisce le tenerine e la varietà duracina che produce i duroni. Del ciliegio acido vi sono: la varietà caproniana, con amarene o morasconi, la austera, con le viscole, la marasca, con le marasche. Limiti pedoclimatici: ha un elevato fabbisogno in freddo, la sensibilità a ristagni idrici si ha con Prunus avium e mahaleb; il grosso problema del ciliegio dolce, non l'acido, è la pioggia che porta a spaccature del frutto oltre ad essere vettore di Monilia. Oltre a ciò una siccità prolungata danneggia la formazione dei fiori. Tra le avversità, la più oltre alla pioggia, come tutte le drupacee, è il pericolo della Sharka, e del cancro batterico delle drupacee; tra le crittogame si ricorda la Monilia che colpisce rami fiori e frutti. Tra i parassiti animali l'afide nero (Myzus cerasi ), la mosca delle ciliege (Rhagoletis cerasi), le falene dei fruttiferi, i rodilegno (Cossus cossus L. e Zeuzera pyrina L.) e altri insetti e acari (ragno rosso, ragnetto giallo del melo, ecc.). Anche gli uccelli possono provocare danni ai fiori e ai frutti sia in fase di sviluppo che a maturazione.
Pesco originario della Cina e Persia, dove lo si può ancora rinvenire allo stato selvatico. L'introduzione in Europa viene attribuita ad Alessandro Magno o ai Greci che lo avrebbero introdotto dall'Egitto. Viene coltivato in molti Stati nelle zone con clima temperato mite. A livello mondiale i maggiori produttori sono gli Stati Uniti, seguiti dall'Italia, Spagna, Grecia, Cina, Francia e Argentina.
In Italia le regioni maggiori produttrici sono l'Emilia-Romagna (circa 1/3 della produzione), Campania (1/4), Veneto e Lazio. I primi pescheti specializzati in Italia risalgono alla fine dell'800 e sono stati realizzati in provincia di Ravenna. Il pesco appartiene alla famiglia delle Rosaceae, tribù delle Amigdaleae, sezione delle Prunoidee , genere Persica, specie vulgaris. Secondo altri studiosi apparterrebbe al genere Prunus (specie persica), come l'albicocco, il ciliegio, il mandorlo e il susino. Il pesco comune è un albero di modeste dimensioni, alto fino a ca. 8 m, con apparato radicale molto superficiale, corteccia bruno-cenerina e rami radi, divaricati, rosso-bruni. Le foglie sono lanceolate, strette, seghettate. I fiori, che sbocciano prima della comparsa delle foglie, sono ermafroditi, ascellari, pentameri, colorati in rosa più o meno intenso. I petali sono cinque; gli stami sono numerosi, fino a 20-30. Il pesco è, in genere, una specie autoincompatibile. Gli ovuli, generalmente due, non giungono tutti a maturazione, ma solo uno di essi viene fecondato e giunge a maturità. Il nocciolo di pesco contiene perciò un solo seme (o mandorla) solcato profondamente, che è di sapore amaro per l'elevato contenuto di amigdalina, un glucoside cianogenetico caratteristico di alcune drupacee. I frutti (le pesche) sono drupe carnose, tondeggianti, solcate longitudinalmente da un lato, coperte da una buccia tomentosa o glabra (pesche-noci o nettarine) di vario colore. La polpa è succulenta, di sapore zuccherino più o meno acidulo, di color bianco, giallo o verdastro. La pesca ha una tipica consistenza polposa e succosa che è dovuta all'elevato contenuto in acqua ed alla presenza di pectina.
La maturazione dei frutti avviene tra la prima e la seconda decade di maggio nelle zone meridionali, fino alla fine di settembre per le cultivar più tardive. Le condizioni climatiche italiane e degli altri Paesi mediterranei sono ideali per la coltivazione del pesco che può sopportare minime invernali di anche -15 -18°C fino ad ambienti subtropicali dove il riposo invernale è alquanto limitato.
Albicocco (Prunus armeniaca, Armeniaca vulgaris) origine cinese, centro-asiatica, iranocaucasica, tutte zone dove la specie è diffusa. In Italia si trova principalmente nelle regioni meridionali dove si è spostato a causa delle gelate. Appartiene alla famiglia delle Rosaceae, sottofamiglia delle Prunoideae, genere Prunus. Tra le specie affini si ricordano il Prunus brigantiaca sulle Alpi francesi, il Prunus ansu Kamar, coltivato nelle zone umide del Giappone e della Cina orientale e il Prunus mume (albicocco giapponese). Ha fioritura precoce e perciò è più soggetto a danni da ritorni di gelate, nel periodo primaverile; l'impollinazione è entomofila. Limiti pedoclimatici: troppo freddo  comporta anomalie fiorali ed elevata cascola delle gemme; principale fattore limite è l'eccesso di umidità nel terreno e nell'aria, inoltre è sensibile all'asfissia radicale.
Mandorlo (Amygdalus communis, Prunus amygdalus; Prunus dulcis), pianta originaria dell'Asia centro occidentale e della Cina. Venne introdotto in Sicilia dai Fenici, proveniente dalla Grecia, tanto che i Romani lo chiamavano "noce greca". In seguito si diffuse in tutti i Paesi del Mediterraneo e in America nel XVI secolo. della Famiglia delle Rosaceae, sottofamiglia Prunoideae. La specie Amygdalus communis ha tre sottospecie di interesse frutticolo: sativa (seme dolce endocarpo duro), amara (seme amaro per la presenza di amigdalina) e fragilis (seme dolce endocarpo fragile). Pianta alta 8-10 m molto longeva. L'apparato radicale è molto espanso. I rami, di colore grigiastro o marrone, portano gemme a legno e a fiore. Foglie lanceolate, seghettate, piu' strette e piu' chiare di quelle del pesco, portanti delle ghiandole alla base del lembo e lungamente peduncolate. I fiori, ermafroditi, sono bianchi o rosati nell'Amygdalus communis amara, costituiti da 5 petali, 5 sepali e da 20-40 stami. L'ovario presenta 2 sacchi embrionali contenenti, ognuno, 1-2 ovuli. Il frutto e' una drupa di colore verde, a volte con sfumature rossastre, spesso peloso ma anche glabro, ed endocarpo legnoso contenente il seme o mandorla ricoperto da un tegumento liscio o rugoso. In alcune cultivar vi è presenza, all'interno dell'endocarpo, di due semi scartato dal commercio). Il mandorlo e' caratterizzato da una fecondazione entomofila, per cui nel mandorleto è necessaria la presenza di un certo numero di arnie durante la fioritura. La maggior parte delle cultivar e' autosterile ed eteroincompatibile. L'epoca di fioritura, varia fra i diversi ambienti (da gennaio a marzo) ed e' precoce.  La raccolta si attua tra la fine di agosto e la fine di settembre. I frutti caduti a terra, dopo la raccolta vengono fatti asciugare all'aria poi smallati ed essiccati per l'industria dolciaria (confetti, torroni). La lotta alle avversità esclude ogni uso di insetticidi, favorendo la sopravvivenza degli insetti utili con l’inerbimento controllato, l’uso del Bacillus thuringiensis e la distribuzione o il ripopolamento di predatori per la lotta biologica. Nel nostro meridione il "Capnodis tenebrionis", (coleottero) danneggia i mandorleti in asciutto scavando gallerie nei tronchi.
Melo (Malus pupila), originario del caucaso, è oggi coltivato intensivamente in Cina, Stati Uniti, Russia, Europa (Italia e Francia).
In Italia la produzione è concentrata nel settentrione: l'80% col Trentino-Alto Adige in testa. Appartiene alla grande famiglia delle Rosaceae, sottofamiglia Pomoideae, genere Malus. Il melo può raggiungere un'altezza anche di 8-10 metri. Presenta gemme a legno e miste portate da diversi rami fruttiferi, cioè da dardi, lamburde, brindilli e rami misti. Il frutto è un pomo o melonide (falso frutto); la corteccia è tipicamente liscia rispetto altre specie e la foglia si distingue per il margine seghettato. Esiste autoincompatibilità gametofitica nel gruppo della cultivar (cv), perciò sono necessarie più cv per un impianto. È resistente al freddo (fino a -25°C, con qualche eccezione), per la sensibilità alle gelate tardive dipende dall’epoca di fioritura, e sopporta bene il calcare se il terreno è ben drenato, si adatta a vari terreni. Carenze e fisiopatie possono comportare spaccature dei frutti, cascola dei frutti e rugginosità suberosa. Importante malattia batterica è il colpo di fuoco batterico (Erwinia Amilovora), tra le crittogame sono da ricorda la ticchiolatura, mal bianco. Degli insetti si ricordano lepidotteri, quali carpocapsa (Cydia pomonella), rodilegno rosso (Cossus cossus) e giallo (Zeuzera Pyrina), afidi, quali grigio, lanoso, verde, mentre tra altri c’è la cocciniglia di San Josè (Quadrapsidiotus pernicosus).
La propagazione avviene: per seme, margotta di ceppaia e propaggine di trincea per l’ottenimento di portinnesti, anche se vi è una diminuzione dei franchi da seme, mentre si usa l’innesto per la parte superiore. Il panorama varietale è molto ampio e per la scelta ci si riferisce alle Liste di orientamento varietale: Gruppo Gala; Guppo Red Delicius; Guppo Golden; Guppo Jonagold (Novajo, Renetta del Canada, Querina); Guppo Stayman; Guppo Fuji, Gruppo varie (imperatore, Smith, Annurca, Pink Lady).
Pero (fam. Rosaceae, sottof. Pomoideae), genere Pyrus. Specie occidentali, Pyrus Communis, e specie orientali con maggior resistenze al colpo di fuoco batterico; in Cina si usa il Pyrus pyrifolia appartenente a queste ultime. Nel pero si riscontra spesso l'auto-incompatibilità, causata da sterilità fattoriale, morfologica e citologica; come nel melo esistono cultivar che possono dare anomalie. È sempre preferibile ricorrere a buone cv impollinatici. L'impollinazione entomofila sebbene il fiore è poco attrattivo e si preferisce mettere più arnie. Resiste al calcare, soprattutto col portinnesto di cotogno; possiede limiti nella resistenza al freddo e alla siccità (sempre col cotogno che ha apparato radicale superficiale), qualche problema sorge in casi di carenze nutrizionali. Il pero è un albero vigoroso, di forma piramidale nei primi anni e tendenzialmente globosa a muturità, che può raggiungere un'altezza anche di 15-18 m. presenta gemme a legno e miste portate da diversi rami fruttiferi (dardi, lamburde, brindilli e rami misti) frutto è un pomo.
Liste di orientamento varietale per una attenta scelta: Etrusca, Coscia, Santa Maria, William, Highland, Conference, Abate fetel, Harrow sweet, resistente al colpo di fuoco batterico, Kaiser e Passacrassana, Butirra precoce Morettini, William Rossa diffuse.
Propagazione: seme, margotta, propaggine, e innesto.
Actinidia (kiwi) pianta originaria di una vallata dello Yang-tze cinese dove vive spontanea; appartiene alla Famiglia delle Actinidiaceae, genere Actinidia, suddiviso in due sezioni: - Actinidia chinensis (A. deliciosa) da mercato e Actinidia arguta ornamentale. Diffusa in Europa da metà del XX secolo. L'Italia (Lazio, Piemonte, Veneto, Campania e Calabria )è l'attuale maggiore produttrice alla quale seguono Nuova Zelanda, Cile, USA, Giappone e Francia. E' una pianta rampicante e può raggiungere i 10 m.
L'apparato radicale è superficiale, il fusto presenta tralci anche molto lunghi che portano gemme miste e a legno. Le foglie sono semplici, decidue, cuoriformi con picciolo molto lungo. È una specie dioica con cv pistillifere e staminifere, un maschio ogni 6-8 femmine; fiori singolo o raggruppati in 2-3 (infiorescenze triple possono richiedere un diradamento dei fiori in fase di allegagione), presenti a partire da maggio; il frutto è una bacca ricoperta da peluria, la polpa è di un verde caratteristico, punteggiata di minuscoli semi, violacei o neri, disposti intorno a un cuore biancastro (columella). L'impollinazione è entomofila anche se i fiori non sono molto attrattivi per le api e perciò si aumenta il numero delle arnie; in misura minore anche anemofila. Teme i danni da freddo ed i ristagni idrici, può presentare problemi con terreni ad elevato calcare attivo, pH>7,6, ed in presenza di forte ventosità (uso di frangiventi).
Nocciolo originaria dell'Asia Minore, in Italia (tra i principali produttori mondiali) è diffuso in tutte le regioni, dalla pianura fino 1300 m di altitudine. Appartiene alla Famiglia delle Betulaceae, genere Corylus, comprendente numerose specie tra cui Corylus avellana e C. maxima, C. chinensis. Portamento a cespuglio, pollonifero, alto in genere 2-4 m (max 7 metri). Il fusto è sottile e slanciato. I giovani rami recano peli corti, in parte ghiandolari. La corteccia è di colore marrone grigio, precocemente glabra, con solcature longitudinali e sparse lenticelle chiare. Le radici sono superficiali; le foglie alterne rotondo-ovali con picciolo lungo. La pagina superiore è verde poco pelosa; la pagina inferiore è più chiara; le nervature sono evidenti. Pianta monoica con fiori riuniti in infiorescenze unisessuali che si sviluppano molto prima delle foglie. Gli amenti maschili sono riuniti in gruppi di 2-4 all’estremità oppure all’ascella delle foglie dei rami dell’anno precedente, i fiori maschili sprovvisti dell’involucro, hanno quattro stami. La produzione di nocciole e' molto variabile oscillando da 1-2 q.li/ha di prodotto secco con guscio, in condizioni normali, a 5-15 q.li/ha in coltura specializzata forzata. La raccolta viene effettuata in agosto-settembre. Il nocciolo e' una delle piante predilette dal tartufo bianco (Tuber Magnatum) e dal tartufo nero di Norcia (Tuber melanosporum).
Le foglie di nocciolo sono tuttora ricercate per donare all'epidermide la purezza e la freschezza desiderata. La sostanza contenuta in queste foglie ha una decisa azione astringente, migliora lo stato dei pori troppo dilatati, riducendo la secrezione grassa; ha, ancora, una efficace azione tonificante sulla pelle sì da renderla fresca e candida come quella dei fanciulli e questa azione esplica tutta la sua efficacia soprattutto su quelle persone che, per essere vissute in ambienti malsani o per aver abusato di impiastri chimici, accusano una pelle aggrinzita ed afflosciata; serve, infine, a fare scomparire i punti neri e a smorzare le lentiggini. Per queste ragioni, sia che si voglia mantenere intatta la propria bellezza, sia che si voglia correggere tutte quelle imperfezioni sopraricordate, si faccia uso del decotto di foglie di nocciolo, con il quale ci si laverà sovente, riuscendo così ad allontanare dal viso la patina del tempo.
Canapa (Cannabis sativa) Ordine: Urticales, inglese Hemp; spagnolo: Cáñamo. Pianta originaria delle regioni nord e sud Himalaya. La Cina è il Paese in cui è coltivata da più lungo tempo. La sua introduzione in Europa risale al secondo millennio a.C. e in Italia è segnalata nel I secolo a.C. specie in Pianura Padana. Nel ventesimo la sua superficie è andata diminuendo resiste in Cina, India, Europa dell'Est e Russia. Pianta annuale, con radice fittonante e fusto eretto, più o meno ramificato, robusto, dapprima pieno poi cavo, alto fino a 4 metri. Le foglie sono prevalentemente opposte, picciuolate, palmatosette, con 3-9 segmenti lanceolati, acuminati, seghettati, pubescenti. Generalmente è specie dioica, presentando le infiorescenze maschili e femminili su piante diverse. I fiori maschili sono riuniti a formare delle infiorescenze, dette pannocchie, poste in posizione ascellare, mentre quelli femminili sono appaiati, sempre in posizione ascellare, ma in corrispondenza delle due stipole, piccole, acuminate e caduche. Il frutto è un achenio, comunemente chiamato seme di canapa o canapuccia. La forma è comunemente ovoidale, ma a volte quasi sferica. Il colore non è uniforme, ma si presenta più o meno macchiettato, grazie ad un reticolo di fasci vascolari situato sotto l'epidermide del pericarpo. Predomina il bruno, talora olivastro o tendente al rossiccio, ma non mancano frutti più chiari, biancastri e verdognoli. Contiene un unico seme, racchiuso in un pericarpo sottile di consistenza cornea, indeiscente, bivalve (peso 1.000 semi pari a 20-22 grammi). La canapa riesce ad adattarsi ai più svariati ambienti, anche se i migliori risultati produttivi si ottengono in zone umide e con temperature di 20-25°C durante tutto il ciclo e nei terreni argillosi e fertili. Coltura da rinnovo, si semina a fine aprile-primi maggio, in file distanti 15-18 cm, in modo da ottenere, alla raccolta, un investimento di 100-200 piante a metro quadrato, che si raggiunge impiegando circa 60 kg/ha di seme. Non teme le infestanti, poiché, una volta conclusa la fase di emergenza, ha sviluppo rapido ed elevata competitività. Se la raccolta riguarda la bacchetta viene effettuata in corrispondenza della fioritura femminile (prima metà di agosto); se si vuole ottenere anche la produzione di acheni, viene posticipata alla fine di settembre. Un tempo la raccolta veniva fatta a mano, per la preparazione di fibra (12-15 quintali) impiegata per la fabbricazione di tessuti, cordami, carte speciali, filtri e isolanti termo-acustici. Dalle piante femminili si può utilizzare anche il seme (fino a 15 quintali ad ettaro), utilizzato per l'estrazione di olio impiegato per la produzione di colori e vernici. Il materiale che rimane dalla stigliatura può essere impiegato come lettiera, mentre i panelli di estrazione vengono impiegati nell'alimentazione zootecnica. La Canapa indiana (Cannabis indica), originaria del Kafiristan, a sud dell'Hindukush, fornisce fibra assai mediocre. In Oriente viene coltivata per l'estrazione di medicine e droghe: dalle estremità fiorite si estrae l'hascisc, mentre le foglie secche formano il bhang. Tale specie è di bassa statura, con steli a sfumatura vinosa, foglie tendenti ad essere alterne, segmenti fogliari molto stretti e lunghi, semi piccolissimi e scuri. Tutta la pianta ha un aspetto contratto, foglioso, ed un colore verde molto intenso.

Altre Piante Alimurgiche (spontanee di uso alimentare)
Liliacee:
pungitopo/rusco/caffè Sicialiano, asparago pazzo (ruscus aculeatus): caratteristica dei lecceti, si raccolgono i nuovi getti (turioni) di colore bruno-violaceo che, in primavera, emergono dal terreno fra gli spinosissimi rami degli anni precedenti. I turioni del Pungitopo si consumano come gli Asparagi selvatici o coltivati, ma hanno un sapore più amarognolo e richiedono un maggior tempo di cottura. Per allontanare l’eccesso di sostanze amare si suole cuocerli in abbondante acqua. Una volta lessati, si mangiano conditi con sale, pepe, olio e succo di limone oppure si usano come ingredienti per le frittate. Il nome volgare Pungitopo e affini (Pungiratto, Piccasorci, ecc.) deriva dalla pratica agricola di disporre una corona di rami secchi di questa pianta ai piedi degli alberi da frutta per evitare che su di essi salgano i topi; analogo uso viene fatto nelle case di campagna del Veneto, dove ramaglie di Pungitopo vengono fissate ai piedi dei tavoli e delle dispense oppure nelle scaffalature sulle quali si allevano i bachi da seta. Il nome Brusco e derivati (Bruscolo, Bruscanza, ecc.) alludono al sapore amarognolo dei turioni; infatti 'brusco' si dice di cibo o persona aspra ma non sgradevole. Vari lessicografi ed etnobotanici (TRAINA, 1868; NICOTRA, 1883; PITRÈ, 1939; PROVITINA, 1990;) riportano la corrispondenza Sparacogna = Asparago pungente. Pitrè cita una credenza siciliana secondo la quale i rami di questa pianta “legati a piccoli mazzi si mettono sui pavimenti delle case perché fanno morire le pulci”. In varie regioni d’Italia i rami di Pungitopo sono impiegati come rustiche scope per pulire l’aia dopo la trebbiatura, fatta con il mulo. Altrove nel mondo, le scope di Pungitopo sono adoperate dagli spazzacamini per pulire le canne fumarie. Rami di Pungitopo provvisti delle bacche rosse si regalano durante le feste natalizie e di fine anno con significato beneaugurale. La presenza di bacche rosse porta, alle volte, a confondere la pianta in questione con l`Agrifoglio (Ilex aquifolium L.), un arbusto sempreverde a foglie spinose e bacche rosse, impropriamente chiamato Rusco/pungitopo ed impiegato con lo stesso significato del Pungitopo. Le bacche di Pungitopo e dell’Agrifoglio sono velenose e la loro ingestione può causare convulsioni. I semi del Pungitopo, in tempi di magra, sono stati usati come succedanei del caffè dopo tostatura. Coltivato a scopo ornamentale nei giardini per siepi e bordure, in vari casi gli erbaioli intervengono sulle piante selvatiche effettuando una forzatura, sfoltendo i cespugli o bruciandoli; in tal modo si favorisce una più precoce e copiosa produzione di turioni

 

Maitake, Reishi, Shaiitake

Maitake: (Grifola frondosa o Polyporus frondosus) Berbesin nel dialetto piemontese, è un fungo pieno di foglie, molto apprezzato localmente ma poco conosciuto. Debole parassita delle radici, cresce alla base di latifoglie (da noi si trova quasi esclusivamente alla base di vecchi castagni, o su ceppaie di acero), da settembre a novombre, sviluppandosi da un piccolo "embrione" e crescendo a mano a mano, sia del numero che nella dimensione delle "foglie frondose" di cui è composto, fino ad arrivare talvolta ad esemplari di oltre 10 kg. La sua morte "culinaria" è sicuramente il sott’olio; mantiene dopo la bollitura una notevole consistenza oltre a un buon gusto di nocciola. Con un solo esemplare di buona dimensione ci si può procura una buona "provvista" di "Berbesin" sott’olio. Cresce normalmente a fine estate in un'unica suite annuale; è oggetto d'intensa ricerca da parte di buongustai , mentre è trascurato da altri; i raccoglitori occasionali normalmente non lo conoscono nemmeno.
Ha una lunga storia d’uso nella culinaria e medicina tradizionale Cinese e Giapponese dov’è considerato un adattogeno, aiuta cioè il corpo ad adattarsi allo stress e normalizzare le sue funzioni. Le sue proprietà curative sono legate al suo alto contenuto di un polysaccharide (beta-1,6-glucano). In studi di laboratorio, ma mostrato capacità di prevenire carcinogenesi e inibire la crescita  di tumori cancerosi, uccide l’HIV, e stimola l’attività delle cellule immunitarie chiave (T-helper cells o CD4 cells). Maitake may also be useful for diabetes, chronic fatigue syndrome, chronic hepatitis, obesity, and high blood pressure. It is better absorbed than other mushrooms and it is almost as effective when taken orally, can be eaten in food or taken as a supplement or intravenously. Buy organically grown dried mushrooms (to use them in cooking, soak them in water or broth for half an hour), or purchase maitake in capsule extract, or tea forn. Some of the capsule supplements contain a small amount of vitamin C, which enhances the effectiveness of the active ingredient in maitake by aiding in its absorption.

Miko/maitake bis: Gymnopilus spectabilis/Junionus/Pholiota spectabilis. Spectabilis (rispettabile) per le dimensioni enormi che può raggiungere il gambo in altezza (il cespo può arrivare oltre il metro!). Si riconosce per il cappello, giallo-arancio, ricoperto da fibrille appressate brunicce. Cappello: Dai 6 ai 20 cm circa, convesso, poi espanso, spesso con umbone ottuso, margine sottile e per lo più involuto, con residui di velo. Cuticola asciutta, dorata oppure color arancio, marrone in età; ricoperto di squame fibrose color bruno. Lamelle mediamente fitte, decorrenti con un dentino, di colore giallastro, poi bruno ruggine.
Gambo: Robusto, alto, anche di dimensioni enormi (Fino a 80 cm di lunghezza!), con base radicante, fibrosa, estremamente legnosa; color giallo oppure marrone, squamoso nella parte inferiore, ricoperto da una pruina biancastra sopra l'anello, scaglioso sotto. Anello: membranoso, ampio, color giallo, poi ruggine per via della sporata.
Carne amara compatta, molto coriacea, fibrosa nel gambo, di colore giallo chiaro o giallo paglierino da giovane, giallastra o giallo-ocreaceo in età avanzata, color marroncino negli esemplari più vecchi. Odore: gradevole, fungino; a volte un po' forte, è possibile percepire l'acredine del fungo perfino dal suo odore. Sapore: amarissimo, molto sgradevole. Diventa dolce con marcato retrogusto amarognolo se cucinato nella maniera opportuna; produce sindrome psilocibinica. Habitat: cresce in gruppi, spesso cespitoso, su vecchie ceppaie marcescenti di conifere o latifoglie, in particolare di eucalipto, leccio o pino, dalla tarda estate all'autunno inoltrato. È frequentemente preda delle larve, specialmente nel gambo.
Buon commestibile, ma praticamente immangiabile da crudo oppure poco cotto per via del sapore amarissimo, che si stempera dopo una lunga cottura in un sapore dolce ed amarognolo molto gradevole che ricorda il luppolo. Consumare preferibilmente esemplari giovani, in quanto gli esemplari molto vecchi sono troppo coriacei ed amari. Preparazione: eliminare quasi tutto il gambo in quanto troppo coriaceo. Cuocere molto a lungo (anche 60 min) in acqua bollente. Il fungo in questione emette moltissima schiuma. Dopo la cottura versare i funghi in uno scolapasta sotto acqua fredda e lavarli per bene, fino a quando la schiuma non sparisce completamente. Porre i funghi in un pentolino pieno d'acqua fredda e lasciar correre un filo d'acqua dal rubinetto per circa un'ora. In seguito riempire il pentolino con altra acqua, leggermente salata, senza però lasciarla correre; lasciar riposare per un paio di ore. Successivamente i carpofori possono essere cucinati nella maniera desiderata, ma si prestano meglio alla conservazione sott'olio.
All'estero è conosciuto, unitamente ad alcune specie congeneri, come il "fungo della risata" (Laughing Mushroom) per le sue proprietà psicotrope sebbene in vari parti, come in Italia, non sviluppi le medesime proprietà. In alcune zone del Giappone viene adoperato per rallegrare i commensali. "può essere dato alle donne per farle ridere e convincerle a ballare nude come la prima donna Miko", questo afferma Nihachiro Sasaki, anziano micologo giapponese noto per aver scoperto come coltivare il "Maitake" (Grifola frondosa) officinale. In Italia il consumo di questa specie è vietato, al pari delle specie dei generi Stropharia e Psilocybe. Specie simili: Difficilmente confondibile con altre specie anche in considerazione delle dimensioni ragguardevoli che può raggiungere, Gymnopilus junonius , commestibile dopo prolungata cottura, di taglia mediamente più piccola, potrebbe essere confuso, dai meno esperti, con alcune forme particolari di Armillaria mellea, la cui carne però non è amara come G. spectabilis.  I più inesperti potrebbero confonderlo, quando è giovane, con il congenere Gymnopilus penetrans, che però è di taglia nettamente più piccola e che non sempre cresce cespitoso.

 
Shiitake
Lo Shiitake (Lentinus Edodes) proviene dall’estremo Oriente, già diffuso nell’antica Cina prima ancora dello sviluppo della coltivazione del riso e da centinaia di anni parte integrante della dieta in Giappone. Il suo nome deriva dall’unione delle due parole giapponesi “Shii” (quercia) e “Take” (fungo), in quanto cresce spontaneo sui tronchi di questi alberi. La sua coltura si sta diffondendo anche in Europa, ed è reperibile nei negozi di prodotti biologici in forma secca. Dotato di alte qualità extra-nutrizionali, oltre a un grande sapore e un discreto apporto calorico dovuto alla quantità di proteine presenti (296 kcal/1238 kJ per 100 gr di prodotto secco), appartiene alla tradizione culinaria orientale, che da sempre associa al piacere del palato una funzione curativa del cibo. Alcune sue componenti sono risultate efficaci nel trattamento di alcuni tumori (leucemie e cancro al seno), nella riduzione dei livelli di colesterolo nel sangue, nella stimolazione del sistema immunitario (il polysaccharide lentina, accresce la formazione di cellule T). Ha proprietà antivirali, antitumorali, riesce ad abbassare il tasso di glicemia e colesterolo (90 g di questi funghi al giorno, per una settimana, abbassano il tasso di colesterolo del 12% in media nelle persone sane e neutralizzano i danni derivanti dalla massiccia introduzione di grassi saturi). Shiitake contiene 18 amino-acidi (7 dei quali essenziali) e minerali come silice, calcio, magnesio, zolfo, ferro, sodio, potassio, fosforo, alluminio. Contiene vitamine del gruppo B: B1 (thiamine), B2 (riboflavin) e B3 (niacin) e, quando seccato al sole, sviluppa molta vitamina D.
Reishi (Ling zhi, Ling-chih traditional Chinese), Ganoderma lucidum, G. applanatum and related species – Fam. Basidiomycetes
il genere Ganoderma in Europa è rappresentato da: G. adspersum, applanatum, carnosum, lucidum, pfeifferi, resinaceum e valesiacum. Per uso terapeutico nel nostro continente sono noti solo, applanatum e lucidum, mentre in oriente usano anche G. japonicum, sinense, tsugae ed altri ancora. Delle altre specie europee, per la loro infrequenza, non ci risultano ricerche fatte. In Calabria sono frequenti il carnosum e pfeifferi, e contengano le stesse proprietà curative di quelli noti.
Il Ganoderma lucidum, (cinese: Ling Zhi, giapponese: Reishi, spagnolo: Pipa) è un fungo diffuso nell’ambiente mediterraneo, raro altrove, ma coltivato in numerosi paesi. Utilizzato in Oriente sin dal 20° secolo a.C., nella tradizione gli sono attribuite proprietà di accrescere l’energia vitale con mantenimento del vigore giovanile; nei classici viene chiamato Pianta dell’immortalità. Assorbe i vapori terreni e ne emette di celesti. In Europa fruttifica specialmente sulle ceppaie e sui tronchi di quercia, mentre in Giappone, prevalentemente sul prugno. Meno diffuso su altre latifoglie come acero, betulla, castagno, cisti, erica, faggio, frassino, nocciolo, ontano, pioppo, pero e tiglio. Più raro su conifere come abete, larice e pino. Le quantità di consumo vanno dai 3 ai 10 g di fungo secco o polverizzato. I Cinesi usano bollire gli sporofori lentamente per 4 ore e poi bere l’acqua e/o, se giovane e tenero, mangiarne la polpa. Alcuni lo prendono come tisana, mettendo 5 grammi di fungo secco polverizzato in una tazza dìacqua bollente e lasciato in infusione per 5 minuti, poi bere il tutto oppure aggiunto nella minestra o preso mischiato ad un pò di miele. Preso come cura in uno dei metodi sopra annotati, la prima settimana 3 volte al giorno con una quantità di 5 grammi la volta. La seconda settimana aumentare a 10 grammi la volta. Dalla terza all’ottava settimana, sempre tre volte al giorno, si aumenta ancora 15 grammi la volta. Poi ancora per 3 settimane scendere a 10 grammi la volta e le ultime 3 settimane a 5 grammi la volta.
La cura risulta efficace contro: allergie della pelle, infezioni, ipertensione arteriosa, infiammazioni, virus, insonnia, diabete, colesterolo, stipsi, emorroidi. Elimina il catarro, calma la tosse, cura la bronchite e l’asma bronchiale e previene le malattie dell’apparato respiratorio. E’ un forte tonico e rafforza tutti gli organi, specialmente il fegato e il cuore, inoltre aiuta nelle mestruazioni troppo dolorose. Ha una potente attività antiossidante, di protezione del patrimonio genetico dall’azione mutagena dei radicali liberi. Il paese europeo nel quale è usato di più è la Spagna. A Barcellona a volte lo si può comperare al mercato.
Molto riverito in Cina e Giappone come potente medicina che stimola il sistema immunitario and embolsters the spirit. They were rated number one on ancient Chinese lists of superior medicines, and were believed to give longevity. Today, both shiitake and reishi mushrooms are used to treat a variety of disorders and to promote vitality. Provent high blood pressure and heart disease, to control and lower cholesterol, to build resistance to disease, to treat fatigue and viral infections, have anti-tumor properties valuable in treating cancer. The mushrooms are available fresh or dried for use in foods (soak dried mushrooms in warm water or broth for 30 minutes before using), as well as in supplements in capsule, pill, and extract form.
Ling zhi is listed as sweet, mild flavour with a warm property. Its action is nourishing, supplementing, tonifying. It removes toxins, disperses accumulation, and stops tightness in the chest.  Ling-zhi has been considered the most valuable herb of the Orient, outpacing even the reputation of ginseng. The mystical qualities attributed to this herb might be explained by the rarity of this plant. Only 2 - 3 mushrooms are found for every 10,000 dead plum or hemlock logs. Sophisticated cultivation techniques now make Reishi more available. The nature of reishi mushroom is documented in Shen nung tsao ching (56 B.C.). Reishi is commonly prescribed in China for the treatment of chronic hepatitis, has been reported to be effective in treating patients with liver failure. In animal studies of mice with carbon tetrachloride-induced hepatitis, the extent of liver damage was significantly inhibited by continuous dosing with Reishi tincture, and the regeneration of the liver was promoted. It has been considered number one amongst the higher herbs. Over the centuries it has gone by many names: Happy herb, herb of spiritual potency, Miraculous chi, Auspicious herb. When one reads the list of ailments it is supposed to cure, there is an immediate impression of a snake oil product. A cure-all! It is tempting to consider the stories about Reishi as wives tales along with lore such as: `the gods planting it in the mountain, for only the special to find. On the other hand, Nissan (one of the three largest conglomerates in Japan) has conducted extensive research on Reishi and is the major world supplier of the herb. The list of traditional uses is long, in the terms of traditional Chinese medicine, it includes: nourishing, supplementing, toning, removing toxins, and dispersing accumulation. It is indicated for neurasthenia, nervousness, dizziness, insomnia, high blood pressure, high cholesterol, chronic hepatitis, cancer, AIDS/ARC, nephritis, bronchial asthma, allergies, pneumonia, stomach disease, coronary heart disease, diabetes, angina, mushroom poisoning, fatigue, and for enhancing longevity. Reishi is often classed as an adaptogen (a substance that aids the body in resistance against a wide range of physical, biological and environmental stresses). Dosage: 1 - 15 gms daily, with 3 - 6 gms being the most common recommendation. Willard T.; Reishi Mushroom: Herb of Spiritual Potency and Medical Wonder; Sylvan Press Issaquah Wa; 1990.
http://www.wrc.net/wrcnet_content/herbalresources/materiamedica/materiamedica.aspx?mmid=24

Funghi psicotropi presenti in Italia - da Samorini Network

Specie ad alto potenziale:
Amanita muscaria Linn. ex Fr. (comune)
Amanita pantherina (Fr.) D.C. (comune)
Psilocybe semilanceata Fr. (Quél.) (comune)
Psilocybe callosa Fr.(Quél.) (non comune)
Psilocybe cyanescens Fr.(Quél.) (raro)
Panaeolus subbalteatus (Berk. et Br.) Sacc. (comune)
Panaeolus ater Lge.(Kuhn et Romagn.) (non comune)
Panaeolus (Copelandia) cyanescens(Quél.) (raro)
Pluteus salicinus

NOTA – I funghi contrassegnati dall’asterisco sono psilocibinico-latenti, ovvero sviluppano le loro proprietà psicotrope a seconda dell’area geografica in cui crescono.
Specie a basso potenziale:
Panaeolus campanulatus* L. (Fr.) (comune)
Panaeolus fimicola (comune)
Panaeolus foenisecii (Pers. ex Fr.) Kuhn. (comune)
Panaeolus retirugis* (Fr.) Gill (non comune)
Panaeolus sphinctrinus* (Fr.) Quèlet (comune)
Psathyrella candolleana (comune)

Specie dubbie:
Amanita gemmata (raro)
Psilocybe coprophila (non comune)
Psilocybe montana (non comune)
Mycena pura (comune)
Rickenella (Gerronema) fibula (raro)
Inocybe haemacta (non comune)
Gymnopilus spectabilis (comune)
Gymnopilus fulgens (non comune)

La maggior parte dei funghi riscontrati (Psilocybe e Panaeolus) appartengono al gruppo dei basidiomiceti psilocibinici, contenenti psilocibina e/o psilocina. Questi crescono essenzialmente nei prati, nei pascoli, nelle zone aperte ove l’erba non sia troppo alta; alcuni di loro sono strettamente fimicoli, ovvero crescono solo sugli escrementi di animali, in particolare bovidi e cavalli (es. Panaeolus campanulatus e Pan. sphinctrinus). I luoghi di maggior riscontro in Valcamonica, sono gli alti pascoli estivi (malghe), dagli 800m sino al 2300m di altitudine. Altra caratteristica generale dell’habitat della maggior parte di questi funghi è l’acidità del terreno su cui crescono; acidità che può dipendere strettamente dal tipo di substrato geologico o anche dai lavaggi-scorrimenti dell’acqua per i pendii dei monti. Vi sono zone in cui concorrono tutti questi fattori nella costituzione di una elevata acidità del terreno, tale da dar vita a praticelli interamente cosparsi di funghi psilocibinici in notevole quantità e con più specie, ognuna diffusa in maniera pressoché indifferenziata fra le altre. V’è anche da tenere conto che la maggior parte dei Panaeolus europei rientra fra i funghi psilocibinico-latenti, ovvero produttori di psilocibina solo in determinate aree geografiche; per esempio, campioni di Pan. retirugis raccolti in territorio francese han mostrato assenza, mentre campioni della stessa specie, nei dintorni di Torino han rivelato presenza  aatorno all’1 % nei carpofori secchi. Secondo l’ipotesi di Gitti et al, le zone di sviluppo della latenza valide per una di queste specie di Panaeolus, possan essere valide anche per le altre (o alcune di esse). I funghi psilocibinici più potenti registrati in Valcamonica appartengono al genere Psilocybe, e alla sezione Caerulescentes alla quale appartengono anche i più noti di origine messicana, usati da tempi remoti delle popolazioni native per scopi didattici, religiosi e terapeutici. Una caratteristica comune alle Psilocybe, è la distinta bluificazione (nilakanta) del gambo al tocco o quando più semplicemente lo si stacca dal terreno. Pare che questo processo dipenda da una particolare sequenza ossidativa nella quale concorrono i due indoli, per tale motivo, il fenomeno della bluificazione del gambo è fattore determinante la presenza di questi all’interno di uno Psilocybe o affini.
Abbiamo seguito passo a passo lo sviluppo di Ps. semilanceata in alcune zone del territorio bresciano, durante un’intera stagione (da fine luglio a novembre inoltrato, 1982) e siamo giunti alla conclusione che questa specie, date le analoghe caratteristiche ambientali, dovrebbe essere diffusa anche nel Trentino, Bergamasco e nella provincia di Sondrio. Difatti in alcune zone di questi territori, verso la fine di settembre abbiamo osservato una crescita di Ps. semilanceata che superava di molto quella di tutti gli altri agarici presenti nello stesso prato. Una caratteristica costante del luogo di crescita è l’acidità del terreno su cui si sviluppa; più volte ci è bastata la sua determinazione (mediante specifici misuratori di Ph in relazione a cartine geologiche locali) per scoprire nuove zone di crescita. Per ora non l’abbiamo mai rinvenuta al di sotto dei 1000 m di altitudine.
La Psilocybe cyanescens ha un aspetto robusto, è fortemente bluificante, ed è spesso avvistabile in habitat boschivi o limitrofi alla semilanceata. Si tratta della specie piu' potente avvistabile in Italia, cresce in piccoli gruppi, e sebbene, rara, è diffusa in tutto il territorio italiano, dalle Alpi sino al massiccio dell'Aspromonte. Una sua consorella, il più delle volte non distinguibile, specie con tempo umido, è la Psilocybe callosa.
Passando dal genere Psilocybe (Strophariaceae) a quello dei Panaeolus (Coprinaceae), dobbiamo citare in primo luogo il Panaeolus ater e il Panaeolus subbalteatus. Sono due fra i Panaeolus che i lavori di OLA’H hanno rivelato essere sempre dotati di psilocibina così come varie altre specie dello stesso genere; mentre il primo l’abbiamo riscontrato molto raramente nel territorio bresciano, il secondo è diffuso abbondantemente in numerose zone della Val Trompia. Precedenti analisi chimiche hanno rivelato in essi la presenza della sola psilocibina (6). Casi di intossicazioni accidentali di natura psicotropa provocati dall’ingestione di carpofori di Pan. subbalteatus sono stati ultimamente registrati in Scozia (7).

Il Panaeolous retirugis (Fr.) Gill. è facilmente distinguibile dagli altri Panaeolus per le marcate grinzosità che percorrono radialmente la superficie del cappello; in campioni raccolti nei dintorni di Torino è stata riscontrata la presenza di psilocibina in quantità che si avvicinano allo 0.1% del peso secco dei carpofori, oltre che di serotonina, triptofano e di 5-idrossi-triptofano (8). In campioni raccolti e analizzati in altre zone d’Europa invece non è stata riscontrata presenza di psilocibina (9). Anche il Pan. retirugis è dunque da considerare uno "psilocibinico-latente". Nel bresciano abbiamo osservato la sua presenza nei pascoli d’alta montagna; raro durante l’estate, localmente diffuso verso l’autunno, è uno degli ultimi che soccombono al freddo autunnale.
Il Panaeolus campanulatus, fimicolo, essenzialmente cosmopolita, è uno dei Panaeolus più comuni non solo in territorio bresciano ma anche in tutto l’arco alpino. È diffuso anche in pianura, su terreni concimati, letamai, pascoli bovini ed equini. Sebbene OLA’H non abbia riscontrato la presenza di indol-derivati, ricerche più recenti hanno dimostrato la presenza di tracce di psilocibina in campioni raccolti nel Torinese. È noto anche l’uso "ricreazionale" di questo fungo in alcune zone del Nord America (California del Sud), ma potrebbe trattarsi di una forma diversa da quella nostrana.

La presenza del Panaeolus foenisecii, di non facile identificazione (almeno secondo i suoi caratteri macroscopici), è stata da noi riscontrata sia in pianura che in alta montagna, sino ai 2000 m di altitudine. Non rara nel Bresciano, questa specie cresce nei prati e nei pascoli, non necessariamente legato ad habitat fimicoli. E considerato anch’esso uno dei Panaeolus psilocibinico-latenti (0.17%) e in alcuni dei campioni reperiti nel Torinese è stata riscontrata la presenza di psilocibina.
Il Panaeolus sphinctrinus, un tempo considerato una varietà del Pan. campanulatus, è anch’esso molto comune, caratterizzato dalle frequenti dentellature al bordo del cappello, soprattutto nei soggetti giovani, e dal suo habitat strettamente fimicolo: sebbene sia considerato psilocibinico-latente, detta "latenza" non è stata finora rivelata nei carpofori italiani. V’è da notare tuttavia, che per ora è stata effettuata una sola ricerca analitica a riguardo, basata su campioni raccolti nella zona torinese. Questi tre Panaeolus (Pan. retirugis, Pan. campanulatus, Pan. sphinctrinus), come s’è visto sono tutti considerati psilocibinico-latenti, ma la serietà della ricerca scientifica esige anche la localizzazione della aree geografiche in cui queste specie si sviluppano. Noi avanziamo l’ipotesi che le zone di sintesi del principio attivo, valide per una di queste specie di Panaeolus, possano essere valide anche per le altre (o per lo meno per alcune di esse): ovvero se in una zona il Pan. foenisecii produce psilocibina, è molto probabile che anche altri Panaeolus psilocibinico-latenti che crescono in quella stessa zona siano in grado di sintetizzare psilocibina e/o psilocina. Questa nostra ipotesi è nata dalla constatazione che in numerose aree del bresciano oggetto dalla nostra ricerca, dette specie di Panaeolus crescono in maniera pressoché promiscua (il Pan. campanulatus col. Pan. sphinctrinus e col Pan. retirugis, il Pan. foenisecci sempre un po’ più distante dall’habitat strettamente fimicolo).

Come ho potuto confermare in Valcamonica, la potenza delle Psilocybe allucinogene sembra dipendere dal variare dell’altitudine; più è alto il luogo di crescita, più il fungo produce psilocibina, sino ad arrivare alle massime altitudini consentitegli dove il fenomeno della bluificazione si presenta su quasi tutto il fungo, anche sul cappello.
Questa stessa relazione fra altitudine e "potenza" psicotropa è valida anche per l’Amanita muscaria (e la sua affine A. pantherina), il noto fungo del sottobosco dotato del classico cappello rosso cosparso di puntini bianchi (rimanenze dell’ovulo originario), pur essendo differenti i principi attivi allucinatori contenuti da questo ultimo.
L’A. muscaria è un fungo cosmopolita che cresce attorno a betulle, abeti, pini e quercie, comunemente diffuso nel bresciano. E’ il fungo "magico" per eccellenza, il più noto ed il più appariscente, al quale sono associati i più antichi rituali di natura etnomicologica. In India i sacerdoti veda facevano uso durante le loro cerimonie religiose del succo di una pianta inebriante, il Soma, ed oltre un centinaio di versi presenti nei Rg-Veda, il più antico documento religioso dell’India, sono dedicati a questa divina pianta "senza radici, senza foglie e senza fiori". Wasson (1967) ipotizzò che il Soma fosse l’A. muscaria e ricerche ulteriori tendono a confermare tale supposizione.
Di recente pubblicazione è la scoperta della presenza di psilocibina e di psilocina nel Pluteus salicinus(Pers. ex. Fr.) Quél. (11), un fungo della famiglia delle Pluteaceae che cresce su legno di faggio, ontano e salice. È comune in alcune aree d’Europa oltre ad essere diffuso in vari stati dell’America del Nord (13). Lo si distingue dagli altri Pluteus per il cappello di forma irregolarmente ellissoidale, raggiato di fini fibrille, sovente brune verso il centro, dove può apparire vellutato. E uno di quei funghi che bluificano al tocco (ad eccezione della sua varietà achloes Sing.) ed è proprio questa sua caratteristica che ha indotto a ricercare in esso elementi di natura indolica. L’analisi differenziata, inoltre, ha mostrato una maggiore quantità di psilocina che di psilocibina, fatto non comune nell’ambito dei funghi psilocibinici, in cui il rapporto psilocibina/psilocina è generalmente maggiore dell’unità.
Lo stesso fatto che la psilocibina e la psilocina siano state ritrovate in un Pluteus, sconfinando quindi dai già noti sette generi rappresentanti le quattro famiglie: Bolbitiaceae (Conocybe, Pholiotina), Coprinaceae (Copelandia, Panaeolus), Cortinariaceae (Gymnopilus) e Strophariaceae (Psilocybe, Strophariae), deve essere motivo di studio e di analisi di altri funghi appartenenti a differenti famiglie che presentano pure essi il fenomeno della bluificazione al tocco. Per tale motivo indichiamo anche il Pluteus cyanopus (Quél.) Métr. (14) come possibile elemento psicotropo della micoflora europea. Per ora non abbiamo ricercato la presenza di questi due Pluteus nel territorio bresciano, pur essendo già stata segnalata da altri.

micologia: Chavi generiche per gli agarici con spore marrone scuro/nero
1a) Cappello simile a un’ostrica, con un gambo corto, attaccato eccentricamente: Melanotus
1b) Cappello non simile a un’ostrica, con gambo attaccato centralmente: 2
2a) Lamelle deliquescenti (fondenti) in un fluido nero, o che diventano sottili come carta e scompaiono alla maturità: Coprinus
2b) Lamelle diverse da come sopra: 3
3a) Parziale velo membranoso (talvolta flocculoso), spesso lasciante un anello membranoso sul gambo: 4
3b) Parziale velo non membranoso, anello membranoso non presente: 10
4a) Lamelle decorrenti, spesse e cerose: 5
4b) Lamelle diverse da come sopra: 6
5a) Superficie del cappello molto viscida o glutinata quando umida. Pellicola e velo parziale spessamente gelatinose. Carne del cappello biancastra, senza mostrare reazione-blu con la iodina di Melzer: Gomphidius
5b) Superficie del cappello asciutta, talvolta viscida se umida. Velo parziale non gelatinoso. Carne del cappello colorata, reazione-blu con la iodina di Melzer: Chroogompus
6a) Lamelle libere. Deposito delle spore tipicamente marrone/cioccolato: Agaricus
6b) Lamelle attaccate (se non secedenti).Deposito delle spore non come sopra: 7
7a) Deposito delle spore tipicamente nero: Psathyrella
7b) Deposito delle spore non nero, ma tipicamente marrone o marrone porpora, sino al marrone porpora molto scuro: 8
8a) Deposito delle spore tipicamente marrone purpureo scuro: Stropharia o Psilocybe
8b) Deposito delle spore tipicamente marrone terra o spento: 9
9a) Deposito delle spore tipicamente marrone vivo, cappello generalmente liscio e spezzantesi irregolarmente se staccato da umido (Cuticola del cappello cellulare): Agrocybe
9b) Deposito delle spore marrone giallognolo. Cappello spesso squamoso o molto viscido se umido e spezzantesi radialmente quando strappato. (Cuticola del cappello filamentosa: Pholiota
10a) Crescita tipica sul letame, in terreni ben concimati o in aree molto erbose:11
10b) Crescita tipica sul legno decomposto, come su tronchi e ceppi oppure su scorie di legno o frammenti di corteccia: 14
11a) Deposito delle spore tipicamente nerastro. Cappello di solito non viscido quando umido e mancante di una pellicola gelatinosa separabile: 12
11b) Deposito delle spore marrone porpora. Cappello di solito viscido quando è umido per la maggioranza delle specie e con una pellicola gelatinosa separabile: 13
12a) Lamelle presto ricoperte da una locazione diseguale delle spore in maturazione quando sono completamente mature. (Spore che non si disperdono nell'acido solforico concentrato): Panaeolus
12b) Lamelle non ricoperte da una locazione diseguale delle spore. (Spore che si disperdono nell'acido solforico concentrato): Psathyrella
13a) Cappello generalmente tendente al marrone quando è umido nei corpi fruttiferi freschi e molto igrofano (marcata dissolvenza del tono del colore in seguito al disseccamento).(Crisocistidi sempre assenti): Psilocybe
13b) Cappello generalmente giallastro igrofano (nessuna marcata dissolvenza del tono del colore in seguito al disseccamento).(Crisocistidi presenti): Stropharia o Psilocybe
14a) Cappello generalmente colorato di giallo, arancio o rosso quando umido. Tipicamente non molto igrofano: Hypholoma
14b) Cappello generalmente colorato in marrone scuro quando umido. Tipicamente igrofano: 15
15a) Cappello di solito non viscido quando umido e mancante di una pellicola gelatinosa separabile. Gambo e cappello mai viranti al blu. Gambo fragile, facilmente spezzabile. Cappello friabile se premuto, si rompe disordinatamente.: Psathyrella
15b) Cappello solitamente viscido quando umido a causa di una pellicola gelatinosa, separabile in molte specie. Gambo e cappello viranti talvolta al blu. Gambo spesso, non facilmente spezzabile. Cappello pieghevole, non proprio fragile se premuto, si rompe radialmente. (Cuticola filamentosa del cappello): Psilocybe

Fungicoltura
prof. Giuseppe Lanzi, fondatore e direttore della rivista internazionale di fungicoltura “MI mushroom information” http://www.funghiitaliani.it/rivista/
I due funghi più coltivati in Italia sono il Prataiolo ed il Pleurotus. Il Pleurotus richiede impianti meno costosi, coltura più semplice, minor manodopera, una stagione di coltura più corta (autunno-inverno) ed un ciclo di coltivazione più lungo. Le colture emergenti sono il cardoncello o fungo di ferula, il pioppino, lo shii-take, i funghi dell'oro e fungo dell'amore. L'unità di coltura più apprezzata è la serra-fungaia ad archi, con copertura in doppia lastra di vetroresina inframezzate da lana di vetro. L'impianto di climatizzazione ed umidificazione è gestito dal computer. La produzione và dall'autunno all'inizio primavera con variazioni d'epoca e regione. se un substrato incubato (acquistato dalla ditta specializzata Funghi Mara per coltivazione amatoriale di funghi in casa e giardino) viene coltivato con attenzione e seguendo le indicazioni produce tanti funghi; se le indicazioni non vengono seguite i funghi nascono egualmente anche se in quantità molto inferiori. funghi coltivabili sui tronchi di pioppo: Pleurotus (Pleurotus ostreatus), pioppino (Pholiota aegerita), fungo dell’oro (Pleurotus cornucopiae) e fungo dell’amore (Pleurotus salmoneo s.).
I substrati più conosciuti e più largamente usati sono: il letame di cavallo, per la coltivazione del Prataiolo e del Coprinus comatus (coprino); paglia di cereali per i funghi del genere Pleurotus, Pholiota, Stropharia, Flammulina ed altri; legno per Pleurotus ostreatus, Lentinus edodes (ShiiTake), Pholiota aegerita (pioppino), Armillaria mellea (chiodino) ed altri. per produrre funghi vi sono fondamentalmente due soluzioni:
1. acquistare substrati pronti da coltivare "in casa e giardino". sistema più sicuro e meno impegnativo per chi vuole avere un prodotto fresco, naturale, gustoso e profumato facilmente e subito. Acquistare substrati e miceli con funghi adatti all'epoca ed al clima e non quelli selezionati per la maggior produttività e forzatura in ambienti climatizzati con controllo computerizzato. Scegli ditte amatoriali che dispongono di svariati generi e specie di funghi eduli nonché per gli stessi miceli molto rustici e non selezionati né ibridati. È altresì sconsigliato di acquistare prodotti su cui non è indicata la provenienza, il tipo di fungo coltivato e non sono fornite spiegazioni sulle tecniche di coltivazione: l'acquirente ha infatti diritto di avere un referente.
2. acquistare miceli con cui prepararsi propri substrati. strada della ricerca e della grande passione per i funghi che però non sempre da i risultati sperati nei tempi voluti. Ma quando si arriva a capire e a riuscire vi garantisco che la soddisfazione è indescrivibile!
COLTIVAZIONE DEL PRATAIOLO: la base per la coltivazione del prataiolo è letame di cavallo o substrato compostato. Quest'ultimo è ottenuto dalla mescolanza e lavorazione di materie prime molto comuni e di facile reperibilità quali: paglia di grano, pollina, gesso agricolo e acqua. Queste miscele o l'eventuale letame equino, sono lavorate e rigirate all'aperto, con speciali attrezzature, per renderle un substrato idoneo alla coltivazione dei funghi. Qualunque sia il metodo di lavorazione delle materie prime, tecnicamente chiamato fermentazione libera o "phase 1" al suo termine il composto risulta appetibile ai nostri funghi ma anche a tutta la microflora patogena e concorrenziale. E per eliminare questa microflora concorrenziale il composto fermentato viene sottoposto ad una serie di sbalzi termici chiamata phase 2 o pastorizzazione. Terminata la pastorizzazione, ed eliminati i concorrenti, il composto viene inoculato con il micelio del nostro fungo. Termina così la preparazione del substrato di coltura che viene fatta in platea.

Terminata le semina (inoculazio) il composto viene confezionato in blocchi rivestiti con un film di plastica e trasportato presso la fungaia del coltivatore che lo sistema nelle stanze di coltivazione. Qui il substrato, sistemato in letti di coltivazione a più piani, viene mantenuto alla temperatura di 25°C per circa 13-14 giorni. Durante questo periodo dai piccoli agglomerati di micelio si dipartono nuove ife che vanno ad invadere completamente la massa, che tenderà, man mano, a cambiare odore e colore passando dal bruno scuro al rossastro chiaro e cambierà pure odore passando da quello sgradevole di composto fermentato a quello piacevole e delicato di fungo: questa fase prende il nome di incubazione o phase 3. L'avvenuta incubazione significa che micelio ha completamente invaso il substrato, e lo si nota dal cambiamento di colore e di odore di gradimento.
A questo punto il composto viene spianato, pressato e ricoperto di un apposito terricciato chiamato "terra di copertura".
Per altri 10 giorni il substrato viene mantenuto alla temperatura di 25°C affinché anche la terra di copertura possa essere incubata, cioè invasa dal micelio: ed è proprio l'incubazione della terra che segna il passaggio dalla fase vegetativa a quella riproduttiva.
E' dunque il momento per creare le condizioni ambientali ideali alla fuoriuscita dei carpofori eduli. La temperatura della stanza viene abbassata a 16-18°C e, nel contempo, si da avvio alla ventilazione con aria esterna per eliminare l'alto tasso di anidride carbonica prodotta nella fase di incubazione. Si giunge al giorno atteso dal fungicoltore: i letti di coltura si presentano improvvisamente ricoperti da tanti piccoli punti bianchi che, nel giro di pochi giorni, ingrossano imbiancando la superficie e…. crescendo come funghi.
Siamo giunti alla prima raccolta e siamo al 36esimo giorno dalla semina circa. Questa nascita si ripeterà poi circa ogni 8 giorni per 4-5 raccolte complessive. L'intero ciclo colturale copre un arco di 10 settimane.

COLTIVAZIONE DEL PLEUROTUS: due momenti colturali: preparazione del substrato di coltura e produzione dei funghi. Le materie prime per la preparazione del substrato sono buona paglia di grano ed acqua che vengono macinate, miscelate e lavorate poi pastorizzate, e infine inoculate (seminate). Terminata la semina il substrato viene confezionato in blocchi rivestiti con un film di plastica e trasportato presso le serre-fungaia del coltivatore che lo predispone all'incubazione. Qui il substrato, sistemato direttamente sul pavimento, viene mantenuto alla temperatura di 28°C per circa 13-14 gg.
Come già per il prataiolo anche per il Pleurotus l'avvenuta incubazione significa potenzialità produttiva. E' dunque il momento per creare le condizioni ambientali ideali alla fuoriuscita dei carpofori, la temperatura della stanza viene abbassata fino a 14-16°C e si da avvio alla ventilazione con aria esterna. Iniziano a fuoriuscire e sbocciare come fiori i cespi del Pleurotus! Alla prima raccolta siamo tra il 30-45esimo giorno della semina. Questa nascita si ripeterà poi ancora per 3-5 raccolte complessive. L'intero ciclo copre 100 gg.

I chiodi di micelio sono cilindretti di legno su cui è stato allevato micelio di fungo. La coltivazione viene fatta su tronchetti di legno di pioppo, salice o altre latifoglie appena tagliati, freschi e sani (non utilizzare legno vecchio perchè può avere altre muffe). La tecnica di coltivazione è molto semplice: sui tronchetti, ogni 15-20 cm, fare con un trapano dei fori (Ø 8mm. Con un martello piantare i chiodi di micelio nei fori. I tronchetti vengono quindi messi ad incubare in un sacchetto di plastica a 20-25° C per ca. 3 mesi, poi vengono messi a far funghi in giardino, al riparo dal sole e dal vento, interrati per 2/3 o in un angolo della casa o della cantina interrati in un vaso (ad una temperatura dagli 8 ai 25°C) dove produrranno più volte sia in primavera che in autunno. La produzione dei funghi avviene dopo 4-8 mesi dalla semina e durerà 3-4 anni. E’ importante che il tronchetto e/o il terreno siano sempre umidi. Il legno deve essere sano, fresco e tagliato da poco. Le misure ideali sono cm. 30 di lunghezza e cm. 18-24 di diametro. Non usare conifere.

 


Cereali: denominazione collettiva di varie specie appartenenti alla famiglia delle graminacee, (piante per lo più erbacee, diffuse in tutto il globo), Il termine deriva dalla dea romana Cerere, protettrice della terra e agricoltura.

paglia, canne spezzettate, foglie, segatura, carta semplice, potature, lana, piume. Il pacciame di eucalipto inibisce più microrganismi, pacciame di aghifoglie occasionalm. solo per fragola o terre a ph basici e mischiato ad altro, foglie di castagno, noce e quercia assieme ad altri tipi di foglie ok.

La popolazione di farro tipica di un determinato ambiente si differenzia dalle popolazioni autoctone di altri areali. Ogni ecotipo, pertanto, costituisce un elemento di tipizzazione della produzione del proprio areale di coltivazione, con riferimento al quale viene generalmente denominato.

Il bergamotto è coltivato nella zona di Roccella Jonica e Gioiosa Jonica e nei dintorni di Brancaleone, Bruzzano Zeffirio, Capo Spartivento (Bova e Melito Porto Salvo) e in gran parte delle località del Basso Ionio-Reggino.

 

Fonte: http://digilander.libero.it/stebama/MEDIA/ortaggi_cereali_legumi.doc

link sito web : http://digilander.libero.it/stebama/

Autori del testo: indicati parzialmente nel documento di origine

 

Ortaggi cereali legumi

 

 

Visita la nostra pagina principale

 

Ortaggi cereali legumi

 

Termini d' uso e privacy

 

 

 

Ortaggi cereali legumi