Etica della comunicazione

 

 

 

Etica della comunicazione

 

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Martin
HEIDEGGER
(1889-1976)

 

Heidegger nasce a Messkirch, nel Baden, in Germania. Si laurea in filosofia a Friburgo nel 1913 con una tesi su La teoria del giudizio nello psicologismo, dopo avere seguito corsi di filosofia e teologia. Nel 1915 ottiene la libera docenza grazie a una dissertazione su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto. Nel 1916 diventa assistente di Husserl fino al 1923, anno in cui ottiene una cattedra a Marburgo, dove insegna fino al 1927, anno della pubblicazione della sua prima opera importante, Essere e Tempo. L'anno successivo viene chiamato a Friburgo per prendere il posto di Husserl, il quale aveva lasciato l'insegnamento.
Nel 1933, in seguito alla sua nomina a rettore dell'Università di Friburgo, aderisce al nazismo, ma l'anno successivo rinuncia all'incarico e si chiama fuori da qualsiasi coinvolgimento politico. Heidegger si ritirerà dalla vita pubblica fino alla caduta del regime, pur continuando ad insegnare fino al 1944, anno in cui la Germania viene occupata dagli alleati e gli viene interdetta la possibilità di insegnare da parte degli americani.
A partire dal 1951, aiutato a reintrodursi nel mondo accademico dall'amico Karl Jaspers (che aveva rotto i rapporti con lui al tempo dell'adesione al nazismo), Heidegger ritorna progressivamente ad insegnare, prima tenendo seminari privati, poi corsi di insegnamento ufficiali.
Nel 1955 si ritira definitivamente dall'insegnamento e vive in una baita immersa nella Foresta Nera, a Todtnauberg, dove vive fino alla morte.
Controversa la vicenda della sua adesione al nazismo: si è scritto molto su questo, le tesi sono contrastanti, sta di fatto che Heidegger si allontanò dopo un anno di frequentazione dagli ambienti politici per dissensi sul biologismo razziale. Va però ricordato che durante il periodo dell'adesione chiese di destituire dalla carica di insegnante il futuro premio Nobel per la chimica H. Staudinger, perché, a suo dire, inaffidabile per il nazismo, vista la sua posizione pacifista durante la I° guerra mondiale.

Heidegger pare vedesse nel nazismo l'opportunità di inserire nella vita pubblica tedesca forze nuove e vigorose, oggi molti pensano che questa vicenda sia stata una "sbandata" di un uomo poco propenso alla politica, va però ricordato che Heidegger non era del tutto estraneo ad un certo ambiente "conservatore", soprattutto in gioventù. Da notare, infine che, nel dopoguerra, Heidegger fu disposto anche a perdere la possibilità del suo rientro accademico per favorire la carriera accademica di un suo allievo, K. Loewith, fuggito in Giappone e poi negli Stati Uniti durante il periodo nazista. Dunque luci e ombre si addensano da sempre su questa vicenda, in un continuo alternarsi di stati contrastanti.
Al di la di queste considerazioni, il suo pensiero riveste comunque una fondamentale importanza per le vicende della filosofia contemporanea e non è implicato direttamente ai travagli pubblici e politici del suo autore.
Opere principali: Essere e tempo (1927); Che cos'è metafisica? (1929); Kant e il problema della metafisica (1929); L'essenza del fondamento (1929); La dottrina platonica della verità (1942); Lettera sull'"umanismo" (1947); Saggi e discorsi (1954); In cammino verso il linguaggio (1959); La tecnica e la svolta (1962); La questione del pensiero (1969); Segnavia (1976). E anche Kant e il problema della metafisica, L'essenza del fondamento, Introduzione alla metafisica, Sentieri interrotti, Nietzsche.
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Sommario
1. Premessa: alla ricerca dell'essere
2. Essere e tempo
3. La differenza ontologica: l'essere come mostrarsi dell'ente
4. L'essere e l'esistenza
5. Esistenza autentica e inautentica
6. L'angoscia: ovvero, come la finitezza dà un senso alla vita
7. L'essere non ha fondamento, la tecnica non può intaccare l'essere
8. La verità come disvelamento

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1. Premessa: alla ricerca dell'essere
Quella di Heidegger è una filosofia rivolta a carpire l'autentico significato dell'essere, lo stesso Heidegger definisce la sua ricerca filosofica ontologia (=scienza dell'essere), ma non un'ontologia metafisica, bensì un'ontologia fenomenica.
Quello della ricerca dell'essere è un tema classico della filosofia: identificare la vera essenza dell'essere (ovvero, ciò che esiste per necessità e che non abbisogna di nessun altro ente per esistere, nell'accezione comunemente formulata da Parmenide) significherebbe conoscere una volta per tutte la reale natura della nostra esistenza (in quanto noi, uomini esistenti, abbiamo pur sempre un qualche genere di rapporto con l'essere). Tuttavia le posizioni di Heidegger porteranno, come vedremo, a una rottura con tutta la tradizione ontologica precedente.
Heidegger, per individuare l'autentico senso dell'essere, parte da posizioni fenomenologiche (il suo maestro fu Husserl). L'essere che intende indagare Heidegger non ha alcunché di metafisico, esso è la manifestazione reale di uno stato di esistenza che si mostra nella vita per come viene vissuta e percepita. L'ontologia di Heidegger non è quindi metafisica ma studio dell'essere come si manifesta nell'esistenza che appare all'uomo, ente privilegiato in quanto vivente sulla propria pelle la stessa condizione dell'esserci("dasein"; si vedrà più avanti il significato di questa affermazione).
""Fenomenologia", rivela Heidegger, è il lasciar vedere il fenomeno, ossia ciò che si manifesta in sé stesso e da sé stesso. E ciò che si manifesta non è una "semplice apparenza" di una "cosa in sé" inconoscibile, ma è ente." (E. Severino, La filosofia contemporanea).

2. Essere e tempo
Mentre l'ontologia metafisica del passato intendeva dunque l'essere come ciò che non muta ed è eterno, e proprio per questo si impone come presenza eterna e immutabile al di là dell'apparenza diveniente della realtà, per Heidegger l'essere dedotto fenomenologicamente non può che acquisire le caratteristiche proprie della realtà, e quindi essere soggetto alla temporalità propria degli enti per come si mostrano.
In "Essere e tempo", Heidegger indaga la problematica dell'essere, cercando di carpirne la vera natura. Egli nota come per l'intera ontologia tradizionale del passato l'essere è qualcosa che si da per scontato che esista, al di là dell'apparenza del mondo, per cui l'essere è una presenza che mai si mostra ma che si intende fondare come qualcosa di necessario in modo da impedire una caduta nel niente degli enti, i quali, secondo una distinzione platonica, sono corruttibili nel mondo fisico mentre sono incorruttibili (una loro parte essenziale) in un mondo metafisico al di là dell'apparenza.
Questo atteggiamento tradizionale nei confronti dell'essere va ripensato, secondo Heidegger. Secondo il filosofo tedesco non si può pensare un qualsiasi essere metafisico senza ricondurlo alla condizione propria dell'esserci ("dasein"). L'esserci è la condizione dell'uomo che vive una condizione di esistenza determinata e situata, ovvero il suo vivere ed essere un uomo, condizione originaria a qualsiasi pensiero o considerazione.
Dunque per comprendere che cos'è l'essere occorre partire non dalla sua "presenza trascendentale", già data e già posta nel pensiero prima ancora di considerare l'esistenza concreta degli uomini, ma occorre invece indagare la condizione dell'esserci, ovvero l'esistenza stessa degli uomini, poiché l'essere appare tale solo in rapporto ai presupposti esistenziali dell'uomo.
Ma che cos'è, in concreto, l'esserci, ovvero l'esistenza stessa degli uomini? Per Heidegger il significato della vita degli uomini è quella di prestarsi alla possibilità e al progetto. Esistere significa infatti per Heidegger "ex-sistere", ovvero non essere più "un permanere", ma costantemente andare oltre questo permanere, verso la possibilità aperta, verso la novità degli accadimenti che permettono all'esistenza di mutare nel corso del tempo (esistere è divenire). Esistere, per l'uomo, significa quindi tendere sempre verso una nuova sistemazione della realtà.
Si noti invece come l'essere immutabile della metafisica classica sia invece un in-sistere, ovvero un permanere entro la propria condizione, senza possibilità di mutamento.
La condizione esistenziale, l'esserci, è quindi mutamento. Heidegger afferma che il senso autentico dell'essere è fondamentalmente il senso stesso dell'esserci. Come si è visto l'essere non può essere posto come qualcosa di indipendente dall'esistenza dell'uomo, poiché questo rappresenta una forzatura, un arbitrio che pone l'essere come presenza immutabile al di là dell'esistenza dell'uomo. Da questo ne deriva che, per Heidegger, l'essere deve essere il significato stesso dell'esistenza umana per essere davvero autentico. Quindi l'essere è tempo, ovvero l'essere ha i caratteri dell'esistenza stessa degli uomini: l'essere è mutabile, temporale, soggetto al divenire, l'essere è quindi il gioco stesso degli enti che si mostrano nel mondo, l'essere è questo lasciarsi mostrare degli enti e degli avvenimenti.
Essere e Tempo è un libro incompiuto ed è in compiuto perché, a detta dello stesso Heidegger, ad un tratto il linguaggio che aveva a disposizione non permetteva più alcun approfondimento significativo del concetto di essere, le parole e il loro significato non bastavano più a chiarirne la natura, poiché tutto il linguaggio umano risente della concezione dell'essere come "permanenza trascendentale" e immutabile, atemporale.

3. La differenza ontologica
Se l'essere è il lasciarsi mostrare degli enti, allora significa che l'essere non è la stessa cosa degli enti.
Vi è una differenza ontologica, ovvero una differenza propria nell'essenza stessa, tra l'essere e l'ente: i singoli enti (le singole cose che esistono) non hanno alcun legame diretto con l'essere, l'essere è altro dall'ente, l'essere non è l'esistere delle cose (degli enti), l'essere è in realtà l'orizzonte entro il quale gli enti si manifestano.
Alla luce di questo l'essere non è quindi un'essenza propria dell'ente, l'essere è in realtà il processo di manifestazione degli enti. L'essere non produce gli enti, l'essere è solamente ciò che lascia vedere gli enti, l'orizzonte entro il quale gli enti sono illuminati e vengono percepiti.
Nell'ontologia di Heidegger l'evidenza del mutamento è talmente palese (fondata su principi fenomenologici) che occorre necessariamente affermare il divenire di ogni cosa, anche di quell'essere che era stato sempre inteso come ciò che vi è di immutabile nel mutamento.
Per Heidegger, le metafisiche del passato non facevano altro che identificare ciò che vi era di comune a tutti gli enti, ed è in questa ottica che la differenza tra essere ed ente permette di confermare e salvaguardare il divenire come legge assoluta, poiché libera l'essere da ogni possibile immutabilità.

4. L'essere e l'esistenza
Dunque l'essere è l'orizzonte entro il quale gli enti si manifestano e acquisiscono così la qualità di esistere (ovvero il loro semplice manifestarsi come enti). L'essere diventa così un evento fenomenologico e l'ente che per eccellenza sente ed è in grado di percepire e di avere coscienza dell'essere come fenomeno è l'uomo, poiché solo l'uomo è in grado di percepire coscientemente la sua esistenza, attraverso la quale si manifesta l'intero percorso dell'essere (ovvero del mostrarsi delle condizioni di mutamento che caratterizzano l'esistenza).
Solo l'ente (soggetto esistente) che si pone la domanda sull'essere può dare una risposta soddisfacente alla questione: l'ente che si pone la domanda è l'uomo, cosciente di essere esistente e di vivere la condizione dell'esserci ("da-sein"=essere qui). Tale concetto è prettamente esistenziale, in quanto Heidegger afferma che la condizione imprescindibile dell'uomo è quella di essere necessariamente situato nel mondo, senza possibilità di scelta (l'uomo non può scegliere, dal momento della nascita la vita ha scelto per lui la condizione di "essere-nel-mondo").
L'uomo non vive allo stesso modo di un pezzo di metallo. Il metallo è già compiuto in sé, è una semplice "presenza", come già visto, invece, l'uomo trascende sempre se stesso (ex-siste), è continuamente proteso a ciò che non è e potrebbe essere: l'uomo, dotato di coscienza, progetta continuamente la sua vita rapportandola al futuro, è questo slancio in avanti che rende l'uomo non una semplice "presenza", ma un' "esistenza", sottoposta alla storia e al tempo, in altre parole, al divenire. L'esistenza dell'uomo può autenticamente svilupparsi entro la possibilità della libera scelta solo se comprende il senso dell'essere come orizzonte entro qui è possibile il libero "gioco" del divenire. La libertà che è concessa agli enti dal nuovo senso dell'essere è ciò che libera anche l'uomo da ogni necessità e lo rende capace di scegliere da sé e in assoluta libertà quale percorso vivere.
Nella condizione dell'esserci, l'uomo sperimenta dunque il senso più autentico dell'essere, ed è da questa analitica esistenziale che è possibile, secondo Heidegger, mostrare il vero significato dell'essere.

5. Esistenza autentica ed esistenza inautentica
Nie capitoli precedenti si è parlato della condizione dell'uomo come "esser-ci" (da-sein). Tale condizione è la condizione naturale e imprescindibile in cui l'uomo viene a trovarsi, senza possibilità di scelta, situato nel mondo. Tale condizione esistenziale ha due modalità, due possibili modi di essere vissuta: quella autentica e quella inautentica.
L'esistenza autentica è quella per cui l'uomo sceglie di vivere coscientemente il suo carattere di ente che progetta e tende al futuro, un ente che esce da sé continuamente, in grado di slanciarsi verso ciò che potrebbe essere. L'esistenza autentica è quindi quella che accetta il suo carattere diveniente, che comprende, inevitabilmente, la possibilità della nullificazione (della morte e del termine della propria attività di "ex-sistere").
Ripetiamo qui un brano del capitolo 4: "L'esistenza dell'uomo può autenticamente svilupparsi entro la possibilità della libera scelta solo se comprende il senso dell'essere come orizzonte entro qui è possibile il libero "gioco" del divenire. La libertà che è concessa agli enti dal nuovo senso dell'essere è ciò che libera anche l'uomo da ogni necessità e lo rende capace di scegliere da sé e in assoluta libertà quale percorso vivere."
L'esistenza inautentica, per contro, è l'esistenza condotta dall'uomo che rifiuta il proprio carattere diveniente e l'apertura libera da ogni immutabile che l'essere gli mette a disposizione: l'uomo che vive l'esistenza inautentica rinuncia alle scelte relative al proprio tendere in avanti, rinuncia al futuro e a qualsiasi progetto, rifugiandosi nei rimedi metafisici che hanno lo scopo di renderlo immortale (le metafisiche e le teologie classiche). Questo atteggiamento è chiamato da Heidegger "deiezione", ovvero diventare una cosa come le altre, ente tra gli enti. L'uomo vive inautenticamente dimenticandosi della propria condizione esistenziale di essere mortale e soggetto al divenire, vivendo come un oggetto che si crede immortale, per convenienza.
L'esistenza inautentica si perde nel "si dice", "si fa", ovvero nell'accettazione distratta di un'esistenza già vissuta da altri e quindi già creata, senza alcuna possibilità di creare nulla come novità sostanziale. L'esistenza autentica invece respinge questa inautenticità affermando consapevolmente il proprio carattere di estrema possibilità relativamente allo slancio creativo (l'esistenza autentica vive seguendo l'originalità radicale del proprio dipanarsi e non le forme delle esistenze già dipanate da altri).
Tali tematiche sono tipicamente esistenziali, tanto che l'esistenzialismo trarrà molti concetti dal pensiero di Heidegger (si veda ad esempio il concetto di esistenza come contingenza di Sartre), tuttavia Heidegger rifiuterà sempre ogni coinvolgimento con l'esistenzialismo, considerando la sua opera un indagine principalmente ontologica, e non esistenziale (il rifiuto della lettura esistenzialista della sua opera è contenuto in "Lettera sull'umanismo").

6. L'angoscia
Dunque, come già detto, l'esistenza autentica è un "vivere-per-la-morte". Per Heidegger (e qui vi si possono leggere forti analogie con Kierkegaard) l'angoscia è la paura che nasce dalla consapevolezza che con la morte tutto si annulla. Mentre per Platone il saggio vive accettando la morte come possibilità di arricchimento, nella consapevolezza che il corpo è un ostacolo alla conoscenza, Heidegger ammette senz'altro che con la morte giunge l'annullamento. Come rendere positiva una vita che si progetta in tale prospettiva?
Heidegger afferma che la nostra vita può svolgersi entro un orizzonte autentico solamente se le nostre scelte sono rapportate alla nostra finitezza. Se le nostre scelte fossero svolte entro un ambito di vita eterna, perderebbero di significato, perché non comporterebbero alcuna assunzione di responsabilità, in quanto ogni evento e ogni scelta potrebbe essere ripetuta all'infinito, ogni strada potrebbe essere battuta, superando quel principio di esclusione (l'aut-aut kierkegaardiano) per cui una decisione comporta alcune conseguenze e non altre: una vera condanna all'eternità, nella quale ogni scelta ci risulterebbe indifferente, e la vita stessa perderebbe di significato, cedendo all'apatia e all'indifferenza.
In sostanza Heidegger pone la "vita-per-la-morte" come concetto positivo: solo la consapevolezza della nostra finitezza è in grado di produrre quel significato e quell'attenzione per le cose del mondo che non potremmo avere se, perduti nell'eternità, avessimo la consapevolezza di potere goderne in eterno.
L'angoscia che deriva quindi dalla consapevolezza della nostra finitezza, oltre ad essere uno stato emotivo indissolubilmente legato all'esistenza autentica è anche un sentimento positivo, necessario a dare significato autentico alla nostra vita (chi vive nell'esistenza inautentica tende invece a dimenticare la morte e ad allontanare l'angoscia, quasi analogamente alle meccaniche pascaliane del "divertissement").

7. L'essere non ha fondamento
La civiltà della tecnica che domina il mondo contemporaneo è un'estremizzazione del pensiero metafisico classico, in cui vi è un soggetto (l'uomo) che intende dominare, con la sua volontà di potenza sulle cose, degli oggetti che sono altro da sé. L'essere degli enti si identifica allora con il ruolo e la funzione che vengono loro assegnati all'interno del sistema della tecnica.
"Heidegger vede nell'organizzazione totale della tecnica la forma più radicale dell'episteme metafisica, e cioè dell'apparato che rende impossibile il divenire storico dell'esistenza. L'oblio dell'essere, così, è divenuto totale. E al posto dell'impotenza, finitezza, effettività dell'essere e del progetto che lo assume come sfondo, compaiono tutte le forme di assicurazione, controllo, organizzazione dell'ente all'interno dell'esistenza scientifico-tecnologica." (E. Severino, La filosofia contemporanea).
L'essere si svela e rende possibile la manifestazione degli enti secondo proprie logiche oscure e inconoscibili. E' infatti impossibile sapere il modo in cui, all'interno dell'orizzonte che lascia manifestare gli enti, questi enti si producano e a quale legge si conformino. L'essere è quindi senza alcun fondamento, esso non può avere alcun fondamento perché si configura come il semplice lasciarsi mostrare da parte degli enti. Nessuna legge metafisica può allora prevedere come gli enti si manifesteranno nel futuro, poiché l'essere è conseguenza dell'esistenza e non viceversa.
La tecnica moderna si configura invece come dominio dell'uomo sulle cose, l'uomo crede che l'essere delle cose sia soggetto al suo dominio, in realtà l'uomo non è il padrone dell'essere, l'uomo è tutt'al più il "pastore" dell'essere, ovvero il custode di quella dimensione che rende possibile agli enti di manifestarsi, custoditi nell'esistenza stessa dell'uomo, la quale si manifesta proprio entro l'orizzonte aperto dall'essere. L'essere sopravvive al tentativo di dominio della tecnica perché non è un ente concreto, l'essere è solamente la condizione in cui gli enti si manifestano, e la tecnica può solo occuparsi degli enti concreti (quindi non dell'essere).

8. La verità come disvelamento
Heidegger nota come nella filosofia presocratica sia stata concepita un'idea di verità che, relativamente alla sua etimologia, si addice più che mai al senso dell'essere da lui proposto: per i greci la verità è aletheia, ovvero "ciò che non è nascosto, che si manifesta" (a- come privativo di lethe "nascosto"). La verità è quindi l'essere stesso, ovvero ciò che permette agli enti di manifestarsi e di rendersi visibili e concreti alla percezione degli uomini e all'orizzonte del mondo. Tuttavia questo senso della verità si è spento con l'avvento della metafisica, in cui l'essere ha acquistato le caratteristiche dell'ente immutabile.
"E' a quella esperienza originaria dell'aletheia che Heidegger riconduce il senso non metafisico dell'essere. L'essere è l'emergere dal nascondimento: [...] nel senso che la luce, l'apparire in cui l'essere consiste, proprio perché illumina e lascia apparire, illumina e lascia apparire gli enti e quindi attira ogni attenzione sull'ente, si che proprio la luce che illumina si sottrae alla dimensione che essa rende visibile." (E. Severino, La filosofia contemporanea).
L'essere, quindi, rende possibile la manifestazione degli enti poiché consiste nel loro manifestarsi, e proprio per questo l'essere concede la sua luce all'ente "ritirandosi dal palcoscenico", ovvero perdendo quelle caratteristiche di presenza proprie dell'ente illuminato, illuminato dallo stesso essere che non concerne all'ente (in virtù della differenza ontologica).

 

Fonte: http://www.scicom.altervista.org/etica/www.doc

 


 

HUSSERL

 

DISTINZIONI ESSENZIALI
SEGNO = SEGNALE e ESPRESSIONE

Segno e espressione non sono la stessa cosa.
Il segno che rimanda a qualcos’altro, indicandolo e facendolo dedurre, non deve per forza significare, esprimere qualcosa, anche se può.

 

L’ESSENZA DELL’INDICAZIONE
SEGNALE = INDICAZIONE / INFERENZA
L’essenza dell’indicazione sta nell’UNITA’ DESCRITTIVA tra gli atti giudicativi nei quali si costituiscono gi stati di cose indicanti e indicati per l’essere pensante.
Ovvero OGGETTI E STATI DI COSE che indicano, a chi ha conoscenza attuale del loro sussistere, la sussistenza di altri oggetti e stati di cose, nel senso che la convinzione dell’essere dei primi è per lui vissuta come motivo per la convinzione dell’essere dei secondi.

 

RIMANDO E DIMOSTRAZIONE

Rimandare dell’indicazione – non evidente – arbitrario
Quando certi stati di cose servono realmente  come segnali di altre cose che possono essere dedotti dai precedenti, il nesso di queste relazioni è istituito tra le convinzioni (vissuti psichici) da una dimostrazione attuale anteriore o da nozioni derivanti dalla fede nell’autorità.
L’indicazione ha un rapporto essenziale con il nesso di probabilità.

Dimostrare della fondazione e deduzione – evidente – quando deduciamo l’esistenza di cose dall’esistenza di altre cose evidente. Ma potrebbe essere non evidente e persino falso, ma il fatto che noi lo presentiamo come inferenza implica che il rapporto di consequenzialità possa essere compreso con evidenza.
Al dedurre e dimostrare soggettivo corrisponde il dedurre o dimostrare oggettivo, cioè il rapporto oggettivo tra premessa e conseguenza. Queste unità ideali non sono i correlativi vissuti del giudizio ma i loro contenuti ideali, le proposizioni. Le premesse dimostrano la conclusione. Si manifesta una LEGALITA’ IDEALE che va oltre i giudizi connessi da certe motivazioni , sovra-empirica, che comprende TUTTI I GIUDIZI CHE HANNO LO STESSO CONTENUTO, ANZI LA STESSA FORMA. Nella fondazione evidente è questa legalità che arriva alla nostra conoscenza.
La deduzione ha un ruolo essenziale con il nesso di necessità.

 

DIGRESSIONE SULLA GENESI DELL’INDICAZIONE DALL’ASSOCIAZIONE
I fatti psichici nei quali ha origine il concetto di indicazione fa parte del gruppo di fatti di associazione delle idee.
L’associazione non richiama solo i contenuti della coscienza rendendo possibile la connessione con i contenuti dati, ma CREA NUOVE UNITA’ FENOMENOLOGICHE che non hanno il fondamento negli stessi contenuti vissuti.
Se A richiama B s’impone un nesso sensibile per cui uno rimanda all’altro, B esiste come inerente ad A.

Ciò che è dato singolarmente non il mero contenuto vissuto, ma L’OGGETTO che si manifesta.

LE ESPRESSIONI COME SEGNI SIGNIFICATIVI. ESCLUSIONE DI UN SENSO DEL TERMINE
I segni significativi sono le ESPRESSIONI e vanno distinti dai segni INDICATIVI.
Per espressioni si intende ogni discorso e parte del discorso, escludendo i gesti e il gioco mimico che non hanno intenzionalità e non formano un’unità fenomenale da parte della coscienza del soggetta che li esterna.

IL PROBLEMA DELLE DISTINZIONI FENOMENOLOGICHE E INTENZIONALI CONCERNENTI LE ESPRESSIONI COME TALI

Due aspetti delle espressioni:

  • ASPETTO FISICO ( segno sensibile, complesso fonetico articolato, segno scritto)
  • SENSO o SIGNIFICATO DELL’ESPRESSIONE = COMPLEESO DI VISSUTI PSICHICI che collegati all’espressione la rendono espressione di qcs.

Questa concezione è scorretta.
Si guardi l’esempio dei nomi:
1 ciò che rende noto
2 ciò che significa ( il senso, il contenuto della rappresentazione nominale)
3 ciò che esso denomina ( l’oggetto della rappresentazione)

LE ESPRESSIONI NELLA LORO FUNZIONE COMUNICATIVA
La complessione fonetica si trasforma in parola per via dell’intenzione del parlante di comunicare. La comunicazione è possibile perché  l’ascoltatore comprende l’intenzione di colui che parla, nel senso che gli rivolge la parola e  conferisce senso ai suoni.
La comunicazione è possibile per questa correlazione di vissuti psichici e fisici, reciprocamente inerenti, del parlante e dell’ascoltatore.
Quindi nel discorso comunicativo tutte le espressioni fungono da segnali. Le espressioni sono segni dei pensieri (vissuti psichici) di colui che parla. = FUNZIONE INFORMATIVA
I vissuti psichici resi noti formano il contenuto dell’informativa.
La comprensione dell’informazione non è una comprensione concettuale. L’ascoltatore COGLIE INTUITIVAMENTE, PERCEPISCE colui che parla come una persona che esprime qcs.
L’ascoltatore percepisce l’informazione nello stesso senso in cui percepisce la persona che parla.
L’ascoltatore percepisce che la persona che parla sta esprimendo dei vissuti psichici, ma non li vive, ha una percezione esterna. Si tratta della grande distinzione tra APPRENSIONE EFFETTIVA DI UN ESSERE IN UN’INTUIZIONE ADEGUATA (parlante) E APPRENSIONE PRESUNTIVA DI UN ESSERE IN UNA RAPPRESENTAZIONE INTUITIVA MA NON ADEGUATA.

LE ESPRESSIONI NELLA VITA PSICHICA ISOLATA
Le espressioni hanno i loro significati anche se le rivolgiamo a noi stessi. Quindi il significato dell’espressione non può identificarsi con la funzione informativa.
Nella vita psichica isolata non esiste la parola fantasticata, ma la rappresentazione di questa parola.
L’inesistenza della parola non ci disturba perché non ha alcun rilievo in rapporto alla funzione dell’espressione come espressione.
In senso comunicativo non si parla, ma si rappresenta se stessi come persone che parlano e comunicano. Nel monologo le parole non sono segnali dell’esistenza di atti psichici. Non avrebbe scopo perché quegli atti sono da noi vissuti proprio in quel momento.

DISTINZIONI FENOMENOLOGICHE TRA

  • FENOMENO FISICO DELL’ESPRESSIONE
  • ATTO SIGNIFICANTE (atti che conferiscono significato)essenziali all’espressione
  • ATTO DI RIEMPIMENTO DI SENSO (riferimento all’oggetto)confermano rafforzano illustrano il significato, non essenziali all’espressione ma necessari perché relazione logica fondamentale

L’espressione intende qcs riferendosi nello stesso tempo a un’oggettualità.
Il riferimento all’oggettualità può avvenire o meno, nel secondo caso rimane comunque qcs di + che un complesso fonetico però è priva dell’intuizione fondante che conferirebbe ad essa l’oggetto.
Il riferimento all’oggetto non si attua quando è già inteso nell’intenzione significante, ad ex. Un nome denomina il suo oggetto perché lo intende. Quando la vuota intenzione significante si riempie la relazione nella coscienza tra nome ed oggetto denominato è compiuta.
Il complesso fonetico si unisce con l’intenzione significante che si unisce con il riempimento di significato.

UNITA’ FENOMENOLOGIA DI QUESTI ATTI
Rappresentazione della parola
Intenzione significante
Riempimento di significato

Rappresentazione della parola e intenzione significante sono atti di un’esperienza vissuta. Tuttavia mentre viviamo la rappresentazione della parola, non viviamo in essa ma nell’effettuazione del suo significare e nel frattempo la nostra attenzione è per l’oggetto che in essa viene denominato.

La funzione della parola è di suscitare in noi l’atto che conferisce il senso e rinviare al riempimento di questo significato.
L’essere-espressione è un momento descrittivo dell’unità vissuta tra segno e designato.

La rappresentazione intuitiva nella quale si costituisce la parola come fenomeno fisico subisce un’essenziale modificazione nel suo carattere fenomenologico quando il suo oggetto assume valore di espressione. Ovvero se leggo una parola, benché mi sia intuitivamente presente, non mi soffermo sulla sua fonetica ma la mia attenzione va subito a cosa quella parola vuol dire, sul suo significato che rimanda ad un oggetto. In questo caso si costituisce un atto del significare che trova sostegno nel contenuto intuitivo della rappresentazione della parola, ma che è essenzialmente diverso dall’intenzione intuitiva rivolta alla parola stessa

In pratica per la comprensione fenomenologica vi sono solo atti intenzionati.
Gli oggetti e i riferimenti agli oggetti derivano da atti dell’intenzionare che sono essenzialmente diversi dagli oggetti stessi e ci sono resi presenti solo come unità intenzionate.

 

LE DISTINZIONI IDEALI E SOPRATTUTTO LA DISTINZIONE TRA ESPRESSIONE E SIGNIFICATO COME UNITA’ IDEALI
All’interno dell’espressione come vissuto concreto esistono:

  • l’espressione stessa
  • il suo senso
  • la sua oggettualità

Si passa dalla relazione reale degli atti alla relazione ideale dei loro oggetti o contenuti.

IDEALITA’ DEL RAPPORTO TRA ESPRESSIONE E SIGNIFICATO:
Se si prende in causa un’espressione, non come suono fonetico, ma come espressione in specie, ci si accorge che l’enunciato ed il significato dell’enunciato sono sempre identici a se stessi. Certo che la persona parlante nel momento in cu li esprime fa un atto di giudizio, ma non c’è bisogno della sua conferma o meno per affermare uno stato di cose che sarà sempre la stesso, indipendentemente da l nostro giudizio. Lo stato di cose è un’ UNITA’ DI VALIDITA’.
L’enunciato è la forma di espressione che meglio esprime quell’elemento sempre identico che è il suo significato.
L’informazione consiste di vissuti psichici
L’enunciato invece non è nulla di soggettivo, è un’unica identità verità, anche quando è un enunciato assurdo o falso. Il significato rimane l’elemento identico dell’intenzione, anche se manca la possibilità e verità e quindi l’enunciato può essere realizzato solo simbolicamente (significato intenzionate). All’enunciato assurdo o simbolico manca un significato vero, diretto (significato riempente).
Ogni enunciato ha la propria intenzione nella quale si costituisce il suo significato come carattere specifico e unitario.
Anche per gli enunciati reali e possibili vale l’oggettività e idealità che porta sempre lo stesso significato concettuale.

L’OGGETTUALITA’ ESPRESSA

Quando si parla di ciò che un’espressione esprime si parla di due cose:

1 – informazione con gli atti significanti e gli atti riempenti il senso, le percezioni e gli atti riempienti di senso che traducono l’enunciato.

  • – contenuti di questi atti, significati

 

I termini:
- significato
- contenuto
- stato di cose
sono suscettibili di essere equivocati provocando il fraintendimento delle nostre intenzioni,

Il terzo senso dell’essere-espresso concerne loggettualità intesa nel significato ed espressa tramite il significato.
Ma bisogna distinguere tra significato ed oggetto, poiché non coincidono mai. Il significato dice su qualche oggetto, ma in nessun caso l’oggetto coincide con il suo significato. Sia l’oggetto che il significato appartengono all’espressione solo in virtù di atti psichici, di rappresentazioni.
La distinzione contenuto e oggetto equivale alla distinzione tra ciò che l’espressione significa e ciò su cui significa.
E’ evidente che significato e oggetto non sono la stessa cosa, poiché molteplici espressioni possono:

  • avere lo stesso significato ma oggetti diversi
  • avere diversi significati ma lo stesso oggetto
  • avere diversi significati e diversi oggetti
  • avere lo stesso significato e lo stesso oggetto

I nomi, la denominazione, danno esempi concreti di questa differenza:

A) 2 nomi possono avere significati diversi ma denominare la stessa cosa:
ex. Il molleggiato, il cantante. Si intende sempre lo stesso oggetto, ma hanno significati diversi.

B) 2 nomi possono avere lo stesso significato ma riferirsi ad un oggetto diverso. Vale per tutti i nomi universali che hanno un estensione.
Il cavallo ha sempre lo stesso significato.
Ma si riferiscono ad un oggetto diverso se dico:
Il cavallo è un ronzino
Il cavallo è uno stallone

C) Per i nomi propri denominano sempre un solo oggetto, a meno che non siano parole equivoche.
Si distingue parole equivoche (plurivoche) da pluriestensionali, universali (plurivalenti)

D) le proposizioni a è minore di b e  b è maggiore di è cambia
Il contenuto, l’enunciato ed il significato, benché si riferiscano alla stessa situazione, allo stesso oggetto.

IL NESSO TRA IL SIGNIFICATO E IL RIFERIREMENTO ALL’OGGETTO

In realtà il significato dell’espressione e il riferimento all’oggetto non sono distinguibili come aspetti a sé stanti, è una distinzione astratta, funzionale all’analisi.
L’essenza dell’espressione risiede nel suo significato, per mezzo del quale si riferisce all’oggetto.

IL CONTENUTO COME:

  • OGGETTO
  • SENSO RIEMPENTE
  • SENSO O SIGNIFICATO TOUT COURT

I discorsi che vertono su
- informazione
- significato
- oggetto
riguardano per essenza ogni espressione.
Con ogni espressione si rende noto qcs che diventa espresso,
All’espressione è extra essenziale il riferimento ad un oggetto che riempia l’intenzione significante dell’espressione.
Nella realizzazione del riferimento all’oggetto sono espresse:
_ l’oggetto stesso nel modo in cui è determinato
_ il senso riempente dell’oggetto, ovvero il suo correlato ideale

Nel momento in cui si realizza questa correlazione tra intenzione significante e senso riempente, l’oggetto ci è dato, proprio come l’oggetto era inteso dall’intenzione significante.
Quando significato e senso riempente si uniscono, al significato corrisponde il senso riempente ( senso espresso dell’espressione)
Anche negli atti di riempimento c’è la percezione del contenuto relativo al significato e l’oggetto percepito. In questi atti il contenuti riempente coincide con il contenuto intenzionate. Quindi l’oggetto è contemporaneamente intenzionato e dato, un unico oggetto.

Bisogna distinguere tra contenuto in senso oggettivo e contenuto in senso soggettivo per non incorrere nelle equivocazioni che nascono quando si palrla di ciò che un’espressione esprime.
Bisogna distinguere tra:

  • contenuto come senso intenzionante o senso tout cort
  • contenuto come senso riempente
  • contenuto come oggetto

fonte: http://www.scicom.altervista.org/etica/HUSSERL.doc

 

Freud:  "PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA"

1. Il fenomeno chiamato "dimenticanza dei nomi” è causato da un disturbo del nuovo argomento ad opera del precedente . Ovvero, l ‘associazione d ’ idee disturba il pensiero che è sul punto di esser formulato, poiché sottrae ad esso la nostra attenzione, e così non riusciamo a portarlo a termine. Ciò non comporta solo il dimenticare una certa cosa, ma anche il ricordarla falsamente. E più ci sforziamo di ricordare il pensiero dimenticato, più ci si presentano alla mente dei nomi, che nonostante siano immediatamente riconosciuti come errati, continuano ad imporsi con grande insistenza. Tali nomi sono detti “nomi sostitutivi“. Il processo che deve riportarci il nome cercato si è spostato, richiamando una soluzione errata. Tratte tali riflessioni, Freud ritiene che questo spostamento non sia un evento casuale, ma che segua un preciso percorso psichico, regolato da leggi. La dimenticanza di un nome può esser spiegata solo ricordando l‘argomento immediatamente precedente e può essere riconosciuto come disturbo dell‘argomento, che era appena affiorato, da parte del precedente.

2. L ‘ analogia tra dimenticanza , falsi ricordi e ricordi di copertura è , a pare mio, assai stretta, poiché tutti e tre questi fenomeni sono legati ad uno spostamento del processo psichico del ricordo, e tramite essi ci è permesso risalire a ciò che davvero ci interessava; facendo tutto ciò, ovviamente, ci possiamo servire di metodi regolati da leggi precise, e non mediante supposizioni,…ecc…

3. Freud per lo studio e la spiegazione del fenomeno dei lapsus si serve di un saggio del 1895 di Meringer e Mayer, tuttavia da essi prenderà solo un minimo spunto, poiché le loro opinioni non coincidono con quelle dell‘inventore dalla psicoanalisi. I lapsus possono essere verbali, di scrittura o di lettura; quelli di tipo verbale sono il risultato di una perturbazione del discorso che può essere causata dall‘influenza di un'altra parte dello stesso discorso, la quale viene anticipata o posticipata da una seconda froma della frase che si vuol dire o da influssi esterni. Tali lapsus si posso verificare sottoforma di contaminazione o di sostituzione; in entrambi i casi hanno un ruolo determinante i fonemi vaganti, situati sotto la soglia della coscienza e che causano la deformazione delle parole; spesso sono echi di parole o frasi appena proferite. Talvolta le cause sono riconducibile alla somiglianza tra le varie parole o alla loro contiguità logica nel nostro inconscio. Le influenze psichiche si possono verificare in maniera positiva, cioè con un flusso non inibito delle associazioni lessicali e fonetiche innescate dai suoni pronunciati, o negativa, con la perdita o il cedimento degli effetti inibitori della volontà. Spesso nel lapsus si afferma un ‘ idea che si vorrebbe reprimere; in molti di essi avvenuti mediante sostituzione , questa prescinde dalle leggi fonetiche. Esempi :
- Il dottor Steckel in una tempestosa assemblea generale : “ Ora ci combattiamo ( STREITEN ) - invece di imbattiamo ( SCHREITEN ) - sul quarto punto dell ‘ ordine del giorno “.
- Un professore nella sua prolusione inaugurale : “Non sono disposto ( GENEIGT ) - invece di adatto ( GEEGNET ) - a illustrare i meriti del mio stimatissimo predecessore“.
- Il dottor Steckel narra : “Una certa persona vuole descrivere il rapporto tra due amici , uno dei quali , va tenuto presente , è ebreo . Egli dice : "Vivevano insieme come Castore e Pollak . Non era affatto una spiritosaggine ; chi parlava non si era neanche accorto del lapsus finché non glielo feci notare io".

4. Gli altri tipi di dimenticanza che Freud tratta sono :
- dimenticanza di parole straniere ;
- dimenticanza di impressioni e di propositi ;
- dimenticanza di nomi e di sequenze di parole.
Esempi : 1. Dimenticanza della parola “ aliquis “ citata dal discorso fatto da Didone , abbandonata dall ‘ amato Enea (VIRGILIO , Eneide ) . 2. “ Una giovane ragazza aveva sciupato, tagliandola, una stoffa dalla quale voleva ricavare un colletto. Dovette perciò ricorrere alla sarta per tentare di aggiustare quello che si poteva. Quando arrivò la sarta e la ragazza volle riprendere il pezzo di colletto mal tagliato dal cassetto in cui credeva di averlo messo, non riuscì a ritrovarlo. Buttò tutto sottosopra ma non lo trovò. Quando , piena di rabbia, si sedette chiedendosi perché esso fosse improvvisamente scomparso, e se per caso non fosse lei a non volerlo trovare, pensò che naturalmente si vergognava davanti alla sarta di avere guastato una cosa tanto semplice come un colletto. Non appena ebbe fatto questa riflessione si alzò , si diresse verso un altro armadio e tirò fuori al primo colpo il colletto rovinato”. 3. Una volta, accingendomi a prendere un biglietto alla stazione Reichenhall, non mi vuol venire in mente il nome, che del resto mi era molto familiare, della principale stazione successiva, dalla quale sono passato tante volte. Devo per forza cercarlo sull ‘orario ferroviario. Il nome è Rosenheim ( = casa delle rose ). Allora capisco subito per quale associazione mi era sfuggito. Un‘ora prima avevo fatto visita a mia sorella che sta vicino a Reichenhall; mia sorella si chiama Rosa : ecco dunque un altro Rosenheim ( casa di Rosa ) . Questo nome mi è stato portato via dal “complesso familiare”.
5. La dimenticanza di propositi è il gruppo di fenomeni meglio indicato a dimostrare la tesi che lo scemare dell‘attenzione sia in sé sufficiente a spiegare un‘azione mancata. Un proposito è un impulso all‘azione che è già stato approvato, però nell’intervallo tra tale approvazione ed il presunto compimento del proposito può subentrare un mutamento nei motivi, così che impedisca l‘esecuzione di quest’ultimo; esso però non viene dimenticato, bensì riveduto e annullato. Nelle situazioni delle relazioni amorose e in quelle delle gerarchie militari c ‘è la dimostrazione che la dimenticanza di propositi giustifica la presunzione di motivi inconfessati: sia la donna che la gerarchia militare, infatti, pretendono che ogni cosa che li riguardi sia di riparo alla dimenticanza, creando così l‘illusione che la dimenticanza sia ammissibile solo nelle cose trascurabili.

6. A differenza della dimenticanza accompagnata da falso ricordo, gli errori di memoria non vengono riconosciuti come tali, ma trovano credito. Parliamo di “errore” anziché di “falso ricordo” quando nel materiale psichico da riprodurre si vuol dare rilievo al carattere della realtà obiettiva, dove si vuol ricordare qualcosa che sia non un fatto della vita psichica, ma qualcosa di accessibile alla conferma o confutazione da parte della memoria altrui. Esempio:
- A p. 135 dell’ “Interpretazione dei sogni” il padre di Annibale viene chiamato Asdrubale. Questo errore mi ha dato particolarmente fastidio, ma ha rafforzato la mia concezione intorno a questo tipo di errori. Sulla storia dei Barcidi pochi lettori del libro sono più informati di quanto non sia io stesso, che feci questo errore lasciandomelo sfuggire fino alle terze bozze. Il padre di Annibale si chiamava Amilcare Barca. Asdrubale era il nome del fratello di Annibale e anche del cognato che era stato suo predecessore nel comando .
- Brill racconta che una signora, nel chiedergli notizie di una comune conoscente, chiama costei, erroneamente, con il suo nome da ragazza. Avvertita, ammette che il marito di quella signora non le va a genio e che non era stata contenta di quel matrimonio.

7. Il fenomeno del cosiddetto deja vu è l’ impressione, che a volte si ha, di aver già vissuto una volta la stessa esperienza, senza però riuscire a ricordare quel passato che sentiamo così vivamente; si tratta di un giudizio di conoscenza, non di un’ impressione vera e propria . E’ sbagliato considerarla un’ illusione, poiché viene effettivamente toccato qualcosa che si è già vissuto una volta, solo che non possiamo ricordarlo con precisione perché esso non è mai stato cosciente.

8. Per tirare un po’ le somme di queste analisi riportate da Freud possiamo dire che certe insufficienze della nostra psiche e certe azioni solo all’apparenza intenzionali, se vengono analizzate mediante la psicoanalisi, risulteranno ben motivate e determinate da motivi ignoti alla coscienza. Per dare una conclusione più chiara e schematica al discorso, è utile prendere a esempio una piccola lista di punti stilati da Freud, i quali raccolgono le caratteristiche necessarie che un atto mancato deve avere per esser inserito nella classe dei fenomeni da spiegarsi nei termini definiti poc’anzi . Essi sono:
a) non deve oltrepassare una certa misura, designata dall’ espressione “entro l’ambito della normalità“.
b) Deve avere il carattere della perturbazione momentanea e temporanea. Se veniamo corretti da qualcun altro, dobbiamo subito riconoscere l’erroneità del nostro processo psichico.
c) Se in generale percepiamo l’atto mancato, non dobbiamo sentire in noi nulla che possa presentarsi come sua motivazione, ma dobbiamo essere tentati di spiegarlo con la “disattenzione“ o ascriverlo al “caso“.
Rimangono dunque in questo gruppo i casi di dimenticanza e gli errori nonostante una conoscenza migliore, i lapsus di parola , di lettura , di scrittura , le sbadataggini e le cosiddette azioni casuali .

 

fonte: http://www.scicom.altervista.org/etica/Freud.doc

 

HEIDEGGER

Fu la prima grande figura dell'esistenzialismo contemporaneo. Venne influenzato da Husserl, al quale dedicò la sua opera Essere e Tempo. Fu prima professore, poi rettore nell'Università di Friburgo, ma per breve tempo perché successivamente si tenne lontano dal mondo universitario e condusse una vita appartata in seguito ad aver pronunciato nel 1933 il discorso di apertura dell'anno scolastico, nel quale trasparivano i suoi legami con il nazismo. Nel discorso diceva di essere contento che Hitler fosse stato eletto, però non si sa in realtà il legame che aveva con il regime, visto che dopo la guerra non prese più posizione quando venne intervistato su questo argomento.
La sua opera più importante è appunto Essere e Tempo, che è incompiuta: essa doveva essere completata con una terza sezione chiamata Tempo ed Essere.
A partire dagli anni '30, l'indagine di Heidegger vede una svolta. Egli si allontana dall'indagine esistenzialistica per la determinazione del senso dell'essere in generale.
Lo scopo della filosofia di Heidegger è la costituzione di un'ontologia che arrivi ad una determinazione completa del senso dell'essere. Egli parte dalla domanda: Che cos'è l'essere? Nella quale si possono distinguere 3 cose:
1) ciò che si domanda
2) ciò a cui è domandato
3) ciò che si trova domandando

Ciò che si domanda è l'essere stesso, ciò che si trova domandando è il senso dell'essere, mentre ciò a cui si domanda non può essere che un ente, visto che l'essere è sempre proprio di un ente. Il primo problema dell'ontologia è quello di determinare qual è l'ente che dev'essere interrogato. Heidegger spiega che questo ente è l'uomo stesso, il quale ha un primato ontologico sugli altri enti (ad esempio animali e piante), visto che è lui che viene interrogato, e il quale viene designato da Heidegger con il termine Esserci (o Dasein).
L'analisi del modo d'essere dell'Esserci è dunque essenziale, perché solo interrogandolo si può conoscere cos'è l'essere e trovarne il senso. Il modo d'essere dell'Esserci è l'esistenza e quindi il primo compito del filosofo sarà conoscere le caratteristiche dell'esistenza.
1. La prima caratteristica dell'esistenza è la possibilità di rapportarsi in qualche modo con l'essere;
2. La seconda caratteristica dell'esistenza consiste nella possibilità d'essere. l'esistenza non è una realtà fissa e predeterminata, ma un insieme di possibilità tra le quali l'uomo deve scegliere.
3. L'esistenza è quindi progetto. Mentre le cose sono ciò che sono, ossia delle semplici-presenze, l'uomo è ciò che "ha da essere", cioè ciò che lui progetta e sceglie di essere. L'esistenza va intesa nel senso etimologico del termine ex-sistere, cioè trascendere la realtà in vista della possibilità.
4. Ogni scelta che l'uomo deve fare lo porta a quella che Heidegger chiama comprensione, che può essere di due tipi:
- Esistentiva od ontica: che concerne l'esistenza concreta di ogni singolo uomo;
- Esistenziale od ontologica: che indaga teoricamente sulle strutture fondamentali dell'esistenza, sul senso dell'essere.
Poiché l'esistenza è sempre individuata e singola, cioè non è mai di un uomo in generale, ma sempre mia, tua, sua esistenza, è evidente che l'indagine di Heidegger si fonderà sulla comprensione ontica.
5. La comprensione dell'esistenza deve assumere come metodo quello fenomenologico, che ha come scopo quello di descrivere le strutture esistenziali in modo obbiettivo e imparziale, cioè ha il compito di descrivere le cose come si manifestano, senza aggiunte o alterazioni;
6. L'analisi esistenziale di Heidegger esamina l'uomo nella sua "quotidianità", ossia nelle situazioni in cui l'Esserci si trova "innanzitutto e per lo più".
L'essere-nel-mondo e l'esistenza inautentica: l'uomo è innanzitutto essere-nel-mondo, ossia un prendersi cura delle cose che gli occorrono. Tale cura ha le caratteristiche della trascendenza e del progetto: l'Esserci trascendendo la realtà di fatto come si presenta a prima vista, progetta la realtà attraverso un insieme di strumenti utilizzabili da lui stesso, ad esempio la casa per abitare, la penna per scrivere. Il prendersi cura delle cose significa utilizzarle, cioè subordinarle ai propri scopi e ai propri bisogni e l'esistenza di queste ultime è in relazione all'utilizzazione.
L'essere-nel-mondo è anche essere tra gli altri. Se il rapporto tra l'uomo e le cose è un prendersi cura delle cose, allora il rapporto tra l'uomo e gli altri è un prendersi cura degli altri. Esso può assumere due forme diverse: può significare sottrarre agli altri le loro cure; oppure aiutarli ad essere liberi di prendersi cura di loro. Nel primo caso l'uomo non ci cura tanto di aiutare gli altri, ma piuttosto di procurare a loro le loro cose, nel secondo caso invece l'uomo da agli altri lo strumento con il quale siano in grado di prendersi cura di se stessi. La prima è la forma inautentica ed è un semplice stare insieme, mentre la seconda è la forma autentica e il vero coesistere.
La forma inautentica è il fondamento della vita anonima. Essa è la vita di tutti e di nessuno; è l'esistenza del "Si". Il linguaggio che è per sua stessa natura lo svelamento dell'essere, ciò con cui l'essere si esprime e prende corpo, nell'esistenza anonima diventa la chiacchiera inconsistente. Si fonda sul "si dice" e si fonda sull'espressione: "la cosa sta così perché così si dice". Un'esistenza così vuota cerca di riempirsi attraverso la curiosità, che è il vociferare continuo non di ciò che è, ma di ciò che sembra. E dalla curiosità nasce l'equivoco, che è il terzo contrassegno dell'esistenza anonima, corrisponde nel non sapere neanche più di cosa si sta parlando.
Heidegger non condanna comunque l'esistenza anonima, anche perché gli esistenzialisti non si spingono a pronunciare giudizi; egli dice che essa fa parte della struttura esistenziale dell'uomo, è una delle possibilità tra le quali l'uomo può scegliere.
Alla base di questo poter scegliere però c'è quella che Heidegger chiama deiezione, cioè la caduta dell'essere dell'uomo nel mondo, essa fa parte essenziale dell'essere dell'uomo. Le emozioni che accompagnano la consapevolezza di questa deiezione sono la paura (inautenticità) e l'angoscia (autenticità), l'uomo si sente abbandonato ad essere ciò che è di fatto, cioè conosce la noia, che è l'abbandonarsi agli eventi. Essa nasce dalla precarietà delle scelte, dalla troppa preoccupazione che abbiamo e che alla fine si dimostra vana.
L'esistenza è possibilità, cioè un progettarsi in avanti, ma questo progetto in avanti non fa che cadere all'indietro, su ciò che l'esistenza è di fatto. Visto che l'uomo è libero di progettare la sua vita nel futuro, ma non ha potuto scegliere ad esempio se nascere maschio o femmina.
L'esistenza autentica: finora Heidegger ha concentrato l'attenzione sulla quotidianità e sull'inautenticità, ora considera l'Esserci nella sua totalità e autenticità. Il concetto fondamentale della vita autentica è la morte. La morte per l'uomo non è un termine finale, essa è per l'Esserci la possibilità più certa, più incondizionata e insuperabile. Soltanto nel riconoscere la possibilità della morte, l'uomo ritrova il suo essere autentico e comprende veramente se stesso. L'angoscia è la situazione emotiva che accompagna la consapevolezza della morte, essa colloca l'uomo davanti al nulla. L'uomo però non deve avere paura della morte, anche perché fuggire di fronte alla morte fa parte dell'esistenza anonima e inautentica. L'uomo che vive la vita autentica deve scegliere di vivere per la morte, deve essere-per-la-morte. Questo però non vuol dire che l'uomo deve cercarla con il suicidio e non deve essere neanche un'attesa, perché anche l'attesa mira alla realizzazione. La morte è la certezza alla quale non possiamo sottrarci ed è anche la possibilità che rende impossibili le altre possibilità. L'uomo farà le stesse cose che faceva prima, ma con una nuova consapevolezza. Colui che vive la vita autentica non se la prende per cose inutili, perché ha sempre in mente l'atto conclusivo. Questo lo libera dalla noia, dall'angoscia e dall'anonimato, ossia dalla vita inautentica.
La voce della coscienza: è l'Esserci che comprende la propria nullità:
1. Nel fatto che l'uomo pur essendo fondamento di se stesso, grazie al progetto, non può essere fondamento del proprio fondamento, ossia del proprio essere;
2. Nel fatto che l'uomo nel progettare determinate possibilità, ne esclude e ne nega altre. Questo coincide con un senso di colpa che spinge l'uomo a decidere per il nulla.

Fonte: http://www.scicom.altervista.org/etica/HEIDEGGER.doc

 

Friedrich Wilhelm Nietzsche
La vita


Nietzsche, Friedrich Wilhelm (Röcken 1844 - Weimar 1900), filosofo, poeta e filologo classico tedesco, uno dei pensatori più importanti del XIX secolo. Figlio di un pastore luterano, rimasto orfano in tenera età, Nietzsche venne allevato dalla madre e dalla sorella. Dopo essere stato ammesso alla celebre scuola teologica di Pforta, contrariamente alle aspettative della madre, che l'avrebbe voluto pastore, Nietzsche studiò filologia classica alle università di Bonn e Lipsia, diventando professore della disciplina all'università di Basilea a soli 24 anni; in quell'epoca si delinearono sempre più chiaramente le sue inclinazioni filosofiche. Fu amico del musicista Richard Wagner, ma in seguito il loro rapporto degenerò progressivamente e si ruppe nel 1878; da alcuni anni, tuttavia, Nietzsche era malato e sofferente di crisi nervose; la salute cagionevole lo aveva costretto al congedo dall'insegnamento nel 1876. Nel 1889 fu colto da una grave forma di pazzia da cui non si riprese mai; visse errando per l'Europa, spesso ospite di amici e protagonista di complicate vicende umane e sentimentali. Ricoverato dapprima in clinica e poi curato dalla sorella Elisabeth, morì nel 1900.
Le opere

Studioso della cultura greca, in particolar modo dei presocratici, di Platone e di Aristotele, Nietzsche attinse ispirazione anche dalle opere di Arthur Schopenhauer (da cui in un primo momento ne condivide la filosofia per poi distaccarsene, si parla infatti in Nietzsche di nichilismo attivo) e dalla musica di Richard Wagner. Tra le sue opere si ricordano: La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872), Considerazioni inattuali (1872-74), Così parlò Zarathustra (1883-85), Al di là del bene e del male (1886), Genealogia della Morale (1887), L'Anticristo (1988), La Gaia Scienza (1882), Ecce Homo (1889). Dagli anni Sessanta è in corso di completamento l'edizione filologica italo-tedesca delle opere complete di Nietzsche da parte di Giorgio Colli e Mazzino Montinari.
Il sistema di Nietzsche

Partendo dal presupposto che Nietzsche voleva che le sue opere fossero lette solo da lettori attenti che avessero il tempo necessario per assimilare le teorie espresse, Nietzsche propone una filosofia sperimentale basandola su di un sistema che è coerente fino ad un certo punto (le conseguenze della morte di Dio).
Dionisiaco e Apollineo

Per esprimere la propria concezione estetica Nietzsche ricorre alle figure mitiche greche. Secondo Nietzsche la tragedia è la massima espressione artistica e culturale della civiltà ellenica poiché in essa si incontrano le due grandi forze che animano lo spirito greco: l'Apollineo e il Dionisiaco. Apollineo simboleggia l'inclinazione plastica, la tendenza alla forma perfetta, mentre dionisiaco simboleggia l'energia istintuale, l'eccesso, il furore. Per Nietzsche però a prevalere è il dionisiaco poiché l'apollineo è l'illusione mentre il dionisiaco fa vedere all'uomo tutto l'abisso della sua condizione: la vita è un gioco crudele di nascita e morte, è l'esperienza del caos.
La morte di Dio e le sue conseguenze

Secondo Nietzsche "Dio è morto" nel cuore dell'uomo e su questo grande annuncio Nietzsche basa tutto il suo sistema filosofico traendone delle logiche conseguenze. Varie sono le possibilità che si presentano all'uomo dopo la morte di Dio: vivere la morte di Dio come la morte di tutti i valori e vivere nell'angoscia; ragionare la morte di Dio come l'inizio di una nuova epoca, come una liberazione; trovare una terza via nella quale l'uomo capisca che deve andare avanti, ma nella quale ci sia anche una decadenza dei valori poiché Nietzsche si presenta come il filosofo dell'ateismo. Prendendo in esame tutto ciò si capisce come Nietzsche torni alla "physis" greca che non ha né inizio né fine.
Il nichilismo

Fra le tematiche più ricorrenti negli scritti di Nietzsche, ricchi di percorsi argomentativi tra loro correlati, è rintracciabile la deriva etica e la destituzione dei valori fondamentali per la vita individuale (rappresentati soprattutto dal cristianesimo), fatto che egli definisce nichilismo termine usato in un'accezione positiva dal filosofo tedesco per indicare la negazione della morale consolidata e la sua sostituzione con un nuovo sistema di valori; l'annientamento dei fondamenti morali e religiosi della civiltà occidentale viene sintetizzata nella celebre affermazione: "Dio è morto". Nietzsche è un grande scrutatore dell'animo umano poiché analizza la decadenza dei valori. Per Nietzsche esistono due forme di nichilismo: forte e debole. Il nichilismo debole critica gli uomini che hanno ancora un legame fittizio e falso con la religione ("l'ultimo uomo"). Il nichilismo forte afferma che dopo la morte di Dio ci sono due forme di uscita: l'eterno ritorno e il superuomo (e in questo offrire una via d'uscita dal nichilismo si distacca da Schopenhauer).
L'eterno ritorno

Secondo Nietzsche la concezione di una storia lineare è fallace poiché la storia è ciclica, esiste un eterno ritorno dell'uguale, una ciclicità dell'universo, un ritorno alla natura greca che si esprime nel ciclo cosmico dionisiaco, negando così la finitezza del tempo e lo scopo del divenire. L'attimo dunque nella concezione di Nietzsche possiede tutto intero il suo senso meritando di essere vissuto per se stesso come se fosse eterno.
Il superuomo

Ai valori tradizionali, propri di una "morale schiava" caratterizzata dalla debolezza dell'individuo e dal risentimento che nasconde l'interesse (esemplare la morale cristiana del sacrificio), Nietzsche oppone una "trasvalutazione" che darebbe vita alla figura dell'uomo disincantato e consapevole del nulla, eroicamente responsabile della propria finitezza, il superuomo (Übermensch) nato per andare "oltre" l'uomo del presente. Il superuomo afferma la vita accettandone la sofferenza, il dolore e le contraddizioni che l'accompagnano con gioioso (dionisiaco) amore per l'esistenza; è un creatore di valori ed è per questo privo di valori fissi e immutabili, al di là del bene e del male, artefice di una "morale autonoma".
La volontà di potenza

Secondo Nietzsche, ogni comportamento umano è motivato dalla "volontà di potenza". Nella sua accezione positiva, la volontà di potenza non rappresenta unicamente l'esercizio del potere sugli altri individui, ma anche su se stessi a fini creativi. La volontà di potenza è la volontà dell'individuo di affermarsi come volontà di fronte al nulla dei valori, all'assurdità del mondo, alla realtà della sofferenza. Libero dopo la morte di Dio, l'uomo può essere il padrone e il responsabile del proprio destino. Soggetto di volontà di potenza è colui che ha la forza di affermare la propria prospettiva del mondo. Anche in questo caso Nietzsche prende spunto dalla civiltà greca che ha affermato che non esiste vita senza un istinto di potenza istinto che l'uomo greco ha imparato a dominare e a rendere creativo.
Interpretazioni del pensiero di Nietzsche
Il pensiero di Nietzsche è stato talvolta interpretato come paradigma di una società oligarchica ed è stato identificato con le filosofie totalitarie. Molti studiosi negano queste connessioni, attribuendole a un fraintendimento dell'opera di Nietzsche; l'opera postuma La volontà di potenza (1906), inoltre, che sembrava corroborare questa interpretazione, si scoprì essere il frutto di un accostamento arbitrario di aforismi operato dalla sorella Elisabeth e dall'amico Paul Gast.
Le tre metamorfosi

Di grande importanza all'interno della filosofia di Nietzsche è il discorso di Zarathustra sulle tre metamorfosi. Infatti attraverso le tre figure del cammello, leone, fanciullo Nietzsche riesce a spiegare il procedere umano verso la propria autoliberazione dagli idoli della superstizione e della colpa (religione e morale) verso l'innocenza dionisiaca del superuomo. Il cammello rappresenta l'uomo che teme e riverisce, che si piega davanti alla grandezza di Dio assumendo volontariamente su di sé i grandi tormenti del mondo. L'uomo poi diventa leone quando combatte contro la morale che gli è stata imposta riconoscendo il suo stato di alienazione precedente. Ma il leone possiede una "libertà da..." e non una "libertà di..." e allora per dare nuove leggi il leone deve diventare fanciullo, che rappresenta l'innocenza. I motti sono "tu devi" per il cammello, "io voglio" per il leone e "io sono" per il fanciullo.

 

Fonte: http://www.scicom.altervista.org/etica/Friedrich%20Wilhelm%20Nietzsche.doc

 

Etica della comunicazione

Etica della Comunicazione

Adriano Fabris

 

Capitolo 1° - Etica e comunicazione

L’atto filosofico per eccellenza, è la riflessione sull’agire. La riflessione è ciò che può interrompere lo svolgimento di altri atti, che può produrre una presa di distanze da ciò che stiamo facendo, allo scopo di comprendere meglio una certa situazione e di trarre indicazioni per i comportamenti futuri.
In occidente, fin dall’antichità, questa riflessione filosofica si rivolge ai nostri atti, al nostro agire, ai nostri atteggiamenti, viene chiamata etica; si tratta di una riflessione sull’agire che risulta essere l’agire proprio della filosofia.
Ma “etica” nomina anche il complesso dei criteri che guidano l’azione, i principi e le consuetudini che regolano i comportamenti del singolo o di una comunità, sia in generale che in un determinato periodo storico. Tali principi non sono assunti o scelti consapevolmente, ma costituiscono lo sfondo condiviso dei nostri comportamenti quotidiani.
La parola “etica “ deriva dal greco ethos che significa “comportamento”, “costume”, ma anche l’intimo legame di ogni comportamento alla dimensione della dimora e della comunità.
Infatti, l’agire può consolidarsi in un’abitudine, in un costume e questo è il costume condiviso dalla comunità, quello capace di identificarla nei suoi specifici caratteri.
“Ethos” trova un unico corrispondente nel latino con il sostantivo mos, moris.
Infatti nelle lingue in cui il flusso del latino risulta determinante, si riscontrano due vocaboli: “etica” e “morale” usati indistintamente per cogliere tanto l’ambito delle nostre azioni quanto la riflessione su di esse; tanto la prassi individuale quanto la dimensione delle regole comuni.
In filosofia si è cercato di evitare ambiguità tra questi termini: così per indicare la riflessione filosofica che ha per oggetto l’ambito della prassi umana si usano le espressioni filosofia morale/etica filosofica. Mentre la ricerca che vuole stabilire la natura dell’etica e definire i metodi di prova e dimostrazione in essa viene indicata con le espressioni meta-etica/meta-morale.
Infine la morale indica la sfera delle azioni umane nella loro concreta storicità; mentre l’etica descrive la disciplina che le prende in esame e che ne fa il suo oggetto specifico.

Fin dal mondo greco, l’attività filosofica è sempre iniziata da un’interrogazione: le domande sono sempre le stesse e servono ad individuare ciò che qualcosa è, e a descrivere i vari modi di questo suo essere, per inserire ciò su cui ci si interroga in una più ampia rete di relazioni ricercandone gli scopi.
Domande analoghe si ritrovano nell’etica, e riguardo all’agire ci si può chiedere che cos’è quello che stiamo facendo e come un certo atto si configura.
DOMANDE DELL’ETICA:
Che cosa sto facendo? Come lo sto facendo? Spinto da quale istanza? E per quale scopo? Che cosa debbo fare? Perché lo faccio o lo debbo fare? Che senso ha il mio agire?
Queste domande vengono estese a un’attitudine che si ritiene condivisa da ogni uomo.
Infatti la mossa filosofica intende condurre un discorso che valga non solo per il singolo uomo, ma per tutti gli uomini.
Le questioni relative alla definizione dell’agire –cosa è e come si configura- risultano dominanti nell’ambito dell’etica antica; mentre le tematiche relative al dovere contraddistinguono la tradizione ebraico-cristiana e sono il riflesso di quella scissione fra ciò che l’uomo è portato a compiere e ciò che invece gli viene richiesto da un’istanza superiore. 
Il problema del senso dell’agire (perché io faccio o debbo fare qualcosa), emerge come problema filosofico nel momento in cui viene meno la risposta religiosa.

La definizione dei modi dell’agire mira ad individuarne le cause. Conoscendo tali cause, è possibile ricavare previsioni su comportamenti futuri e fornire indicazioni su ciò che nell’agire stesso deve essere perseguito.
ARISTOTELE: il suo tentativo di definire l’agire e di descriverne i processi si ricollega alla concezione che egli sviluppa del bene in generale e del rapporto che l’agire ha con il bene. Il bene è fine, scopo dell’azione umana. Raggiungere il bene, per Aristotele è un tendere naturale dell’uomo. Ogni uomo persegue bene particolari: qualcosa che è bene per lui poiché corrisponde ai sui desideri. Il bene da perseguire è il bene supremo, al quale ogni essere razionale per natura tende. Per garantire il raggiungimento di questo bene, viene stabilito un ordine tra le facoltà proprie dell’uomo: tra quelle che possono allontanare dal suo perseguimento, e quelle grazie alle quali è possibile ottenerlo.
Ne consegue una gerarchia fra i beni, che vede i beni particolari subordinati alla prospettiva di una più generale felicità (eudaimonia), concepita come bene supremo dell’uomo. La felicità è data dal conseguimento della nostra autentica vocazione: dal raggiungimento di quell’equilibrio di vita che trova il suo modello più alto nella figura del filosofo.
All’etica del bene, come fine a cui l’agire dell’uomo mira, si lega un’etica della virtù, come modo in cui viene perseguito il bene (la parte razionale dell’uomo deve dominare le inclinazioni che possono allontanarci dal nostro scopo).
ETICA DI ARISTOTELE: si cerca di instaurare un doppio equilibrio: l’equilibrio interno al singolo uomo reso possibile dalla prospettiva di una vita buona nell’ottica del raggiungimento del bene; l’equilibrio fra tutti gli uomini in cui l’individuazione del bene e il suo raggiungimento mirano all’eliminazione di ogni conflitto.

La proposta aristotelica ha presupposti di base:
-la spiegazione dei processi dell’agire faccia comprendere anche le loro motivazioni, il loro senso.
-è possibile definire la natura umana in maniera fissa e univoca.
-non sussiste alcuna scissione tra ciò che faccio e ciò che debbo fare: il dovere non appare in contrasto con la mia natura, ma ne rappresenta un’esplicazione.

Tali presupposti sono messi in discussione all’interno della tradizione ebraico-cristiana: emerge un’altra idea di etica che fa una distinzione tra ciò che io sono, ciò che posso o voglio fare e ciò che debbo fare. La riflessione sul nostro agire deve assumere il problema del male, nel rapporto tra la volontà di Dio e la volontà dell’uomo.
Mentre per Aristotele l’etica poggia sulla natura dell’uomo, nel contesto biblico essa viene fondata sulla religione, ossia su un particolare legame che l’uomo può instaurare con il divino.
Ciò che Dio richiede all’uomo appare in contrasto con quello che l’uomo sarebbe portato per natura a perseguire. Si delinea una scissione interna all’uomo stesso, fra ciò che egli è spinto di per se a realizzare e ciò che, indotto da Dio, ritiene invece di dover fare. Dio stabilisce che cosa è bene fare e cosa si deve fare per realizzare il bene (es. 10 Comandamenti).
Il comandamento fondamentale è quello dell’amore non solo nei confronti di Dio, ma anche del “prossimo”; quindi deve essere contrastato l’egoismo, l’amor proprio (tendenze ben radicate nella natura umana), a favore dell’apertura verso l’altro (atteggiamenti a loro volta insiti nell’uomo stesso).
Nella tradizione ebraico-cristiana emerge una concezione non più statica, bensì dinamica dell’essere umano. Al centro di questa etica viene posta una particolare idea di libertà: la libertà dell’uomo di decidere di ubbidire o meno ai comandi divini. Tale libertà si trasforma dunque in responsabilità. S’annuncia l’etica del dovere: l’azione è pensata come risposta libera a un comando che viene considerato vincolante per le azioni di volta in volta compiute.
Questo modello  di etica non viene abbandonato a dispetto della secolarizzazione dell’età moderna, ma viene proposto a più riprese individuando altri criteri di giustificazione sia del principio del dovere che dei suoi contenuti. Come accade alla fine del 700 con Immanuel Kant.
KANT: il dovere non è giustificato a partire da una rivelazione divina. Esso stesso si presenta alla coscienza morale come principio dell’agire. Il dovere trova espressione nei modi di un comando, di un imperativo che si impone assolutamente alla coscienza dell’uomo. Questo comando non prescrive qualcosa di determinato, ma risulta una funzione di riconoscimento: il criterio che consente di riconoscere la moralità o meno di ciò che induce a compiere un’azione. In Kant il principio del dovere non poggia su una rivelazione divina, ma al contrario Kant cercherà di motivare l’ammissione dell’esistenza di Dio movendo da una tale assunzione da parte dell’uomo, di quel principio della moralità che risulta insito in lui stesso. È la morale a diventare il fondamento della religione.

NIETSCHE: nella seconda metà dell’800 ripensa la morale in un’epoca nella quale non si da più per scontato il riferimento a Dio della tradizione ebraico-cristiana.  Nietsche avanza il problema del senso che un principio morale deve avere e mostra che tale senso non è giustificato a partire da qualcosa che s’impone, come la rivelazione divina. Il senso delle nostre azioni risiede nel nostro stesso volere.
PENSIERO DEL 900: si presenta il problema dell’agire, ossia dell’individuazione delle motivazioni che mi spingono a fare qualcosa. La riflessione contemporanea segue due strade:
1) Filosofia continentale (Europa): giustificare la possibilità che un senso si possa dare non più nei modi dell’imposizione ma in quelli del coinvolgimento (finiamo col muoverci nel nostro agire e nel nostro pensare).
2) Filosofia analitica (ambito culturale anglo-americano): si rinuncia alla ricerca di un senso complessivo e si dedica a un’analisi dei diversi modi in cui l’agire trova la propria esplicazione.

L’etica contemporanea deve fare i conti con il problema del senso, del “perché”, della motivazione. Oggi interviene la TECNICA attraverso cui il senso dell’agire viene a risolversi nell’efficacia di una prestazione. Gli sviluppi tecnologici hanno trasformato i modi in cui le azioni vengono compiute e i criteri in base a cui possono essere pensate.

Viviamo nell’età della tecnica in cui gli strumenti tecnologici facilitano la vita, e grazie ai quali siamo in grado di abitare io mondo e di sentirci ovunque a “casa”. Per questo siamo in grado di sorprenderci sempre meno, dato che per ogni cosa c’è o ci può essere una spiegazione, e tutto o quasi tutto si può prevedere.
Insomma lo scopo della tecnica è rendere il mondo ancora più comodo.  Le procedure della tecnica, elaborate per essere al servizio dell’uomo nel suo rapporto con il mondo, finiscono per rendere l’uomo e il mondo stesso, qualcosa di funzionale a tali procedure.
La tecnica mostra un duplice volto: da un lato ci fa abitare il mondo in maniera sempre più comoda, dall’altro è in grado di modificare, distruggere e annientare questo mondo stesso (2 guerre mondiali, attuale emergenza ecologica).
Oggi la tecnica è ciò che tende a riassorbire ogni comportamento nelle proprie procedure; quindi non c’è più spazio per un’assunzione di responsabilità da parte dei soggetti individuali o collettivi.
Questo scenario ha sollecitato il riproporsi delle tradizionali domande etiche – sul che cosa, sul come, sul perché facciamo o dobbiamo fare qualcosa- riguardo all’agire che si compie nell’età della tecnica. Di fronte a tali problemi specifici e all’allargamento dell’etica generale sono nate le ETICHE APPLICATE.

L’imporsi di una sempre più comprensiva immagine tecnica del mondo ha rotto quei limiti a partire dai quali erano stati elaborati i precedenti modelli di etica.
Tre sono i limiti messi in discussione:
1)Limite relativo al potere dell’uomo di incidere sul mondo, sull’ambiente, sull’esistenza o meno degli altri e di se stesso. Grazie all’uso delle tecnologie siamo in grado di trasformare, distruggere la vita sulla terra; al contrario con le scienze biomediche siamo in grado dimodificare i processi che riguardano la vita.
2)Limite che distingueva ciò che è “naturale” e ciò che è “artificiale”; limite oggi scomparso.
3)Limite che poteva essere imposto all’agire dell’uomo da un comando superiore: dalla voce della coscienza o da un ordine divino. L’agire, liberato da ogni costrizione, scopre di dover rispondere solo a se stesso.

Il venire meno di questi limiti fa sorgere il problema della responsabilità che contraddistingue ogni azione. È vero che grazie alla tecnica è possibile controllare gli effetti di ogni azione, ma controllarli non significa esserne responsabili; inoltre effetti collaterali e imprevedibili scaturiscono dall’agire illimitato della tecnica.
Di fronte a questa situazione, i modelli di etica del passato non bastano più. Non c’è più spazio per un’etica fondata sull’essere o sulla “natura” dell’uomo; ma va elaborata una morale che sia davvero all’altezza della mutata condizione dell’agire umano nell’epoca della tecnica. Vanno ripensate le nozioni fondamentali dell’etica. Questo è ciò che hanno iniziato a fare le ETICHE APPLICATE partendo dai vari campi dell’azione che in epoca recente hanno visto cambiare i loro tradizionali punti di riferimento. Sono nate nuove discipline allo scopo di approfondire e valutare l’impatto delle nuove tecnologie sui vari ambiti della nostra vita: la bioetica, l’etica sociale, l’etica della comunicazione.
In tutti questi casi il concetto di “applicazione” indica il terreno concreto da cui nascono le domande relative ai nostri comportamenti.
Nel campo delle etiche applicate non si ha a che fare con il meccanico utilizzo di criteri generali di comportamento; ma al contrario si opera essendo costantemente consapevoli che solo su un terreno particolare possono emergere questioni capaci di mettere in crisi anche i principi universalmente validi.
Emerge un circolo virtuoso fra il livello sempre circoscritto delle etiche applicate e quello ben più ampio dell’etica generale; le etiche applicate, che all’etica generale richiedono una giustificazione ultima, consentono di mettere alla prova tali paradigmi e ne forniscono un’adeguata contestualizzazione.

 

Capitolo 2° - Che cos’è l’etica della comunicazione?

Nell’ambito delle etiche applicate rientra anche l’etica della comunicazione, una disciplina nata nella seconda metà del 900, sebbene l’attenzione per gli aspetti etici del linguaggio sia antica quanto la filosofia.
Nella riflessione contemporanea l’etica della comunicazione ha trovato importanti sviluppi nell’area culturale anglo-americana. In Italia, queste tematiche sono arrivate in ritardo, ma negli ultimi decenni si è recuperato il tempo perduto, anche grazie a indagini provenienti dal campo dagli studi della comunicazione di massa.
Perché sembra oggi indispensabile sottoporre i processi comunicativi ad un vaglio etico? Oggi, nel mondo dominato dai mezzi di comunicazione di massa, vige una disattenzione per le regole e i principi e sembra che nell’ambito comunicativo domini uno scarso rispetto per l’ascoltatore (considerato come un bersaglio da colpire), un’insufficiente attenzione per le esigenze che provengono dalle varie fasce di utenti (tutti subordinati indistintamente ai meccanismi della pubblicità) e un abuso dei mezzi d’informazione. Emerge quindi un bisogno di etica.
Diviene urgente mostrare che nei processi comunicativi è necessario riferirsi ad alcuni principi di comportamento e che tali principi devono risultare universalmente condivisibili: debbono configurarsi come validi in generale.
Molti sono i principi condivisi ai quali è fatto riferimento nell’esercizio della prassi comunicativa: dal criterio dell’utilità (dominante nelle comunicazioni di massa), al criterio della condivisione (dominante nelle relazioni interumane che mirano al raggiungimento di un’intesa).
Il compito dell’etica della comunicazione consiste nel fondare in termini filosofici ciò che può essere detto “buono” in un senso morale e di motivare all’adozione dei comportamenti comunicativi che lo promuovono.
Vi è la consapevolezza che tali principi non sono scelti da nessuno ma che vengono subiti sia dagli operatori che dagli utenti; essi risultano interni ad una logica che finisce per autoalimentare i processi della comunicazione e che è caratterizzata dall’intreccio di una certa idea di comunicare.
La condizione in cui si trovano ad agire gli operatori della comunicazione, ma nella quale anche noi stessi viviamo, sembra essere quella di una diffusa irresponsabilità. Si ha la consapevolezza che facendo comunicazione rischiamo di non essere più soggetti morali. Questo ci impedisce di adeguarci ai principi di comportamento che sono impliciti nei meccanismi della comunicazione. Questo ci motiva a elaborare un’etica della comunicazione come disciplina filosofica autonoma: il fine è di riappropriarci delle nostre responsabilità.

Che cos’è in generale l’etica della comunicazione?
L’etica della comunicazione è la disciplina che individua, approfondisce e giustifica quelle nozioni morali e quei principi di comportamento che sono all’opera nell’agire comunicativo, e che motiva all’assunzione dei comportamenti da essa stabiliti.
Da un lato l’etica della comunicazione si configura al pari delle altre etiche applicate come la messa in opera di quei principi morali che l’etica generale è deputata a fissare ed elaborare. Dall’altro lato nel corso del 900 la nozione di “agire comunicativo” ha acquisito un ruolo emblematico e determinante. Ciò è avvenuto in 2 modi:
1)E’ emerso che quando si parla di comunicazione si ha a che fare con un atto, con qualcosa di dinamico e non già con un fatto che si compie seguendo una forma standard, fissa. Il comunicare non appartiene all’ambito della natura, ma alla sfera della possibilità. Si apre una prospettiva di ricerca che considera la comunicazione come un agire e ne analizza processi e scopi.
2)La consapevolezza di tale autonomia all’interno della comunicazione, ha comportato la “svolta comunicativa” della filosofia contemporanea: il riconoscimento della funzione paradigmatica che gli studi sulla comunicazione assumono nei confronti delle altre discipline che si occupano del linguaggio, ma soprattutto l’assunzione del ruolo fondamentale che l’attività del comunicare gioca all’interno del pensiero umano.

L’etica della comunicazione, in quanto etica applicata, fornisce le condizioni che consentono di giustificare comportamenti universalmente riconosciuti come morali.

Che cosa significa comunicare?
La definizione classica del termine “comunicazione” dice che: “comunicare significa trasmettere pensieri, idee, notizie, informazioni, dati (messaggi) ad altri”.
“Comunicare” significa “trasmettere”.
TERIA STANDARD: la comunicazione viene vista come un rapporto unilaterale fra un emittente ed un destinatario, il quale è colui che riceve un messaggio. Tale messaggio è a sua volta trasmesso in virtù di un contatto (canale) fra emittente e ricevente, che si configura secondo un codice (lingua) e si riferisce ad un contesto. Roman Jakobson è stato il primo a riferirsi a questa concezione, facendo riferimento alla teoria dell’informazione sviluppata nel secondo dopoguerra da Claude Shannon. Lo scopo di Shannon era di ricercare il modo più efficiente per trasmettere i segnali, evitando ambiguità, disturbi e rumori di fondo. Jakobson applica questa teoria all’ambito della linguistica e la trasforma in un modello suscettibile di essere esteso ad ogni dimensione comunicativa.
Fare “buona” comunicazione significa trasmettere in maniera efficiente, ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, eliminare tutto ciò che provoca rallentamenti, disturbi, ridondanze, ambiguità.
La comunicazione pubblicitaria è divenuta un esempio paradigmatico della comunicazione àin essa un messaggio formulato in maniera allettante viene trasmesso da un emittente a un ambito di potenziali riceventi. Il messaggio è reso persuasivo facendo intervenire un testimonial. Chi è destinato a ricevere il messaggio viene definito target. Una pubblicità è buona quando risulta efficace, quando raggiunge il proprio bersaglio con il minor numero di errori e con il minor spreco di risorse. La comunicazione pubblicitaria costituisce un’esemplificazione del modello standard.
Comunicare bene significa comunicare in maniera efficace ed efficiente. Tale consapevolezza cioè la presenza di altri paradigmi oltre a quello della trasmissione di un messaggio da un emittente ad un destinatario, induce a ridimensionare la convinzione dell’universale applicabilità del modello standard a ogni ambito della nostra esperienza.
Bisogna identificare una specifica forma di comunicazione che stia alla base della teoria standard e a cui vadano riferiti i vari processi comunicativi sia per quanto riguarda il loro senso, sia per quel che concerne i loro principi etici di riferimento. 
Questo modello basilare è quello per cui comunicare significa dischiudere uno spazio comune di relazione fra interlocutori.
Comunicare non è fornire informazioni; “informare” significa trasmettere contenuti, recapitare messaggi. Ma nell’ambito comunicativo avviene qualcosa di più,, che va oltre il mero scambio di notizie.
Nell’informare il passaggio di notizie da un emittente ad un destinatario non risulta mai diretto: l’emittente per colpire il suo target, deve tener conto della reattività del destinatario. Il destinatario interviene su quanto gli è stato trasmesso dall’emittente, interpreta il messaggio che gli viene inviato, si relaziona ad un contesto che può diventare sempre più condiviso à il ricevente ha sempre diritto di risposta. Qui sta la differenza tra il modello dell’informazione e quello della comunicazione:
-Infomazione: iniziativa sempre dell’emittente, feedback considerato successivo all’impulso prodotto e conseguente ad esso.
-Comunicazione: interazione possibile sempre e in ogni momento, caratterizzata da una simultaneità. Il feedback è previsto fin dall’inizio. È presente un coinvolgimento nel quale ogni parlante è considerato interlocutore che coopera.
Il termine “comunicazione” deriva dal latino “communicatio” che indica il mettere a parte, il far partecipe altri di ciò che si possiede.
“Comunicazione” non è linguaggio. Il linguaggio da un lato permette di mettere in relazione e dall’altro costringe a separare coloro che sono coinvolti nei suoi processi. Il linguaggio si rivela al tempo stesso “organo” e “ostacolo” della comunicazione. Mentre il linguaggio è occasione sia di collegamento che di separazione, nella dinamica del comunicare c’è sempre l’intenzione di raggiungere un’intesa.
Nel comunicare è racchiuso il compito etico di riconfermare la possibilità d’intesa già implicita nella dinamica della linguistica. L’esigenza di un’etica della comunicazione nasce proprio in virtù di questo collegamento rispetto alla separazione che ha nel comunicare la sua effettiva condizione di possibilità.

Ci sono vari modi di creare uno spazio comune tra gli interlocutori e ci sono vari modi per gestire , con l’ausilio del linguaggio, questo spazio. I modi principali sono 3, e sono articolazioni dell’etica della comunicazione:
1)APPROCCIO DEONTOLOGICO: riguarda le varie categorie professionali di comunicatori. Il termine “deontologia” rimanda alla sfera del dovere nella misura in cui è prescritto da un’istanza riconosciuta come normativa. Con l’emergere dell’aspetto deontologico si delinea l’esigenza di una regolamentazione dei processi comunicativi. Storicamente questa esigenza era stata avvertita da categorie professionali quali giornalisti, comunicatori…che aveva bisogno che venissero stabiliti limiti precisi per l’attività che essi erano chiamati a compiere. Tali limiti debbono risultare da un’autoregolamentazione che viene compiuta all’interno degli ambiti professionali coinvolti.
Nascono i vari codici deontologici, ossia quelle indicazioni di comportamento per gli operatori della comunicazione nelle quali viene stabilito ciò che è lecito e ciò che non è lecito fare nell’esercizio di tale professione; vengono anche indicate le sanzioni previste per i trasgressori.
Tuttavia l’applicazione di questi codici deontologici con relative sanzioni non costituiscono un valido deterrente per evitare i comportamenti scorretti.
L’approccio deontologico risulta circoscritto a coloro che si riconoscono in una particolare categoria. Il limite dei codici è inerente alla loro stessa natura. Con il riferimento ad essi si ritiene di poter fornire una risposta giuridica a questioni di carattere etico. Le questioni etiche che concernono la libertà e la responsabilità dell’uomo non possono ricevere risposte provenienti da un ambito diverso. Ecco perché bisogna elaborare una etica della comunicazione capace d’interessare non solo gli addetti ai lavori, ma tutti coloro che sono coinvolti nei processi comunicativi.
Ciascun interlocutore risulta caricato di una responsabilità, nel senso che si riconosce vincolato a prescrizioni provenienti dall’area professionale a cui appartiene e trova in se stesso la motivazione del proprio agire. Introducendo la nozione di “responsabilità” arriviamo al terreno dell’etica.
Il termine “responsabilità” è legato al verbo “rispondere” in particolare “rispondere a” qualcosa o qualcuno e “rispondere di” qualcosa o qualcuno.
Nel caso del “rispondere di”, non replico ad un’iniziativa altrui, ma sono io che mi faccio carico di un potere nei confronti di qualcuno/qualcosa. Sono io che con la mia iniziativa mi rapporto a qualcosa d’altro su cui sono in grado di incidere.
Storicamente tale atteggiamento è stato pensato nei termini dell’agire secondo cause. Il vocabolo greco “aitia” esprime questa forma di responsabilità nei confronti di uno stato di cose.
Dal 600 viene considerata decisiva la “causa efficiente” per cui qualcosa provoca effetti su qualcos’altro. Ciò che conta è il nostro potere d’agire su una situazione, dando il via ad uno specifico processo. Noi siamo responsabili in quanto siamo in grado di dare inizio a qualcosa. Emerge il nesso tra responsabilità  e libertà. Un soggetto libero è responsabile moralmente oltre che tecnicamente. Il legame tra responsabilità e libertà viene approfondito da KANT con il concetto di “imputabilità”; infatti c’è una differenza d’intenzione tra l’essere responsabili di qualcosa e l’aspetto giuridico e morale di questa responsabilità. C’è l’idea di una causalità non solo meccanica che deve accompagnarsi con la libertà. Negli anni Kant arriva a questo con la “Critica della ragion pratica”. Io sono capace di dare avvio, in maniera autonoma a un processo che io ho in carico, perché posso determinare le conseguenze delle mie azioni.
Il significato che assume l’essere imputabile è dato dalla presenza di un’istanza superiore, e solo se le mie scelte vengono sottoposte al vaglio di una tale istanza che le giudica, posso comprendere la mia responsabilità morale.
Questa istanza può assumere varie forme: può essere connotata religiosamente, oppure identificarsi con un complesso di principi socialmente e culturalmente assunti; può trovare sanzione giuridica o essere riconosciuta dalla coscienza morale.
Si è responsabili perché si accetta di rispondere con i propri atti a ciò che si riconosce come vincolante. Questo elemento vincolante è ritenuto capace di annunciarsi e d’interpellarmi richiedendo da me una risposta. Si è responsabili perché si accetta di sottoporsi a un vincolo.
Emergono 2 tipi di responsabilità:
A)la responsabilità del soggetto che da inizio ad un processo
B)la responsabilità di colui che liberamente assume qualcosa che non dipende da lui.
Da un lato spesso ci sentiamo deresponsabilizzati di fronte a ciò che non dipende da noi e dall’altro rivendichiamo la nostra responsabilità per tutto ciò che ancora riteniamo di poter fare.
Una soluzione può essere data facendo leva sui sensi di responsabilità. Infatti da un lato possiamo ritenere di essere responsabili solo di ciò che è in nostro potere e dall’altro possiamo rispondere anche di ciò che non lo è decidendo di ritenerci vincolati a quanto s’impone come orizzonte morale, sia assumendo in prima persona un insieme di eventi che non siamo noi a provocare.
Questo vale se il concetto di responsabilità viene assunto come indice del fatto che non tutti i problemi concernenti l’agire dell’uomo possono essere risolti mantenendosi nekl rispetto della semplice legalità, vi è in fatti un livello morale.

2)ETICA DELLA COMUNICAZIONE: l’inserimento di ciascun interlocutore nei processi comunicativi non rappresenta una scusante per esimersi dall’adottare un comportamento morale. È vero che non possiamo essere ritenuti responsabili di tutto ciò che facciamo, ovvero ne siamo responsabili in un senso causale ma non ci riteniamo tali in un senso morale, dal momento che non è da noi ce dipendono né quella situazione comunicativa né quel complesso stato di cose che abbiamo di fronte.
Tale idea sarebbe giustificata se la responsabilità causale coincidesse con quella morale ovvero se valesse solo l’aspetto della condizione e non quello della libera scelta.
Tutti gli interlocutori non possono essere considerati ingranaggi del meccanismo comunicativo; infatti che è all’interno di una dimensione comunicativa agisce in maniera eticamente responsabile e deve avere idea di cosa sia “buono”. Deve sapere il significato che assumono le nozioni morali più frequentemente utilizzate come “buono” “giusto” “virtuoso”.
Emerge la domanda al perché si debba seguire criteri morali di un certo tipo; si delinea la questione del senso, della motivazione, del coinvolgimento morale.
Se si deve giustificare la scelta tra i modelli etici di fondo, sulla cui base ogni comportamento morale può essere regolamentato, allora bisogna muoversi a livello dell’etica generale.

3)ETICA NELLA COMUNICAZIONE: forma elaborata di recente da Apel e Habermas. Il loro progetto è caratterizzato dall’intenzione di rinvenire all’interno dello stesso ambito comunicativo, criteri e principi etici che pretendono di avere una validità universale. L’analisi del discorso infatti è capace di evidenziare, al suo interno, specifici vincoli normativi. Vi sono aspetti decisivi che assumono il carattere di obbligo morale, dato che tali obblighi sono riconosciuti da ogni soggetto razionale e che quindi è possibile elaborare un’etica generale.
APEL: il primo a sostenere che vi è una normatività morale all’interno dell’atto comunicativo. Tali principi sono quelli della giustizia (uguale diritto a tutti i possibili partner del discorso all’impiego di ogni atto linguistico utile all’articolazione di pretese di validità in grado di ottenere consenso), della solidarietà (valida per tutti i componenti della comunità attuale riguardante il reciproco appoggio e dipendenza nel quadro di un comune intento di una soluzione argomentativa dei problemi), e della corresponsabilità (che vincola i partner della comunicazione allo sforzo solidale per l’articolazione e la soluzione di problemi).
Ciascun interlocutore è considerato agente razionale ed emerge un a possibilità di comportamento conforme ai criteri che regolano l’interazione comunicativa e che ne decretano la riuscita.
HABERMAS: parte da una trattazione dei concetti di “azione” e di “razionalità” all’interno della quale l’agire comunicativo si configura per la sua aspirazione all’intesa e per l’identificazione del linguaggio come luogo in cui una tale intesa si può realizzare.
Habermas perviene all’elaborazione di una sua etica del discorso in cui sono indicati i principi che consentono di effettuare un accordo razionalmente motivato quando devono essere affrontate questioni pratico-morali controverse.
Il principio di universalizzazione (U) prevede che ogni norma valida deve conformarsi alla condizione che le conseguenze e gli effetti collaterali che risultano dalla sua osservanza universale, possano essere accettati senza imposizione di tutti gli interessati.
A ciò si ricollega la formula essenziale (D) dell’etica del discorso per cui ogni norma valida dovrebbe poter trovare il consenso di tutti gli interessati purchè questi partecipino ad un discorso pratico.
Il problema che emerge riguarda l’individuazione da parte di un soggetto razionale del legame che dovrebbe istituirsi fra i vincoli etici insiti nel discorso e il loro effettivo riconoscimento da parte dei vari parlanti.
Per il funzionamento di un’etica nella comunicazione il momento dell’elaborazione delle norme morali messe in opera nel discorso quotidiano non può essere disgiunto dalla percezione di esse, dal loro riconoscimento.
Di fronte a tali problemi rischia di restare senza risposta la domanda relativa al senso del nostro agire morale, ossia il nostro volerci conformare a ciò che risulta già inscritto nel funzionamento dell’argomentare comunicativo.
La condizione di possibilità che è stata identificata nel funzionamento del linguaggio va concretamente attivata. Si delinea quello spazio di libertà all’interno del quale ciascuno di noi è in grado di essere fedele o meno alle possibilità etiche del linguaggio e di ricercare le motivazioni e il senso che giustificano una tale fedeltà.
Sia Apel che Habermas non sembrano in grado di dare la motivazioni che stanno alla base dell’utilizzo concreto dei principi dell’etica della comunicazione e dell’etica del discorso.

 

Capitolo 3° - Modelli di etica della comunicazione

 

Bisogna capire quale, fra i modelli etici individuabili, è in grado più degli altri di giustificare il concreto agire comunicativo.
I modelli in questione sono 5; ogni modello troverà negli altri la condizione del suo approfondimento e tutti, potranno avere nell’idea di una comunità della comunicazione lo sfondo generale che è in grado di legittimarli. La tesi per cui, comunicare significa creare uno spazio comune, sarà l’idea-guida.

 

I CINQUE MODELLI DELL’ETICA DELLA COMUNICAZIONE:

 

1)IL COLLEGAMENTO PRIVILEGIATO ALLA “NATURA” DELL’UOMO
Esempio dell’uomo politico: il mentire è considerato insito nelle strategie di comunicazione dell’uomo politico, se vuole avere successo. L’ottimo uomo politico sarà quello che dice bugie con più naturalezza. In ogni caso la menzogna risulta qualcosa di connaturato all’uomo in quanto l’uomo risulta per natura “malvagio” e portato a dire bugie.
La tesi che l’uomo è per natura mentitore in quanto malvagio (es. politico), è il rovesciamento di un assunto altrettanto diffuso in filosofia: per il quale l’essere umano è “buono” per natura ed è portato a realizzare il bene per sé e insieme per gli altri uomini.
Queste due tesi fanno riferimento alla natura dell’uomo, da questo punto di vista l’uomo è considerato in possesso per sua natura, di alcuni caratteri che possono favorire una comunicazione che si svolge da un lato, secondo i principi morali di un certo tipo, e dall’altro secondo criteri del tutto differenti.
Si può fondare un’etica della comunicazione sull’assunto della bontà della natura umana oppure si può rinunciare a farlo movendo da una concezione egoistica dell’uomo stesso. Tutto dipende da come viene considerata la natura dell’uomo.
Chi sostiene che l’etica della comunicazione si radica nella “buona” natura dell’uomo, può intendere l’impulso al bene come una tendenza naturale. Quindi qualcosa non solo è buono perché appartiene alla natura umana, ma viene concepito come tale perché questa natura stessa è buona.
Si può dire che qualcosa è “buono” o meno solo a partire da una valutazione previa dell’essere. Se questo essere questa natura sono ritenuti “buoni”, ne discende la bontà di tutti gli atti che vi si conformano; se sono assunti come malvagi, compito dell’uomo è quello di contrastarli.
L’essenza, la natura, l’essere di qualcuno o di qualcosa, lo si considera caricato di valore e si giudica di conseguenza “buono” o “cattivo” tutto ciò che si conforma o meno ad esso. In tal mondo il giudizio di valore finisce per legarsi a una ben precisa concezione dell’essere.
Questo modello è stato elaborato dal pensiero antico in particolar modo da Platone e da Aristotele.
In questo modello non viene affrontata una delle questioni fondamentali concernenti l’agire morale, quella del rapporto fra l’azione concreta e l’orizzonte motivazionale.

2)IL DIALOGO QUALE MODELLO ETICO DI COMUNICAZIONE/MODELLO DIALOGICO
il dialogo costituisce il paradigma di ogni rapporto comunicativo, nella misura in cui, dialogando, l’interlocuzione viene a realizzarsi nella maniera più adeguata.
Affinché possa esserci dialogo, ogni dialogante sa che la sua posizione non è mai assoluta, immodificabile. Deve esserci la capacità di aprirsi a ciò che l’altro mi può dire. Se non c’è questa apertura, non si ha vero dialogo. Per dialogare dobbiamo essere disposti all’ascolto. Il modello dialogico diviene il paradigma di ogni comunicazione eticamente connotata.
Dialogando ognuno si espone all’altro: solo così è in grado di diventare se stesso e non per sua volontà, ma perché nel suo dire qualcosa di vero accade sul serio.
Questo modello ha riscosso molto successo fra gli autori del 900, per i quali pensare significa comunicare e comunicare vuol dire dialogare. Nel dialogo si attua nel modo migliore quella relazione che unisce gli uomini fra di loro e nel caso degli autori che assumono una prospettiva religiosa, il rapporto dell’uomo con Dio.
Dalla riflessione, sul versante teologico, di Buber emerge che il Dio della Bibbia è colui che crea sia le cose che l’uomo con la parola e che sempre con la parola rivela all’uomo chi è e cosa vuole che l’uomo faccia. Il dialogo fra Dio e l’uomo diviene il modello di ogni rapporto: sia quello che può legare gli uomini fra di loro, che quello che unisce l’uomo al mondo in generale.
Comunicare bene significa rivolgersi a un tu, promuovere un rapporto fra tutti coloro che sono capaci di parola, trasformare ogni relazione fra un io e un esso (una relazione a senso unico), in un legame fra interlocutori.
Nella struttura del dialogo sono racchiusi alcuni principi di comportamento: l’attenzione e il rispetto per l’interlocutore, l’ascolto delle sue ragioni, la costruttiva intenzione trovare un accordo.
Tuttavia, all’interno di questo modello non viene giustificata la motivazione che mi spinge, nell’interazione comunicativa, a optare per il dialogo.
Perché debbo dialogare?? I teorici del dialogo danno 2 risposte a questa domanda:
-Bisogna dialogare perché è Dio, che per primo si rivolge all’uomo adottando forme dialogiche
-La natura dell’uomo risulta capace di dialogo e nel dialogo trova la sua piena realizzazione
entrambi gli esiti sono difficilmente sostenibili sul piano filosofico.

3)IL PARADIGMA RETORICO DEL RIFERIMENTO ALL’AUDIENCE
La buona comunicazione è quella che viene incontro all’interlocutore, quella che tiene conto in primo luogo dell’audience. Comunicare bene significa conformarsi alle esigenze dell’interlocutore.
Se finora l’etica della comunicazione era soprattutto caratterizzata da una fedeltà e se stessi in quanto soggetti comunicativi e dalla disponibilità ad andare davvero oltre se stessi, con questo modello s’impone il criterio di fedeltà all’interlocutore: si salvaguarda il diritto non solo di chi parla, ma soprattutto di chi ascolta.
Nel nostro rivolgerci agli altri, è insita la tendenza a uniformare ciò che diciamo a quelle che sono le categorie di comprensione.
Bisogna ripesare alla nozione di “retorica”: la “buona” retorica è quella in cui si ha l’intenzione di regolare il proprio discorso a partire dalle esigenze dell’audience che devono essere subordinate all’idea di dire la verità; “cattiva” retorica è quella in cui l’interesse per l’interlocutore risulta prioritario indipendentemente dal contenuto del comunicato à scopo del comunicare rischia essere solo quello di persuadere, che rende inutile ogni attenzione ai contenuti.
Nel testo “La Retorica” di Aristotele, viene evidenziato il rapporto tra retorica ed etica infatti nel misura in cui l’ascoltatore è un interlocutore capace di decidere, compito del discorso retorico è quello di mettere in opera l’adeguato modello di persuasione conforme a ciascun argomento.

4)IL CRITERIO DELL’UTILITà
Il principio supremo dell’agire morale promuove la diffusione di una prospettiva che può diventare universalmente condivisa. Questa ricerca di principio universale, è oggi criticata perché tale principio sarebbe incapace di dar voce alle istanze specifiche che provengono da mondi e realtà differenti. Al posto di una dimensione condivisa, proliferano concezioni che rivendicano la loro particolarità. L’imporsi di tale scenario, oggi spaventa. Tali istanze infatti hanno iniziato a manifestarsi in modo violento.
Sembra venir meno ogni possibilità di comunicazione e restare spazio solo per la forza.
Qual è il criterio morale cui si richiamano tutte queste posizioni? Il principio dell’utile individuale. Ciò che si ritiene utile per se può risultare in conflitto con altre istanze, anch’esse volte a perseguire un utile particolare.
In ogni caso, l’utile di cui si fa portavoce una parte o un gruppo non potrà mai essere realmente partecipato da tutti i soggetti morali, non potrà mai diventare patrimonio comune, perché qualcuno ne verrà escluso.
La mediazione dei vari interessi parziali non viene giustificata da un punto di vista etico, ma è demandata a un piano giuridico; quindi la mediazione è regolata sulla base di sanzioni che possono colpire chi trasgredisce norme imposte dall’esterno.
Il principio dell’utile richiede di essere giustificato da un punto di vista teorico, per poi assumere forma universale. Sorge così la dottrina dell’utilitarismo, per la quale tutti gli uomini sono indotti ad agire spinti dal perseguimento dell’utile. “Utile” significa ciò in cui si realizza la felicità individuale, l’appagamento di se.
Nell’utilitarismo questa tendenza alla felicità è considerata l’elemento che contraddistingue ogni soggetto morale. Compito dell’utilitarismo è individuare il modo in cui la ricerca della felicità del singolo può condurre all’affermazione dell’utile collettivo. Tale scopo viene raggiunto analizzando cosa fa felice ciascun individuo all’interno di una società, sommando poi i diversi desideri che egli esprime e scoprendo il meccanismo che consente di rendere felici oltre a lui, il maggior numero possibile di persone.
L’utilitarismo sostiene che l’universale tendenza dell’uomo a perseguire il proprio utile viene identificato con la propria felicità.
La storia dell’utilitarismo classico ci mostra come il principio dell’utile può anche essere interpretato non solo in una prospettiva egoistica, ma anche e soprattutto tenendo conto fin dall’inizio dell’idea di “utile collettivo”.
Il compito dell’utilitarismo nell’etica della comunicazione, è quello di promuovere il bene più grande per il maggior numero di persone e per il tempo più lungo possibile.

5)IL PRINCIPIO DELLA COMUNITA’ DELLA COMUNICAZIONE
Questo modello è in grado di motivare e giustificare il concreto agire comunicativo, partendo dal fatto che comunicare significa aprire uno spazio comune fra gli interlocutori.
Questo modello si rifà al principio della comunità della comunicazione, e il primo ha elaborato questa dottrina è Apel.
TESI DI APEL: all’interno dell’ambito comunicativo, nell’esercizio stesso della comunicazione, è possibile vedere all’opera principi morali precisi. Essi sono, la norma fondamentale della giustizia, della solidarietà e della corresponsabilità. Tutte e tre si annunciano ogni qualvolta viene fatta esperienza di una relazione nella quale gli interlocutori sono in grado di argomentare e di presentare il proprio discorso in forme condivisibili da tutti. Per Apel ogni parlante è membro di una comunità illimitata della comunicazione, e ciascun interlocutore non può aggirare i principi che sono all’opera nell’esercizio del comunicare. Così come risulta inaggirabile la comunicazione, lo sono anche i criteri morali che intervengono di volta in volta a regolarla.
Le norme fondamentali della comunità della comunicazione da un lato sono già sempre state riconosciute e dall’altro, noi in quanto argomentanti, le imponiamo a noi stessi, come a tutti i partner del discorso, in un atto di autonoma autolegislazione.
Apel non sembra dare una risposta univoca al problema del senso del comportamento morale di ciascun interlocutore, e non sembra stabilire perché il singolo individuo, in quanto comunica, può assumere decisioni etiche.
In ogni caso, a differenza di quanto accade in Apel, la conferma della prospettiva possibile di un’etica della comunicazione non deriva dall’inaggirabilità di un principio astratto come quello della comunità illimitata della comunicazione.

L’etica nella comunicazione propone un modello di ricostruzione e di fondazione dell’etica generale e offre anche la giustificazione di questi criteri che consentono di definire che cosa significa “buono”, sia di promuovere e praticare il bene.
Apel e Habermas ci aiutano a elaborare un’etica della comunicazione fondata, un’etica comunicativa.
Ciò che Apel considera un compito che ciascun parlante deve assumersi, è opportuno che venga trasformato in una possibilità, in un’occasione nella quale i principi insiti nell’agire comunicativo sono applicati alle situazioni vissute di volta in volta dagli interlocutori; questi ultimi hanno la libertà di scegliere se realizzare o meno ciò che risulta già insito nella capacità di comunicare.
La scelta etica fondamentale davanti cui è posto chiunque comunica, concerne la possibilità di essere fedeli o meno ai principi etici che sono propri dell’atto comunicativo.

Gli altri modelli di etica della comunicazione pretendono:
-una fedeltà a se, ovvero alla propria “natura”;
-la disponibilità, nel dialogo a rischiare se stessi per cercare l’intesa con l’altro;
-l’intenzione di adeguarsi a ciò che l’interlocutore si attende da noi;
-la sollecitazione a conformarsi a quel principio dell’utile che è valido nel caso singolo ma che insieme ripropone anche in una dimensione sociale.
Questi modelli non riescono a risolvere il problema del senso.
Qual è il senso, la motivazione che mi spinge a comunicare “bene”? la risposta viene data partendo dall’idea di un comunicare inteso come creazione di uno spazio comune.
È possibile identificare un paradigma generale di etica della comunicazione capace di fornire a ogni interlocutore un orientamento. Siamo portati a riconoscere una serie di implicazioni etiche che spingono a privilegiare il legame rispetto alla separazione, e che tendono a trasformare il linguaggio in occasione di intesa piuttosto che di fraintendimento.
I criteri del comunicare non dipendono da una qualche essenza previamente fissata, ma dalla strutture stessa della comunicazione, concepita nel suo aspetto funzionale, dinamico, tra le da richiedere qualcuno che lo realizzi.
Siamo posti di fronte ad una scelta precisa: dobbiamo decidere da un lato fra la possibilità di compartire con gli altri ciò che dico e ciò che posso argomentare, e dall’altro l’ipotesi di rifugiarsi in uno spazio d’incomprensione che risulta voluta. Rispetto a questa scelta si presenta la questione del senso. L’ambito della motivazione, è l’ambito dell’etica, nella misura in cui in essa e sempre in gioco la libertà dell’uomo. Nella sfera comunicativa, la decisione per l’intesa non è una scelta arbitraria, ma è fondata sulla struttura stessa del linguaggio.

 

Capitolo 4° - L’etica della comunicazione oggi

Non possiamo non comunicare. Ma possiamo comunicare bene o male. All’interno del contesto comunicativo si apre un ambito di scelte e nasce l’esigenza di un’etica della comunicazione.
Bisogna approfondire i modi differenti in cui l’impegno etico si può presentare, da un lato nell’agire comunicativo quotidiano, dall’altro nell’attività di coloro che fanno della comunicazione il loro mestiere. Bisogna mettere in luce le indicazioni morali con cui si confrontano per un verso gli operatori della comunicazione, e per l’altro ogni potenziale interlocutore.
Possiamo considerare i nostri comportamenti secondo due aspetti:
-mettendoci alla ricerca di un’etica che viene elaborata rispetto alla sfera della comunicazione à tutti quelli che si rapportano in maniera professionale o no all’agire comunicativo
-tentando di identificare regole e criteri atti a orientarci nell’ambito della comunicazione stessa à coloro che operano nell’ambito dei media.

Etica della parola, etica della scrittura, etica delle professioni comunicative:
Chi parla, chi scrive vuole essere creduto. Chi ascolta, chi legge ha una disposizione a credere. Chi parla e chi ascolta risultano entrambi legati da un rapporto di fiducia. Chi parla si presenta come credibile e dev’essere in grado di esibire le credenziali di questa sua credibilità à fenomeno della testimonianza.
SCRITTO: con l’esercizio della scrittura viene meno il coinvolgimento diretto che lega parlante ed ascoltatore. Nel rapporto fra gli interlocutori si intromettono le parole scritte. Di fronte allo scritto viene meno la responsabilità di chi si esprime.
Allo stesso modo in cui c’è un’etica della parola, c’è un’etica della scrittura, che ha la capacità di individuare i modi in cui il legame della comunità della comunicazione si ripropone a vari livelli di mediazione, messi in opera dalla presenza del segno scritto che fa da intermediario fra gli interlocutori.
La dimensione della fiducia e della credibilità è ciò che è chiamato a custodire chiunque comunica, nei vari modi in cui lo fa e in conformità con le competenze che ha acquisito.

QUESTIONE DELLA VERITA’: rappresenta un problema per chiunque voglia elaborare un’etica della comunicazione.
A livello filosofico, appare il dibattito sulla questione della verità, avvenuto alla fine del 700 tra Constant e Kant; Constant presta attenzione alle conseguenze di cui è responsabile chi dice la verità mentre Kant considera il dire la verità come un principio incondizionato.
Bisogna distinguere tra “verità” e “veridicità”. La verità è definita in termini di una corrispondenza tra ciò che dico e ciò che è; mentre la veridicità chiama in causa un altro tipo di corrispondenza, quella fra ciò che penso e ciò che dico.

 

GIORNALISTA: si dice che la comunicazione sia un fattore di democrazie e di umanità. I giornalisti contribuiscono con la loro attività a salvaguardare questa sfera pubblica.
Oggi alcune società democratiche pur di proteggere questo legame comunitario, sacrificano l’obiettività, la correttezza, la verità; lo fanno anche i giornalisti che dovrebbero invece rispondere all’opinione pubblica. Così l’informazione rischia di essere subordinata alle esigenze della propaganda.
In molti altri casi l’esigenza di coesione ha preso il sopravvento sulla correttezza dell’informazione. Il giornalista non può essere obiettivo in quanto le notizie le da all’interno di una determinata ottica. Il giornalista non rispecchia il mondo ma lo interpreta. Anche in campo giornalistico il riferimento alla deontologia professionale risulta indispensabile; ma non è sufficiente in quanto solo in Italia esistono molti codici deontologici, ma ci sono problemi che investono la nostra informazione: manipolazione della realtà, sovrabbondanza delle informazioni, mercificazione delle notizie..

TELEVISIONE: la televisione ha la capacità di creare verosimiglianze, di moltiplicare immagini, di ampliare le possibilità di pensare. Nella tv realtà e irrealtà si confondono: tutto è finzione e tutto risulta “vero”. Ciò che si vede si offre nella sua immediatezza e si crede che corrisponda a qualcosa di reale. Quindi si insinua il giudizio morale per il quale ciò che non si vede, allora non esiste.
Nulla sfugge alla spettacolarizzaione e se tutto è spettacolo viene meno la distinzione fra realtà e apparenza.
Anche per quanto riguarda la televisione sono stati elaborati codici deontologici, ma non bastano perché bisogna lavorare sul senso di responsabilità del giornalista.

INTERNET: le tecniche della comunicazione hanno modificato il rapporto con gli altri uomini e con il mondo. Le domande etiche devono quindi riguardare anche la configurazione dei nuovi media, i cambiamenti che possono esercitare sull’uomo e sul mondo. Si viene a creare uno spazio virtuale.
“Virtuale” è il potenziamento della realtà: esprime quella possibilità dell’uomo che le nuove tecnologie danno il potere di realizzare. “buono” sarebbe ogni mezzo che consente la realizzazione di se e dei propri desideri. Ma s’annuncia il problema che il virtuale, sta creando una crescente virtualizzazione del reale, ossia portando ad una perdita di consistenza dell’esistente. La realtà viene decostruita e si trasforma in apparenza.
Nasce l’etica in Internet” ossia quell’insieme di comportamenti che possono essere adottati quando si utilizzano le possibilità del web e quando si naviga in rete. Nascono i codici di regolamentazione, ma questo insieme di criteri richiede la presenza di un moderatore in grado di sanzionare le trasgressioni. Nel web non è possibile dal momento in cui Internet non è gestito da un supervisore unico e quindi ogni utente è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità e trova in se stesso le motivazioni che lo inducono a seguire un comportamento corretto.
Anche per regolamentare l’agire all’interno della rete non bastano i codici. Bisogna fornire le motivazioni e stabilire perché bisogna compiere determinati atti piuttosto che altri à compito dell’etica in Internet.

Le tendenze in atto sono di tale portata che è difficile pensare che si possa incidere su di esse. L’etica in ambito comunicativo risulta disattesa.
TESI QUESTO LIBRO: lo steso atto comunicativo può risultare, nelle sua varie forme, un atto etico.

Perché scegliere il modello di etica elaborato da Apel e Habermas?
Perchè vede la comunicazione come un’apertura di spazio comune condivisibile, volto alla creazione di un legame capace di espandersi indefinitamente, fino a configurarsi come virtualmente universale. Questa possibilità è insita nella struttura del com’unire, è data dalla stessa prospettiva che esso apre. Non è inerente alla natura dell’uomo o delle cose, ma è implicita nel concetto stesso di comunicazione.

Perché promuovere lo spazio comune della comunicazione e non il fraintendimento?
Il legame va promosso e riconosciuto come “buono” perché attraverso di esso viene salvaguardato non solo il sé, ma anche l’altro; in tal modo si apre e si mantiene lo spazio dell’interlocuzione, nel quale ognuno ha diritto di parola; perché così si realizza l’universale.

Perché scegliere l’essere, la partecipazione, il collegamento piuttosto che la scissione?
Scegliere l’essere piuttosto che il nulla significa fare in modo che i nostri gesti, i nostri atti, i nostri comportamenti, i nostri pensieri, risultino permeati di senso. Infatti etica è rapportarsi al senso di ciò  che può avere senso. Il senso è ciò che mira ad un legame e di volta in volta lo realizza. Non già eliminando le differenze, ma accogliendole in una dimensione relazionale, riconosciuta e messa in opera nel comunicare.

 

Fonte: http://www.scicom.altervista.org/etica/Etica%20della%20Comunicazione.doc

 

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