Ortaggi cereali legumi
Ortaggi cereali legumi
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Ortaggi cereali legumi
Cereali legumi, orticole, aromatiche, spontanee: “Finchè non ci si impegna, allora regnano l'esitazione, la possibilità di tirarsi indietro, e sempre l'inefficacia. A proposito di ogni gesto di iniziativa, c'è una verità elementare, ignorare la quale vuol dire uccidere un'infinità di idee e splendidi progetti: nel momento in cui ci si impegna definitivamente, allora anche la Provvidenza inizia a muoversi. Cominciano a succedere cose che altrimenti non sarebbero mai accadute. Un intero flusso di eventi scaturisce dalla decisione, portando a favore di chi si impegna ogni sorta di accadimento imprevisto, ogni incontro, ogni assistenza materiale, come nessuno avrebbe mai potuto immaginare. Qualsiasi cosa puoi fare o sogni poter fare, comincia a farlo. Nell'ardimento ci sono genio, potere e magia. Comincia, Ora." Johann Wolfgang Goethe
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gioco di squadra sulle aiuole sinergiche: liliacee sulle fasce; crocifere/ombrellifere a centrocampo; solanacee/legumi rampicanti in attacco; officinali in porta; fiori (calendula, tagete, nasturzi, iperico) in difesa; spontanee varie a bordo campo (ruchetta, finocchietto, pimpinella e raperonzolo); pacciame a copertura . Arbitro e spettatore: cielo, terra uomo e microvita
  Famiglie  botaniche dei principali alimenti da campo e da orto
Graminacee: grano, riso, orzo,  avena, segale, miglio, mais
  Leguminose: tutte le specie di  fagioli, fave, piselli, cicerchia, lenticchie, ceci, arachidi, lupini,  lupinella, erba medica
  Liliacee: aglio, cipolla,  porri, erba cipollina, lampagione, scalogno, asparago
  Composite: carciofi, cardi,  cicoria, tarassaco, lattuga, topinambur, bardana, dragoncello, girasole,  crisantemo
  Crocifere/brassicacee: cavolfiore, cavolo  broccolo, cavolo cappuccio, cavoli verza, cavoletto di rapa, daikon, rucola,  crescione, senape, ramolaccio, ravanello, colza; Chenopodiacee: spinaci, bietole, barbabietole 
  Cucurbitacee:  zucche di tutti i tipi, zucchini, cetrioli,  cocomeri, meloni
  Solanacee: patate, pomodori,  melanzane, peperoni, peperoncino
  Labiate: salvia, basilico,  origano, timo, menta, puleggio (menta  romana) 
  Ombrellifere: carote, sedano,  prezzemolo, finocchio, anice, cerfoglio, pastinaca, coriandolo, sedano equino
  varie: amaranto, malva,  okra, borragine, nasturzo, portulaca, fragole, pimpinella, valerianella,  valeriana, rabarbaro, acetosa
Avena/Biada: la biada è ogni sorta di semente di genere frumentaceo/cereali (avena, segale, orzo, farro) e legumi (fava, veccia) che si dà come nutrimento per il bestiame (asini, cavalli, mucche). La biada per eccellenza, consumata in vario modo anche dall’uomo, e coltura foraggera principe per gli equini, resta la granella di avena.
Focacce, Pani e farine: la scoperta del pane, con ogni probabilità, avvenne in modo casuale quando, lasciata la poltiglia di cereali vicino ad un fuoco ci si accorse che si induriva cambiando sapore. I chicchi dei cereali, già nel neolitico, venivano pressati tra due pietre e la farina così ottenuta veniva mescolata con acqua per preparare una pappa cruda molto nutriente. Già gli Egizi si accorsero che dopo aver lasciato l’impasto a riposo (levitazione naturale), il pane era più soffice e buono da mangiare. L'impasto così ottenuto veniva cotto su pietre o in una buca scavata nel terreno e rivestita di pietra nella quale si accendeva un fuoco. Quando la temperatura era abbastanza alta il fuoco veniva spento, la cenere tolta e al suo posto veniva messo il pane. La buca veniva chiusa con una grossa pietra mentre al suo interno il pane cuoceva lentamente. Poi venne cotta in forni a forma conica costruiti con mattoni di argilla del Nilo. Il cibo, posto nella parte superiore, veniva cotto grazie al calore trasmesso da una lastra di pietra, riscaldata dal fuoco. Poi un nuovo forno internamente diviso in due parti; nella parte inferiore ardeva il fuoco e in quella superiore, cuocevano il pane, consentendo una cottura a temperature più elevate. I greci aggiunsero nuove spezie e nuovi aromi al pane, arrivando a creare 72 tipi diversi di pani i cui nomi prendevano origine dalle forme, dal tipo dei cereali usati, dagli ingredienti e dal modo di cottura. I fornai greci iniziarono a lavorare il pane di notte, in modo che la gente al mattino, lo trovasse cotto, fresco e croccante. Istituirono le prime caste di panificatori e le regole per il lavoro notturno dei fornai. I Romani allestirono nel 168 a.C i primi forni pubblici cittadini e utilizzarono farine bianche in nuovi modi. Anche per loro il pane era la base dei pasti, ma il suo uso si diffuse nel II secolo a.C. Prima mangiavano il puls, una pappa di farro e di grano. Poi sostituirono la macina in pietra,azionata da schiavi o animali, con il mulino facente leva sulla forza dell'acqua. Nel rinascimento viene introdotto l’uso del lievito di birra e farine di grano di altre specie
Riso – (a cura di Elena Nelli e Francesco Sodi) Oryza  sativa, francese riz; inglese rice; spagnolo arroz; tedesco: Reis). Fam:  Gramineae, Tribù: Orizeae. Pianta di antichissima coltivazione, originaria del  sud-est asiatico a clima tropicale e subtropicale. Il riso è una delle  principali risorse alimentari dell'umanità: oltre la metà di essa basa sul riso  la sua alimentazione. Nel mondo si producono annualmente oltre 550 milioni di t  di riso su oltre 150 milioni di ettari, prevalentemente nelle regioni a clima  caldo e molto umido dei tropici e dei subtropici, dove gli altri cereali non prosperano.
  In  Italia la risicoltura è estesa su circa 220.000 ettari e  localizzata quasi totalmente nella Valle Padana ed in particolar modo nelle  zone dove sono disponibili per l'irrigazione grandi quantità d'acqua a basso  costo. In Italia in consumo annuo pro capite di riso è pari a circa 5,5 kg (nel Laos si  raggiungono i 170 kg  pro capite/anno). Le province maggiormente risicole sono quelle di Vercelli,  Pavia, Novara, Milano, che da sole raggruppano il 90% della totale superficie  investita a riso; altre province risicole sono Mantova, Verona, Rovigo e  Ferrara. Tracce sporadiche nell'Italia centrale (Siena, Grosseto) e insulare  (Sardegna); il riso si può coltivare ovunque, purché ci sia acqua a basso  prezzo.
  Quasi  tutto il riso coltivato nel mondo appartiene alla specie Oryza, solo in Africa  si è originata ed è limitatamente coltivata una specie a sé stante: l'Oryza glaberrima. L'Oryza sativa è  ricchissima di forme ascritte a 2 sottospecie: Oryza sativa indica e Oryza  sativa japonica. I risi del tipo indica sono molto sensibili al fotoperiodo  (sono brevidiurni) e adatti quindi ai climi tropicali (diffusi tra 0° e 25° di  latitudine), hanno ciclo lungo, sono rustici ma soggetti all'allettamento e la  granella è lunga, stretta, appiattita, resistente alla cottura e non  incollante.
  I  risi di tipo japonica sono diffusi nelle zone temperate, essendo poco sensibili  al fotoperiodo; hanno esigenze termiche minori rispetto ai risi indica, ma  maggiori esigenze nutrizionali; la paglia è piuttosto corta e robusta, la produttività  elevata; la granella è corta e tozza, poco resistente alla cottura e tendente  ad incollarsi.
  Analogamente  ai cereali microtermi, il riso è dotato di un sistema radicale costituito da  radici embrionali e da radici avventizie, percui ha una fase di accestimento e  di emissione delle radici avventizie, più vigorose delle embrionali (fase di  levata alla cui corrisponde lo sviluppo in lunghezza degli steli). Nelle radici  avventizie non più giovani compaiono vasi  aeriferi, che assicurano l'aerazione delle radici anche nell'ambiente  sommerso in cui il riso vive. Il culmo ha internodi cavi e nodi pieni e si  sviluppa in modo analogo al frumento. Le foglie, in numero diverso secondo la  varietà (di solito 5-7 per culmo), sono costituite di una guaina e una lamina  ruvida per la presenza di peli corti e duri. La ligula è lunga e le auricole  pelose. L'infiorescenza è un panicolo terminale ramificato che porta spighette  uniflore, formate di glume piccole, molto sviluppate, sovrapposte ai margini,  appiattite e racchiudenti la cariosside in astuccio. Il fiore è ermafrodito e  comprende un gineceo uniovulare, con stilo bifido e stigma piumoso e un  androceo di sei stami. Il frutto è una cariosside sempre vestita (che  costituisce il «risone»), compressa ai lati, oblunga, con un pericarpo bianco o  pigmentato, costituita in modo analogo alla cariosside del frumento. La  fecondazione è autogama. Il peso di 1.000 cariossidi vestite varia da 25 a 45 grammi. Variabili sono  la taglia del culmo, il portamento del fogliame, le dimensioni dei panicoli, la  loro forma e portamento, le dimensioni delle spighette e cariossidi, il loro  aspetto (vetroso od opaco) nonché la resa alla lavorazione, la produttività, la  precocità, e le caratteristiche organolettiche. L'altezza media è 1 m  circa.   Esigente in fatto di calore e acqua, la sua caratteristica ecologica è  di tollerare la saturazione idrica del terreno per cui, pur non essendo una  pianta acquatica, è adattato alle zone umide dei tropici e dei subtropici  soggette anche a sommersione. La temperatura deve essere elevata e costante in  quanto il riso risente grave danno degli sbalzi termici. Nelle regioni  equatoriali, dove la temperatura è costantemente alta, si fanno anche 2-3  raccolti all'anno. Nei climi temperati l'unica stagione di coltura possibile è  quella primaverile-estiva e con l'ausilio di irrigazione fatta con sistemi tali  da svolgere anche importanti funzioni termoregolatrici. 
  Il  ciclo dalla semina alla maturazione è di 150-180 giorni. Le temperature minime  vitali sono 12 °C  per la germinazione; la levata e la fioritura si svolgono in modo ottimale a  23-25 °C.  Minori sono i fabbisogni termici nel corso della granigione. Il riso è molto  sensibile alle escursioni termiche giornaliere. Le varietà che si coltivano in  Italia hanno una sensibilità al fotoperiodo molto attenuata, tanto da fiorire  anche in regime di 15 ore giornaliere di luce.
  Il  riso può essere coltivato senza irrigazione (upland rice) solo là dove cadono regolarmente più di 200 mm di pioggia al mese  per almeno 3-4 mesi. 
  Nella  coltivazione tradizionale del riso, l’acqua piovana viene raccolta sui campi  dall'ubicazione più elevata, l'acqua alluvionale viene arginata tramite dighe,  l'acqua dei fiumi viene deviata intervenendo sul decorso e in alcuni luoghi  viene anche semplicemente prelevata a secchi da fiumi, laghi o serbatoi, e  portata ai campi. Bufali indiani che tirano l'aratro nell'ostico terreno  fangoso, incitati dai contadini. Vengono così lavorati nella terra anche i  residui vegetali e il letame bovino. Si tratta di un lavoro estenuante per le  persone e per gli animali. Le zolle di terra rivoltate vengono accuratamente  frantumate con gli erpici: quanto più la struttura granulare della terra è  omogenea, tanto più regolarmente potranno essere ripartite le sementi. Infine  il campo viene spianato. Gli argini vengono controllati e liberati dalle  erbacce. Le anatre affamate si nutrono dei parassiti del riso, quali larve e  farfalle. 
  Durante  i lavori di preparazione, nei semenzai germinano le giovani pianticelle. Le  sementi si compongono di chicchi di prima qualità, selezionati da donne che  prima del raccolto principale vagano attraverso i campi per tagliare le spighe  più grandi e più sane. Qualunque sia la forma della semina, le sementi madre  devono essere fatte macerare, o perfino leggermente germinare, in acqua pulita.  Quando le piantine hanno raggiunto le dimensioni necessarie, vengono estratte  accuratamente dal terreno e trapiantate a intervalli di 20 cm nelle risaie già  sommerse. Dopo cinque o sei mesi, le spighe di riso sono dorate e mature. Tre  settimane prima del raccolto l'acqua viene fatta defluire. Le spighe vengono  mietute a mano con le falci e quindi fatte essiccare al sole, sciolte o in  covoni. Nella fase di trebbiatura, le spighe vengono battute sul terreno o su supporti  di legno. i chicchi ricavati vengono "spulati", cioè gettati in aria  con dei cesti piani, in modo che il vento porti via la pula (cascami) più  leggera
  In  Italia, dove il clima è temperato e dove le precipitazioni sono insufficienti,  il riso è coltivato in terreno sommerso. In tal modo l'acqua, oltre a  soddisfare le elevatissime esigenze idriche della pianta, costituisce anche un  insostituibile soccorso termico per l'apporto diretto di calore (quando l'acqua  abbia temperatura superiore a quella dell'aria) e per l'azione  termoregolatrice, cedendo di notte e nei giorni freddi il calore accumulato nei  periodi di insolazione intensa. Con la sommersione un'escursione termica  giornaliera di 10-15 °C  viene ridotta a 3-4 °C.  Riso si adatta ad ogni tipo di terreno: sabbioso, argilloso, basico o acido,  ecc. purché umido. Nella risicoltura sommersa il suolo dev’essere abbastanza  impermeabile da potervi mantenere la lama d'acqua necessaria: circa 0,3 m di spessore. Nella  risaia sommersa il profilo del terreno è caratterizzato da un sottile strato  ossidato in corrispondenza dell'interfaccia suolo-acqua, al di sotto del quale  il terreno si trova in condizioni fortemente riducenti. Il terreno deve essere  sistemato in modo da rendere possibile l'uniforme distribuzione dell'acqua e un  rapido prosciugamento per poter compiere le «asciutte» necessarie per certe  operazioni colturali.
  In  base alla precocità le varietà italiane sono distinte in Precoci (maturano  entro 150 giorni), Medie (maturano entro 155-165 giorni), Tardive (maturano  entro 170-185 giorni, precocissime (140 giorni) e lampo (125 giorni),  utilizzate per la coltura intercalare trapiantata, oggi scomparsa. Fin quasi la  fine del XX secolo tutte le varietà di riso coltivate in Italia erano del tipo  japonica. Nel giro di pochi anni il riso «indica» è entrato geneticamente nella  risicoltura italiana.
  Nei  terreni acquitrinosi o a falda troppo superficiale, dove quella del riso è  l'unica coltura fattibile, il riso succede a se stesso indefinitamente (risaia  permanente) poiché è specie che tollera la coltura ripetuta anche se  inconvenienti di natura parassitaria tendono a manifestarsi. Nella maggior  parte delle zone risicole italiane la risaia si avvicenda, anche se con qualche  difficoltà, con altre colture. Tra un riso e l'altro, ove possibile, si  intercala una pianta da sovescio. 
  In  Italia si riscontrano due modelli sistematori delle risaie, legati a differenze  pedologiche, topografiche e di struttura fondiaria: uno è diffuso nella Val  Padana occidentale (Piemonte e Lombardia), l'altro nella Val Padana orientale  (province emiliane e venete). Nel primo caso (irrigazione a camere dipendenti) le aziende non sono molto estese e  la pendenza dei terreni non è trascurabile per cui la superficie delle unità  colturali, dette camere, sono modeste (2-3 ettari o meno); le  camere sono delimitate da arginelli temporanei rifatti tutti gli anni. Per lo  più le varie camere sono digradanti e l'acqua entra dalla bocchetta  d'immissione posta a quota più elevata e passa successivamente nelle camere a  quota più bassa. Nel caso, frequente in quest'area, che l'acqua dei fiumi  alpini sia fredda, è necessario riscaldarla; a tal fine si predispone la  caldana: una porzione della camera più alta viene sistemata con arginelli a  pettine contrapposti che costringono l'acqua a fare un lungo percorso tortuoso,  nel corso del quale l'acqua si riscalda prima di essere immessa nella risaia  vera e propria. Nella risicoltura veneta ed emiliana i terreni sono già  naturalmente quasi perfettamente piani per cui lo spianamento, poco  impegnativo, consente di fare unità colturali, dette bacini, di grande  estensione (10-12 ettari)  delimitati da grandi argini funzionanti da capezzagne.
  Nelle  zone risicole nord-occidentali la lavorazione del terreno è preceduta dal  rifacimento o dal ripristino (mediante il riporto e il costipamento di terra)  degli arginelli. Gli attrezzi impiegati sono l'arginatore e il rullo per  arginelli. Nella risicoltura delle province orientali, invece, non esistono  arginelli, ma solo i grandi argini permanenti. La preparazione del terreno per  il riso consiste in lavori eseguiti in inverno-primavera: aratura, affinamento,  arginellatura, slottamento, livellamento, costipamento/intasamento.
  Nella  coltura del riso la scelta delle varietà da seminare è subordinata alle  condizioni climatiche, temperatura dell'acqua, precessione colturale. Essa  s'orienta di solito su due o tre tipi di riso che differiscono tra loro per la  durata del ciclo di sviluppo e per le caratteristiche mercantili del prodotto:  non conviene coltivare molte razze. Varietà precoci sono da preferire quando si  debba liberare presto il terreno per la successiva semina del frumento, quando  occorra distribuire nel tempo i lavori e quando le acque siano fredde. 
  La  stagione di semina varia a seconda della temperatura dell'acqua, della coltura  precedente, della precocità della varietà, ecc. In genere è compresa tra metà  aprile e metà maggio, con varietà molto precoci fino alla fine di maggio.
  Per  avere un'emergenza soddisfacente occorre che la temperatura raggiunga i 12-14 °C. La quantità di risone  che comunemente si usa va dai 150 ai 220 kg per ha; l'obiettivo è di realizzare un  popolamento di 250-300 piante per m2. La semina viene preceduta  dall'ammollamento che consiste nell'immersione in acqua per parecchie ore dei  sacchi contenenti la semente, onde facilitare l'affondamento delle cariossidi  al momento della semina e anticipare la germinazione e la nascita del riso. La  semina su terreno asciutto (cui seguirà la sommersione dopo 20-35 giorni a riso  già nato e con 2-3 foglie), semplifica il controllo delle infestanti.  
  Il  riso, oltre che direttamente in posto, può essere seminato in semenzaio per  essere poi trapiantato. Il trapianto (completamente scomparso in Italia), è  ancora molto seguito ai tropici perché fa guadagnare tempo, consentendo fino a  tre raccolti all'anno, e fa risparmiare semente. Governo dell'acqua: la  conduzione dell'irrigazione in risaia assicura alla coltura, nelle sue varie  fasi, condizioni di temperatura, disponibilità di elementi nutritivi, controllo  delle infestanti e di vari parassiti, richiede grande perizia in chi deve  regolare i flussi di alimentazione e di scarico dei bacini. Non c'è una regola generale precisa Il  consumo d'acqua nella risaia dipende da minore o maggiore permeabilità del  terreno.  
  L'urea  è il concime azotato ideale per la risaia. La flora infestante delle risaie è  caratteristica per avere come habitat ambienti palustri o saturi d'acqua,  comprende specie diverse come: alghe, piante acquatiche (Potamogeton, eterantera); palustri (ciperacee, butomacee,  alismatacee) e tolleranti gli ambienti umidi (giavoni e riso selvatico).
  L'impiego  generalizzato di diserbanti sulle colture di riso che si ripetono sullo stesso  terreno anche per parecchi anni, ha dato luogo ad un progressivo e profondo  cambiamento della flora infestante le risaie perché specie che in passato  avevano importanza secondaria sono diventate dominanti in quanto resistenti ai  diserbanti più diffusi. Ciò ha reso incessante la ricerca di nuove armi chimiche  contro di le piante emergenti e immissione nell'acqua della risaia di ulteriori  sostanze tossiche. Il controllo delle alghe (disalgo) nel primo sviluppo del  riso si rende necessario per il feltro ch’esse formano con l'intreccio dei loro  filamenti sul fondo della risaia o in superficie. Le alghe prevalenti nelle  risaie sono quelle verdi e azzurre. Le alghe verdi formano un feltro  galleggiante che ostacola l'emergenza dall'acqua delle piantine di riso, le cui  foglie restano invischiate nel feltro algale trovando difficoltà ad uscire alla  luce. Le seconde formano il loro feltro prima sul fondo, dove le plantule di  riso stanno compiendo il loro primo sviluppo, per poi sollevarsi diventando  galleggianti: in questo modo le plantule di riso vengono sradicate e portate in  superficie dove tra l'altro le aspetta il rischio di essere spinte alla deriva  dal vento e dal moto ondoso, finendo ammassate nella parte sottovento del  campo. I giavoni comprendono parecchie graminacee del genere Echinochloa e sono le infestanti del  riso più frequenti e invadenti, contro le quali è quasi sempre necessario  intervenire perché bastano pochissime piante per metro quadro (6-7) per causare  perdite di produzione gravi. Il riso selvatico o crodo, ha la caratteristica di  disseminare la granella (crodatura) prestissimo, già dopo la maturazione  lattea, determinando nel terreno una carica di piante di riso selvatico  incontrollabile in mezzo al riso coltivato. Per entrambe queste specie la lotta  si basa sulla tattica di fare una «finta semina» e ritardare la semina del riso  per dar tempo ad esse di emergere e venir controllate.
  Le  avversità che il riso incontra sono meteoriche, il vento è dannoso quando,  dando origine a moti ondosi, compromette il radicamento delle piantine, poi può  essere causa di allettamento o sgranatura. Tra i parassiti che attaccano le  piante nel periodo tra la germinazione e l'emergenza dall'acquavi sono i  ditteri, larve del leccariso (Cricotopus spp.), che erodono i germinelli e le  foglie sommerse o adagiate sull'acqua, la Hidrellia griseola, le cui larve provocano  diradamenti minando il tessuto verde delle foglie delle giovani piante appena  emerse dall'acqua. Si combattono indirettamente con asciutte. Il crostaceo Triops cancriformis (coppetta) Parassiti  vegetali, il fungo (Piricularia oryzae)  responsabile di una sindrome molto variata che prende nome di brusone che colpisce precocemente le  foglie e di mal del nodo e di mal del colletto quando colpisce la pianta ai  nodi o all'ultimo internodo. La diffusione della malattia è favorita da elevata  umidità dell'aria durante o subito dopo la spigatura, da eccesso di azoto, da  semine fitte, da abbassamenti bruschi di temperatura. L'impiego di varietà  resistenti è il mezzo di prevenzione più efficace. l'elmintosporiosi (Helminthosporium oryzae) arreca danni gravissimi,  fuori d'Italia, colpendo tutte le parti aeree della pianta. in tutti questi  casi il rimedio migliore è l'adozione di varietà resistenti.
  Il  riso seminato in aprile giunge alla maturazione fisiologica in epoche diverse  secondo la precocità della varietà: le precoci a settembre, le tardive alla  fine di ottobre. La raccolta è preceduta dall'asciutta definitiva che si fa un  paio di settimane avanti la maturazione per accelerare questa e rendere  praticabile il terreno. La raccolta sia fatta con tempestività perché un  ritardo aumenta le perdite per crodatura (o sgranellatura). Si può fare, come per il frumento, con il sistema della  mietitura. La trebbiatura dei covoni veniva fatta con trebbiatrici fisse,  sull'aia. Il prodotto che si ottiene dalla trebbiatura è il risone o riso  vestito che ha sempre un'umidità alta (25% in media) che non permette di  conservarlo o lavorarlo; perciò va sottoposto ad essiccazione. In passato si  utilizzava il calore solare stendendo il riso sull'aia sebbene il decorso  stagionale potesse ostacolare l'operazione. Oggi l'essiccazione artificiale  avviene in essiccatoi ad aria calda sui 35-40 °C, subito dopo la  raccolta e non oltre 15-20 ore da questa, pena la fermentazione.
  Il  riso uscito dall'essiccatoio subisce una pulitura per ventilazione e vagliatura  onde liberarlo dai semi di altre piante e dalla granella vuota, immatura, ecc.  Poi si immagazzina in attesa di essere ceduto all'industria.
  Lavorazione del  risone:  il prodotto della trebbiatura è composto dalle cariossidi di riso ancora  avvolte nelle glumelle. Scopo della lavorazione è staccare le giumelle e parte  del pericarpo della cariosside insieme a parti proprie del seme, mediante una  serie di operazioni: sbramatura (distacco e separazione dalla cariosside delle  glumelle, che vanno a costituire la lolla), sbiancatura o raffinatura (si  allontanano gli strati esterni del granello e l'embrione, o gemma, con ripetuti  passaggi alle macchine). Il riso raffinato, bianco e conservabile, può subire  altri trattamenti: oleatura o brillatura. Nel corso della lavorazione si  ottengono successivamente questi prodotti.
  - Riso greggio (cargo), privato della  lolla, che conserva ancora pericarpo ed embrione.
  - Riso sbramato speciale, cioè  semigreggio, che ha subito una lavorazione incompleta alla sbiancatrice.
  - Riso mercantile adatto al consumo,  però non lavorato a fondo (due passaggi di sbiancatrice).
  - Riso raffinato bianco passato 3-4  volte alla sbiancatrice che ha privato completamente la cariosside. 
  - Riso oleato, si ottiene oleando la  superficie del riso raffinato con olio inodoro di lino o di vasellina.
  - Riso brillato, preparato dal  raffinato rendendolo brillante a seguito di lavorazione con talco e glucosio.
  Il  riso raffinato, oleato, brillato si usa nell'alimentazione umana; quello  sbramato trova impiego nella fabbricazione della birra. Sistemi speciali di  lavorazione migliorano lo rendono più resistente alla cottura  (parboiling).  Da 100 kg di risone lavorato si  ricavano 60-66 kg  di raffinato. La lavorazione modifica notevolmente la composizione del riso,  oltre che della lolla, la cariosside viene privata del pericarpo, del germe e  dello strato aleuronico, perdendo quindi una notevole quantità di cellulosa, di  sostanze minerali, di grassi e di sostanze proteiche. La paglia del riso trova  usi analoghi a quella del frumento sebbene sia meno assorbente di questa, e  viene anche destinata alla fabbricazione di cellulosa da carta.  Il riso è di sapore dolce e natura neutra-fresca,  si rivolge allo Stomaco e Pancreas che tonifica e nutre, tonifica il qi, calma  la sete, esercita effetto antidiarroico e leggermente diuretico
Orzo (Hordeum vulgare, Fam.  Poaceae/Graminaceae tribus Triticeae). l'orzo comune, polistico e distico, uno  tra i più antichi cereali coltivati in Europa come alimento per l'uomo, mangime  zootecnico o produzione di bevande fermentate (birra). Protagonista assieme a  frumento e la vite (vino). L'orzo è un complesso eterogeneo, caratterizzato da  spighette sessili, disposte in più file lungo il rachide e riunite a gruppi di  tre. Le spighette possono essere tutte fertili o, più frequentemente, una  fertile compresa tra due sterili. La principale differenza tra le singole  varietà d'orzo è data proprio dal numero di file di spighette fertili presenti  in ogni spiga, che possono essere due (orzi distici), quattro (tetrastici) o  sei (esastici). Altra distinzione di tre gruppi di varietà, in base alle  esigenze colturali e adattamento alle condizioni locali: varietà invernali  dotate di elevata resistenza al freddo; varietà primaverili, che non richiedono  vernalizzazione e hanno debole risposta fotoperiodica (neutrodiurne) e varietà  alternative, con fioritura rapida in condizioni di giorno lungo e inibita da  giorno corto, dotate di buona resistenza al freddo, ma seminabili anche in  primavera, si da rimediare a eventuali danni invernali con una risemina. Nel  2005 la produzione mondiale di orzo è stata di 137 milioni di tonnellate  (International Grains Council), al quarto posto dopo frumento, riso e mais.  Alimento base nel Medio Oriente, in Occidente è usato soprattutto nel settore  zootecnico (50% della produzione) e per la produzione di birra e distillati  (20%). Il centro di sua massima biodiversità colturale è oggi localizzato  nell'Altipiano Etiopico, dove sono frammiste varietà distiche, polistiche e a  spighe irregolari, con colore variabile nei lemmi (nero, bianco, violaceo) e  nell'aleurone (bluastro, viola, nero). Nessuna delle forme coltivate sembra  esistere in natura, tutte derivano dalla specie Hordeum spontaneum del  Vicino Oriente. Tutte le cultivar d'orzo risultano completamente interfertili  con l'orzo selvatico. Il genere Hordeum L. comprende circa una ventina di  specie, alcune delle quali perenni, altre annuali, molte crescono spontanee  anche in Italia, dove si comportano come pioniere in prati aridi a siccità  estiva, sabbie marittime, incolti e margini di strada, più raramente come  infestanti nei coltivi: le più comuni sono Hordeum  secalinum, H. bulbosum, H. marinum, H. hystrix, H. murinum, leporinum; è inoltre segnalato come  avventizio nel Veneto e in Trentino-Alto Adige H. jubatum, originario dell'America settentrionale e dell'Asia  orientale e talvolta coltivato per ornamento per le grandi spighe lungamente  ristate. L’orzo selvatico annuale è diploide (2n = 14) e autoimpollinantesi.  Originario dell'Asia, il suo areale è stato artificialmente esteso fino al Nord  Africa, alla Turchia occidentale, Creta, Cipro, Iraq, Iran. Hordeum vulgare, Orzo comune, è pianta  annuale alta 50-150 cm,  con culmi eretti e cavi. Foglie nastriformi, alterne, verdi o glauche,  denticolate, con lunghe guaine, auricolate all'apice. Infiorescenza a spiga,  molto variabile in forma e dimensioni, con spighette riunite in due serie di  tre, le centrali sempre fertili, le laterali fertili o sterili. Cariosside 3 x 10 mm, con solco  longitudinale da un lato. All'interno di questa specie possono essere comprese  forme, da taluni considerate specie: Hordeum  hexastichum (orzo maschio, con spighette tutte fertili e lungamente  aristate, disposte in sei serie, originario dell'Africa nord-orientale e Asia  occ.), Hordeum distichum (orzo  francese o scandella, distico, con spiga lunga e sottile) e Hordeum zeocriton (orzo di Germania,  distico, con reste a ventaglio divergenti dal rachide, originario dell'Abissinia).  STORIA: L'addomesticamento dell'orzo avvenne probabilmente in Asia Minore  attorno al 9000-10000 a.  C. successivo all'ultimo periodo glaciale, il relativo miglioramento climatico  rese disponibili numerosi habitat per i cereali spontanei, provocando una  rapida variazione nelle abitudini alimentari delle popolazioni umane. I  manufatti litici, che si erano mantenuti sostanzialmente inalterati per più di  10.000 anni, mostrano una rapida evoluzione che conferma l'aumentata importanza  della raccolta dei cereali selvatici e l'affinarsi delle tecniche per la loro  macinazione. La prima cultura ad aver lasciato evidenze archeologiche in merito  alla raccolta e alla macinazione dei cereali fu quella Natufiana, studiata in  decine di siti nella Valle del Giordano e databili tra il 9000 e l'8000 a. C. Poiché l'orzo si  autoimpollina, le varietà coltivate si incrociano raramente con quelle  selvatiche. Questo rende più facile la selezione di numerosissime cultivar,  anche poco differenziate tra loro. Per la specie coltivata ai primordi  dell'agricoltura, i reperti portano invariabilmente a Hordeum distichum. (6000 a. C. in Anatolia) che,  grazie alla maggiore produttività, soppiantò rapidamente le altre forme. Gli  orzi distici si mantennero soprattutto nelle aree originarie, diffondendosi  solo localmente in Europa, dove prevalsero di gran lunga le forme tetrastiche  ed esastiche. Come per altri cereali, una delle principali fasi della  domesticazione fu l’acquisizione della persistenza del seme sul rachide.  Infatti, nelle forme selvatiche le cariossidi si staccano spontaneamente dalla  spiga non appena conclusa la maturazione, disperdendosi nel terreno. Questo  fenomeno, di ovvio vantaggio per la disseminazione in condizioni naturali, è  aggravato dal punto di vista colturale dalla scalarità della maturazione. Il  carattere della rachide tenace è conseguenza di una sola mutazione recessiva,  facile da isolare e propagare. La disposizione delle spighette in gruppi di  tre, con le due esterne sessili, è un adattamento alla disseminazione ad opera  di animali. Questa struttura permise di ottenere un aumento della produttività  selezionando le mutazioni che provocavano la trasformazione delle cariossidi  sterili in fertili. Le file di cariossidi, in origine solo due, divennero  quattro o sei grazie a singole mutazioni geniche, anche queste recessive,  seguite da selezione. Si ricorda che negli orzi tetrastici le file di spighette  fertili sono sei, ma due di esse sono sovrapposte in modo da apparire una  singola fila. Infine, vennero selezionate varietà mutiche per facilitare la  pulizia dei chicchi e altre prive di dormienza invernale per permettere la  semina primaverile. 
  L'orzo  fu il cereale più importante nella progressione dell'agricoltura verso  l'Europa. Nel Neolitico veniva coltivato in tutta Italia, assieme ai frumenti  primitivi Triticum monococcum e T. dicoccum. Uno dei principali usi di  questo cereale è il maltaggio per la produzione di birra. I cereali maltati  venivano conservati sotto forma di pani non lievitati e cotti al forno, che  venivano poi trattati con acqua prima di avviare la fermentazione. La coltura  divenne ecologicamente bipolare: da un lato veniva praticata negli ambienti  semiaridi dell'Asia sudoccidentale e del Mediterraneo orientale, dall'altra  nelle valli alluvionali irrigue del Nilo, del Tigri e dell'Eufrate. Rispetto al  frumento, che ha migliori qualità nutrizionali e panificabilità, l'orzo ha il  vantaggio di essere più rustico e resistente ai climi aridi o freddi, pertanto  maggior grado di diffusione nel mondo. Tra il 6° e il 5° millennio a. C. l'orzo  divenne la principale coltura cerealicola dei paesi a clima freddo. La bassa  Valle del Reno e il bacino del Mar Baltico ne furono interessate nel 4000 a. C., le Isole  Britanniche e la   Scandinavia nel 3000 a. C.. In questo stesso periodo iniziò  anche la domesticazione di avena e segale, giunte in Europa come infestanti a  seguito di orzo e frumento. Una seconda corrente migratoria aggiunse la Penisola Iberica  attraverso l'Africa settentrionale, nel 4000 a. C. circa. Nei due millenni successivi  la coltura dell'orzo si spinse verso l'Estremo Oriente, fino alla Cina e  all'Arcipelago Giapponese. Nell'antichità, l'importanza dell'orzo come cereale  era almeno pari a quella del frumento, soprattutto in Mesopotamia ed Egitto,  divenne il cereale più economico e disponibile per le classi semplici e venne  massicciamente diffuso durante la grave crisi agricola dovuta all'aumento della  salinità dei terreni irrigui. In molte parti della Grecia l'orzo rimase a lungo  il cereale più diffuso, soprattutto a causa della rocciosità e della scarsa  fertilità del territorio montano. In Italia l'orzo, meno pregiato del frumento,  venne progressivamente relegato nelle zone più marginali. Presso i Romani,  l'orzo era il secondo cereale più coltivato, per erbai, pascoli e per la  produzione di granella e di paglia; la produzione di granella  arrivava a dieci volte la semente impiegata. Tuttavia, le classi abbienti  dell'Italia centrale non lo consideravano un cibo degno, potendolo agevolmente  sostituire con il più redditizio frumento per la panificazione e con la vite  per la produzione di bevande fermentate. Se gli orzi distici erano impiegati  nell'alimentazione delle classi inferiori, i tetrastici e gli esastici erano  coltivati solo per uso zootecnico, per essere impiegati soprattutto in momenti  particolari come gravidanza, parto, ingrasso e produzione di carne pregiata.  Plinio, che correttamente considerava l'orzo il più antico cereale usato  nell'alimentazione umana, notava come ai suoi tempi non servisse quasi più per  fare il pane ma solo per l'alimentazione degli animali. Era ancora molto usato  per preparare una salutare tisana e  anche la farina serviva ormai quasi solo per usi medicamentosi. Il quadro  varietale fornito da Plinio si limita alla constatazione dell'esistenza di orzi  distici, tetrastici ed esastici ("alcune spighe hanno due file di grani,  altre di più, fino a 6"), oppure alla descrizione di differenze  qualitative nelle cariossidi: "più o meno allungate e leggere, o più  corte, o più rotonde...". Meno parco di notizie è Columella, che mostra di  non disprezzare l'uso alimentare dell'orzo, considerandolo comunque "più salutare del cattivo frumento"  e utile soprattutto nei periodi di carestia, perché più adatto ai terreni  asciutti. Tra le varietà, cita un esastico (Cantherinum,  Cavallino), un distico (Galatico), che diventa, "mescolato al grano, ottimo cibo agli schiavi" (e  soprattutto ai gladiatori, per questo chiamati hordearii). Ai tempi di Columella la selezione per la persistenza  della granella non era ancora completa: la raccolta dell'orzo doveva ancora  essere eseguita prima della maturazione completa, per evitare che i chicchi  "non rivestiti di pula e sorretti da uno stelo fragilissimo"  cadessero nel terreno. L'autore fa notare come questo cereale andasse piantato  in terra "fertilissima oppure poverissima, perché si sa che da esso i  campi vengono resi più magri, e per questo si pone o in un terreno tanto grasso  che non possa nuocere alle sue sovrabbondanti risorse, o tanto magro che non si  possa piantare niente altro". Nelle sue ultime fasi, l'Impero Romano  adottò una politica agraria volta a favorire, in Italia, la coltura degli  strategici cereali a spese dei tradizionali vite e olivo. Il ripetersi delle  invasioni barbariche e la diffusione del pascolo portarono però a una profonda  crisi di tutta la cerealicoltura, che comunque sopravvisse per poi rifiorire  quasi ovunque al ritorno di una relativa pace in Europa. Nel Medio Evo l'orzo  venne di nuovo coltivato nelle zone in cui non poteva essere coltivato il  frumento e nelle zone in cui veniva consumata la birra. Nel Nord Europa, il  pane d'orzo era l'alimento base dei poveri, contrapponendosi al pane di  frumento consumato dalle classi ricche. Ancora nel 1800 l'orzo era uno dei  cereali più coltivati nell'Europa centro-settentrionale, sia per la produzione  di mangimi zootecnici che di birra; pertanto la selezione varietale ebbe in  queste regioni risultati notevoli: l'inglese Maris Otter e la tedesca Perga  saranno poi alla base del rilancio dell'ordeicoltura nel resto d'Europa.  In Italia, l'orzo  era molto coltivato soprattutto al Sud, nei terreni poveri e aridi. In queste  condizioni di sopravvivenza, la semente veniva prodotta localmente e tramandata  di generazione in generazione, con il risultato di una pletora di tipi molto  variabili e con media produttività. Nelle zone fertili del Veneto l'orzo fu  sempre un cereale secondario, ma nei settori più difficili, come le Prealpi, le  Alpi e l'alta pianura, poteva dare buoni risultati nei terreni poco fertili e  ricchi di scheletro. Gli impieghi nell'alimentazione umana erano limitati alla  preparazione di minestre, modesta panificazione e come surrogato del caffè, scopo per il quale  l'orzo veniva talvolta coltivato appositamente in piccoli appezzamenti  familiari, mentre il grosso della produzione veniva impiegato per uso zootecnico. In tempi recenti l'orzo  è stato presente in pianura, a spese del frumento, per la sua maturazione  precoce che gli permette di essere seguito  dal mais o dalla soia in secondo  raccolto. Nella produzione della birra, l'Italia, paese tradizionalmente  viticolo, ha una tradizione molto recente, si diffuse dapprima al Nord,  Piemonte, Lombardia e Veneto e più tardi nella penisola e nelle isole. La più  antica birreria veneta, (Canale d'Agordo), che ha aperto attorno al 1847, causò  la conversione di gran parte delle locali colture di patate in colture d'orzo;  cessò l'attività negli anni Trenta del '900. Nel corso degli anni '70, la  birreria venne acquisita dall'olandese Heineken e la sua storia industriale  prosegue fino ai giorni nostri, nonostante crisi varie e gravi. A Padova, nel  19° secolo, iniziò a produrre birra la ditta Cappellari (Itala Pilsen), poi  confluita nella Moretti di Udine. Nel Vicentino il settore ebbe uno sviluppo  temporale breve ma tormentato. Il primo stabilimento fu costruito nel 1868 a Piovene-Rocchette,  allo sbocco della Val d'Astico, da Pietro Rossi (parente dell'industriale  laniero di Schio, Alessandro Rossi), con due caldaie di bollitura della  capacità di circa 6 quintali.
  Farro: Triticum dicoccum (Fam: Gramineae/Poaceae,  tribù: Hordeae, Specie: Triticum spp). Conosciuto e coltivato nell'antico bacino  del Mediterraneo. Ezechiele lo usava come uno degli ingredienti per il suo pane  (Ezechiele 4:9). La farina di farro costituiva la base della dieta delle  popolazioni latine. Il pane di farro veniva consumato congiuntamente dagli  sposi nel rito della cumfarreatio, la  forma più solenne di matrimonio dell'antica Roma. 
  Denomina  tre specie diverse del genere Triticum, comunemente chiamate frumenti vestiti. Fino agli inizi del  '900 la loro coltivazione era diffusa in alcune valli dell'Appennino e in  diverse zone montane d'Italia; in seguito è quasi scomparsa. Caratteristiche  comuni ai tre tipi sono la fragilità del rachide della spiga e l’aderenza delle  glume e delle glumelle alla cariosside, in conseguenza delle quali durante la  trebbiatura il rachide si disarticola facilmente liberando spighette intere  contenenti cariossidi che rimangono avvolte (vestite) dagli involucri glumeali. Per ottenere la granella nuda è  necessaria un’ulteriore lavorazione di svestitura, detta anche sbramatura o  sgusciatura.
  Da  alcuni anni il farro è diventato oggetto di una forte ripresa di interesse, per  un insieme di fattori legati alla riscoperta di cibi tipici e alternativi, a  provvedimenti di politica agraria volti a diversificare gli indirizzi  produttivi ed al recupero di aree marginali e svantaggiate attraverso forme di  agricoltura ecocompatibili. Le più importanti aree italiane di coltivazione  sono la Garfagnana  (il farro della Garfagnana, ai piedi delle Alpi Apuane, in provincia di Lucca, ha  ottenuto la certificazione di qualità IGP) e l'area umbro-laziale, (valle del  Corno, Valnerina, altopiano di Leonessa e altri territori di confine tra la  provincia di Rieti e l’Abruzzo).  
  Il  farro si adatta alle zone marginali dove grazie alla rusticità, alle modeste  esigenze in fatto di fertilità dei terreni, alla resistenza al freddo e a caratteristiche  morfologiche e fisiologiche, inadatte a sistemi colturali intensivi, come:
  –  forte potere di accestimento, che entro certi limiti, può consentire il  recupero di una sufficiente fittezza delle colture nei casi di semine mal  riuscite o di diradamenti dovuti ad eccessi termici invernali;
  –  ciclo di sviluppo tardivo, non compatibile con profili climatici meno piovosi e  più caldi di quelli di collina e montagna;
  –  taglia alta della pianta, che in concorso con la tardività del ciclo ed il  forte potere di accestimento conferisce elevata suscettibilità  all’allettamento, avversità che la modesta fertilità del suolo degli ambienti  marginali permette di contenere;
  –  cariosside vestita dagli involucri glumeali, valida protezione contro avversità  biotiche e possibili alterazioni della granella causate dalla piovosità che di  norma accompagna la granigione e la maturazione negli ambienti altocollinari.
  Farro piccolo o  gonococco,  il meno produttivo dei tre farri, ha culmo sottile e debole, spiga distica,  aristata, compressa lateralmente. Le spighette hanno glume consistenti (quella  esterna è aristata; quella interna è membranosa), che racchiudono una, molto  raramente due, cariossidi schiacciate lateralmente, a frattura semivitrea. Spiga  e matura 10-20 giorni dopo le comuni varietà di frumento tenero, ciò che lo  rende inadatto agli ambienti con precoce innalzamento delle temperature  accompagnato da assenza di precipitazioni. La debolezza del culmo, unitamente  all’elevata facoltà di accestimento ed alla tardività, lo rendono molto  suscettibile all’allettamento. Le sue cariossidi però, hanno elevato contenuto in  proteine e carotenoidi. E' il farro di più antica origine e coltivazione.  Reperti fossili del suo progenitore selvatico, Triticum boeticum, ne  indicano il centro principale di origine nelle aree montagnose dell’odierna  Turchia; e risalgono al VII-VI millennio a.C. 
  Farro  medio:  presenta, come il farro piccolo, spiga compatta e ristata; discende per  processo di domesticazione dalla specie selvatica T. dicoccoides, la cui area di diffusione è dal Mediterraneo fino al  Caucaso. La domesticazione del dicoccum fu molto più rapida di  quella del farro piccolo, fatto che è da collegare alla superiore produttività  della prima specie, capace di formare due cariossidi per spighetta invece  dell’unico seme caratteristico del T. monococcum. È il più importante e il più  diffuso farro coltivato in Italia, tanto da essere considerato il farro per  antonomasia. Più adattabile ad ambienti difficili, è la specie tipica delle  aree tradizionali di coltivazione del farro dell’Italia centro-meridionale.  Nell’ambito di tali areali la coltivazione e la riproduzione in loco da  lunghissimo tempo dei medesimi genotipi hanno differenziato delle popolazioni  autoctone (ecotipi) caratteristiche, e caratterizzanti, degli areali medesimi .  Le particolarità caratterizzanti i tipi di farro dei vari ambienti riguardano  soprattutto habitus di sviluppo e produttività e sue componenti più che la  morfologia della pianta. Per quanto riguarda il primo carattere sono ad habitus  di sviluppo nettamente autunnale i farri della Garfagnana e del Molise, che  dimostrano elevate esigenze di freddo collegate al fenomeno della  vernalizzazione. Sono pertanto tipi “non alternativi”, non adatti alla semina  di fine inverno. La popolazione dell’Italia centrale, viceversa, si  caratterizza per elevato grado di primaverilità: è dunque tipo “alternativo”  idoneo a semine“marzuole” (fine inverno-inizio primavera), quali di norma sono  realizzate sull’altopiano di Leonessa.
  Farro grande: farro di origine  più recente (due millenni più tardi di farro piccolo e medio), ha come  progenitore, oltre la specie selvatica Aegilops  squarrosa, il dicoccum coltivato.  Il suo centro di origine è dal Mar Caspio all’Afghanistan. Possiede potenzialità  produttive superiori al farro medio, che tuttavia possono esprimersi appieno  solo in ambienti non troppo sfavorevoli. In situazioni pedoclimatiche difficili  non risulta competitivo col farro medio, anche in conseguenza del più lungo  ciclo di sviluppo. Non presente in Italia sotto forma di popolazioni autoctone,  è disponibile in numerose varietà commerciali, selezionate in paesi  centroeuropei. 
  La  tecnica di coltivazione tradizionale è semplice, assente è l'impiego di  prodotti chimici di sintesi come erbicidi e concimi azotati, di solito è  sufficiente la fertilità lasciata dall'erba medica. Il farro ha infatti modeste  esigenze in fatto di elementi nutritivi. Nelle aree tradizionali di  coltivazione, non sono adottati regolari schemi di successione delle colture. La  preparazione del letto di semina non è accurata come gli altri cereali vernini.  L’attuale tendenza agronomica alla semplificazione delle lavorazioni, con un  minor numero e intensità degli interventi, presenta aspetti di grande interesse  anche nel caso della coltura del farro, per i vantaggi derivanti dalla  riduzione del costo delle lavorazioni e contenimento dell’impatto ambientale. La  semina, a spaglio, è di norma autunnale, salvo in ambienti ad altitudini  elevate dove viene eseguita a fine inverno per evitare i rischi connessi con le  temperature molto basse. La semina post-invernale può cadere da fine febbraio  ad aprile inoltrato, a seconda delle condizioni locali. La quantità di seme  vestito da impiegare è molto variabile (da 70 a 150 kg/ha), per un investimento non  superiore a 150-200 cariossidi a metro quadrato. Il farro presenta una rapida  crescita iniziale e un elevato accestimento, risultando quindi molto competitivo  nei confronti delle infestanti. 
  Raccolta a partire da metà  luglio fino a metà agosto, a seconda delle aree e del tipo di farro. A causa  dell'elevata fragilità del rachide, Viene trebbiato lentamente, con le  pannocchie raccolte in covoni legati da steli, deposti a terra i circolo e  calpestati da asini od ovini. Le produzioni sono molto variabili: dai 28-30  quintali ad ettaro nei terreni di pianura ai 10-18 delle zone di montagna e  marginali. La granella, di elevato valore alimentare, oggi è impiegata quasi  esclusivamente nell'alimentazione umana, ma può essere impiegata anche nell'alimentazione  zootecnica. Può essere impiegato pur nella panificazione (litofagi delle  derrate: Tignola del grano delle derrate, Cappuccino del grano, Verme delle  farine Tenebrio molitor, Calandra del  grano e Acaro delle farine Acarus siro).
  Il  farro si trova in commercio in due forme: farro decorticato (farro normale) e  il farro perlato. Il farrotto è un cereale "vestito", in quanto la  glumetta, la pellicola esterna del chicco, ricca di fibre, è perfettamente  aderente e quindi non viene eliminata. Il farro decorticato conserva la  glumetta intatta, che viene invece eliminata nel farro perlato, che si presenta  di colore molto più chiaro e cuoce in un tempo decisamente inferiore. La  granella di farro brillata può essere ulteriormente macinata per la  preparazione di paste, pane o biscotti. La farina di farro è utilizzata anche  nell'industria dolciaria. Con la farina di farro si produce un ottimo pane,  preferibile a quello di frumento integrale poiché a parità di fibre non ha il  tipico sapore di crusca, ma si avvicina molto al sapore del pane bianco, anzi è  addirittura più aromatico e per certi aspetti migliore. In cucina è utilizzato  soprattutto come ingrediente di zuppe e minestre, ma si unisce molto bene coi  legumi e le verdure, esaltando gusti e profumi. Ottimo per insalate fredde,  risotti ai funghi porcini. Si abbina in maniera eccellente ai vini rossi.
  Soia: Glycine max., ordine: Leguminose, Fam.:  Papilionaceae, Tribù: Phaseoleae. Francese/spagnolo: Soya; Inglese: Soybean. 
  Pianta  erbacea annuale estiva, originaria dell'Asia centro-orientale, interamente  coperta di peli bruni o grigi, alta da 70 a 130 cm, a portamento eretto o cespuglioso.  L'apparato radicale fittonante ha una media capacità di penetrazione nel  terreno. Le radici sono colonizzate da uno specifico simbionte (Rhizobium japonicum). Le foglie sono  trifogliate (unifogliate il primo paio). I fiori, riuniti in gruppi di 2-5 a formare delle  infiorescenze, dette racemi, sono in posizione ascellare nelle varietà  indeterminate (con accrescimento che continua anche dopo l'inizio della  fioritura), mentre sono posti anche all'apice in quelle determinate (si ha  l'arresto dello sviluppo quando compare all'apice un lungo racemo composto da  diversi fiori). I fiori, di colore bianco o viola, sono caratterizzati da  fecondazione autogama. Non tutti danno luogo a frutti fertili: si ha, infatti,  una elevata percentuale di aborti. I frutti sono baccelli villosi, appiattiti,  penduli, contenenti 3-4 semi. I frutti sono tondeggianti(ma anche ovale e più o  meno appiattito), di colore giallo, bruno, verdognolo o nero, con ilo piccolo e  poco marcato. I semi hanno un peso oscillante tra 50 e 450 mg (100-200 nelle  cultivar da olio). L'olio e le proteine sono concentrati per la massima parte  nei cotiledoni. Fino alla fine dell'Ottocento era coltivata solo in Cina. Nella  seconda metà del XX secolo ha avuto un notevole sviluppo. Gli Stati Uniti sono  il maggiore produttore mondiale. In Europa è coltivata in Francia e Italia per  via della ricchezza dei semi in olio (18-20%) e proteine (40%). 
  Pianta  originariamente brevidiurna (per fiorire ha bisogno di notti piuttosto lunghe);  nelle varietà attualmente coltivate presenta comportamenti diversi nei  confronti della luce, tanto che molte varietà precoci sono fotoindifferenti.  Per quanto riguarda l'acqua, la soia consuma la metà dell'acqua rispetto al  mais. Per il terreno la soia non ha particolari esigenze: sono sconsigliabili  solo i terreni troppo umidi e quelli troppo sciolti. Per quanto riguarda il pH  predilige terreni con pH 6,5. E' in grado di tollerare, senza apparenti  riduzioni produttive, una moderata salinità. 
  Nell'avvicendamento  la soia ha il ruolo di pianta miglioratrice della fertilità del suolo a ciclo  primaverile-estivodopo l’ orzo, con semina entro metà giugno. La soia entra in  simbiosi con un microrganismo azotofissatore specifico, Rhizobium japonicum, che nei terreni nuovi alla coltivazione della  soia è assente. Per questo, quando si vuole coltivare la soia su un terreno che  non l'ha mai ospitata, è indispensabile inoculare il seme con apposite colture  microbiche. La semina viene fatta a righe distanti 40-45 cm con una quantità di  seme atta a produrre 30-35 piante a metro quadrato alla raccolta per le varietà  tardive e di circa 40 piante a metro quadrato per quelle in secondo raccolto.  La soia, se normalmente nodulata, è in pratica autosufficiente per l'azoto. 
  La  raccolta ha inizio quando la pianta è quasi completamente defogliata e presenta  steli e semi di colore marrone. L'epoca di raccolta in Italia cade in settembre  nel caso di coltura principale, in ottobre avanzato nel caso di coltura  intercalare. L'umidità del seme alla raccolta deve essere intorno al 12-14%; se  superiore è necessaria l'essiccazione. Per una buona conservazione il seme di  soia, in quanto oleaginoso, deve essere immagazzinato con un'umidità del  10-12%. Prodotti tradizionali orientali derivanti dal seme intero
  - Latte di soia: prodotto tradizionale  asiatico ottenuto da seme macinato, estratto a caldo in acqua e bollito. 
  - Tofu o formaggio di soia: latte di  soia coagulato con sali di magnesio o aceto; l'umidità varia per preparazioni e  stagionatura; 
  - Tempeh: seme decorticato, bollito in  acqua e fermentato per 24-48 ore da un fungo (gen. Rhizopus); si hanno forme che vengono affettate e fritte. 
  -  Prodotti fermentati (salse e bevande), tipici della cucina orientale. 
  -  Le varietà a seme piccolo forniscono, se fatte germinare, i germogli di soia,  consumati come ortaggio fresco.
Cicerchia: è una leguminose da granella originaria del bacino del Mediterraneo, di antichissima coltura, ma limitata a causa della cattiva qualità alimentare dei suoi semi, che producono una sindrome neurotossica (latinismo), con convulsioni e paralisi, se consumata in grande quantità dagli uomini o dagli animali. Pianta annuale, ramificata, a portamento semiprostrato, con steli glabri, glauchi, caratteristicamente alati; le foglie sono alterne, costituite da un picciolo alato portante un paio di foglioline ellittiche, oblunghe e un cirro semplice o ramificato, molto lungo; i fiori sono singoli e dopo la fecondazione, che è autogamia, formano un baccello compresso contenente da 2 a 5 semi; i semi sono schiacciati, piuttosto angolosi, di colore bianco o bruno marezzato, di 4-6 mm di diametro e di circa 270 mg di peso. È pianta microterma che ha esigenze termiche intermedie tra quelle della lenticchia e quelle del cece. Si adatta ai terreni anche molto magri e ciottolosi, purché non soggetti a ristagni d’acqua. Si semina per lo più in autunno per essere raccolta in giugno-luglio. La sua estrema rusticità consente a questa pianta di dare produzioni superiori a quelle di altre leguminose, ad esempio della lenticchia, in ambienti molto magri e avversi. Può essere danneggiata dai venti caldi e dall'eccessivo calore, ai quali va spesso attribuito lo striminzimento dei semi. Nocivi alla coltura risultano anche i tonchi e Afidi vari
Cece: non esiste allo  stato selvatico, ma solo coltivato. La regione di origine è l’Asia occidentale  da cui si è diffuso in India, in Africa e in Europa in tempi molto remoti: era  conosciuto dagli antichi Egizi, Ebrei e Greci.
  Il  cece è la terza leguminose da granella per importanza mondiale, dopo il fagiolo  e il pisello. La superficie coltivata nel mondo è di circa 11 milioni di  ettari. La maggior parte del prodotto è consumata localmente. I semi secchi del  cece sono un ottimo alimento per l’uomo, ricco di proteine (15-25%) di qualità  alimentare tra le migliori entro le leguminose da granella. In Italia la  superficie a cece è scesa a meno di 3.500 ettari, quasi  tutti localizzati nelle regioni meridionali e insulari. pianta annuale, con  radice ramificata, profonda (fino a 1,20 m), il che la rende assai aridoresistente;  gli steli sono ramificati, eretti o semiprostrati, lunghi da 0,40 a 0,60 m; le foglie sono  composte, imparipennate, con 6-7 paia di foglioline ellittiche denticolate sui  bordi, i fiori sono generalmente bianchi, per lo più solitari, dopo la  fecondazione del fiore, che è autogamia, si forma un legume ovato oblungo,  contenente 1 o talora 2 semi. Tutta la pianta è verde grigiastra e pubescente  per la presenza su tutti gli organi di fitti peli ghiandolari che secernono una  soluzione acida per presenza di acido malico  e ossalico. I semi sono rotondeggianti e lisci in certi tipi, rugosi,  angolosi e rostrati (“a testa di ariete”) in altri, il colore più comune è il  giallo, ma ci sono ceci con tegumento seminale rosso o marrone. Le dimensioni  dei semi sono determinanti del pregio commerciale dei ceci: esistono varietà a  seme grosso e varietà a seme piccolo; certi mercati (Italia, Spagna e  Nord-Africa, dove questo legume è consumato intero) accettano solo ceci a seme  grosso, apprezzandoli tanto più quanto più grosso è il seme, su altri mercati  (Medio Oriente, Iran, India) prevalgono i ceci a semi piccoli, che trovano  impiego in preparazioni alimentari che ne prevedono la sfarinatura. Germina con  sufficiente prontezza con temperature di circa 10 °C. la germinazione è  ipogea e le plantule non hanno particolari difficoltà ad emergere dal terreno.  Resiste al freddo meno della fava tant’è che in tutto il bacino del  mediterraneo il cece si semina a fine inverno e si raccoglie in luglio-agosto,  mentre solo nei Paesi a inverno molto mite (India, Egitto, Messico) l’epoca di  semina è l’autunno. Il cece è una pianta a sviluppo indeterminato, che  incomincia a fiorire a partire dai nodi bassi e la cui fioritura prosegue per  alcune settimane. L’allegagione in genere è piuttosto bassa: per cause varie  (alta temperatura o alta umidità o attacchi crittogamici) è normale che quote  assai forti di fiori abortiscano. Pianta assai rustica, adatta al clima  caldo-arido, perché resiste assai bene alla siccità mentre non tollera  l’umidità eccessiva.
  Per  quanto riguarda il terreno il cece rifugge da quelli molto fertili, dove allega  male, e soprattutto da quelli argillosi e di cattiva struttura, quindi  asfittici e soggetti a ristagni d’acqua. I terreni più adatti sono quelli di  medio impasto o leggeri, purché profondi, dove il cece può manifestare appieno  la sua caratteristica resistenza alla siccità. Il cece ha un basso livello di  tolleranza alla salinità del terreno. Nei terreni molto ricchi di calcare i  ceci risultano di difficile cottura. La raccolta del cece si fa estirpando le  piante a mano e lasciandole completare l’essiccazione in campo in mannelli; la  sgranatura fatta a mano. La paglia di cece non è apprezzata come foraggio così  come lo è quella di altre leguminose.
Fava e favino: La raccolta dei  baccelli di fava da orto per consumo fresco si fa a mano. La raccolta dei semi  secchi si fa quando la pianta è completamente secca. L’epoca di raccolta è la  metà di giugno nell’Italia meridionale, la fine di giugno in quella centrale,  la metà di luglio nell’Italia settentrionale con semina primaverile. Produzioni  medie più frequenti in Italia, con alti rischi di avere in certi anni rese  anche assai inferiori a causa di fattori non o mal controllati dall’uomo  (freddo, siccità, attacchi di ruggini o di afidi, virosi).
  La  produzione di baccelli per il consumo fresco (fava da orto) è dell’ordine di  20-30 t/ha. La produzione di semi freschi per l’industria è considerata buona  quando giunge a 5-6 t/ha. I semi di fava secchi hanno un alto contenuto  proteico: la loro composizione media è infatti la seguente: sostanza secca 85%,  sostanze azotate 23-26%, ceneri 3%, grassi 1,2%, fibra grezza 7%, estrattivi in  azotati 48%.
Cavolo: Conosciuto fin dall'antichità  il cavolo (Brassica oleracea - fam.  crucifere) era considerato sacro dai Greci; i Romani lo utilizzavano per  curare le più svariate malattie e lo mangiavano crudo. Presso le popolazioni  marinare il cavolo (insieme alla cipolla) era l'alimento tipico degli equipaggi  delle navi, utilizzato per compensare le diete necessariamente povere durante i  viaggi per mare (contro lo scorbuto). Tempo balsamico da dicembre a marzo.
  Azione  farmacologica: é una delle verdure più "benefiche": rinforza le difese  immunitarie, ha una funzione preventiva nei confronti di molti tumori. Le sue  foglie ed in particolare quelle esterne è bene mangiarle in insalata, affinché  non perdano le loro prerogative. Esse contengono una buona quantità di vitamine  A- B1- B2- C- K- ed U (una delle ultime vitamine arrivate, con la funzione di  combattere l'ulcera gastrica, l'ulcera duodenale e le ulcere intestinali),  zolfo, ferro, calcio, fosforo, potassio, e magnesio. Il cavolo svolge anche una  funzione depurativa dell'organismo, poiché partecipa all'eliminazione dei  residui e dei veleni che causano o mantengono una malattia. Inoltre favorisce  le cicatrizzazioni prevenendo ogni conseguenza. Per uso esterno è vulnerario  (cicatrizzante delle ferite). Per quanto riguarda invece l'uso interno il  cavolo ha proprietà nutritive: è antianemico, rivitalizzante ed  autoimmunizzante. E' molto utile contro bronchiti, coliti, congiuntivite,  contusioni, sinusite, diabete, diarree e dissenterie, dolori gastrici ed  intestinali, dolori muscolari e reumatici e influenza. La cottura distrugge la  vitamina U: è quindi opportuno consumare il cavolo sotto forma di succo fresco,  poiché sembra che la sua azione sia minore quando viene preparato molto tempo  prima del consumo. Si può anche preparare il cavolo a strisce sottili, come  antipasto crudo. Occorre rilevare inoltre che, contrariamente a tenaci  pregiudizi, il cavolo si rivela estremamente prezioso per lo stomaco e  l'intestino, sia che venga utilizzato come succo o crudo come antipasto o  ancora cotto a stufato. E' tollerato da tutti gli organismi. La ricchezza del  cavolo in zolfo, arsenico, calcio, fosforo, rame, iodio può spiegare le sue  virtù digestive, rimineralizzanti e ricostituente cerebrale (1 kg di cavolo da un apporto  di 2,5 gr di fosforo). Infine grazie al suo contenuto di vitamina B1, è un  fattore di equilibrio nervoso. Sciacqui con il succo di cavolo curano l'afonia.  Sempre con il succo si cura la sordità. Il più salutare è quello rosso da  consumare crudo, in caso di intolleranza anche cotto.  
Senape selvatica: (sinapsis arvensis o brassica arvensis) piante  erbacea annuale polimorfa, originaria dell'Europa, Infestante di colture  erbacee ed arboree e degli incolti, ruderi; da 0 a 1.400 m. Costituisce ciuffi  di fusti sottili, rigidi, eretti o ascendenti, striati e ramosi (altezza sino a  120 cm)  che portano numerose foglie di colore verde scuro, opache, sessili, ovali  allungate, dentate, lunghe fino a 15-20 cm; da maggio a settembre all'apice dei  fusti sbocciano numerosi piccoli fiorellini di colore giallo vivo a simmetria  dimera; in autunno i fiori lasciano spazio ai frutti: lunghi baccelli  contenenti piccoli semi scuri. S. alba è molto simile, ma produce baccelli più  corti con semi gialli. Con i semi della Senape si preparano ottime salse  utilizzate per accompagnare piatti di carne e di verdure; le foglie si possono  consumare cotte ed hanno un sapore simile agli spinaci; i semi appena germinati  si consumano in insalata. la   Senape ama zone molto soleggiate, muore all'arrivo dei  freddi, va quindi posta a dimora all'inizio della primavera, per raccogliere i  semi alla fine dell'estate; i piccoli semi si possono conservare subito, oppure  vanno conservati in contenitori ermetici dopo averli fatti ben seccare. Cugine: Sinapis  alba cresce negli stessi ambienti, ma si differenzia per i frutti  pubescenti e per i semi di colore giallastro. (coltivata per la produzione  della senape bianca). 
  Per  uso esterno la Senape  è indicata in caso di reumatismi e affezzioni delle vie respiratorie, indicata  anche per pediluvi. Le foglie giovani, possono essere utilizzate come  condimento per insalate a cui aggiungono un sapore piccante, oppure possono  essere bollite e utilizzate come gli spinaci. Le cime apicali, prima della  fioritura, possono essere cucinate come i broccoli, di cui ricordano anche il  sapore. I semi contenuti nelle silique, la rendono appetibile ai più comuni  uccelli granivori, per i quali rappresenta un ottimo alimento. Dai semi è  possibile ricavare un olio commestibile, impiegato anche nella fabbricazione di  sapone. Buona mellifera.
  Piedi  freddi? Pestate i semi di Senape e distribuiteli nelle calze!!!
Cardo: (Cynara cardunculus) ortaggio simile al  carciofo (anche detto carciofo selvatico, caglio, cardo spinoso). Del cardo si  consumano le coste, che vanno cucinate e consumate subito dopo averle pulite.  Prima della cottura è consigliabile lessare i cardi in acqua con il succo di  mezzo limone; in questo modo si evita che le coste anneriscano. Giunge a  maturazione in inverno, ed è in questa stagione che viene consumato soprattutto  in Piemonte
  Cardo Mariano: (Silybum Marianum Gaertn, fam. compositae),  esistono molte varietà di cardi, ma quello mariano, sembra derivare il suo nome  dal greco “ardis” che significa punta dello strale, alludendo con ciò alle  numerose spine che ha la pianta. Un’antica leggenda associa il cardo al pastore  siciliano Dafne, caro a Pan e Diana, alla cui morte la terra, per esprimere il  suo dolore, fece nascere la pianta e le sue spine. Nella tradizione ariana il  cardo era sacro a Thor, dio della guerra e dei fulmini, mentre nella leggenda  teutonica portava disgrazia ai malfattori.  Secondo la tradizione cristiana si vuole che le macchie bianche delle foglie  siano rimaste a testimonianza delle gocce di latte cadute dal seno di Maria (da  cui mariano), mentre fuggiva in Egitto per sottrarre Gesù alla persecuzione di  Erode. Simbolo della casa reale degli Stuart, fu anche simbolo della Scozia,  perché secondo una leggenda, durante il regno di Malcom, i Danesi, giunti  furtivamente di notte, mentre tentavano di attraversare il fossato per assalire  il castello, lo trovarono secco e pieno di cardi, così che le imprecazioni e le  grida di dolore dei soldati punti dalla pianta fecero svegliare gli scozzesi i  quali furono in grado di respingere gli invasori. 
  È  un’erba bienne, robusta a fusto eretto i cui rami sono ricoperti da una peluria  ragnatelosa. L’altezza è variabile da 30 cm. a 1,5 mt.; tutte le foglie hanno la  superficie vistosamente variegato-reticolata e ampie macchie bianche che  spiccano su un fondo verde, lucido, con il margine a lobi ovali e triangolari  che terminano con spine giallastre. I capolini sono grandi e porporini,  raramente bianchi, l’involucro è costituito da squame foliacee, quelle esterne  prolungate in un apice scanalato. Frutti ad achenio, obovati compressi, lisci e  glabri; pappo pluriseriato composto da setole denticolate caduche. Cresce nei  rudereti, negli incolti, ai margini di campi abbandonati e ai bordi di strade  campestri, zone di scarico di rifiuti, da 0 a 1100 metri s.l.m.
  L’epoca  di fioritura è Luglio –Agosto.  
  Castore  Durante ci riferisce che “la radice cotta provoca i mestrui e favorisce la  moltiplicazione del latte”; Mattioli lo propone nel mal di denti e nelle  nevralgie intercostali. Molto sfruttato nel periodo rinascimentale, è stato poi  dimenticato e giudicato persino inutile. Rademacher però nel 1855 intravide nei  semi la possibilità di trattare le malattie del fegato ed in particolare quelle  venose.
  Parti  Usate: Foglie, radici, semi (Fructus Cardui Mariae). Il principio attivo  fondamentale è la Silimarina (la silimarina ripristina la cellula epatica, proteggendola e curandola), appartenente  al gruppo dei flavonolignani (silibina, silidianina, silicristina),  paraossifenil etilamina, tiramina, tracce di inulina, mucillagini, tannini  catechici. Pianta a tropismo epatobiliare e renale tale da considerarsi di  primissimo piano nel drenaggio di questi due importanti filtri. I  flavonolignani possiedono proprietà moderatamente antipiretiche e  simpaticolitiche. Il frutto migliora la circolazione addominale, è utile nelle  emorragie uterine e nelle turbe mestruali. Si utilizza anche come principio  amaro coleretico e contro i calcoli biliari. La tiramina è ipertensiva. Le  radici sono emmenagoghe e diuretiche, i semi ipertensori e colagoghi, utili nel  trattamento di varici ed ulcere varicose. È utile nella litiasi biliare,  stipsi, angiocolite cronica, insufficienza epatica, obesità, cellulite, gotta,  ipercolesterolemia, varici, reumatismi cronici degenerativi, acne,  insufficienza renale, iperuricemia, iperazotemia, oliguria, herpes, eczema,  scorbuto, piorrea, ipocondria, ipertensione portale, ipertensione arteriosa.
  Uso  interno: foglie e radici in infusione o estratto fluido. Uso esterno: il succo  lattigginoso e biancastro è usato in collirio e contro le verruche. Si  sconsiglia l’uso dei semi ai pazienti ipertesi per le ben note proprietà  ipetensive. Il miele di Cardo: in Sardegna (per l'abbondanza di cardi  selvatici nelle zone agricole abbandonate) e' uno dei tipi di miele più  prodotti; ha sapore decisamente forte e aroma vagamente speziato; il suo  profumo intenso ricorda quello dei fiori della campagna mediterranea. Invece il miele di macchia mediterranea e' il  millefiori tipico delle zone montagnose della Sardegna, dove le fioriture  spontanee di Erica Arborea, Lavandula, Asfodelo, Cisto, Rosmarino ed uno  svariato numero di cardi selvatici, danno origine ad un mix sempre nuovo ed  intrigante. Il suo sapore cambia di anno in anno, rimanendo, però, sempre  legato ad un certo aroma, che gli permette di essere riconosciuto in mezzo alle  numerosissime specie di millefiori degli altri paesi. Se il miele e' più ricco  di lavandula avrà un sapore più morbido ed un aroma balsamico, se predominano  il cardo, l'aroma più speziato.
Temperature minime  per gli ortaggi
  a partire da 5 °C: barbabietola,  carota, cavolo cinese, piselli
  a partire da 7 °C: fava, broccoli
  a partire da 10 °C: bietole, sedano,  cipolla, porri, cavolfiori, lattughe,m prezzemolo 
  a partire da 13 °C: crescione,  carciofi, ravanelli, soia
  a partire da 15 °C: cavolo rapa,  cavolo verza, spinaci, tarassaco, patate, rafano, scorzanera
  a partire da 16 °C: cicoria, fragole
  a partire da 17 °C: cardi, zucchine
  a partire da 20 °C: peperoni, zucche,  cetriolo, fagioli, peperoncino, girasole
  a partire da 25 °C: pomodori,  melanzana, mais, meloni, anguria
  l’orto sinergico si risemina da solo. Ne  manderemo alcuni in seme, però necessitando di impollinazione giusta, nell’orto  ospiteremo fiori e piante indigene per attrarre gli insetti impollinatori. Alla  raccolta, gli ortaggi non verranno mai sradicati, ma tagliati al piede dando la  possibilità di ricacciare dal ceppo radicale, sebbene meno belli, saranno  sempre molto saporiti
erbe spontanee  odorose commestibili  se ti nutrirai del cibo della terra, tu diventerai  quella terra…" "... i contadini non producono il cibo della vita. Soltanto  la natura ha la capacità di creare qualcosa dal nulla e gli agricoltori possono  esclusivamente farle da assistenti..." Masanobu Fukuoka * 
  Sperimentarsi con la Terra è istinto primordiale,  malattia del sangue, che ti fa cercare sempre quella relazione perduta con  l’aspetto primitivo, animale di noi stessi, con il contatto dei piedi, del  corpo con l’erba, così come noi facevamo da bambini e antenati. E’ la ricerca  di un’armonia da ristabilire, spezzata ma ardentemente ricercata, con ciò che  ci circonda nonostante i tentativi di cementificazione, con ciò che esce da  ogni regola e previsione e vive, gioca una esistenza a sé: la Natura. E’ desiderio di  un ritorno ad una autonomia che è sussistenza e libertà: di pensiero, di  nutrimento, di essere soggetto della propria vita e non solo oggetto. Infine è  il desiderio di costruire un ponte nuovo, ripristinare quel legame con lo  Spirito delle cose, della Vita intesa come manifestazione e presenza del  Divino.In questa ricerca dello Spirito, la Terra gioca la parte primaria, come  manifestazione tangibile della bellezza delle leggi divine e si offre a noi,  con grande umiltà, affinché possiamo perfino calpestarla e da questa relazione,  imparare.
  (Ferrante  Cappelletti “Dalle erbe la salute Piante  medicinali dell'arco alpino” Publilux Trento 1977) Fitoalimurgia (Ottaviano Targioni Tozzetti, 1767), è l’arte di alimentarsi con ciò che la  natura offre spontaneamente in ogni stagione così come praticato da sempre  nelle società di caccia e raccolta. Alimurgia: urgenza alimentare spontanea  stagionale. A primavera le parti giovani delle piante hanno alto contenuto di  fitormoni (auxine e principi attivi con azione drenante/depurativa) concentrati  negli apici e nelle gemme quali tessuti meristematici da cui sviluppano le  altre parti della pianta. L’alimentazione è un fatto culturale e i  condizionamenti, stereotipi e ignoranza da oblio, portano a ignorare e a  disprezzare ciò che la natura ci mette a disposizione per alimentarci (sapori  dolci, amari, piccanti ecc.) vantaggi della fitoalimurgia: • energeticamente  economica: le piante si seminano e crescono da sole, spesso togliendole si  pulisce in contemporanea il prato, il giardino e l’orto, riempire il frigo senza  svuotare il portafoglio; • le piante spontanee crescono in perfetta armonia con  l’ecosistema che le ospita pertanto sono molto più ricche di elementi (spesso  sono piccole di stazza pertanto contengono dosi “concentrate” di nutrimento e  non di rado hanno sapori forti), pertanto son alimento ideale, donan molta  energia in poco cibo.
  • raccogliete solo  le piante di cui siete sicuri di aver riconosciuto la specie e assaggiatene  sempre prima modiche quantità per verificare eventuali allergie o intolleranze.  Non preoccupatevi: se siete tranquilli e attenti le piante si faranno  riconoscere da sé ed è difficile sbagliare! 
Raccontare  quante meraviglie nascono spontaneamente in campagna e sono lì, a disposizione  di tutti quelli che abbiano il giusto atteggiamento di curiosità e di rispetto  per la terra. Un tempo le erbe selvatiche contribuivano a sfamare intere  famiglie. Le erbe spontanee odorose commestibili, sia crude che cotte, usate  intere, o a seconda delle proprietà contenute nelle loro varie parti (radici, foglie  e fiori), sono ingredienti di molti piatti legati alla tradizione; abbinando ad  esempio le foglie  di primula con rapanelli e lattuga e per ottenere i ripieni unendo ortica,  borragine, lattuga e farinello, o ortica, parietaria e malva; luppolo, ortica e  agliaria o bardana, malva e farinello. Per ciascuna varietà c'è un  utilizzo specifico (crudi, bolliti, stufati, in torte salate, ecc.) e un tempo  di raccolta. Alcuni vanno raccolti in pieno inverno, altri tra inverno e  primavera, altri in primavera, altri prima che facciano il fiore. Il vero  problema è saperli conoscere. Non hanno mercato, e quindi commercialmente non  creano interesse. A parte i pochi contadini all'antica e alcune persone  oculate, che ne apprezzano le inconfondibili caratteristiche di gusto, è  realmente difficile trovare qualcuno che li apprezzi e li utilizzi in cucina.  Ci si può imbattere in una pianta chiamata cicerbita (da raccogliere, come  quasi tutte le erbe selvatiche, all'attaccatura della radice, nel periodo che  va da ottobre a febbraio), utilizzabile sia cruda (purché tenera) sia bollita e  condita con olio e limone oppure stufata con spezzati di maiale.
  In  collina, negli oliveti, si trovano tra ottobre e febbraio i gratinepoli,  eccezionali in insalata: delicatissimi e per niente amari, dal gusto davvero  elegante. Il profumatissimo finocchio selvatico, con i cui  germogli più teneri fare ad esempio la zuppa.
  Negli  oliveti incolti, a marzo si trovano i prelibati asparagi selvatici,  migliori dei coltivati, più raffinati e saporiti. Molto più esili e sottili,  difficili da individuare e da raccogliere perché crescono tra rovi e cespugli  (nel cercarli non bisogna dimenticare di fare intenzione a eventuali spiacevoli  incontri con le vipere, che in questi periodi si risvegliano dal letargo). Il  massimo gli asparagi selvatici lo danno col risotto (col vialone nano il  connubio è perfetto). Il trucco sta nel non buttare niente: la parte terminale  dell'asparago va nel risotto, mentre con le parti del gambo più dure si fa  preventivamente il brodo per cuocere il riso. Il risultato è di una delicatezza  e di un sapore impagabili.
  Il radicchio  selvatico, nelle varianti comune e bianco è buona tra ottobre e  febbraio; il suo gusto amarognolo fa sì che sia consigliabile mangiarla  mischiata con altre erbe. In estate il radicchio comune fa dei fiori blu  meravigliosi, mentre la sua variante detta radicchio bianco fa i fiori gialli.
  Acetosa: o acetosella Fam.  Ossidalaceae) erba spontanea acidula, viene mangiata per calmare la sete e se  utilizzata in insalata riduce la quantità di aceto da usare. Si cuoce come gli  spinaci, buttando via la prima acqua di cottura.
  Oxalis  acetosella deriva l’etimo dal greco oxys = acuto,  pungente e da hals = sale, per il  sapore acidulo che ricorda l'aceto. L'Acetosella è pianta erbacea perenne,  rizomatosa, alta 8-15 cm.  molto comune in Europa, Asia e Nordamerica. In italia è frequente in tutta la  penisola, eccetto le zone litoranee e nelle isole. Cresce nei boschi ombrosi,  ricchi d’humus, dal piano ai 2.000 metri. Ha foglie trilobate, portate da un  picciolo arrossato, simili a quelle del trifoglio. Col tempo piovoso si  contraggono piegandosi verso il basso, assumendo l'aspetto di un piccolo  ombrello. I petali e le foglie si chiudono nelle ore nottune. Il fiore è unico  sullo stelo e compare ad aprile-maggio con petali bianchi o rosati, solcati da  sottili venature violette. Il frutto è una capsula allungata provvista di un  sistema per diffondere i semi: questi, immersi in una massa mucillagginosa,  vengono sospinti attraverso una fessura che, essendo stretta ed elastica, si  contrae bruscamente proiettandoli lontano con un effetto "esplosivo".  Sotto la piantina striscia un fusticino sotterraneo, che si divide formando una  fitta rete negli strati superficiali del suolo. 
  Assaggiando  le foglie si percepisce subito un gusto acidulo dovuto alla presenza notevole  di acido ossalico (anche più dell'1%). Ciò comporta un uso attento della  pianta, che se ingerita in quantità notevoli risulta dannosa all'attività  renale e può persino causare la morte. L'acetosella è nota da tempo per le sue  numerose proprietà, che però si perdono in gran parte con l'essiccazione. In  campo alimentare, dal Medioevo e ancora oggi, viene usata per insaporire le  insalate. Si combina con altre essenze selvatiche in salse di vario uso. Dalle  foglie si ricava anche un infuso depurativo e una bevanda dissetante simile  alla limonata, mentre consumate crude calmano la sete in caso di mancanza  d'acqua e disinfettano le piccole ulcere del cavo orale. Le foglie sono  diuretiche, decongestionanti, depurative, astringenti, rinfrescanti,  febbrifughe. Tutta la pianta contiene acido ascorbico, biossalato di potassio,  vitamina C, mucillagine, ciò la rende controindicata per chi soffre di disturbi  gastrici, intestinali, epatici, calcoli renali e biliari e gotta. Usata  esternamente serviva a preparare rimedi per pelli arrossate e infiammate, dato  il suo potere decongestionante, mentre nella pratica quotidiana serviva a  pulire oggetti di rame, bronzo e cuoio; il "sale di acetosa", ora  ottenuto industrialmente, un tempo veniva preparato dai droghieri con l'acido ossalico contenuto nella pianta. Era usata anche per smacchiare la biancheria da ruggine  e inchiostro, nonché come mordente per i colori e disincrostante per i  radiatori delle automobili
  Agliaria: ha le foglie  cuoriformi, se strizzate sprigionano un profumo d'aglio, perciò è adatta per  arricchire e insaporire insalate, verdure e funghi come, ad esempio, le  spugnole. 
  Balsamite: erba spontanea  comunemente conosciuta come erba San Pietro o erba amara, cresce nei prati di  zone collinari e pianeggianti, nelle boscaglie umide, nel greto dei fiumi o in  luoghi incolti. In cucina vengono usate le foglie per preparare aromatici tè,  digestivi e anche sedativi. E' uso molto comune aggiungere alcune foglie di  questa pianta nelle frittate o nelle zuppe. 
  Bardana: fin dall'antichità  la bardana ha fama di pianta medicinale che non si è mai smentita attraverso i  secoli. I giovani getti lessati si consumano come asparagi conditi con olio  aceto e sale. Le radici, dopo essere state lessate e private delle fibre più  dure, si mangiano in insalata. I ragazzi, durante le loro passeggiate in  campagna, raccoglievano i capolini dei fiori muniti di piccoli uncini per  utilizzarli come proiettili nel gioco della guerra. 
  Borragine: pianta mellifera,  ha un aspetto ruvido e peloso e può essere avvolta da una peluria bianca. cresce  spontanea nelle campagne, ha foglia lanceolata e grandi fiori azzurri, si  mangia in insalata o in ingrediente di ripieni o frittelle, se raccolte tra  ottobre e marzo, sono gustosissime per preparare ad esempio una zuppa di  lenticchie e borragine. I suoi fiori sono aggiunti alle insalate o per decorare  i formaggi freschi. La rigidità dei peli svanisce per effetto dell’aceto. Le  stesse foglie, come pure le cime, vengono consumate lessate e poi condite con  olio e limone oppure saltate al burro, strascicate con olio e limone o anche  passate al setaccio sottoforma di purè verde. In minestra, per le loro  proprietà emollienti, sono buoni succedanei degli spinaci. Già gli Etruschi consigliavano  l’uso della Borragine in diverse pietanze per il particolare gusto che ricorda  quello del cetriolo. In Toscana, le foglie lessate e mescolate a quelle della  cicoria e ai semi del finocchio costituiscono un caratteristico piatto  regionale, la zuppa frantoiana. Nella  cucina ligure L’erbaggio viene usato per preparare l’impasto delle tipiche  lasagne verdi. Vari aceti aromatici assumono un bel colore turchino per  aggiunta dei suoi fiori. Nel territorio etneo, è usata sia come piatto di  verdura, lessata in poca acqua e condita con olio, sia come ingrediente di  minestre o zuppe, fra cui principalmente quella di lenticchie. All’impiego  culinario della Borragine si attribuisce, oltre al potere nutritivo, anche  valenza curativa in quanto la pianta possiede una buona quantità di mucillagini  ad azione antinfiammatoria e rinfrescante. Della Borragine si utilizzano pure i  boccioli, conservati sotto aceto e consumati allo stesso modo dei capperi.  Infine, dalle foglie pestate in un mortaio si ottiene un succo altamente  dissetante e rinfrescante. Quando v’è poco freddo invernale, piante spontanee  di borragine crescono rigogliose e fiorite; mentre in stagioni  "normali", il freddo le segna visibilmente. Il suo nome deriva dalla  parola latina "borra", che significa ruvida stoffa di lana. E’ originaria dell’oriente e i medici della  scuola salernitana le attribuivano la virtù di "scacciare la  malinconia". Se si vuole che "ricacci" anche l’anno successivo,  bisogna lasciarla fiorire. Nel passato c’era l’abitudine di succhiare i fiori  per il loro contenuto dolce e da ciò è derivato il nome dialettale sucamelo. Le foglie hanno proprietà  emollienti, mentre le sommità fiorite sono depurative, diuretiche e sudorifere.  In cucina si usa come ripieno per i ravioli (al posto degli spinaci) o  nell’impasto per lasagne, fettuccine e tagliolini. I petali possono essere  usati come colorante naturale per aceti aromatici o consumate in insalata (  buona l’insalata mimosa: petali di borragine, cicoria, tarassaco mescolati con  uova sode a pezzetti). Per unire le foglie di borragine "all’erua  pazza", bisogna lessarle a parte, in pochissima acqua, e con pentola  coperchiata. Altri usi del sucamèlö: foglie immerse in pastella di farina di mais  e fritte, oppure scottate, per pochi secondi, in acqua bollente salata poi,  ripiegate con in mezzo alici e mozzarella, quindi passate nella pastella e  allineate in una pirofila per il forno. RAVIOLI  DI MAGRO CON BORRAGINE, ingredienti: mezzo chilo di ricotta, un etto di  parmigiano grattugiato, due uova, (uno intero ed un tuorlo), duecento grammi di  foglie di borragine lessata e passata al tritatutto, sale quanto basta.  Amalgamare tutti gli ingredienti. Preparare una sfoglia con due uova e duecento  grammi di farina, tirarla sottile e mettervi sopra dei mucchietti di composto.  Con una rondella formare dei ravioli della grandezza desiderata. Una volta  lessati, i ravioli saranno conditi con burro fuso e salvia o con crema di latte  al parmigiano (prepara con latte caldo più parmigiano da girare fino  all’addensamento ) alla quale puoi aggiungere gherigli di noci tritati. buon  Appetito!!
  Camomilla: pianta spontanea  dalla caratteristica infiorescenza dal sottile profumo, è molto utilizzata in  fitoterapia come antispastico, nell'insonnia, nei dolori mestruali e come  sedativo. 
  Calendula: C. officinalis o fiorrancio (famiglia  Composite), è pianta erbacea annuale, biennale o perenne, con fusticini eretti  o ascendenti, alti fino a 50   cm, foglie intere o sinuato-dentate ai margini  obovato-spatolate. capolini larghi 3-5 arancio vivo. Fiorisce da giugno a  novembre. Coltivazione fatta ponendo a terra i semi in primavera in semenzai  con terriccio leggero. poi trapiantate in vaso o in piena terra, in luoghi  soleggiati. Spesso si dissemina spontaneamente. Vengono utilizzate le foglie e  i capolini appena sbocciati. La raccolta viene fatta in estate. Si possono  usare freschi in cataplasmi o fatti essiccare in stati sottili, evitando di  farli annerire. Devono essere conservati al riparo della luce e dell'umidità.  Proprietà terapeutiche: emmenagoghe, antispasmodiche, diaforetiche, emollienti.  Per uso esterno lenitivo e antiarrossante.
  Cedrina: è un'erba odorosa  apprezzata soprattutto per la deliziosa fragranza delle sue foglie che, come  denota il suo nome, profumano di agrumi e anche seccate mantengono a lungo  inalterata la loro fragranza. In cucina le foglie raccolte in primavera sono  utilizzate per aromatizzare creme e salse dolci e salate, verdure e pesce,  mentre i rametti freschi si usano come nei liquori casalinghi. Inoltre, con le  foglie fresche o essiccate si può preparare un'ottima tisana digestiva,  tonificante e calmante. 
  Consolida  maggiore:  cresce presso i margini dei campi in luoghi umidi e ombrosi. I fiori si  mangiano in insalata e le foglie, ricche di mucillagine, si prestano per i  ripieni e per arricchire il composto dei malfatti. La consolida è considerata  un vegetale ricchissimo di vitamina B12. Inoltre le sue foglie macerate a lungo  diventano un ottimo fertilizzante, bollite invece diventano una tintura dorata. 
  Crescione: cresce lungo i  corsi d'acqua e nei fossi. Le sue foglie sono usate sia crude che cotte. Ha  anche proprietà depurative e diuretiche, ma se si vuole utilizzarle per questo  scopo è consigliabile consumare le foglie appena colte poiché la cottura toglie  loro tutte le proprietà. 
  Cicoria - Cichorium intybus. Il nome deriva dal  greco Kichore; Intybus, termine  latino usato da Virgilio con il significato di indivia. E’ una pianta perenne,  ma, a seconda del clima, può comportarsi da annuale o biennale. Sia in  primavera che in autunno dalla radice si sviluppa una rosetta di foglie che  aderiscono al terreno e possono essere pelose o glabre. I fiori sono ligulati e  di colore azzurro e si schiudono al mattino. Molto comune e conosciuta, cresce  spontanea nei prati o coltivata negli orti, presenta in piena fioritura dei  caratteristici fiori di un azzurro cielo intenso. La cicoria contiene la  "cicorina" ed altri principi amari che la rendono molto pregevole ed  importante come tonico, digestivo, lassativo e depurativo. Non solo, ma il sale  contenuto nella cicoria - il nitrato di potassio - è un efficace stimolante dei  reni ai quali facilita la liberazione del sangue da tutte le impurità in esso  contenute. Il più usato terapeuticamente è il decotto di cicoria che si prepara  bollendo un buon pugno di cicoria in mezzo litro di acqua. Di questo decotto se  ne berranno tre bicchieri al giorno, a stomaco vuoto, prolungando la cura per  diversi giorni. In breve sarà realizzata una completa ed efficace depurazione  generale, ed anche dalle pelle scompariranno impurità ed affezioni varie,  grazie alla maggiore attività sviluppata dal fegato e dall'intestino. Questa  cura depurativa e tonificante delle funzioni epatiche ed intestinali può essere  sostituita o, meglio, completata da abbondanti scorpacciate di cicoria fresca  condita con olio e limone. Le radici torrefatte e polverizzate, possono essere  utilizzate come surrogato del caffè. Le foglie basali, ancora tenere, possono  essere consumate in insalata, oppure lessate e condite con olio d’oliva e  limone o ripassate in padella con l’erua  pazza di cui è la principale componente. Lo stomaco - grazie ai principi  attivi contenuti nella cicoria fresca - assumerà un ritmo più armonico,  digerirà meglio e, infine, sarà messo in grado di sopportare anche qualche  peccatuccio di gola. Una cura prolungata di questa insalatina amarognola serve,  con risultati talvolta sorprendenti, a rassodare il seno, tonificandone la  muscolatura. Ecco dunque a nostra completa disposizione una di quelle piante  medicinali facili a trovarsi è vero, ma dai principi attivi e medicamentosi  molto efficaci e, spesso, sconosciuti. Crescendo dalla primavera fino ad  autunno inoltre la cicoria ci mette in grado di provvedere, in qualsiasi  momento, ad una sana e completa azione depurativa. Cura che, in un mondo sempre  più sfrenato, in un'atmosfera sempre più inquinata, in presenza di cibi non  sempre genuini, se non sofisticati, si rende ogni giorno più necessaria, come  un buon sonno o una lunga passeggiata distensiva nei boschi.
  ZUPPA del Frantoio: Lessare piantine  di cicoria, foglie di borragine e semi di finocchio, versare il tutto su  bruschette, strofinate con aglio, e condire con olio d’oliva paesano e sale.  Ricordare che le verdure vanno sempre salate dopo la lessatura che deve  avvenire in poca acqua bollente e con la pentola coperchiata. Pasta ai FUNGHI  PORCINI: Ingredienti: olio d’oliva, aglio, funghi porcini o misto funghi,  cicorietta di campo senza radici, pachino, prezzemolo e a scelta, parmigiano  reggiano. Cuocere i funghi con olio, prezzemolo, aglio intero e, aggiungere a  fine cottura i pomodori pachino tagliati a metà facendogli fare una media  cottura. Ripassare la cicorietta precedentemente lessata e privata delle  radici, con aglio olio e peperoncino. Unire tutti gli ingredienti e far  amalgamare per qualche minuto. Lessare i fusilli al dente, condire con il  preparato e servirli cosparsi di prezzemolo tritato ed a parte con parmigiano.
  Farinello Buon Enrico: erba infestante  dalle foglie nutrienti e ricche di mucillagine che si prestano per ripieni,  minestre e spezzatini. 
  Lavanda: arbusto perenne  cespuglioso dal caratteristico fiore azzurro dal profumo intenso, deve il suo  nome all'uso che ne facevano gli antichi Romani per profumare i bagni, mentre  il suo olio essenziale era usato per massaggi tonici e stimolanti. Nella  medicina naturale si utilizzano i fiori essiccati per la sua azione  carminativa, antispasmodica, antisettica e stimolante. 
  Luppolo: cresce lungo le  siepi. I germogli si raccolgono all'inizio della primavera e vengono consumati  come gli asparagi. 
  Malva: pianta spontanea dei  campi incolti molto comune e resistente, ne vengono utilizzati sia i fiori che  le foglie come medicamento grazie alle sue proprietà emollienti e  antinfiammatorie in caso di infiammazioni del tubo digerente, dell'apparato  urinario e delle vie respiratorie. Dice il proverbio 'La malva tüt i mal a i a salva',  ovvero è un rimedio per tutti i mali. Erba medicinale usata moltissimo dai  vecchi per curare infiammazioni al cavo orale e mal di gola, può essere  raccolta (in zone lontano dal traffico) e usata fresca per fare decotti o  essiccata al sole e conservata per un anno, per tisane rinfrescanti e  sfiammanti. Anche in questo caso l'inverno mite ha risparmiato le piante, che hanno  già foglie rigogliose e verdissime.
  Melissa: Melissa officinalis cresce in luoghi ombrosi, ha un gradevole profumo di limone e le sue foglie si  usano sia cotte che crude, sia per piatti salati che per dolci. Il suo utilizzo  è stato continuo in tutti i tempi e particolarmente rinomata fu l'acqua di  Melissa dei Carmelitani Scalzi di Parigi usata come digestivo. questa erba,  chiamata anche cedronella ha virtù  medicinali contenute nelle sommità fiorite, oppure nelle foglie che contengono  uno speciale olio essenziale che dà alla pianta il grato odore e gustoso  sapore. La melissa è sempre stata consigliata nei postumi delle paralisi, nelle  debolezze muscolari, nei tremori dei vecchi, nei languori fisici e morali  susseguenti a lunghi patimenti. Molto indicata nelle convulsioni, nelle  nevrosi, nell'isterismo ed in ogni forma patologica afferente il sistema  nervoso. Risulta molto utile, ancora, nello stimolare l'appetito, nel  rinforzare lo stomaco in caso di indigestioni, nell'espellere gli eccessivi e  noiosi gas intestinali. 
  Se  famoso era lo "spirito di melissa", altrettanto celebre era  "l'acqua di melissa" dei Carmelitani scalzi. Si prepara con 150 grammi di melissa  fresca o 60 di secca, 30   grammi di buccia di limone grattugiata, 15 grammi di cannella, 15  di chiodi di garofano, 15 di polvere di noci moscate, 5 grammi di radice di  angelica e 5 di coriandoli. Il tutto viene bollito per cinque minuti in mezzo  litro di acqua, vi si aggiunge mezzo litro di grappa e si espone al sole in un  vaso ermeticamente chiuso per circa tre settimane. Alla fine si filtra e si  conserva il liquido così ottenuto in bottiglie ben chiuse. Quest’acqua di  melissa si prende nella misura di un cucchiaino di caffè diluito in un po'  d'acqua prima dei pasti principali. L'acqua di melissa dà gli stessi risultati  se presa nella misura di trenta o quaranta gocce su di una zolla di zucchero.  Per i bambini o le persone allergiche  all'alcol, l'acqua di melissa può essere sostituita, con gli stessi effetti,  dal decotto. Lo si prepara bollendo per qualche minuto due cucchiai di melissa  in mezzo litro d'acqua e si prende nella misura di un bicchiere prima dei  pasti. Nei disturbi nervosi questo decotto sarà più efficace se con la melissa  verrà bollito un cucchiaio di radici di valeriana. L'infuso, invece, preparato  con un cucchiaino di melissa, uno di menta ed una tazza di acqua bollente, sarà  efficace ristoro nei vomiti nervosi delle donne incinte.
  Il  vecchio famoso spirito di melissa è un ottimo calmante, facilita le digestioni  difficili, combatte le nausee ed il vomito, ridà colore alla faccia nei  frequenti mal d'auto o di mare. Si prepara con 150 grammi di melissa,  450 di alcol puro e 450 di acqua. Si mette in bottiglia, si espone al sole per  tre giorni, si filtra e se ne prende un cucchiaino da caffè in una tazzina  d'acqua o trenta gocce su una zolletta di zucchero tre volte al giorno. Nelle  fredde sere invernali, poi, non c'è niente di più indicato di un cucchiaio di  acqua o di spirito di melissa in una tazzina di acqua molto calda da prendersi  prima di coricarsi.
  Ortica: Il nome ortica (Urtica Dioica, Urtica Urens) deriva del verbo latino URERE che significa bruciare;  l’aggettivo DIOICA vuol dire che ogni pianta reca fiori maschili e femminili.  E’ una pianta molto comune, nota soprattutto per la sua azione irritante quando  viene a contatto con la pelle. Le foglie hanno il picciolo, la base cuoriforme  e l’apice (la punta) acuto, i margini sono molto incisi e sulla superficie sono  coperte da peli urticanti. I fiori sono riuniti in spighe maschili dritte in su  e spighe femminile pendule situate alle ascelle delle foglie. La pianta  preferisce i terreni ricchi di azoto ed è assai comune nelle zone incolte,  vicino a ruderi, lungo le strade di campagna, ai piedi dei muri e nei pressi  delle concimaie. L’ortica, lasciata a macerare per una ventina di giorni  insieme con piante di Equiseto, costituisce un ottimo bio-antiparassitario. Chi  soffre di dolori reumatici, può alleviarli frustando la parte dolorante con  piante di ortiche. RISOTTO CON PESTO  DI ORTICHE. Tagliuzzare un mazzetto di cime e foglie tenere di ortiche  e poi farle rosolare in olio con erba cipollina. Passare parte del composto al  frullatore con l’aggiunta di un cucchiaio di parmigiano reggiano o grana  padano, un cucchiaio di farina ed una tazzina di latte. Cuocere il riso sul  fondo rimasto aggiungendo, al bisogno acqua bollente. A metà cottura unire al  riso il pesto e, a fine cottura, mantecare il tutto con parmigiano e poca panna  da cucina. I getti giovani, teneri e freschi, sono i migliori in cucina per  fare ottime frittate con cipolla oppure ripieni di ortica e ricotta chiusi in  una sfoglia sottilissima e conditi con burro del pastore e salvia, utili anche  in campo medico, in quanto il loro potere curativo è massimo. Il momento  migliore per coglierli, naturalmente dotati di forbici e guanti, è dopo una  pioggia e il periodo più adatto è la primavera. Se raccogliendola con le mani  nude si incappa in irritazioni cutanee, niente paura: la natura fornisce  l'antidoto. Di solito nelle vicinanze, su qualche muretto, si può trovare la parietaria (chiamata anche vetriola). Basta strofinarne un rametto con gambo e foglie  sulla parte di pelle irritata dall'ortica, e in breve si ha un effetto lenitivo  del dolore. 
  Parietaria: Cresce comunemente  sui muri e sulle macerie. Si consuma come gli spinaci. Contiene un'alta  percentuale di salnitro e per questa caratteristica fu usata fin dall'antichità  come efficace diuretico, utilissimo in tutte le affezioni urinarie. Un tempo,  quando non c'erano i detersivi, la parietaria veniva usata per pulire i fiaschi  del vino o dell'olio. Infilando un po' di parietaria triturata e una manciata  di sassolini nel fiasco e agitandolo energicamente, si riusciva a portare via i  sedimenti depositati all'interno. Un rimedio un po' spartano, per gente con ben  altre esigenze rispetto a oggi...
  Piantaggine: pianta perenne con  foglie ovali un po' spesse, ricca di mucillagine. E' ottima per i ripieni o da  consumarsi insieme ad altre erbe di stagione con la pancetta, l'aglio e l'olio.  Utilizzata come decotto per combattere la diarrea e le infiammazioni  intestinali. 
  Pimpinella: erba spontanea dal  sapore di cetriolo, viene usata nelle insalate. 
  Papavero: il rosso papavero  che cresce spontaneo tra i campi coltivati e lungo gli argini, veniva usato  come sedativo facendo un infuso dei suoi petali essiccati e come calmante della  tosse, sotto forma di sciroppo. 
  Rafano  selvatico:  il rafano cresce allo stato selvatico in corrispondenza di terreni freschi ed  ombrosi presso le abitazioni. Le sue foglie sono ottime in insalata condite con  olio di oliva e sono apprezzate per il loro leggero sapore piccante che dà tono  alle verdure. eccellente diuretico e depurativo del sangue e, quindi,  particolarmente indicato per chi soffre di reumatismi, gotta e ritenzione idrica. 
  Rapastrello: Raphanus raphanistrum: (Brassicaceae) Altri nomi volgari: Ravastrello, Ravanello selvatico,  Ramolaccio selvatico,  Gramolaccio. Pianta  erbacea annuale, molto ramificata e ispida, dotata di una radice gracile e  sottile e foglie inferiori lirato-pennatosette con segmento terminale slargato,  le superiori ovali-lanceolate, dentate. Da marzo a giugno, produce fiori  bianchi, venati di violetto. I frutti sono silique provviste di tipiche  strozzature fra un seme e l`altro. Il Rapastrello è diffuso su tutto il  territorio italiano, dove cresce dal livello del mare fino a ca. 1000 m di altitudine negli  incolti e nei coltivi, soprattutto seminativi. Si raccolgono le cime  (spicuneddi), le foglie ed il colletto (zona tra radice e fusto). Allo stadio  giovanile il Rapastrello può essere confuso con altre giovani verdure  mangerecce, quali il Cavolicello (Brassica  fruticolosa Cyr.) e la Senape canuta (Hirschfeldia incana, detta in  dialetto Amareddu), normalmente non  cresce su terreno vulcanico, ma nelle zone di confine coi terreni sedimentari,  dove i due erbaggi possono coesistere, la confusione è frequente per la  notevole somiglianza.Le radici si  utilizzano come il ravanello, mentre le foglie allo stesso modo degli spinaci, si  consumano lessate e poi ripassate in padella con olio, aglio e peperoncino, per  la delizia dei nostri palati. Tutte le parti del Rapastrello hanno un tipico  sapore piccante che conferisce alla verdura un “carattere” deciso non gradito a  tutti. In qualsiasi modo venga cucinato, il Rapastrello è considerato una  verdura più rustica dell`affine Cavolicello; da qui il detto popolare a razza  non fa cauliceddi, alludendo a una persona grossolana che non ha speranza di  divenire raffinata oppure a una stirpe infima che inevitabilmente resta tale.  Il colletto, abbastanza tozzo, si prepara tranciando la pianta alla radice e  troncando le foglie verso la base; si ottiene così un torso che si consuma  crudo come si fa con i Ravanelli. Le popolazioni dell`Est europeo, ad esempio,  amano il forte sapore pizzicante del Rapastrello per meglio gustare la birra; a  tale scopo masticano le radici della pianta allo scopo di stimolare la sete
  Raperonzolo: (Campanula  rapunculus, Fam. Campanulacee). Spontanea nei prati e pascoli. Ha foglie  lineari lanceolate, finemente seghettate. fiori grandi a grappolo semplice, è  facilmente riconoscibile per i suoi fiori blu o violacei che compaiono da  maggio a luglio. Si trova nei prati asciutti e nei vigneti. in passato era  molto coltivato a scopo alimentare, la radice simile a quelle di rapa ma più  piccole, si raccoglie in primavera, ha un sapore delicatissimo, si usa insieme  alle insalate di campo dal gusto delicato per non coprirne il profumo  caratteristico. Si consuma crudo all'inizio della primavera, dopo averle pulite  e condite con un filo d'olio e pizzico di sale.si possono utilizzare poi sia i  getti primaverili che le foglie per eccellenti insalate. 
  Salsapariglia: Smilace,  Strappabrache, Stracciabrache, Rovo-cervone, Rovo-cerrone, Salsa paesana, Salsa  siciliana, Edera spinosa, Ellera spinosa, Taxon: Smilax aspera, Famiglia: Liliaceae. Etimologia: antichissima  denominazione data alla pianta in Grecia, dove è largamente presente, deriva  dal greco smilé = raschietto, in  riferimento alla spinosità delle foglie. Il secondo termine deriva dal latino asper = scabro, pungente, per la  presenza nella pianta di abbondanti spine. Salsapariglia, termine di origine  spagnola, deriva da zarza = arbusto  (derivato dall’arabo scharac) e parilla = piccola vite, in riferimento  al portamento rampicante e alla presenza di viticci. L’appellativo  salsapariglia è utilizzato anche per indicare la droga estratta dalle radici di  alcune specie, quali S. officinalis, S. medica, S. syphilitica, S.  saluberrima, proprie dell’America centrale e meridionale; le radici di  queste piante contengono la sarsaponina,  nonché olî eterei, resine e altre saponine con proprietà toniche, sudorifere,  antireumatiche, depurative e, secondo la tradizione popolare, antisifilitiche.  In realtà, poiché la Smilax  aspera non possiede proprietà medicamentose, sarebbe più consono utilizzare il  termine Smilace, derivato direttamente dal nome greco della pianta e  comunemente usato in Toscana. Esso risulta, legato al mito secondo il quale le  Baccanti, dovendo compiere i loro riti tersicorei e non trovando l`edera per  ornarsi il capo, usarono i tralci di Smilace, che hanno foglie simili ma  spinose. Quando la danza divenne più frenetica, le acuminate spine della pianta  cominciarono a trafiggere la fronte delle Baccanti le quali iniziarono ad  urlare e gesticolare in modo inconsulto, facendo degenerare il rito in un vero  e proprio baccanale. I termini Stracciabrache, Strappabrache e indicano le  conseguenze dovute alla presenza delle acuminate spine nella pianta. Pianta  lianosa, perenne, sempreverde, provvista di lunghi fusti rampicanti, teneri e  arrossati nelle parti giovani, legnosi a maturità, flessuosi, muniti di spine  uncinate. Le foglie sono coriacee, sagittato-cordate, spinose ai margini e  lungo la nervatura centrale, provviste di un picciolo tortuoso con due viticci  laterali, lunghi e tenaci. I fiori, che compaiono da settembre a novembre, sono  esameri, unisessuali su piante dioiche, piccoli, bianchi, profumati, riuniti in  ombrelle sessili multiflore, raggruppate in grappoli ascellari e terminali. I  frutti sono piccole bacche globose, di colore rosso, non commestibili ma  innocue, che maturano nell’autunno successivo, contemporaneamente ai nuovi  fiori. Salsapariglia si rinviene nei boschi di Leccio (Quercus ilex L.), nella  macchia, come pure nelle zone più aperte, nelle sciare, nelle siepi e sui muri  a secco, dove sovente forma intricati cespugli. E’ comune in Liguria,  nell’Italia centro-meridionale e nelle isole. Parti commestibili: i nuovi getti  dei rami, in primavera, quando sono rossastri e tenerissimi; assomigliano ai  turioni degli Asparagi ma presentano giovanissime foglie con picciolo provvisto  dei due viticci stipolari. Le giovani cime si preparano in cucina allo stesso  modo degli Asparagi; hanno un sapore amarognolo piuttosto gradevole. Spesso le  sue qualità alimentari sono sconosciute. 
  Semprevivo: è una pianta  grassa che negli anni passati compariva sui tetti e sui muretti di cinta. Già  dal tempo dei romani si diceva che ogni casa doveva averne perché proteggeva  dai fulmini. Era tenuta in considerazione anche per le sue qualità terapeutiche  contro le piccole ferite, le scottature e i calli. Produce delle rosette con le  radici che in primavera danno vita ad altre piantine. E' robusta, ha poche  esigenze e sopravvive a parecchi gradi sotto zero durante le gelate. 
  Salvia  splendens:  pianta ornamentale eliofila, nativa delle foreste del Brasile, dove raggiunge il  metro e mezzo di altezza. Chiamata in inglese 'St. Johns Fire', cresce anche  nana fin 35cm dove ogni giovane foglia fiorisce in rosso scarlatto. Creswce  facilmente da seme e talea. Poche foglie lentamente masticate, hanno effetto rilassante  e conciliante la meditazione.
  Tarassaco: Taraxacum Officinale, Dente Di Leone,  Tarassaco, Piscialetto. TARASSACO deriva dal greco TÁRASSO che significa  guarire, con riferimento alla proprietà medicinale della specie. E’ una pianta  erbacea perenne e che vive per molti anni. Ha una radice carnosa e laticifera  (contiene latice) che sviluppa una rosetta di foglie, più o meno roncinate,  aderenti al terreno se intorno non c’è vegetazione, altrimenti erette. Si trova  quasi per tutto l’anno, se il clima non è molto rigido. I fiori sono gialli,  solitari e con il gambo vuoto e, dopo il ciclo si trasformano nei soffioni,  insieme di acheni che formano una palla di "bambagia" che si disperde  nel vento, riproducendo le piante. Il tarassaco è un’ottima insalata selvatica,  ricca di vitamine e sali minerali e quindi depurativa e diuretica. In insalata,  si può consumare da solo o con altre verdure, lessato, va condito con olio e  limone oppure ripassato con l’erua pazza. I boccioli si possono conservare  sott’aceto come i capperi. RICETTA:  ACQUACOTTA CON UOVO SPERSO: bollire alcune piantine di tarassaco, a  cottura quasi ultimata aggiungere un paio di uova (tipo stracciatella) e poi  versare su crostoni di pane raffermo o "abbrusco", condire con olio  d’oliva. TORTA RUSTICA PISCIASOTTO.  Far bollire in poca acqua alcune piantine di tarassaco e bieta; strizzare per  bene la verdura e ripassarla in padella con olio, aglio e peperoncino. Stendere  in una pirofila uno strato di pasta di pane di mezzo centimetro,  duecentocinquanta grammi di farina, quindici grammi di lievito di birra, 125 ml  di acqua tiepida: far bollire per due ore sotto una copertina, disporvi sopra  l’erba ripassata e fettine di provola o fontina. Ricoprire con altro strato di  pasta più sottile e spennellarlo con un tuorlo d’uovo battuto. Far cuocere in  forno a duecento gradi per una trentina di minuti. La torta rustica è ottima  anche fredda.
Edera (Hedera helix) pianta rampicante,  legnosa, perenne e sempreverde. Possiede 2 tipi di rami: i giovanili sono  dotati di radici aeree, con le quali si attacca su ogni superficie, i rami  adulti, che crescono in seguito ai precedenti,sono privi di radici, e formano  fiori e frutti. FOGLIE picciolate, coriacee, la lamina superiore è di colore  verde scuro, mentre la lamina inferiore è più chiara.
  Le  foglie dei rami giovanili sono palmato-lobate, la lamina è divisa in 3-5 lobi ,  quello centrale più lungo è più largo, le foglie dei rami adulti hanno margine  intero e sono di forma ovale Proprietà  medicinali: Tutti i derivati dell'edera sono velenosi e da usarsi con  estrema cautela, soprattutto nei bambini o in soggetti defedati. 
  L'infuso  di foglie raccolte in estate e fatte seccare lentamente, ha proprietà  emmenagoghe, balsamiche ed espettoranti. 
  Le  foglie fresche pestate o ridotte in succo applicate per uso esterno sono  detersive, antireumatiche, antinevralgiche. 
  Il  decotto di foglie fresche viene utilizzato per bagni antireumatici. La pomata  (ottenuta con il 15% di prodotto secco polverizzato e il restante 85% da  grasso) viene usata per frizioni antidolorifiche. L'infuso di una manciata di  foglie in circa due litri d'acqua, può essere usato dopo lo shampoo come  trattamento per rendere i capelli più scuri e lucidi. Il succo o il decotto  delle bacche velenose, raccolte dall'inverno alla primavera, ha proprietà  purgative, emetiche, antibiliari, sudorifere. CURIOSITA':questa pianta è ideale  per creare siepi sempreverdi, infatti viene anche coltivata e non richiede  particolari attenzioni; resiste in situazioni di scarsità d’acqua e non teme  particolarmente l’umidità, l’unica condizione necessaria è che il terreno sia  ben drenato. I frutti che produce, ATTENZIONE, sono velenosi per l’uomo,  possono portare a morte per complicanze respiratorie, ma sono comunemente  mangiati dagli uccelli.
  Le  foglie possono provocare reazioni allergiche. L’edera contiene diversi principi  attivi : glucosidi,ederina, ederangerina, ederacoside, flavonidi, alcaloidi,gomma  resina, acidi malico,formico,caffeico e cloregenico.
alla base della ferula communis (finocchiaccio) crescono funghi molto saporiti il fusto cavo di tale piantaveniva usato dalle menadi per fare il tirso entro cui ponevano le erbe selvatiche raccolte
Ruta - Ruta graveolens Habitat:  terreni aridi dal piano alla montagna. 
  piccoli  fiori gialli che, una volta sbocciati, ricordano delle croci in miniatura,  l'erba ruta è stata ritenuta, fin dai tempi più antichi, una magica cura, una  vera e propria panacea di qualsiasi malanno. 
  la  ruta è una pianta velenosa, il cui uso sconsiderato ed eccessivo potrebbe  provocare seri disturbi o, avvelenamenti letali. Le sostanze medicamentose  dell'erba ruta sono tutte contenute nell'olio dall'odore sgradevole che si trova  raccolto in vescichette sulle foglie.Le foglie dell'erba ruta vengono usate per  farne degli infusi, nella misura massima di un grammo per ogni tazzina di acqua  bollente. Questi infusi servono a calmare gli attacchi isterici, a favorire e a  rendere più facili e meno dolorosi i cicli mestruali, a eliminare, infine, le  coliche intestinali flatulenti. Lo stesso infuso, inoltre, può servire nei casi  di glaucoma per ripetuti lavaggi.
  Per  chi soffre di rinite cronica fetida, che provoca quelle abbondanti secrezioni  nasali, è consigliabile l'uso di un decotto di erba ruta preparato con un  cucchiaio di foglie e due bicchieri di acqua. Si fa bollire per alcuni minuti  e, tre volte al giorno, si introduce nelle narici per qualche minuto un  batuffolo di ovatta bene imbevuta del liquido così ottenuto.
  L'erba  ruta ha dei discreti effetti digestivi, anche se inferiori a molte altre erbe.  A questo proposito va per la maggiore la cosiddetta grappa alla ruta, preparata  immergendo nella grappa un ramoscello di ruta. ha potente azione abortiva.
Rovo - Rubus fruticosus:  pianta selvatica comunissima che cresce vigorosa un po' dappertutto, formando  folti cespugli dotati di spine abbondanti e pungenti. Sul finire dell'estate  giungono a maturazione quei frutti tipici, neri, simili a quelli del lampone e  che vengono comunemente chiamati more. I rovi non sono così fastidiosi se se ne  considera l'utilità in cucina: a parte le more, che producono in estate e in  autunno, i loro germogli più teneri possono avere un impiego  "alimentare". Ai bambini di campagna un tempo i nonni insegnavano il  trucco di staccare la parte terminale del germoglio, sbucciare alla buona la  pellicola esterna, e mangiarne il cuore, assaporando il particolare gusto  amarognolo e la consistenza croccante. Ad inizio primavera i germogli di rovi  non sono così "grassi" e succosi; basterà attendere le piogge  d'aprile e il sole di giugno per poterne trovare in gran quantità. Nelle more  sono contenuti zuccheri, albumine, numerosi acidi organici e soprattutto calcio  e potassio, dei quali ultimi ogni corpo in fase di sviluppo sente una esigenza,  si può dire, incontrollata. Per questa ragione i fanciulli ne sono  particolarmente ghiotti ed è una ghiottoneria che li aiuta a crescere e a  svilupparsi. La preparazione di marmellate di more è molto semplice: basta  cuocere a fuoco lento le more con doppio peso di zucchero, fintantoché non si  sia raggiunta una consistenza sciropposa. Qualche cucchiaio al giorno od anche  più somministrato ai bambini porterà loro dei giovamenti inaspettati. Le more  bollite con acqua e un po' di zucchero forniscono, in estate, una delicata  bibita rinfrescante, utile sia ai grandi che ai più piccini.. Bevanda, inoltre,  che costituisce un ottimo rimedio contro i bruciori di urina. Le foglie ed i  teneri germogli di rovo contengono tannino in quantità notevole. Sono perciò  astringenti ed il loro decotto, preparato facendo bollire per qualche minuto in  mezzo litro di acqua una manciata di foglie secche, si usa con successo contro  la diarrea anche dell'età infantile, la dissenteria, gli sputi sanguigni.
  Felce - Polystichum filix     Habitat: luoghi ombrosi fino a 2.000 metri. Nella  pagina inferiore delle fronde, ai lati delle nervature, si trovano dei  corpiccioli, i"sori"(1,5 millimetri di diametro), ricoperti da una  sottile membrana. All'interno dei "sori" si trovano dei corpi  rotondi, microscopici, le cosiddette "spore" la cui funzione è di  riprodurre la pianta. Sotto terra c'è una radice o "rizoma"  orizzontale, nodosa e molto grossa. Questa pianta, che viene spesso raccolta  anche a scopo ornamentale, è la felce maschio, molto comune anche da noi. La  parte medicinale è la radice o rizoma che si raccoglie in estate e che deve  presentare, all'atto della raccolta e della frattura, un bel colore verde. Questa  radice, conosciuta fin dall'antichità, ha un deciso potere vermifugo, si usa  molto secca, si polverizza e se ne prendono quindici grammi, mescolati magari  con miele o qualche liquido sì da renderla più appetibile. E' necessario, prima  dell'ingestione della polvere, essere digiuni da almeno 12 ore. All'ingestione  della polvere si farà seguire, dopo circa mezz'ora, un efficace purgante non  oleoso. Con questa cura vermi e tenia scompaiono facilmente. La radice debitamente  bollita dà un ottimo decotto per bagni totali o parziali in grado di combattere  crampi e reumatismi.  Anche l'aceto, nel  quale siano stati bolliti rizomi di felce e usato per frizioni, è in grado di  eliminare il gozzo e ridare elasticità ai muscoli irrigiditi da reumatismi. Nei  crampi fastidiosi ai polpacci o al piede è sufficiente legare sulla zona  afflitta una foglia verde.
  Alloro - Laurus nobilis   Habitat: giardini ed orti dal piano alla  collina. Le foglie e le bacche di alloro hanno proprietà medicinali di una  certa importanza. Infatti, sminuzzando 5 o 6 foglie secche di alloro e  mettendole in una tazza di acqua bollente si ottiene un ottimo infuso che,  bevuto caldo prima di coricarsi, fa sudare abbondantemente riuscendo, quasi  sempre ad impedire l'evolversi di un raffreddore o di un'incipiente influenza.  Lo stesso infuso sorseggiato dopo i pasti, riesce, grazie alle essenze  contenute, a facilitare la digestione e ad eliminare i fastidiosi gas  intestinali. L'infuso, ancora, rinforza lo stomaco, eccita l'appetito e, come  tutti gli infusi fatti con piante contenenti oli essenziali, è un ottimo e  prezioso anticatarrale. Le bacche dell'alloro, piccoli frutti che assomigliano  a minuscole ciliege nere dai semi molto grossi, sono ancora più attive delle  foglie, contenendo un olio ricchissimo di numerose sostanze medicamentose. La  polvere ottenuta dalle bacche perfettamente essiccate, presa nella dose di uno  o due cucchiaini da caffè al giorno, è un rimedio efficace contro l'influenza,  i raffreddori, le malattie nervose, le paralisi, le debolezze di stomaco e i  gas intestinali. L'olio laurinato si ottiene con una manciata di bacche pestate  e fatte macerare in mezzo litro di puro olio di oliva e serve per lenire gli  spasmi reumatici o per facilitare la ripresa dell'uso delle articolazioni dopo  ingessature o traumi di varia natura.  L'olio  verrà frizionato adeguatamente sulle parti interessate alcune volte al giorno. Ottimo,  sempre per uso esterno, l'unguento laurino che si prepara aggiungendo settanta  grammi di olio di lauro, ottenuto per pigiatura delle bacche, un cucchiaio di  trementina e mezzo cucchiaio di acido salicilico a 150 grammi di grasso di  maiale e 50 grammi  di grasso di pecora fatti fondere a fuoco lento. Raffreddato che sia,  l'unguento viene conservato in un vaso a chiusura ermetica. Una buona manciata  di queste bacche fatte bollire a lungo in acqua non molto abbondante, danno un  decotto oleoso che, applicato con impacchi, serve quale ottimo emostatico,  astringente e rinforzante dei capillari sanguigni.
  Ginepro - Juniperus communis. Habitat: luoghi incolti  dal piano al monte. Il ginepro contiene un olio essenziale volatile - la  gineprina - che, assorbendo l'ossigeno dall'aria, depone la canfora di ginepro  ed altre sostanze aromatiche. Naturalmente la parte più usata è costituita  dalle bacche di ginepro: facendone una cura intensa che inizia da cinque bacche  ben masticate il primo giorno ed aumentando la dose di una bacca per ogni  giorno di cura fino al massimo di quindici e, quindi, regredire fino a tornare  a cinque, non solo si faranno scomparire quegli odiosi bruciori di stomaco che  tanto spesso ci affliggono, ma lo stomaco stesso ne uscirà rinforzato, mentre  l'appetito aumenterà di pari passo. Questa cura può essere proficuamente  sostituita da due tazze al giorno di un infuso preparato versando una tazza  d'acqua bollente su sei o sette bacche di ginepro accuratamente schiacciate.  L'infuso preparato con tre cucchiai di bacche di ginepro bene schiacciate ed un  litro d'acqua bollente e preso nella misura di 3 o 4 tazze al giorno porterà  sensibili benefici ai sofferenti di acido urico, quindi agli artritici, ai  reumatici, ai gottosi, o a chi è affetto da itterizia, calcoli vescicali,  idropisia cardiaca e nefritica, di leucorrea e di blenoraggia.  
  All'infuso  fa seguito, naturalmente, il celebre vino di ginepro, preparato con 60 grammi di bacche  schiacciate messe a macerare per sei giorni in un litro di buon vino bianco. Di  questo vino - diuretico e digestivo - se ne bevono due mezzi bicchieri al  giorno. Per le essenze volatili in esse contenute e che vengono eliminate  attraverso i polmoni, le bacche di ginepro sono pure indicate nei catarri  cronici polmonari, nella tubercolosi e nell'asma. Un cucchiaio di bacche  schiacciate poste in mezzo litro d'acqua bollente, danno un ottimo tè che preso  ben caldo, nella misura di una tazza ogni due ore, farà sudare abbondantemente,  faciliterà la respirazione, permetterà un abbondante e facile espettorazione.  Anche le regole mensili saranno promosse prendendo la sera, prima di coricarsi,  una tazza di tè preparato con acqua bollente e venti bacche di ginepro  schiacciate. E, infine, per i numerosi malanni, acciacchi e ... bisogni  invernali sarà sufficiente una buona manciata di bacche schiacciate di ginepro  in un litro di vecchia grappa nostrana. Si otterrà il migliore gin di questo  mondo, in grado di fugare i malanni invernali e gli altri poco sopra ricordati.
  Lichene - Cetraria islandica Habitat: terreno nudo  o rocce montane. E' facile in montagna imbattersi in rocce ricoperte da una  pianta che vive e si sviluppa come le alghe, che si allarga, quasi, in foglie  inodore, coriacee, di color rosso oliva nella faccia superiore, biancastre in  quella inferiore, formando, il tutto, strani cespuglietti alti da terra sei o  sette cm. Quando una tosse secca e persistente scuote il petto, affatica il  cuore e toglie il sonno è la   Cetraria islandica che porta un immediato sollievo,  decongestionando ogni mucosa e favorendo così una pronta espettorazione di  catarro. In questi casi si usa il decotto preparato con una mezza manciata di  lichene che si fa bollire per mezz'ora in un litro di acqua. Quest'ultima di  butta via e si fa ribollire il lichene per mezz'ora in un altro litro di acqua,  si cola, si addolcisce con zucchero o miele, si allunga con un po' di latte e  si somministra il decotto così ottenuto quattro o cinque volte al giorno, in  tazzine da tè e molto caldo. Se invece si soffre di debolezza generale, di  cattiva digestione, di dissenteria cronica, di febbri intermittenti, di  enterogastrite cronica, di gastrite catarrale il decotto si prepara senza  rigettare la prima acqua. Ne risulterà una bevanda molto amara - che però si  può zuccherare - ma molto efficace per i malanni sopra ricordati. Se al primo  decotto pettorale di lichene precedentemente ricordato - quello cioè al quale  si toglie la prima acqua di ebollizione - si aggiunge mezzo cucchiaino di  potassio, o calcio carbonato, e si lascia macerare il tutto per 24 ore, si  otterrà una sostanza gelatinosa, costituita prevalentemente da amido di  lichene. Questa gelatina, che può essere convenientemente mescolata con  marmellata o amalgamata e dolcificata, a piacere, con del miele, costituisce  una sostanza nutritiva di primo ordine che, mangiata, è indicatissima, inoltre,  per le persone o convalescenti, nelle infiammazioni intestinali, nei raffreddori  ribelli e, in particolare, per i bambini sfiancati ed esauriti dai numerosi  accessi di tosse convulsa o tosse canina.
Creature Arboree
  Limone (Citrus limon), originario dell'India e  dell'Indocina. ibrido naturale tra il cedro (Citrus medica) e il lime (Citrus  aurantifolia).
  L'albero  del limone (alto fin 6 metri)  ha un portamento aperto ed i rami a frutto sono procombenti; i rami sono  normalmente spinosi.
  Foglie  alterne, rossastre da giovani poi verde scuro sopra e più chiare sotto,  generalmente ellittiche; il picciolo è leggermente alato.
  I  fiori, dolcemente profumati, possono essere solitari o in coppie, all'ascella  delle foglie; in condizioni climatiche favorevoli sono prodotti praticamente  tutto l'anno. Il bordo dei petali è violetto. I frutti sono ovali oppure  oblunghi, con apici appuntiti: Normalmente la buccia è gialla, ma ci sono  varietà variegate di verde o di bianco: ricca di olii essenziali, può essere  più o meno sottile: la polpa è divisa in otto-dieci spicchi; generalmente è  molto aspra e succosa: molte varietà sono prive di semi.
  Il  limone è una specie rifiorente. I flussi principali di fioritura sono in  primavera, con la produzione dei limoni invernali, e in settembre, da cui  derivano i cosiddetti verdelli (che maturano nell'estate seguente). Per  favorire la produzione di questi ultimi, che ottengono prezzi migliori sul  mercato, si utilizzano tecniche particolari come l'interruzione delle  irrigazioni per un certo periodo.
  Il  limone è piuttosto sensibile al freddo e si defoglia completamente con  temperature di -4/-5°C,  mentre temperature inferiori possono danneggare anche il legno; i fiori e i  frutti, invece, sopportano valori fino a -2°C. D'altra parte, non ha invece bisogno di  temperature estive molto elevate per la maturazione dei frutti. Le piante sono  sensibili anche al vento (frangivento). In periodi prolungati di siccità è  necessaria l'irrigazione. Cresce bene anche in terreni poveri e il pH ottimale  è intorno a 5,5-6,5°C.
  Si  innesta su diversi portinnesti, dal franco al limone volkameriano fino  all'alemow, al mandarino cleopatra e all'arancio amaro, incompatibile però con  alcune varietà come la Monachello. A  differenza di altri agrumi, i limoni possono maturare anche una volta staccati  dalla pianta. 
  Lime (Citrus aurantifolia) specie originaria  dell'Asia. Ibrido naturale di Citrus medica (il cedro) con un'altra specie. E'  alberello di forma irregolare (alto fino a 3-5 metri) con rametti  spinosi. Le foglie sono ovali, finemente crenate, arrotondate alla base e  appuntite all'apice, verde chiaro, le infiorescenze, a racemo, hanno da due a  sette piccoli fiori bianchi e profumati, prodotti in diversi periodi dell'anno.  I frutti sono leggermente ovali, per lo più verdi o verdi-giallastri, anche se  alcune varietà hanno frutti gialli a maturazione; la polpa è acida e la buccia  sottile e ricca di olii essenziali. Tra le cultivar ricordiamo la Limetta messicana, la Neapolitanum e La Valletta".  Dal Lime sono derivati vari ibridi come il Limequat, incrocio tra Citrus  aurantifolia e Fortunella margarita. 
  La Limetta dolce (Citrus  limetta) ha origini sconosciute; è presente nei giardini del bacino del  Mediterraneo da molti secoli.
  Forma  alberelli o grandi cespugli eretti, ramificati e spinosi. Le foglie,  ovato-ellittiche, hanno apice appuntito, piccioli brevi e raramente provvisti  di alette. I fiori, bianchi e profumati, singoli o in infiorescenze, vengono  prodotti dalla primavera all'autunno. I frutti sono tondi o un po' allungati,  depressi ai poli, con umbone; buccia di colore giallo, ricca di olii essenziali  e polpa verde. giallo chiaro, succosa, dolciastra o leggermente acidula. apprezzata  come pianta ornamentale per la resistenza al freddo e la lunga persistenza dei  frutti. Limetta dolce di Roma o Pursha (Citrus limetta "Pursha"), specie originaria dell'India ed ibrido,  forse tra limetta e arancio o limetta e chinotto, oppure tra lime e chinotto. Forma  piante cespugliose, a chioma irregolare con foglie ellittiche, appuntite  all'apice e di color verde scuro lucido;. I fiori bianchi e molto profumati, sono  prodotti continuamente dalla primavera all'autunno. Frutti globosi e depressi  ai poli; la buccia non resta aderente alla polpa che è agrodolce e gustosa.
  Arancio amaro (Citrus aurantium) originario della Cina,  fu portato in Europa dagli Arabi nel X secolo. Ha chioma arrotolata; alto fino  a 10 metri.  Le foglie hanno colore verde intenso, ovate e appuntite all'apice, provviste di  grandi alette sul picciolo. I rami più vigorosi sono molto spinosi; ha un  robusto apparato radicale con fittone. I fiori sono ermafroditi, bianchi e  molto simili a quelli dell'Arancio dolce, come i frutti che però sono più  rugosi e ricchi di olii essenziali. La polpa è acida, amarognola e ricca di  semi; L'Arancio amaro ha una resistenza alle basse temperature molto più alta  rispetto all'arancio dolce. Utilizzato prevalentemente come portinnesto di  molti agrumi, i suoi frutti sono oggetto di utilizzazione da parte  dell'industria alimentare per ottenere scorze fresche o essiccate per la  pasticceria o per la produzione di liquori (es. "Curaçao") ed in  farmacologia per la preparazione di tonici. Apprezzato come pianta ornamentale.  Molte sono le cultivar. Singolare è la "Bizzarria": essa presenta  contemporaneamente frutti dell'arancio amaro e del limone cedrato, nonché  particolari frutti bitorzoluti, gialli, arancioni e verdi, con caratteristiche  di entrambe le specie.
  L'Arancio  amaro (Citrus aurantium L.) è probabilmente un reincrocio di Citrus maxima (il  pomelo) x Citrus reticulata (il mandarancio). Originario dell'Asia (Cina), fu  portato in Europa dagli Arabi nel X secolo; in Italia sembra sia stato portato  dai Crociati.
  Ha una chioma arrotolata; alto fino a 10 metri. Le foglie hanno colore verde intenso,  ovate e appuntite all'apice, provviste di grandi alette sul picciolo. I rami  più vigorosi sono molto spinosi; ha un robusto apparato radicale con fittone. I  fiori sono ermafroditi, bianchi e molto simili a quelli dell'Arancio dolce,  come i frutti che però sono più rugosi e ricchi di olii essenziali.
  La polpa è acida, amarognola e ricca di semi; l'epicarpo è abbastanza sottile.  Di colore arancio, resistono a lungo sulla pianta.
  L'Arancio amaro ha una resistenza alle basse temperature molto più alta  rispetto all'arancio dolce.
  Utilizzato prevalentemente come portinnesto di molti agrumi, i suoi frutti sono  oggetto di utilizzazione da parte dell'industria alimentare per ottenere scorze  fresche o essiccate per la pasticceria o per la produzione di liquori (es.  "Curaçao") ed in farmacologia per la preparazione di tonici. Molto  apprezzato anche come pianta ornamentale.
  Molte sono le cultivar. Singolare è la "Bizzarria": essa presenta  contemporaneamente frutti dell'arancio amaro e del limone cedrato, nonché  particolari frutti bitorzoluti, gialli, arancioni e verdi, con caratteristiche  di entrambe le specie.
  Arancio dolce (Citrus sinensis) è l'agrume più  coltivato nel mondo. E' originario del Vietnam, dell'India e della Cina  meridionale. Gli alberi hanno una chioma compatta, simmetrica e rotondeggiante  e possono raggiungere gli 8-10   metri di altezza. 
  I  rametti, su alcune cultivar, possono essere spinosi. Le foglie, ovate, lucide e  cuoiose, presentano un picciolo leggermente alato. 
  I  fiori (zagare) sono bianchi e profumati; possono essere singoli o riuniti in  gruppi fino a sei per infiorescenza. La fioritura è primaverile, mentre i  frutti arrivano a maturazione nell'autunno o nell'inverno successivo; in alcuni  casi i frutti dell'anno precedente possono essere ancora sulla pianta durante  la fioritura successiva. I frutti dell'arancio dolce non maturano dopo la  raccolta: vanno quindi lasciati sulla pianta fino al grado di maturazione  desiderato. Nelle zone tropicali i frutti rimangono verdi, e per far assumere  loro la colorazione arancione vengono trattati con etilene, un gas che è anche  un ormone che interviene nella loro maturazione. Resiste abbastanza bene alla  siccità, ma richiede irrigazioni abbondanti per la massima produzione. Si  innesta su arancio amaro, limone volkameriano e arancio trifogliato (specie per  le piante in vaso e nelle zone con basse temperature invernali).
  Arancio trifogliato o Ponciro (Poncirus  trifoliata o Citrus triptera) è un  agrume originario della Cina settentrionale e centrale. Il nome Ponciro deriva  dal francese pomme de Syrie (pomo della Siria). E' l'unico agrume a foglie decidue.  Piccolo albero a crescita rapida, ha un portamento cespuglioso irregolare. I  rami hanno normalmente lunghe spine appuntite, ma sui rami di un anno si  sviluppano anche speroni privi di spine, con internodi ravvicinati. Presenta  foglie trifogliare. I boccioli fiorali si formano all'inizio dell'estate ma si  aprono solo la primavera seguente, prima dell'emissione delle foglie. I fiori  sono singoli e di medie dimensioni. I frutti, piccoli, globosi o leggermente  piriformi, hanno un colore giallo a maturazione e un sapore molto acido. E' un  albero molto resistente al freddo (fino a -15°C), coltivato a scopo ornamentale e come  portinnesto per altri agrumi (conferisce una buona resistenza al freddo, una  elevata adattabilità ai terreni umidi, resistenza al nematode degli agrumi e  alla gommosi del colletto, un'entrata precoce in produzione e una buona qualità  dei frutti; per le piante in vaso perché ha un effetto leggermente nanizzante e  apparato radicale superficiale. Si propaga facilmente per seme e talea. La  varietà Monstruosa ha rami molto contorti e spine ricurve.
  Bergamotto. in Calabria il  primo bergamotteto sarebbe stato impiantato intorno al 1750. Deriva  probabilmente da un incrocio fra arancio amaro e limetta acida anche se non  manca chi lo ritiene una specie vera e propria denominandola Citrus bergamia Risso (di origine  cinese).  Albero di modesto vigore, con  habitus vegetativo variabile e con rami nei quali raramente si riscontrano  spine rudimentali all'ascella della foglia. I fiori, numerosi e bianchi,  odoratissimi, con cinque petali, possono essere sia ascellari che terminali,  per lo piu' riuniti in gruppi e sono ermafroditi. Il frutto e' simile a  un’arancia, ma di colore dal verde al giallo, secondo la maturazione, ha buccia  sottile e liscia e un peso che va dagli 80 ai 200 grammi. La buccia  risulta molto ricca di olii essenziali. La polpa, suddivisa in 12-15 spicchi,  fornisce un succo molto acido e amarognolo. I semi, in numero limitato, sono  monoembrionici. 
  Gli  oli essenziali di bergamotto, in virtù della loro straordinaria fragranza, sono  indispensabile nell'industria profumiera dove sono utilizzati non solo per  fissare il bouquet aromatico dei profumi (elemento di base per la produzione di  numerose acque di colonia e cosmetici), ma anche per armonizzare le altre  essenze contenute esaltando le note di freschezza e fragranza. L'essenza è  anche usata nell'industria farmaceutica (per il suo potere antisettico e  antibatterico, in odontoiatria, ginecologia, ecc.) e nell'industria alimentare  e dolciaria come aromatizzante di liquori, dolci e bevande. La Calabria è il maggior  produttore mondiale di bergamotto e nel 2001 ha ottenuto il riconoscimento DOP .  Il 90% della produzione totale arriva, infatti, da questa regione. Si coltivano  tre varietà: Femminello, a rami esili e frutti lisci, Castagnaro, più vigoroso,  con frutti meno sferici, un po’ rugosi, e Fantastico (circa il 75% della  produzione riguarda questa varietà). 
  Cedro (Citrus medica) originario dell'India,  Burma ed Indovina, dalla Persia è arrivato nei Paesi Mediterranei e,  probabilmente nel III secolo a.C., in Italia. Forma arbusti o piccoli alberi,  alti fino a 8 metri,  con rami spinosi e portamento irregolare. Le foglie, ovali-oblunghe, con  margine dentato, medio-grandi, sono rossicce appena emesse e poi verde scuro. I  fiori sono grandi e in boccio rosso-violacei. Quando si aprono hanno interno  bianco ed esterno soffuso di viola. Riuniti in racemi all'apice dei rami,  possono essere ermafroditi o maschili per aborto del gineceo. Ha fioritura  continua, con flussi principali in primavera e autunno. I frutti sono grandi,  oblunghi od ovali, a superficie liscia o rugosa e piena di protuberanze. La  scorza viene utilizzata per la preparazione di canditi, acqua e sciroppo di  cedro e per l'estrazione di olii essenziali. Con il succo si preparano bibite.  In medicina si utilizza per la preparazione di infusi. Non molto resistente  alle basse temperature, d'inverno il cedro si può defogliare per poi riprendere  l'attività vegetativa in primavera. Le cultivar sono divise in due gruppi:  cedri acidi e cedri dolci. Le prime, come la specie tipica, hanno fiori e  germogli rosso-violocei e polpa acida; le seconde hanno fiori bianchi e polpa  più dolce. Tra i cedri acidi ricordiamo la Diamante (o Liscia), la Etrog e la Mano di Budda (con frutti  ornamentali privi di polpa); tra le cultivar dei cedri dolci ricordiamo la Corsican e la Salò.
  I  limoni cedrati, ibridi fra limoni e cedri, producono frutti che ricordano il  cedro per la pezzatura e lo spessore della buccia, idonea alla candidatura,  mentre simile al limone è l'aspetto della pianta, che risulta meno esigente del  cedro per la temperatura.
  Chinotto (Citrus myrtifolia) è un agrume  originario della Cina meridionale da cui deriva il nome comune. E' presente in  Europa da molti secoli. In Italia viene coltivato esclusivamente nella Riviera  Ligure di Ponente. E' un piccolo albero (fino a tre metri di altezza),  compatto, con lenta crescita e privo di spine. Le foglie ricordano quelle del  Mirto (da cui il nome scientifico) e sono piccole, ellittiche, appuntite,  cuoiose e color verde lucente. I fiori sono piccoli, bianchi, molto profumati,  solitari o riuniti in gruppi e in posizione ascellare o terminale. I frutti  hanno modeste dimensioni, schiacciati alle due estremità e, maturi, sono di  color arancio intenso. La polpa è amara e acida e suddivisa in 8-10 segmenti. I  frutti sono utilizzati per produrre canditi, liquori, marmellate e la classica  bibita. Viene innestato soprattutto su arancio amaro. si presta molto bene alla  coltivazione in vaso.
  Mandarini, gruppo eterogeneo  di agrumi di grande importanza economica mondiale (seconda solo all'arancio). Il  Mandarino King (Citrus nobilis - Citrus  deliciosa), di origine cinese, è stato portato in Europa all'inizio  dell'Ottocento. Pare un ibrido tra Citrus reticulata (mandarancio) e Citrus  sinensis (arancio dolce), e' pianta robusta con chioma espansa, alta fino a 4,5 m. Le spine sono presenti  soltanto sui succhioni. Le foglie, da ovato-oblunghe a ovato-lanceolate, hanno  picciolo con alette sottili. I fiori sono piccoli, bianchi, profumati e  singoli. I frutti sono di taglia media, globosi e depressi ai poli, con buccia  sottile non aderente alla polpa; quest'ultima è color arancio, aromatica e  succosa e ricca di semi. Molto diffusa è la varietà "Avana" e il  Tardivo di Ciaculli. Il Mandarino Cleopatra (Citrus reshni), originario dell'India, forma piante a portamento  compatto e arrotondato. Le foglie sono piccole, strette, verde scuro. I fiori  sono piccoli e bianchi e i frutti, globosi e depressi ai poli, sono simili alle  clementine; la buccia è di color arancio, poco aderente alla polpa, che ha un  sapore gradevole ed è ricca di semi.. Resiste bene al freddo e viene usata come  portinnesto. Le origini del Mandarancio (Citrus  reticulata - Citrus clementina)  sono antiche e si perdono nell'Estremo Oriente. Piccolo albero, a volte con  rami spinosi, con chioma arrotondata, simmetrica e aperta. Le foglie sono  lanceolate, verde vivo, con picciolo leggermente alato. I fiori sono singoli o  riuniti in piccole infiorescenze, molto profumati. I frutti arancioni, hanno  una buccia arancione facile da togliere e una polpa dolce, ricca di succo, con  semi piccoli e appuntiti (oggi sono molte le varietà apirene). Numerose le  varietà, dal gruppo delle classiche clementine (nome che deriva dal frate  missionario, Clemente Rodier, che le  coltivò in Algeria) a quello delle Satsuma, ottenute in Giappone più di quattro  secoli fa. La loro maturazione è più precoce rispetto ai mandarini e sono più  resistenti al freddo. Le varietà più note di clementine sono la Monreal, Di Nules, Oroval  e Tardivo. Si innesta su franco della stessa specie o di specie simili, ma si  utilizza anche il Mandarino Cleopatra (Citrus reshni). Non maturando dopo la  raccolta, devono essere colti allo stadio di maturazione desiderato.  Il Mandarino Satsuma (Citrus unshiu), come  detto, è originario del Giappone (più di quattro secoli fa) e in Italia è stato  portato verso la fine dell'Ottocento. Pianta medio piccola, in genere dal  portamento espanso. Foglie grandi, verde scuro, ellittiche e con apice  appuntito. I fiori, singoli o in gruppi, bianchi, appaiono in primavera. I  frutti sono color arancio, hanno buccia sottile, facile da togliere; la polpa è  succosa e in genere priva di semi, sono maturi quando ancora non hanno  raggiunto la completa colorazione della buccia. Resiste bene al freddo.
  Mapo, gruppo di ibridi  con caratteristiche intermedie tra il mandarancio (Citrus reticulata) e il  pompelmo (Citrus paradisi).
  Il  più conosciuto è il Mapo, incrocio tra mandarino "Avana" e pompelmo  "Duncan", molto precoce. I suoi frutti hanno una buccia molto sottile  che resta in buona parte verde anche a piena maturazione. La polpa,  giallo-arancio uniforme, ha un sapore gradevolmente acido. E' un albero di vigoria  medio-forte, a portamento globoso espanso, con rami tendenti a piegarsi verso  il basso e presentanti spine solo su quelli più vigorosi.
  Drupacee
  Ciliegio due specie primarie:  l'avium (dolce), molto diffuso in Italia, con portamento assurgente, e il  cerasus (amarena), acido, più cespuglioso e pollonifero, diffuso più nel nord  Europa. Altra specie è il Prunus mahaleb,  noto come magaleppo o ciliegio di  S. Lucia, albero piuttosto piccolo, con foglie di forma variabile  rotondo-ovata, di colore verde chiaro e fiori piccoli, bianchi, e frutti  piccoli, non eduli, gialli o rossi, talvolta molto scuri. L’'origine è  collocata tra il Mar Nero e il Mar Caspio; il dolce è prodotto più che altro in  Europa, ed USA anche, mentre l'acido è della zona ad est. In Italia si trova un  po' ovunque, specie in Campania, Puglia, Veneto ed Emilia. Appartiene alle  Rosaceae, sottofamiglia Prunoideae, pertanto l'albero presenta rami a legno e  rami a frutto e il frutto è una drupa; la corteccia si presenta come costituita  da una serie di anelli. Del ciliegio dolce si distinguono la varietà juliana  che fornisce le tenerine e la varietà duracina che produce i duroni. Del  ciliegio acido vi sono: la varietà caproniana, con amarene o morasconi, la  austera, con le viscole, la marasca, con le marasche. Limiti pedoclimatici: ha  un elevato fabbisogno in freddo, la sensibilità a ristagni idrici si ha con  Prunus avium e mahaleb; il grosso problema del ciliegio dolce, non l'acido, è  la pioggia che porta a spaccature del frutto oltre ad essere vettore di  Monilia. Oltre a ciò una siccità prolungata danneggia la formazione dei fiori.  Tra le avversità, la più oltre alla pioggia, come tutte le drupacee, è il  pericolo della Sharka, e del cancro batterico delle drupacee; tra le crittogame  si ricorda la Monilia  che colpisce rami fiori e frutti. Tra i parassiti animali l'afide nero (Myzus  cerasi ), la mosca delle ciliege (Rhagoletis cerasi), le falene dei fruttiferi,  i rodilegno (Cossus cossus L. e Zeuzera pyrina L.) e altri insetti e acari  (ragno rosso, ragnetto giallo del melo, ecc.). Anche gli uccelli possono  provocare danni ai fiori e ai frutti sia in fase di sviluppo che a maturazione.
  Pesco originario della  Cina e Persia, dove lo si può ancora rinvenire allo stato selvatico.  L'introduzione in Europa viene attribuita ad Alessandro Magno o ai Greci che lo  avrebbero introdotto dall'Egitto. Viene coltivato in molti Stati nelle zone con  clima temperato mite. A livello mondiale i maggiori produttori sono gli Stati  Uniti, seguiti dall'Italia, Spagna, Grecia, Cina, Francia e Argentina.
  In  Italia le regioni maggiori produttrici sono l'Emilia-Romagna (circa 1/3 della  produzione), Campania (1/4), Veneto e Lazio. I primi pescheti specializzati in  Italia risalgono alla fine dell'800 e sono stati realizzati in provincia di  Ravenna. Il pesco appartiene alla famiglia delle Rosaceae, tribù delle  Amigdaleae, sezione delle Prunoidee , genere Persica, specie vulgaris. Secondo  altri studiosi apparterrebbe al genere Prunus (specie persica), come  l'albicocco, il ciliegio, il mandorlo e il susino. Il pesco comune è un albero  di modeste dimensioni, alto fino a ca. 8 m, con apparato radicale molto superficiale,  corteccia bruno-cenerina e rami radi, divaricati, rosso-bruni. Le foglie sono  lanceolate, strette, seghettate. I fiori, che sbocciano prima della comparsa  delle foglie, sono ermafroditi, ascellari, pentameri, colorati in rosa più o  meno intenso. I petali sono cinque; gli stami sono numerosi, fino a 20-30. Il  pesco è, in genere, una specie autoincompatibile. Gli ovuli, generalmente due,  non giungono tutti a maturazione, ma solo uno di essi viene fecondato e giunge  a maturità. Il nocciolo di pesco contiene perciò un solo seme (o mandorla)  solcato profondamente, che è di sapore amaro per l'elevato contenuto di  amigdalina, un glucoside cianogenetico caratteristico di alcune drupacee. I  frutti (le pesche) sono drupe carnose, tondeggianti, solcate longitudinalmente  da un lato, coperte da una buccia tomentosa o glabra (pesche-noci o nettarine)  di vario colore. La polpa è succulenta, di sapore zuccherino più o meno  acidulo, di color bianco, giallo o verdastro. La pesca ha una tipica  consistenza polposa e succosa che è dovuta all'elevato contenuto in acqua ed  alla presenza di pectina.
  La  maturazione dei frutti avviene tra la prima e la seconda decade di maggio nelle  zone meridionali, fino alla fine di settembre per le cultivar più tardive. Le  condizioni climatiche italiane e degli altri Paesi mediterranei sono ideali per  la coltivazione del pesco che può sopportare minime invernali di anche -15 -18°C fino ad ambienti  subtropicali dove il riposo invernale è alquanto limitato.
  Albicocco (Prunus armeniaca,  Armeniaca vulgaris) origine cinese, centro-asiatica, iranocaucasica, tutte zone  dove la specie è diffusa. In Italia si trova principalmente nelle regioni  meridionali dove si è spostato a causa delle gelate. Appartiene alla famiglia  delle Rosaceae, sottofamiglia delle Prunoideae, genere Prunus. Tra le specie  affini si ricordano il Prunus brigantiaca sulle Alpi francesi, il Prunus ansu Kamar, coltivato nelle zone umide del  Giappone e della Cina orientale e il Prunus mume (albicocco giapponese). Ha fioritura  precoce e perciò è più soggetto a danni da ritorni di gelate, nel periodo  primaverile; l'impollinazione è entomofila. Limiti pedoclimatici: troppo freddo   comporta anomalie fiorali ed elevata  cascola delle gemme; principale fattore limite è l'eccesso di umidità nel  terreno e nell'aria, inoltre è sensibile all'asfissia radicale. 
  Mandorlo (Amygdalus communis, Prunus amygdalus; Prunus  dulcis), pianta originaria dell'Asia centro occidentale e della Cina. Venne  introdotto in Sicilia dai Fenici, proveniente dalla Grecia, tanto che i Romani  lo chiamavano "noce greca". In seguito si diffuse in tutti i Paesi  del Mediterraneo e in America nel XVI secolo. della Famiglia delle Rosaceae,  sottofamiglia Prunoideae. La specie Amygdalus communis ha tre sottospecie di  interesse frutticolo: sativa (seme dolce endocarpo duro), amara (seme amaro per  la presenza di amigdalina) e fragilis (seme dolce endocarpo fragile). Pianta  alta 8-10 m  molto longeva. L'apparato radicale è molto espanso. I rami, di colore  grigiastro o marrone, portano gemme a legno e a fiore. Foglie lanceolate,  seghettate, piu' strette e piu' chiare di quelle del pesco, portanti delle  ghiandole alla base del lembo e lungamente peduncolate. I fiori, ermafroditi,  sono bianchi o rosati nell'Amygdalus communis amara, costituiti da 5 petali, 5  sepali e da 20-40 stami. L'ovario presenta 2 sacchi embrionali contenenti,  ognuno, 1-2 ovuli. Il frutto e' una drupa di colore verde, a volte con  sfumature rossastre, spesso peloso ma anche glabro, ed endocarpo legnoso  contenente il seme o mandorla ricoperto da un tegumento liscio o rugoso. In  alcune cultivar vi è presenza, all'interno dell'endocarpo, di due semi scartato  dal commercio). Il mandorlo e' caratterizzato da una fecondazione entomofila,  per cui nel mandorleto è necessaria la presenza di un certo numero di arnie  durante la fioritura. La maggior parte delle cultivar e' autosterile ed eteroincompatibile.  L'epoca di fioritura, varia fra i diversi ambienti (da gennaio a marzo) ed e'  precoce.  La raccolta si attua tra la  fine di agosto e la fine di settembre. I frutti caduti a terra, dopo la  raccolta vengono fatti asciugare all'aria poi smallati ed essiccati per l'industria  dolciaria (confetti, torroni). La lotta alle avversità esclude ogni uso di  insetticidi, favorendo la sopravvivenza degli insetti utili con l’inerbimento  controllato, l’uso del Bacillus  thuringiensis e la distribuzione o il ripopolamento di predatori per la lotta  biologica. Nel nostro meridione il "Capnodis tenebrionis", (coleottero)  danneggia i mandorleti in asciutto scavando gallerie nei tronchi.
  Melo (Malus pupila), originario del caucaso, è  oggi coltivato intensivamente in Cina, Stati Uniti, Russia, Europa (Italia e  Francia).
  In  Italia la produzione è concentrata nel settentrione: l'80% col Trentino-Alto  Adige in testa. Appartiene alla grande famiglia delle Rosaceae, sottofamiglia  Pomoideae, genere Malus. Il melo può raggiungere un'altezza anche di 8-10 metri. Presenta gemme a  legno e miste portate da diversi rami fruttiferi, cioè da dardi, lamburde,  brindilli e rami misti. Il frutto è un pomo o melonide (falso frutto); la  corteccia è tipicamente liscia rispetto altre specie e la foglia si distingue  per il margine seghettato. Esiste autoincompatibilità gametofitica nel gruppo  della cultivar (cv), perciò sono necessarie più cv per un impianto. È resistente  al freddo (fino a -25°C,  con qualche eccezione), per la sensibilità alle gelate tardive dipende  dall’epoca di fioritura, e sopporta bene il calcare se il terreno è ben  drenato, si adatta a vari terreni. Carenze e fisiopatie possono comportare  spaccature dei frutti, cascola dei frutti e rugginosità suberosa. Importante  malattia batterica è il colpo di fuoco batterico (Erwinia Amilovora), tra le  crittogame sono da ricorda la ticchiolatura, mal bianco. Degli insetti si  ricordano lepidotteri, quali carpocapsa (Cydia pomonella), rodilegno rosso  (Cossus cossus) e giallo (Zeuzera Pyrina), afidi, quali grigio, lanoso, verde,  mentre tra altri c’è la cocciniglia di San Josè (Quadrapsidiotus pernicosus).
  La  propagazione avviene: per seme, margotta di ceppaia e propaggine di trincea per  l’ottenimento di portinnesti, anche se vi è una diminuzione dei franchi da  seme, mentre si usa l’innesto per la parte superiore. Il panorama varietale è  molto ampio e per la scelta ci si riferisce alle Liste di orientamento  varietale: Gruppo Gala; Guppo Red Delicius; Guppo Golden; Guppo Jonagold (Novajo,  Renetta del Canada, Querina); Guppo Stayman; Guppo Fuji, Gruppo varie (imperatore,  Smith, Annurca, Pink Lady).
  Pero (fam. Rosaceae,  sottof. Pomoideae), genere Pyrus. Specie occidentali, Pyrus Communis, e specie orientali con maggior resistenze al colpo  di fuoco batterico; in Cina si usa il Pyrus  pyrifolia appartenente a queste ultime. Nel pero si riscontra spesso  l'auto-incompatibilità, causata da sterilità fattoriale, morfologica e  citologica; come nel melo esistono cultivar che possono dare anomalie. È sempre  preferibile ricorrere a buone cv impollinatici. L'impollinazione entomofila sebbene  il fiore è poco attrattivo e si preferisce mettere più arnie. Resiste al  calcare, soprattutto col portinnesto di cotogno; possiede limiti nella  resistenza al freddo e alla siccità (sempre col cotogno che ha apparato  radicale superficiale), qualche problema sorge in casi di carenze nutrizionali.  Il pero è un albero vigoroso, di forma piramidale nei primi anni e  tendenzialmente globosa a muturità, che può raggiungere un'altezza anche di 15-18 m. presenta gemme a legno e  miste portate da diversi rami fruttiferi (dardi, lamburde, brindilli e rami  misti) frutto è un pomo. 
  Liste  di orientamento varietale per una attenta scelta: Etrusca, Coscia, Santa Maria, William, Highland,  Conference, Abate fetel, Harrow sweet, resistente al colpo di fuoco batterico,  Kaiser e Passacrassana, Butirra precoce Morettini, William Rossa diffuse.
  Propagazione:  seme, margotta, propaggine, e innesto.
  Actinidia (kiwi) pianta  originaria di una vallata dello Yang-tze cinese dove vive spontanea; appartiene  alla Famiglia delle Actinidiaceae, genere Actinidia, suddiviso in due sezioni: - Actinidia chinensis (A. deliciosa) da  mercato e Actinidia arguta ornamentale. Diffusa in Europa da metà del XX  secolo. L'Italia (Lazio, Piemonte, Veneto, Campania e Calabria )è l'attuale  maggiore produttrice alla quale seguono Nuova Zelanda, Cile, USA, Giappone e  Francia. E' una pianta rampicante e può raggiungere i 10 m.
  L'apparato  radicale è superficiale, il fusto presenta tralci anche molto lunghi che  portano gemme miste e a legno. Le foglie sono semplici, decidue, cuoriformi con  picciolo molto lungo. È una specie dioica con cv pistillifere e staminifere, un  maschio ogni 6-8 femmine; fiori singolo o raggruppati in 2-3 (infiorescenze  triple possono richiedere un diradamento dei fiori in fase di allegagione),  presenti a partire da maggio; il frutto è una bacca ricoperta da peluria, la  polpa è di un verde caratteristico, punteggiata di minuscoli semi, violacei o  neri, disposti intorno a un cuore biancastro (columella). L'impollinazione è  entomofila anche se i fiori non sono molto attrattivi per le api e perciò si  aumenta il numero delle arnie; in misura minore anche anemofila. Teme i danni  da freddo ed i ristagni idrici, può presentare problemi con terreni ad elevato  calcare attivo, pH>7,6, ed in presenza di forte ventosità (uso di frangiventi).
  Nocciolo originaria  dell'Asia Minore, in Italia (tra i principali produttori mondiali) è diffuso in  tutte le regioni, dalla pianura fino 1300 m di altitudine. Appartiene alla Famiglia  delle Betulaceae, genere Corylus, comprendente numerose specie tra cui Corylus avellana e C. maxima, C. chinensis. Portamento a cespuglio,  pollonifero, alto in genere 2-4   m (max 7   metri). Il fusto è sottile e slanciato. I giovani rami  recano peli corti, in parte ghiandolari. La corteccia è di colore marrone  grigio, precocemente glabra, con solcature longitudinali e sparse lenticelle  chiare. Le radici sono superficiali; le foglie alterne rotondo-ovali con  picciolo lungo. La pagina superiore è verde poco pelosa; la pagina inferiore è  più chiara; le nervature sono evidenti. Pianta monoica con fiori riuniti in  infiorescenze unisessuali che si sviluppano molto prima delle foglie. Gli  amenti maschili sono riuniti in gruppi di 2-4 all’estremità oppure all’ascella  delle foglie dei rami dell’anno precedente, i fiori maschili sprovvisti  dell’involucro, hanno quattro stami. La produzione di nocciole e' molto  variabile oscillando da 1-2 q.li/ha di prodotto secco con guscio, in condizioni  normali, a 5-15 q.li/ha in coltura specializzata forzata. La raccolta viene  effettuata in agosto-settembre. Il nocciolo e' una delle piante predilette dal  tartufo bianco (Tuber Magnatum) e dal  tartufo nero di Norcia (Tuber  melanosporum). 
  Le  foglie di nocciolo sono tuttora ricercate per donare all'epidermide la purezza  e la freschezza desiderata. La sostanza contenuta in queste foglie ha una  decisa azione astringente, migliora lo stato dei pori troppo dilatati,  riducendo la secrezione grassa; ha, ancora, una efficace azione tonificante  sulla pelle sì da renderla fresca e candida come quella dei fanciulli e questa  azione esplica tutta la sua efficacia soprattutto su quelle persone che, per  essere vissute in ambienti malsani o per aver abusato di impiastri chimici,  accusano una pelle aggrinzita ed afflosciata; serve, infine, a fare scomparire  i punti neri e a smorzare le lentiggini. Per queste ragioni, sia che si voglia  mantenere intatta la propria bellezza, sia che si voglia correggere tutte  quelle imperfezioni sopraricordate, si faccia uso del decotto di foglie di  nocciolo, con il quale ci si laverà sovente, riuscendo così ad allontanare dal  viso la patina del tempo.
  Canapa (Cannabis sativa) Ordine: Urticales, inglese  Hemp; spagnolo: Cáñamo. Pianta originaria delle regioni nord e sud Himalaya. La Cina è il Paese in cui è  coltivata da più lungo tempo. La sua introduzione in Europa risale al secondo  millennio a.C. e in Italia è segnalata nel I secolo a.C. specie in Pianura  Padana. Nel ventesimo la sua superficie è andata diminuendo resiste in Cina,  India, Europa dell'Est e Russia. Pianta annuale, con radice fittonante e fusto  eretto, più o meno ramificato, robusto, dapprima pieno poi cavo, alto fino a 4 metri. Le foglie sono  prevalentemente opposte, picciuolate, palmatosette, con 3-9 segmenti  lanceolati, acuminati, seghettati, pubescenti. Generalmente è specie dioica,  presentando le infiorescenze maschili e femminili su piante diverse. I fiori  maschili sono riuniti a formare delle infiorescenze, dette pannocchie, poste in  posizione ascellare, mentre quelli femminili sono appaiati, sempre in posizione  ascellare, ma in corrispondenza delle due stipole, piccole, acuminate e  caduche. Il frutto è un achenio, comunemente chiamato seme di canapa o  canapuccia. La forma è comunemente ovoidale, ma a volte quasi sferica. Il  colore non è uniforme, ma si presenta più o meno macchiettato, grazie ad un  reticolo di fasci vascolari situato sotto l'epidermide del pericarpo. Predomina  il bruno, talora olivastro o tendente al rossiccio, ma non mancano frutti più chiari,  biancastri e verdognoli. Contiene un unico seme, racchiuso in un pericarpo  sottile di consistenza cornea, indeiscente, bivalve (peso 1.000 semi pari a 20-22 grammi). La canapa  riesce ad adattarsi ai più svariati ambienti, anche se i migliori risultati  produttivi si ottengono in zone umide e con temperature di 20-25°C durante tutto il ciclo e  nei terreni argillosi e fertili. Coltura da rinnovo, si semina a fine  aprile-primi maggio, in file distanti 15-18 cm, in modo da ottenere, alla raccolta, un  investimento di 100-200 piante a metro quadrato, che si raggiunge impiegando  circa 60 kg/ha di seme. Non teme le infestanti, poiché, una volta conclusa la  fase di emergenza, ha sviluppo rapido ed elevata competitività. Se la raccolta  riguarda la bacchetta viene effettuata in corrispondenza della fioritura  femminile (prima metà di agosto); se si vuole ottenere anche la produzione di  acheni, viene posticipata alla fine di settembre. Un tempo la raccolta veniva  fatta a mano, per la preparazione di fibra (12-15 quintali) impiegata per la  fabbricazione di tessuti, cordami, carte speciali, filtri e isolanti  termo-acustici. Dalle piante femminili si può utilizzare anche il seme (fino a  15 quintali ad ettaro), utilizzato per l'estrazione di olio impiegato per la  produzione di colori e vernici. Il materiale che rimane dalla stigliatura può  essere impiegato come lettiera, mentre i panelli di estrazione vengono  impiegati nell'alimentazione zootecnica. La Canapa indiana (Cannabis indica), originaria del Kafiristan, a sud dell'Hindukush,  fornisce fibra assai mediocre. In Oriente viene coltivata per l'estrazione di medicine  e droghe: dalle estremità fiorite si estrae l'hascisc, mentre le foglie secche  formano il bhang. Tale specie è di bassa statura, con steli a sfumatura vinosa,  foglie tendenti ad essere alterne, segmenti fogliari molto stretti e lunghi,  semi piccolissimi e scuri. Tutta la pianta ha un aspetto contratto, foglioso,  ed un colore verde molto intenso. 
Altre Piante  Alimurgiche (spontanee di uso alimentare)
  Liliacee: 
  pungitopo/rusco/caffè  Sicialiano, asparago pazzo (ruscus aculeatus): caratteristica dei lecceti, si  raccolgono i nuovi getti (turioni) di colore bruno-violaceo che, in primavera,  emergono dal terreno fra gli spinosissimi rami degli anni precedenti. I turioni  del Pungitopo si consumano come gli Asparagi selvatici o coltivati, ma hanno un  sapore più amarognolo e richiedono un maggior tempo di cottura. Per allontanare  l’eccesso di sostanze amare si suole cuocerli in abbondante acqua. Una volta  lessati, si mangiano conditi con sale, pepe, olio e succo di limone oppure si  usano come ingredienti per le frittate. Il nome volgare Pungitopo e affini  (Pungiratto, Piccasorci, ecc.) deriva dalla pratica agricola di disporre una  corona di rami secchi di questa pianta ai piedi degli alberi da frutta per  evitare che su di essi salgano i topi; analogo uso viene fatto nelle case di  campagna del Veneto, dove ramaglie di Pungitopo vengono fissate ai piedi dei  tavoli e delle dispense oppure nelle scaffalature sulle quali si allevano i  bachi da seta. Il nome Brusco e derivati (Bruscolo, Bruscanza, ecc.) alludono  al sapore amarognolo dei turioni; infatti 'brusco' si dice di cibo o persona  aspra ma non sgradevole. Vari lessicografi ed etnobotanici (TRAINA, 1868;  NICOTRA, 1883; PITRÈ, 1939; PROVITINA, 1990;) riportano la corrispondenza  Sparacogna = Asparago pungente. Pitrè cita una credenza siciliana secondo la  quale i rami di questa pianta “legati a piccoli mazzi si mettono sui pavimenti  delle case perché fanno morire le pulci”. In varie regioni d’Italia i rami di  Pungitopo sono impiegati come rustiche scope per pulire l’aia dopo la  trebbiatura, fatta con il mulo. Altrove nel mondo, le scope di Pungitopo sono adoperate  dagli spazzacamini per pulire le canne fumarie. Rami di Pungitopo provvisti  delle bacche rosse si regalano durante le feste natalizie e di fine anno con  significato beneaugurale. La presenza di bacche rosse porta, alle volte, a  confondere la pianta in questione con l`Agrifoglio (Ilex aquifolium L.), un  arbusto sempreverde a foglie spinose e bacche rosse, impropriamente chiamato  Rusco/pungitopo ed impiegato con lo stesso significato del Pungitopo. Le bacche  di Pungitopo e dell’Agrifoglio sono velenose e la loro ingestione può causare  convulsioni. I semi del Pungitopo, in tempi di magra, sono stati usati come  succedanei del caffè dopo tostatura. Coltivato a scopo ornamentale nei giardini  per siepi e bordure, in vari casi gli erbaioli intervengono sulle piante  selvatiche effettuando una forzatura, sfoltendo i cespugli o bruciandoli; in  tal modo si favorisce una più precoce e copiosa produzione di turioni
Maitake, Reishi, Shaiitake
Maitake: (Grifola frondosa o Polyporus frondosus) Berbesin nel dialetto piemontese, è un  fungo pieno di foglie, molto apprezzato localmente ma poco conosciuto. Debole  parassita delle radici, cresce alla base di latifoglie (da noi si trova quasi  esclusivamente alla base di vecchi castagni, o su ceppaie di acero), da  settembre a novombre, sviluppandosi da un piccolo "embrione" e crescendo  a mano a mano, sia del numero che nella dimensione delle "foglie  frondose" di cui è composto, fino ad arrivare talvolta ad esemplari di  oltre 10 kg.  La sua morte "culinaria" è sicuramente il sott’olio; mantiene dopo la  bollitura una notevole consistenza oltre a un buon gusto di nocciola. Con un  solo esemplare di buona dimensione ci si può procura una buona  "provvista" di "Berbesin" sott’olio. Cresce normalmente a  fine estate in un'unica suite annuale; è oggetto d'intensa ricerca da parte di  buongustai , mentre è trascurato da altri; i raccoglitori occasionali  normalmente non lo conoscono nemmeno. 
  Ha  una lunga storia d’uso nella culinaria e medicina tradizionale Cinese e  Giapponese dov’è considerato un adattogeno, aiuta cioè il corpo ad adattarsi  allo stress e normalizzare le sue funzioni. Le sue proprietà curative sono  legate al suo alto contenuto di un polysaccharide (beta-1,6-glucano). In studi  di laboratorio, ma mostrato capacità di prevenire carcinogenesi e inibire la  crescita  di tumori cancerosi, uccide l’HIV,  e stimola l’attività delle cellule immunitarie chiave (T-helper cells o CD4  cells). Maitake may also be useful for diabetes, chronic  fatigue syndrome, chronic hepatitis, obesity, and high blood pressure. It is  better absorbed than other mushrooms and it is almost as effective when taken  orally, can be eaten in food or taken as a supplement or intravenously. Buy  organically grown dried mushrooms (to use them in cooking, soak them in water  or broth for half an hour), or purchase maitake in capsule extract, or tea  forn. Some of the capsule supplements contain a small amount of vitamin C,  which enhances the effectiveness of the active ingredient in maitake by aiding  in its absorption.
Miko/maitake bis: Gymnopilus  spectabilis/Junionus/Pholiota spectabilis. Spectabilis  (rispettabile) per le dimensioni enormi che può raggiungere il gambo in altezza  (il cespo può arrivare oltre il metro!). Si riconosce per il cappello,  giallo-arancio, ricoperto da fibrille appressate brunicce. Cappello: Dai 6 ai 20 cm circa, convesso, poi  espanso, spesso con umbone ottuso, margine sottile e per lo più involuto, con  residui di velo. Cuticola asciutta, dorata oppure color arancio, marrone in  età; ricoperto di squame fibrose color bruno. Lamelle mediamente fitte,  decorrenti con un dentino, di colore giallastro, poi bruno ruggine.
  Gambo:  Robusto, alto, anche di dimensioni enormi (Fino a 80 cm di lunghezza!), con  base radicante, fibrosa, estremamente legnosa; color giallo oppure marrone,  squamoso nella parte inferiore, ricoperto da una pruina biancastra sopra  l'anello, scaglioso sotto. Anello: membranoso, ampio, color giallo, poi ruggine  per via della sporata.
  Carne  amara compatta, molto coriacea, fibrosa nel gambo, di colore giallo chiaro o  giallo paglierino da giovane, giallastra o giallo-ocreaceo in età avanzata,  color marroncino negli esemplari più vecchi. Odore: gradevole, fungino; a volte  un po' forte, è possibile percepire l'acredine del fungo perfino dal suo odore.  Sapore: amarissimo, molto sgradevole. Diventa dolce con marcato retrogusto  amarognolo se cucinato nella maniera opportuna; produce sindrome psilocibinica.  Habitat: cresce in gruppi, spesso cespitoso, su vecchie ceppaie marcescenti di  conifere o latifoglie, in particolare di eucalipto, leccio o pino, dalla tarda  estate all'autunno inoltrato. È frequentemente preda delle larve, specialmente  nel gambo.
  Buon  commestibile, ma praticamente immangiabile da crudo oppure poco cotto per via  del sapore amarissimo, che si stempera dopo una lunga cottura in un sapore  dolce ed amarognolo molto gradevole che ricorda il luppolo. Consumare  preferibilmente esemplari giovani, in quanto gli esemplari molto vecchi sono  troppo coriacei ed amari. Preparazione: eliminare quasi tutto il gambo in  quanto troppo coriaceo. Cuocere molto a lungo (anche 60 min) in acqua bollente.  Il fungo in questione emette moltissima schiuma. Dopo la cottura versare i  funghi in uno scolapasta sotto acqua fredda e lavarli per bene, fino a quando  la schiuma non sparisce completamente. Porre i funghi in un pentolino pieno  d'acqua fredda e lasciar correre un filo d'acqua dal rubinetto per circa  un'ora. In seguito riempire il pentolino con altra acqua, leggermente salata,  senza però lasciarla correre; lasciar riposare per un paio di ore.  Successivamente i carpofori possono essere cucinati nella maniera desiderata,  ma si prestano meglio alla conservazione sott'olio. 
  All'estero  è conosciuto, unitamente ad alcune specie congeneri, come il "fungo della  risata" (Laughing Mushroom) per le sue proprietà psicotrope sebbene in  vari parti, come in Italia, non sviluppi le medesime proprietà. In alcune zone  del Giappone viene adoperato per rallegrare i commensali. "può essere dato  alle donne per farle ridere e convincerle a ballare nude come la prima donna  Miko", questo afferma Nihachiro Sasaki, anziano micologo giapponese noto  per aver scoperto come coltivare il "Maitake" (Grifola frondosa)  officinale. In Italia il consumo di questa specie è vietato, al pari delle  specie dei generi Stropharia e Psilocybe. Specie simili: Difficilmente confondibile  con altre specie anche in considerazione delle dimensioni ragguardevoli che può  raggiungere, Gymnopilus junonius , commestibile dopo prolungata cottura, di  taglia mediamente più piccola, potrebbe essere confuso, dai meno esperti, con  alcune forme particolari di Armillaria mellea, la cui carne però non è amara  come G. spectabilis.  I più inesperti  potrebbero confonderlo, quando è giovane, con il congenere Gymnopilus  penetrans, che però è di taglia nettamente più piccola e che non sempre cresce  cespitoso.
 
  Shiitake
  Lo  Shiitake (Lentinus  Edodes) proviene dall’estremo Oriente, già diffuso nell’antica Cina  prima ancora dello sviluppo della coltivazione del riso e da centinaia di anni  parte integrante della dieta in Giappone. Il suo nome deriva dall’unione delle  due parole giapponesi “Shii” (quercia) e “Take” (fungo), in quanto cresce  spontaneo sui tronchi di questi alberi. La sua coltura si sta diffondendo anche  in Europa, ed è reperibile nei negozi di prodotti biologici in forma secca.  Dotato di alte qualità extra-nutrizionali, oltre a un grande sapore e un  discreto apporto calorico dovuto alla quantità di proteine presenti (296  kcal/1238 kJ per 100 gr di prodotto secco), appartiene alla tradizione  culinaria orientale, che da sempre associa al piacere del palato una funzione  curativa del cibo. Alcune sue componenti sono risultate efficaci nel  trattamento di alcuni tumori (leucemie e cancro al seno), nella riduzione dei  livelli di colesterolo nel sangue, nella stimolazione del sistema immunitario  (il polysaccharide lentina, accresce la formazione di cellule T). Ha proprietà  antivirali, antitumorali, riesce ad abbassare il tasso di glicemia e  colesterolo (90 g  di questi funghi al giorno, per una settimana, abbassano il tasso di  colesterolo del 12% in media nelle persone sane e neutralizzano i danni  derivanti dalla massiccia introduzione di grassi saturi). Shiitake contiene 18  amino-acidi (7 dei quali essenziali) e minerali come silice, calcio, magnesio,  zolfo, ferro, sodio, potassio, fosforo, alluminio. Contiene vitamine del gruppo  B: B1 (thiamine), B2 (riboflavin) e B3 (niacin) e, quando seccato al sole,  sviluppa molta vitamina D. 
  Reishi (Ling zhi, Ling-chih  traditional Chinese), Ganoderma lucidum, G. applanatum and related species –  Fam. Basidiomycetes
  il  genere Ganoderma in Europa è rappresentato da: G. adspersum, applanatum, carnosum, lucidum, pfeifferi, resinaceum e valesiacum. Per uso terapeutico nel nostro continente sono noti  solo, applanatum e lucidum, mentre in oriente usano anche G. japonicum, sinense, tsugae ed altri  ancora. Delle altre specie europee, per la loro infrequenza, non ci risultano  ricerche fatte. In Calabria sono frequenti il carnosum e pfeifferi, e contengano  le stesse proprietà curative di quelli noti. 
  Il  Ganoderma lucidum, (cinese: Ling Zhi, giapponese: Reishi, spagnolo: Pipa) è un  fungo diffuso nell’ambiente mediterraneo, raro altrove, ma coltivato in  numerosi paesi. Utilizzato in Oriente sin dal 20° secolo a.C., nella tradizione  gli sono attribuite proprietà di accrescere l’energia vitale con mantenimento  del vigore giovanile; nei classici viene chiamato Pianta dell’immortalità.  Assorbe i vapori terreni e ne emette di celesti. In Europa fruttifica  specialmente sulle ceppaie e sui tronchi di quercia, mentre in Giappone,  prevalentemente sul prugno. Meno diffuso su altre latifoglie come acero,  betulla, castagno, cisti, erica, faggio, frassino, nocciolo, ontano, pioppo,  pero e tiglio. Più raro su conifere come abete, larice e pino. Le quantità di  consumo vanno dai 3 ai 10 g  di fungo secco o polverizzato. I Cinesi usano bollire gli sporofori lentamente  per 4 ore e poi bere l’acqua e/o, se giovane e tenero, mangiarne la polpa.  Alcuni lo prendono come tisana, mettendo 5 grammi di fungo secco  polverizzato in una tazza dìacqua bollente e lasciato in infusione per 5  minuti, poi bere il tutto oppure aggiunto nella minestra o preso mischiato ad  un pò di miele. Preso come cura in uno dei metodi sopra annotati, la prima  settimana 3 volte al giorno con una quantità di 5 grammi la volta. La  seconda settimana aumentare a 10   grammi la volta. Dalla terza all’ottava settimana,  sempre tre volte al giorno, si aumenta ancora 15 grammi la volta. Poi  ancora per 3 settimane scendere a 10 grammi la volta e le ultime 3 settimane a 5 grammi la volta.
  La  cura risulta efficace contro: allergie della pelle, infezioni, ipertensione  arteriosa, infiammazioni, virus, insonnia, diabete, colesterolo, stipsi,  emorroidi. Elimina il catarro, calma la tosse, cura la bronchite e l’asma  bronchiale e previene le malattie dell’apparato respiratorio. E’ un forte  tonico e rafforza tutti gli organi, specialmente il fegato e il cuore, inoltre  aiuta nelle mestruazioni troppo dolorose. Ha una potente attività  antiossidante, di protezione del patrimonio genetico dall’azione mutagena dei radicali  liberi. Il paese europeo nel quale è usato di più è la Spagna. A Barcellona a  volte lo si può comperare al mercato.
  Molto  riverito in Cina e Giappone come potente medicina che stimola il sistema immunitario  and embolsters the spirit. They were rated  number one on ancient Chinese lists of superior medicines, and were believed to  give longevity. Today, both shiitake and reishi mushrooms are used to treat a  variety of disorders and to promote vitality. Provent high blood pressure and  heart disease, to control and lower cholesterol, to build resistance to  disease, to treat fatigue and viral infections, have anti-tumor properties  valuable in treating cancer. The mushrooms are available fresh or dried for use  in foods (soak dried mushrooms in warm water or broth for 30 minutes before  using), as well as in supplements in capsule, pill, and extract form.
  Ling zhi is listed as sweet, mild flavour with a warm  property. Its action is nourishing, supplementing, tonifying. It removes  toxins, disperses accumulation, and stops tightness in the chest.  Ling-zhi has been considered the most valuable  herb of the Orient, outpacing even the reputation of ginseng. The mystical  qualities attributed to this herb might be explained by the rarity of this  plant. Only 2 - 3 mushrooms are found for every 10,000 dead plum or hemlock  logs. Sophisticated cultivation techniques now make Reishi more available. The  nature of reishi mushroom is documented in Shen nung tsao ching (56 B.C.). Reishi  is commonly prescribed in China  for the treatment of chronic hepatitis, has been reported to be effective in  treating patients with liver failure. In animal studies of mice with carbon  tetrachloride-induced hepatitis, the extent of liver damage was significantly  inhibited by continuous dosing with Reishi tincture, and the regeneration of  the liver was promoted. It has been considered number one amongst the higher  herbs. Over the centuries it has gone by many names: Happy herb, herb of spiritual  potency, Miraculous chi,  Auspicious herb. When one reads the list of ailments it is supposed to cure,  there is an immediate impression of a snake  oil product. A cure-all! It is tempting to consider the stories about  Reishi as wives tales along with lore such as: `the gods planting it in the  mountain, for only the special to find. On the other hand, Nissan (one of the  three largest conglomerates in Japan)  has conducted extensive research on Reishi and is the major world supplier of  the herb. The list of traditional uses is long, in the terms of traditional Chinese  medicine, it includes: nourishing, supplementing, toning, removing toxins, and  dispersing accumulation. It is indicated for neurasthenia, nervousness,  dizziness, insomnia, high blood pressure, high cholesterol, chronic hepatitis,  cancer, AIDS/ARC, nephritis, bronchial asthma, allergies, pneumonia, stomach  disease, coronary heart disease, diabetes, angina, mushroom poisoning, fatigue,  and for enhancing longevity. Reishi is often classed as an adaptogen (a  substance that aids the body in resistance against a wide range of physical,  biological and environmental stresses). Dosage: 1 - 15 gms daily, with 3 - 6  gms being the most common recommendation. Willard T.; Reishi Mushroom: Herb of Spiritual Potency  and Medical Wonder; Sylvan Press Issaquah   Wa; 1990.
  http://www.wrc.net/wrcnet_content/herbalresources/materiamedica/materiamedica.aspx?mmid=24
Funghi psicotropi presenti in Italia - da Samorini Network
Specie ad alto  potenziale:
  Amanita  muscaria Linn. ex Fr. (comune)
  Amanita  pantherina (Fr.) D.C. (comune)
  Psilocybe  semilanceata Fr. (Quél.) (comune)
  Psilocybe  callosa Fr.(Quél.) (non comune)
  Psilocybe cyanescens Fr.(Quél.) (raro)
  Panaeolus subbalteatus (Berk. et Br.) Sacc. (comune)
  Panaeolus  ater Lge.(Kuhn et Romagn.) (non comune)
  Panaeolus  (Copelandia) cyanescens(Quél.) (raro)
  Pluteus  salicinus
NOTA  – I funghi contrassegnati dall’asterisco sono psilocibinico-latenti, ovvero  sviluppano le loro proprietà psicotrope a seconda dell’area geografica in cui  crescono.
  Specie a basso  potenziale:
  Panaeolus campanulatus* L. (Fr.) (comune)
  Panaeolus  fimicola (comune)
  Panaeolus  foenisecii (Pers. ex Fr.) Kuhn. (comune)
  Panaeolus  retirugis* (Fr.) Gill (non comune)
  Panaeolus sphinctrinus* (Fr.) Quèlet (comune)
  Psathyrella  candolleana (comune)
Specie dubbie:
  Amanita  gemmata (raro)
  Psilocybe  coprophila (non comune)
  Psilocybe  montana (non comune)
  Mycena  pura (comune)
  Rickenella  (Gerronema) fibula (raro)
  Inocybe  haemacta (non comune)
  Gymnopilus  spectabilis (comune)
  Gymnopilus  fulgens (non comune)
La  maggior parte dei funghi riscontrati (Psilocybe e Panaeolus) appartengono al  gruppo dei basidiomiceti psilocibinici, contenenti psilocibina e/o psilocina.  Questi crescono essenzialmente nei prati, nei pascoli, nelle zone aperte ove  l’erba non sia troppo alta; alcuni di loro sono strettamente fimicoli, ovvero  crescono solo sugli escrementi di animali, in particolare bovidi e cavalli (es.  Panaeolus campanulatus e Pan. sphinctrinus). I luoghi di maggior riscontro in  Valcamonica, sono gli alti pascoli estivi (malghe), dagli 800m sino al 2300m di  altitudine. Altra caratteristica generale dell’habitat della maggior parte di  questi funghi è l’acidità del terreno su cui crescono; acidità che può  dipendere strettamente dal tipo di substrato geologico o anche dai  lavaggi-scorrimenti dell’acqua per i pendii dei monti. Vi sono zone in cui  concorrono tutti questi fattori nella costituzione di una elevata acidità del  terreno, tale da dar vita a praticelli interamente cosparsi di funghi  psilocibinici in notevole quantità e con più specie, ognuna diffusa in maniera  pressoché indifferenziata fra le altre. V’è anche da tenere conto che la  maggior parte dei Panaeolus europei rientra fra i funghi psilocibinico-latenti,  ovvero produttori di psilocibina solo in determinate aree geografiche; per  esempio, campioni di Pan. retirugis raccolti in territorio francese han mostrato assenza, mentre campioni della  stessa specie, nei dintorni di Torino han rivelato presenza  aatorno all’1 % nei carpofori secchi. Secondo l’ipotesi  di Gitti et al, le zone di sviluppo della latenza valide per una di queste  specie di Panaeolus, possan essere valide anche per le altre (o alcune di  esse). I funghi psilocibinici più potenti registrati in Valcamonica  appartengono al genere Psilocybe, e alla sezione Caerulescentes alla quale  appartengono anche i più noti di origine messicana, usati da tempi remoti delle  popolazioni native per scopi didattici, religiosi e terapeutici. Una caratteristica  comune alle Psilocybe, è la distinta bluificazione (nilakanta) del gambo al tocco o quando più semplicemente lo si  stacca dal terreno. Pare che questo processo dipenda da una particolare  sequenza ossidativa nella quale concorrono i due indoli, per tale motivo, il  fenomeno della bluificazione del gambo è fattore determinante la presenza di questi  all’interno di uno Psilocybe o affini.
  Abbiamo  seguito passo a passo lo sviluppo di Ps.  semilanceata in alcune zone del territorio bresciano, durante un’intera  stagione (da fine luglio a novembre inoltrato, 1982) e siamo giunti alla  conclusione che questa specie, date le analoghe caratteristiche ambientali,  dovrebbe essere diffusa anche nel Trentino, Bergamasco e nella provincia di  Sondrio. Difatti in alcune zone di questi territori, verso la fine di settembre  abbiamo osservato una crescita di Ps. semilanceata che superava di molto quella  di tutti gli altri agarici presenti nello stesso prato. Una caratteristica  costante del luogo di crescita è l’acidità del terreno su cui si sviluppa; più  volte ci è bastata la sua determinazione (mediante specifici misuratori di Ph  in relazione a cartine geologiche locali) per scoprire nuove zone di crescita.  Per ora non l’abbiamo mai rinvenuta al di sotto dei 1000 m di altitudine.
  La Psilocybe cyanescens ha un aspetto robusto, è fortemente  bluificante, ed è spesso avvistabile in habitat boschivi o limitrofi alla  semilanceata. Si tratta della specie piu' potente avvistabile in Italia, cresce  in piccoli gruppi, e sebbene, rara, è diffusa in tutto il territorio italiano,  dalle Alpi sino al massiccio dell'Aspromonte. Una sua consorella, il più delle  volte non distinguibile, specie con tempo umido, è la Psilocybe callosa. 
  Passando  dal genere Psilocybe (Strophariaceae) a quello dei Panaeolus (Coprinaceae),  dobbiamo citare in primo luogo il Panaeolus  ater e il Panaeolus subbalteatus.  Sono due fra i Panaeolus che i lavori di OLA’H hanno rivelato essere sempre  dotati di psilocibina così come varie altre specie dello stesso genere; mentre  il primo l’abbiamo riscontrato molto raramente nel territorio bresciano, il  secondo è diffuso abbondantemente in numerose zone della Val Trompia.  Precedenti analisi chimiche hanno rivelato in essi la presenza della sola  psilocibina (6). Casi di intossicazioni accidentali di natura psicotropa  provocati dall’ingestione di carpofori di Pan. subbalteatus sono stati  ultimamente registrati in Scozia (7).
Il  Panaeolous retirugis (Fr.) Gill. è facilmente distinguibile dagli altri  Panaeolus per le marcate grinzosità che percorrono radialmente la superficie  del cappello; in campioni raccolti nei dintorni di Torino è stata riscontrata  la presenza di psilocibina in quantità che si avvicinano allo 0.1% del peso  secco dei carpofori, oltre che di serotonina, triptofano e di  5-idrossi-triptofano (8). In campioni raccolti e analizzati in altre zone  d’Europa invece non è stata riscontrata presenza di psilocibina (9). Anche il  Pan. retirugis è dunque da considerare uno "psilocibinico-latente".  Nel bresciano abbiamo osservato la sua presenza nei pascoli d’alta montagna;  raro durante l’estate, localmente diffuso verso l’autunno, è uno degli ultimi  che soccombono al freddo autunnale.
  Il Panaeolus campanulatus, fimicolo,  essenzialmente cosmopolita, è uno dei Panaeolus più comuni non solo in  territorio bresciano ma anche in tutto l’arco alpino. È diffuso anche in  pianura, su terreni concimati, letamai, pascoli bovini ed equini. Sebbene OLA’H  non abbia riscontrato la presenza di indol-derivati, ricerche più recenti hanno  dimostrato la presenza di tracce di psilocibina in campioni raccolti nel  Torinese. È noto anche l’uso "ricreazionale" di questo fungo in  alcune zone del Nord America (California del Sud), ma potrebbe trattarsi di una  forma diversa da quella nostrana. 
La  presenza del Panaeolus foenisecii, di non facile identificazione (almeno  secondo i suoi caratteri macroscopici), è stata da noi riscontrata sia in  pianura che in alta montagna, sino ai 2000 m di altitudine. Non rara nel Bresciano,  questa specie cresce nei prati e nei pascoli, non necessariamente legato ad  habitat fimicoli. E considerato anch’esso uno dei Panaeolus  psilocibinico-latenti (0.17%) e in alcuni dei campioni reperiti nel Torinese è  stata riscontrata la presenza di psilocibina.
  Il  Panaeolus sphinctrinus, un tempo considerato una varietà del Pan. campanulatus,  è anch’esso molto comune, caratterizzato dalle frequenti dentellature al bordo  del cappello, soprattutto nei soggetti giovani, e dal suo habitat strettamente  fimicolo: sebbene sia considerato psilocibinico-latente, detta  "latenza" non è stata finora rivelata nei carpofori italiani. V’è da  notare tuttavia, che per ora è stata effettuata una sola ricerca analitica a  riguardo, basata su campioni raccolti nella zona torinese. Questi tre Panaeolus  (Pan. retirugis, Pan. campanulatus, Pan. sphinctrinus), come s’è visto sono  tutti considerati psilocibinico-latenti, ma la serietà della ricerca  scientifica esige anche la localizzazione della aree geografiche in cui queste  specie si sviluppano. Noi avanziamo l’ipotesi che le zone di sintesi del  principio attivo, valide per una di queste specie di Panaeolus, possano essere  valide anche per le altre (o per lo meno per alcune di esse): ovvero se in una  zona il Pan. foenisecii produce psilocibina, è molto probabile che anche altri  Panaeolus psilocibinico-latenti che crescono in quella stessa zona siano in  grado di sintetizzare psilocibina e/o psilocina. Questa nostra ipotesi è nata  dalla constatazione che in numerose aree del bresciano oggetto dalla nostra  ricerca, dette specie di Panaeolus crescono in maniera pressoché promiscua (il  Pan. campanulatus col. Pan. sphinctrinus e col Pan. retirugis, il Pan.  foenisecci sempre un po’ più distante dall’habitat strettamente fimicolo). 
Come  ho potuto confermare in Valcamonica, la potenza delle Psilocybe allucinogene  sembra dipendere dal variare dell’altitudine; più è alto il luogo di crescita,  più il fungo produce psilocibina, sino ad arrivare alle massime altitudini  consentitegli dove il fenomeno della bluificazione si presenta su quasi tutto  il fungo, anche sul cappello.
  Questa  stessa relazione fra altitudine e "potenza" psicotropa è valida anche  per l’Amanita muscaria (e la sua affine A. pantherina), il noto fungo del  sottobosco dotato del classico cappello rosso cosparso di puntini bianchi  (rimanenze dell’ovulo originario), pur essendo differenti i principi attivi  allucinatori contenuti da questo ultimo.
  L’A.  muscaria è un fungo cosmopolita che cresce attorno a betulle, abeti, pini e  quercie, comunemente diffuso nel bresciano. E’ il fungo "magico" per  eccellenza, il più noto ed il più appariscente, al quale sono associati i più  antichi rituali di natura etnomicologica. In India i sacerdoti veda facevano  uso durante le loro cerimonie religiose del succo di una pianta inebriante, il  Soma, ed oltre un centinaio di versi presenti nei Rg-Veda, il più antico  documento religioso dell’India, sono dedicati a questa divina pianta  "senza radici, senza foglie e senza fiori". Wasson (1967) ipotizzò  che il Soma fosse l’A. muscaria e ricerche ulteriori tendono a confermare tale  supposizione.
  Di  recente pubblicazione è la scoperta della presenza di psilocibina e di  psilocina nel Pluteus salicinus(Pers. ex. Fr.) Quél. (11), un fungo della  famiglia delle Pluteaceae che cresce su legno di faggio, ontano e salice. È  comune in alcune aree d’Europa oltre ad essere diffuso in vari stati  dell’America del Nord (13). Lo si distingue dagli altri Pluteus per il cappello  di forma irregolarmente ellissoidale, raggiato di fini fibrille, sovente brune  verso il centro, dove può apparire vellutato. E uno di quei funghi che  bluificano al tocco (ad eccezione della sua varietà achloes Sing.) ed è proprio  questa sua caratteristica che ha indotto a ricercare in esso elementi di natura  indolica. L’analisi differenziata, inoltre, ha mostrato una maggiore quantità  di psilocina che di psilocibina, fatto non comune nell’ambito dei funghi  psilocibinici, in cui il rapporto psilocibina/psilocina è generalmente maggiore  dell’unità.
  Lo  stesso fatto che la psilocibina e la psilocina siano state ritrovate in un  Pluteus, sconfinando quindi dai già noti sette generi rappresentanti le quattro  famiglie: Bolbitiaceae (Conocybe, Pholiotina), Coprinaceae (Copelandia,  Panaeolus), Cortinariaceae (Gymnopilus) e Strophariaceae (Psilocybe, Strophariae),  deve essere motivo di studio e di analisi di altri funghi appartenenti a  differenti famiglie che presentano pure essi il fenomeno della bluificazione al  tocco. Per tale motivo indichiamo anche il Pluteus cyanopus (Quél.) Métr. (14)  come possibile elemento psicotropo della micoflora europea. Per ora non abbiamo  ricercato la presenza di questi due Pluteus nel territorio bresciano, pur  essendo già stata segnalata da altri. 
micologia: Chavi  generiche per gli agarici con spore marrone scuro/nero 
  1a)  Cappello simile a un’ostrica, con un gambo corto, attaccato eccentricamente: Melanotus 
  1b)  Cappello non simile a un’ostrica, con gambo attaccato centralmente: 2 
  2a)  Lamelle deliquescenti (fondenti) in un fluido nero, o che diventano sottili  come carta e scompaiono alla maturità: Coprinus 
  2b)  Lamelle diverse da come sopra: 3 
  3a)  Parziale velo membranoso (talvolta flocculoso), spesso lasciante un anello  membranoso sul gambo: 4 
  3b)  Parziale velo non membranoso, anello membranoso non presente: 10 
  4a)  Lamelle decorrenti, spesse e cerose: 5 
  4b)  Lamelle diverse da come sopra: 6 
  5a)  Superficie del cappello molto viscida o glutinata quando umida. Pellicola e  velo parziale spessamente gelatinose. Carne del cappello biancastra, senza  mostrare reazione-blu con la iodina di Melzer: Gomphidius 
  5b)  Superficie del cappello asciutta, talvolta viscida se umida. Velo parziale non  gelatinoso. Carne del cappello colorata, reazione-blu con la iodina di Melzer: Chroogompus 
  6a)  Lamelle libere. Deposito delle spore tipicamente marrone/cioccolato: Agaricus 
  6b)  Lamelle attaccate (se non secedenti).Deposito delle spore non come sopra: 7 
  7a)  Deposito delle spore tipicamente nero: Psathyrella 
  7b)  Deposito delle spore non nero, ma tipicamente marrone o marrone porpora, sino  al marrone porpora molto scuro: 8 
  8a)  Deposito delle spore tipicamente marrone purpureo scuro: Stropharia o Psilocybe 
  8b)  Deposito delle spore tipicamente marrone terra o spento: 9 
  9a)  Deposito delle spore tipicamente marrone vivo, cappello generalmente liscio e  spezzantesi irregolarmente se staccato da umido (Cuticola del cappello  cellulare): Agrocybe 
  9b)  Deposito delle spore marrone giallognolo. Cappello spesso squamoso o molto  viscido se umido e spezzantesi radialmente quando strappato. (Cuticola del cappello  filamentosa: Pholiota 
  10a)  Crescita tipica sul letame, in terreni ben concimati o in aree molto erbose:11 
  10b)  Crescita tipica sul legno decomposto, come su tronchi e ceppi oppure su scorie  di legno o frammenti di corteccia: 14 
  11a)  Deposito delle spore tipicamente nerastro. Cappello di solito non viscido  quando umido e mancante di una pellicola gelatinosa separabile: 12 
  11b)  Deposito delle spore marrone porpora. Cappello di solito viscido quando è umido  per la maggioranza delle specie e con una pellicola gelatinosa separabile: 13 
  12a)  Lamelle presto ricoperte da una locazione diseguale delle spore in maturazione  quando sono completamente mature. (Spore che non si disperdono nell'acido  solforico concentrato): Panaeolus 
  12b)  Lamelle non ricoperte da una locazione diseguale delle spore. (Spore che si  disperdono nell'acido solforico concentrato): Psathyrella 
  13a)  Cappello generalmente tendente al marrone quando è umido nei corpi fruttiferi  freschi e molto igrofano (marcata dissolvenza del tono del colore in seguito al  disseccamento).(Crisocistidi sempre assenti): Psilocybe 
  13b)  Cappello generalmente giallastro igrofano (nessuna marcata dissolvenza del tono  del colore in seguito al disseccamento).(Crisocistidi presenti): Stropharia o Psilocybe 
  14a)  Cappello generalmente colorato di giallo, arancio o rosso quando umido.  Tipicamente non molto igrofano: Hypholoma 
  14b)  Cappello generalmente colorato in marrone scuro quando umido. Tipicamente  igrofano: 15 
  15a)  Cappello di solito non viscido quando umido e mancante di una pellicola  gelatinosa separabile. Gambo e cappello mai viranti al blu. Gambo fragile,  facilmente spezzabile. Cappello friabile se premuto, si rompe  disordinatamente.: Psathyrella 
  15b)  Cappello solitamente viscido quando umido a causa di una pellicola gelatinosa,  separabile in molte specie. Gambo e cappello viranti talvolta al blu. Gambo  spesso, non facilmente spezzabile. Cappello pieghevole, non proprio fragile se  premuto, si rompe radialmente. (Cuticola filamentosa del cappello): Psilocybe
Fungicoltura
  prof. Giuseppe  Lanzi, fondatore e direttore della rivista internazionale di fungicoltura “MI  mushroom information” http://www.funghiitaliani.it/rivista/ 
  I  due funghi più coltivati in Italia sono il Prataiolo ed il Pleurotus. Il Pleurotus  richiede impianti meno costosi, coltura più semplice, minor manodopera, una  stagione di coltura più corta (autunno-inverno) ed un ciclo di coltivazione più  lungo. Le colture emergenti sono il cardoncello o fungo di ferula, il pioppino, lo shii-take, i funghi dell'oro e fungo dell'amore. L'unità di  coltura più apprezzata è la serra-fungaia ad archi, con copertura in doppia lastra di vetroresina inframezzate da lana di  vetro. L'impianto di climatizzazione ed umidificazione è gestito dal computer. La  produzione và dall'autunno all'inizio primavera con variazioni d'epoca e regione.  se un substrato incubato (acquistato dalla ditta specializzata Funghi Mara per  coltivazione amatoriale di funghi in casa e giardino) viene coltivato con  attenzione e seguendo le indicazioni produce tanti funghi; se le indicazioni  non vengono seguite i funghi nascono egualmente anche se in quantità molto  inferiori. funghi coltivabili sui tronchi di pioppo: Pleurotus (Pleurotus ostreatus), pioppino (Pholiota aegerita), fungo dell’oro (Pleurotus cornucopiae) e fungo dell’amore  (Pleurotus salmoneo s.).
  I  substrati più conosciuti e più largamente usati sono: il letame di cavallo, per  la coltivazione del Prataiolo e del Coprinus comatus (coprino); paglia di  cereali per i funghi del genere Pleurotus, Pholiota, Stropharia, Flammulina ed  altri; legno per Pleurotus ostreatus, Lentinus edodes (ShiiTake), Pholiota aegerita (pioppino), Armillaria mellea (chiodino) ed altri. per  produrre funghi vi sono fondamentalmente due soluzioni:
  1. acquistare substrati pronti da  coltivare "in casa e giardino". sistema più sicuro e meno  impegnativo per chi vuole avere un prodotto fresco, naturale, gustoso e  profumato facilmente e subito. Acquistare substrati e miceli con funghi adatti  all'epoca ed al clima e non quelli selezionati per la maggior produttività e  forzatura in ambienti climatizzati con controllo computerizzato. Scegli ditte  amatoriali che dispongono di svariati generi e specie di funghi eduli nonché  per gli stessi miceli molto rustici e non selezionati né ibridati. È altresì  sconsigliato di acquistare prodotti su cui non è indicata la provenienza, il  tipo di fungo coltivato e non sono fornite spiegazioni sulle tecniche di  coltivazione: l'acquirente ha infatti diritto di avere un referente.
  2. acquistare miceli con cui prepararsi  propri substrati. strada della ricerca e della grande passione per i  funghi che però non sempre da i risultati sperati nei tempi voluti. Ma quando  si arriva a capire e a riuscire vi garantisco che la soddisfazione è  indescrivibile! 
  COLTIVAZIONE DEL  PRATAIOLO:  la base per la coltivazione del prataiolo è letame di cavallo o substrato compostato.  Quest'ultimo è ottenuto dalla mescolanza e lavorazione di materie prime molto  comuni e di facile reperibilità quali: paglia di grano, pollina, gesso agricolo  e acqua. Queste miscele o l'eventuale letame equino, sono lavorate e rigirate  all'aperto, con speciali attrezzature, per renderle un substrato idoneo alla  coltivazione dei funghi. Qualunque sia il metodo di lavorazione delle materie  prime, tecnicamente chiamato fermentazione libera o "phase 1" al suo  termine il composto risulta appetibile ai nostri funghi ma anche a tutta la  microflora patogena e concorrenziale. E per eliminare questa microflora  concorrenziale il composto fermentato viene sottoposto ad una serie di sbalzi  termici chiamata phase 2 o pastorizzazione. Terminata la pastorizzazione, ed  eliminati i concorrenti, il composto viene inoculato con il micelio del nostro  fungo. Termina così la preparazione del substrato di coltura che viene fatta in  platea.
Terminata  le semina (inoculazio) il composto viene confezionato in blocchi rivestiti con  un film di plastica e trasportato presso la fungaia del coltivatore che lo  sistema nelle stanze di coltivazione. Qui il substrato, sistemato in letti di  coltivazione a più piani, viene mantenuto alla temperatura di 25°C per circa 13-14 giorni. Durante  questo periodo dai piccoli agglomerati di micelio si dipartono nuove ife che  vanno ad invadere completamente la massa, che tenderà, man mano, a cambiare  odore e colore passando dal bruno scuro al rossastro chiaro e cambierà pure  odore passando da quello sgradevole di composto fermentato a quello piacevole e  delicato di fungo: questa fase prende il nome di incubazione o phase 3. L'avvenuta incubazione  significa che micelio ha completamente invaso il substrato, e lo si nota dal  cambiamento di colore e di odore di gradimento. 
  A  questo punto il composto viene spianato, pressato e ricoperto di un apposito  terricciato chiamato "terra di copertura". 
  Per  altri 10 giorni il substrato viene mantenuto alla temperatura di 25°C affinché anche la terra  di copertura possa essere incubata, cioè invasa dal micelio: ed è proprio  l'incubazione della terra che segna il passaggio dalla fase vegetativa a quella  riproduttiva.
  E'  dunque il momento per creare le condizioni ambientali ideali alla fuoriuscita  dei carpofori eduli. La temperatura della stanza viene abbassata a 16-18°C e, nel contempo, si da  avvio alla ventilazione con aria esterna per eliminare l'alto tasso di anidride  carbonica prodotta nella fase di incubazione. Si giunge al giorno atteso dal  fungicoltore: i letti di coltura si presentano improvvisamente ricoperti da  tanti piccoli punti bianchi che, nel giro di pochi giorni, ingrossano  imbiancando la superficie e…. crescendo come funghi.
  Siamo  giunti alla prima raccolta e siamo al 36esimo giorno dalla semina circa. Questa  nascita si ripeterà poi circa ogni 8 giorni per 4-5 raccolte complessive.  L'intero ciclo colturale copre un arco di 10 settimane.
COLTIVAZIONE DEL  PLEUROTUS:  due momenti colturali: preparazione del substrato di coltura e produzione dei  funghi. Le materie prime per la preparazione del substrato sono buona paglia di  grano ed acqua che vengono macinate, miscelate e lavorate poi pastorizzate, e  infine inoculate (seminate). Terminata la semina il substrato viene  confezionato in blocchi rivestiti con un film di plastica e trasportato presso  le serre-fungaia del coltivatore che lo predispone all'incubazione. Qui il  substrato, sistemato direttamente sul pavimento, viene mantenuto alla  temperatura di 28°C  per circa 13-14 gg.
  Come  già per il prataiolo anche per il Pleurotus l'avvenuta incubazione significa  potenzialità produttiva. E' dunque il momento per creare le condizioni  ambientali ideali alla fuoriuscita dei carpofori, la temperatura della stanza  viene abbassata fino a 14-16°C  e si da avvio alla ventilazione con aria esterna. Iniziano a fuoriuscire e  sbocciare come fiori i cespi del Pleurotus! Alla prima raccolta siamo tra il  30-45esimo giorno della semina. Questa nascita si ripeterà poi ancora per 3-5  raccolte complessive. L'intero ciclo copre 100 gg.
I chiodi di micelio sono cilindretti di legno su cui è stato allevato micelio di fungo. La coltivazione viene fatta su tronchetti di legno di pioppo, salice o altre latifoglie appena tagliati, freschi e sani (non utilizzare legno vecchio perchè può avere altre muffe). La tecnica di coltivazione è molto semplice: sui tronchetti, ogni 15-20 cm, fare con un trapano dei fori (Ø 8mm. Con un martello piantare i chiodi di micelio nei fori. I tronchetti vengono quindi messi ad incubare in un sacchetto di plastica a 20-25° C per ca. 3 mesi, poi vengono messi a far funghi in giardino, al riparo dal sole e dal vento, interrati per 2/3 o in un angolo della casa o della cantina interrati in un vaso (ad una temperatura dagli 8 ai 25°C) dove produrranno più volte sia in primavera che in autunno. La produzione dei funghi avviene dopo 4-8 mesi dalla semina e durerà 3-4 anni. E’ importante che il tronchetto e/o il terreno siano sempre umidi. Il legno deve essere sano, fresco e tagliato da poco. Le misure ideali sono cm. 30 di lunghezza e cm. 18-24 di diametro. Non usare conifere.
Cereali: denominazione collettiva di varie specie appartenenti alla famiglia delle graminacee, (piante per lo più erbacee, diffuse in tutto il globo), Il termine deriva dalla dea romana Cerere, protettrice della terra e agricoltura.
paglia, canne spezzettate, foglie, segatura, carta semplice, potature, lana, piume. Il pacciame di eucalipto inibisce più microrganismi, pacciame di aghifoglie occasionalm. solo per fragola o terre a ph basici e mischiato ad altro, foglie di castagno, noce e quercia assieme ad altri tipi di foglie ok.
Fonte: http://digilander.libero.it/stebama/MEDIA/ortaggi_cereali_legumi.doc
link sito web : http://digilander.libero.it/stebama/
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