Deontologia della comunicazione

 

 

 

Deontologia della comunicazione

 

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Deontologia della Comunicazione

Matteo Verda

 

Appunti 1

Il termine deontologia deriva dal greco “δέον” = dovere e “λόγος” = discorso ed indica la trattazione dei doveri inerenti a particolari categorie di persone, generalmente professionisti.
Nel dare questa definizione, occorre palesare la distinzione che intercorre tra:
- professione: dal latino “profiteo” = dichiaro, indica un insieme di attività scelte dal soggetto in base ad una specifica vocazione; e
- mestiere: esercizio di un’attività lavorativa, specialmente manuale, frutto dei esperienza pratica; in questo caso la tendenza è a considerare il lavoro come qualcosa di subito, di imposto da fattori contingenti ed indipendenti dalla volontà del soggetto.
Propriamente, si può parlare di deontologia solo in riferimento alle professioni.

Perché si parla di deontologie professionali? Si tratta dei doveri che in qualche misura sono proprî di un’attività lavorativa liberamente scelta, ovvero di una professione; i doveri di un mestiere, invece, sono legati per lo più ad un rapporto gerarchico di potere o comunque a condizioni materiali che esulano dal campo di libera scelta del soggetto.
La prima professione della storia (in assoluto e) ad aver riconosciuto un codice deontologica è quella del medico. Per secoli, e fino a tempi recentissimi, il medico diventava tale solo nel momento in cui pronunciava il giuramento di Ippocrate.

Le libere professioni (medici, avvocati, notai, professori, commercialisti, giornalisti) hanno ciascuna un loro autonomo ordine professionale, che ha un rapporto molto stretto come la dimensione deontologica.
La deontologia è un aspetto fondamentale delle professioni legate direttamente alla comunicazione; negli ultimi anni, sono nate molte professioni in questo campo che, pur non essendo riconosciute come libere professioni (e non avendo, quindi, un ordine), ne hanno molte delle caratteristiche.
L’ordine professionale è la modalità di organizzazione tra pari e investe la dimensione etica (e quindi deontologica) alle cui norme è sottoposto ogni libero professionista.

Ogni professionista è sottoposto a 3 livelli normativi:
- morale: è il livello proprio della sfera individuale, della coscienza del singolo; è sempre presente (giacché in questo campo ognuno è giudice di sé stesso), ma si palesa in rare occasioni (e.g. nei casi di medici che per obiezione di coscienza si rifiutano di praticare l’aborto). La responsabilità morale è sempre verso sé stessi.
- etico: è il livello proprio della sfera della condivisione, della morale in relazione agli altri; è in questo ambito che opera la deontologia, delle violazioni in questo caso il singolo deve rispondere primariamente ai suoi pari. La responsabilità etica è sempre verso qualcuno.
- del diritto: è il livello delle norme giuridiche, stabilite dallo Stato e con valore universale; è il livello normativo a cui sono sottoposti tutti i cittadini, compresi dunque i liberi professionisti.

Con il caso della “Johson & Johnson” (JnJ) si ha, nel secondo dopoguerra, il caso di una nuova, sempre più importante, fonte di dovere deontologico: l’azienda.
Negli ultimi decenni si è assistito ad una vera e propria proliferazione di testi aziendali aventi carattere deontologico (chiamati, di volta in volta, “Codice etico, “Values”, “Principles”, “Vision/Visione aziendale”, “Mission”), con la nascita in alcuni casi di quelle che gli studiosi hanno chiamato “religioni aziendali”.
Ad esempio, col passare degli anni, nelle diverse edizioni del suo “Credo”, JnJ ha sempre più insistito sui processi di legittimazione proprî dei testi religiosi (avendo elevato a valore assoluto quello della continuità, almeno apparente).
Il testo del “Credo” della JnJ è ritmato in modo ossessivo dal termine “responsibility” ed è, in varia misura, un tema centrale della deontologia in generale. Questo termine introduce la tipica caratteristica etica della relazionalità (ovvero del fatto che la responsabilità è sempre verso qualcuno), contrapposta alla responsabilità morale, che è sempre verso sé stessi.
Inoltre, nel “Credo” della JnJ è importante notare come siano disposti in ordine di importanza i soggetti verso i quali l’azienda si ritiene responsabile.

Stakeholders = “portatori di diritti”, costruito sul calco del termine “stockholders” = azionisti.

La Borsa di Wall Street ha creato, all’interno dell’indice Dow Jones, lo “indice di sostenibilità DJ”, basato su rigidi criterî ripartiti in 3 ordini:
1. sociale (licenziamenti, condizioni di lavoro, etc.)
2. economico (bilancio)
3. ambientale (livelli di inquinamento, politiche di riduzione dell’inquinamento da parte dei dipendenti che si recano al lavoro).
Questo tipo di indici esiste anche in Ue, ma nessuna azienda italiana ne fa parte (attualmente Telecom Italia ed Enel stanno facendo domanda di ammissione).

Accountability = “essere in grado di rendere conto di qualcosa (“for”) a qualcuno (“to s.o.”).

 

Deontologia della Comunicazione

 

Matteo Verda

 

Appunti 2

I concetti comuni a tutte le deontologie (in particolar modo aziendali, ma anche professionali) sono:
- responsabilità
- stakeholders (portatori di interesse, contrapposti agli stockholders)
Questi due aspetti sono profondamente collegati uno all’altro: tutte le organizzazioni (ed i professionisti) non devono rispondere delle proprie azioni solo a chi ha in esse investito dei soldi, ma a tutti coloro che hanno un legittimo interesse nei confronti di tali azioni.
Si tratta di un impegno di natura etica: un’azienda che inquina o si comporta in modo scorretto, ad esempio, deve risponderne anche alle associazioni ambientaliste, alle comunità locali, ai sindacati, etc.
È importante non confondere gli stakeholders coi destinatari (e.g. clienti, consumatori) né cogli influenti (e.g. Stato, giornali specializzati).

Gli ordini professionali agiscono nella sfera etica, tra morale e diritto; in tutti gli ordini, la punizione peggiore che si possa infliggere è quella della punizione, dell’esclusione dall’ordine.
Le deontologie professionali creano coesione sociale tra chi le condivide, ma rendono i cittadini meno uguali tra loro; molti sono avversi o diffidenti nei confronti delle deontologie professionali, a cominciare dal “The Economist”.
La tradizione europea è molto più favorevole di quella anglosassone alle deontologie professionali, anche se in questi anni c’è stato un avvicinamento alle posizioni del vecchio continente.
Un elemento tipico delle deontologie è l’esclusione delle pratiche di confine con le altre professioni (lo scopo è non svilire l’attività oggetto del codice etico).
Molti degli accordi deontologici in campo comunicativo avvengono in seguito all’incontro tra i comunicatori e qualche stakeholder.
Per esempio, in Italia la tutela dei minori nella comunicazione è avvenuta solo in seguito alla redazione “Carta di Treviso” del 1990 (e successivo vademecum del 1995), nata dall’incontro tra la Fnsi e Telefono Azzurro, a cui ha fatto seguito il “Codice di autoregolamentazione Tv e minori” del 2002.

Un tempo si parlava di proletariato (ovvero quella categoria di persone che possiede solo il reddito del proprio lavoro) in riferimento alla parte più numerosa della forza lavoro; oggi questo termine andrebbe aggiornato in “cognitariato” (poiché il solo capitale della maggior parte dei lavoratori consiste nelle conoscenze che questi possiedono).

Patti scritti: filone greco ed ebraico.
Patti orali: filone latino e germanico.

 

Deontologia della Comunicazione

Matteo Verda

Appunti 3

La soggettività non si costituisce a partire da sé stessi (ego sum), ma con gli altri (ego cum).
Con la tradizione filosofica di Cartesio e Kant, la definizione di ego parte da sé stessi; con l’idealismo tedesco, il soggetto è fin dall’inizio costituito in rapporto con gli altri.
Heidegger (autore di “Esse e Tempo”, 1927) scrisse: “gli altri non sono coloro che restano dopo che io mi sono tolto”, la soggettività si costruisce solo in relazione con gli altri.
Si passa dalla soggettività alla intersoggettività.
Hegel, nella “Fenomenologia dello spirito”, introduce una figura che è alla base della filosofia della comunicazione: la dialettica. Nell’esempio della dialettica servo/padrone, Hegel mette in luce la temporaneità dei rapporti umani; le due figure sono definite nella loro relazione intersoggettiva: il padrone ha la signoria sul servo, ma il servo, grazie alla sua passività e sottomissione, è il vero padrone (almeno in potenza).
Hegel introduce anche il concetto di riconoscimento (Anerkennung), che varrà poi ampliatola Fiche. Il riconoscimento è quando io riconosco un altro come altro soggetto (è alla base della comunicazione, senza essa è impossibile), come interlocutore almeno potenziale.
Alcuni autori (richiamandosi ad Hegel e Fiche) hanno trattato l’etica della comunicazione: Karl Otto Apel e J. Habermas, ponendosi la domanda: comunicare, in sé, porta alcuni doveri?
Ad essi si aggiunse un terzo autore, H.P. Grice, linguista e filosofo che si è occuparto di pragmatica linguistica, ovvero lo studio del linguaggio in azione. Durante i suoi studi, si è accorto che i parlanti in ogni contesto hanno aspettative reciproche, partendo da 2 considerazioni: quando le aspettative di un soggetto sono frustrate, questi prima interpreta la violazione come conformità, poi, quando si accorge che la violazione è tale, la comunicazione si interrompe.
Violare le leggi della comunicazione è come non riconoscere l’interlocutore in quanto soggetto.
Grice formulò 4 massime della comunicazione:
- quantità: troppa o troppo poca informazione non vanno bene, non permettono una corretta comunicazione.
- qualità: la comunicazione deve seguire il principio di veridicità (il soggetto considera vero ciò che dice) e le informazioni devono poter essere provate dal soggetto che le comunica.
- relazione: la comunicazione deve essere pertinente.
- modo: la comunicazione deve evitare l’oscurità, l’ambiguità ed il disordine.
Il fondamento comune di queste 4 massime è il principio di cooperazione: i soggetti in una comunicazione si devono impegnare nella comunicazione stessa a farsi capire dall’altro e a comprendere quello che egli vuole realmente comunicare.
Le violazioni delle norme di Grice comportano gravi problemi nella comunicazione.
Grice si inserisce nella tradizione filosofica analitica anglosassone ed elabora una teoria che vuole essere anche empirica: le massime sono nel dialogo, sono operanti nella realtà.
Se una massima è violata, la prima reazione è la “implicatura conversazionale”, ovvero l’interpretazione della locuzione cercando di attribuirle il massimo di senso possibile (e.g. è il caso di tutte le metafore).
In particolare, la massima di qualità (ovvero di veridicità) è comune a tutte le culture del mondo. Perché il tema della veridicità è così complesso?
Celeberrima fu la disputa tra I. Kant e B. Constant circa l’esistenza di un dovere incondizionato di verità verso chiunque. Kant sosteneva, nello scritto “Sul preteso diritto di mentire per amore dell’umanità”, che ogni soggetto è sottoposto ad un imperativo etico di dire la verità, sempre e comunque. Constant, invece, rispondeva dicendo che esistono molti casi in cui la verità nella comunicazione non è la scelta migliore. Nella pratica della comunicazione, è vero che esiste un teorico obbligo morale di dire la verità, ma sono comunemente riconosciute e accettate delle deroghe (che dipendono dalla cultura del tempo e del luogo che si prendono in considerazione); nella nostra società, ad esempio, sono socialmente riconosciute deroghe al principio di veridicità nei casi delle bugie caritatevoli (o paterne) e nei casi in cui vi siano interessi superiori da tutelare (un tempo esisteva anche il principio della bugia pietosa, per cui ai malati gravi non venivano rivelate le loro vere condizioni cliniche; oggi questa prassi non esiste più nella nostra società).

Lévinas, nella “Filosofia del dialogo e dell’altro”, elabora la filosofia del volto, ovvero dell’altro nella sua individualità (alterità).

Il fondamento della condanna della Chiesa alla pornografia è basata sul principio di verità, perché viene rappresentata falsamente la realtà.
Secondo la dottrina della Chiesa, che trovò formulazione precisa in san Tommaso d’Aquino (ripreso poi da Kant e Hume), senza la verità, la società non starebbe insieme. Inoltre, esiste anche una fondazione pragmatica del dovere di dire la verità

 

Deontologia della Comunicazione

Matteo Verda

Appunti 4

Nella deontologia della comunicazione è fondamentale il ruolo della Chiesa Cattolica, i cui principii in materia di comunicazione sociale sono stati in larga parte recepiti nelle differenti deontologie professionali.
Il primo documento della Chiesa in materia di nuovi mezzi di comunicazione risale al 1936 (“Vigilant cura”) ed è dedicato al cinema, mentre a partire dagli inizi degli anni ’40 presso la Santa Sede è stato istituito il Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali.
Un vero punto salto di qualità, tuttavia, si ebbe con il Decreto Conciliare “Inter mirifica” del 1963, in cui sono sistematicamente affrontati i temi del contesto, dei diritti, dei doveri e del ruolo della formazione nelle comunicazioni sociali, secondo uno schema che nei decenni successivi è stato ripreso da diverse deontologie.
In particolare, bisogna rilevare come il giudizio prevalente dato dalla Chiesa sui mezzi di comunicazione sociale sia stato positivo, dando una forte spinta al mondo cattolico verso questi potenti strumenti.
L’Inter mirifica, nonostante i 40 anni trascorsi, è ancora pienamente attuale, sia per le problematiche che solleva, sia per le risposte che fornisce. In particolare, è risultato fondamentale l’accento posto, in questo documento, sul ruolo dei recettori nelle comunicazioni sociali: un ruolo che non può e non deve essere passivo, ma critico e consapevole; se un soggetto diventa recettore di una comunicazione non etica, ne diventa a pieno titolo complice.

Nell’analizzare una comunicazione, sono molteplici gli elementi da tenere in considerazione: contenuto (semantica), circostanza (pragmatica), fine della comunicazione, destinatarii, luogo e tempo.
Il diritto all’informazione si compenetra con la comunicazione verace: non ogni comunicazione od informazione è, in quanto tale, etica, ma va integrata con i valori dei soggetti coinvolti in essa (fede, giustizia e carità, nello specifico).
La rappresentazione del male ha sempre posto numerosi problemi etici: spesso, infatti, essa può avere fini pedagogici, può essere mostrata per indurre al bene; tuttavia, esistono casi in cui tale rappresentazione (e, in particolare, del dolore) è fine a sé stessa e non ha altra finalità: in questo caso la condizione di eticità della comunicazione vene meno (e.g. la rappresentazione della sofferenza causata dalla guerra che serva solo a fare audience è immorale).
Al primo posto tra i doveri ci sono quelli del recettore: il pubblico non è e non può essere neutrale e se la comunicazione è immorale e viene fruita, esiste nei recettori una qualche responsabilità.

La Chiesa propone l’idea che la deontologia della comunicazione richieda una formazione presso i recettori e presso i comunicatori; nell’ambito della formazione, sono questi ultimi ad avere le maggiori responsabilità, in quanto poi votati all’utilizzo di media che possono avere un effetto dirompente sulla coscienza di un numero sterminato di singoli individui.
Occorre, secondo la Chiesa, pensare alla diffusione della coscienza dei doveri etici primariamente tra gli operatori della comunicazione, ma anche presso i recettori, al fine di svilupparne il senso critico ed i meccanismi si autodifesa cosciente.
Il bene comune è un concetto di filosofia politica ed è importante nella dottrina della Chiesa, tanto da ritornare sovente nelle trattazioni riguardanti i mezzi di comunicazione sociale.

Di senso opposto all’opinione della Chiesa è quella di Adorno, il quale nel suo “Minima moralia” ha preso una posizione nettamente negativa sui media, posizione che ha avuto un seguito decisamente minoritario sia tra i contemporanei, sia soprattutto tra le generazioni successive.

Gli ordini sono unici ed esclusivi sul territorio nazionale, mentre le associazioni professionali possono essere molteplici. Spesso queste associazioni hanno codici etici.

La più importante differenza tra Cristianesimo ed Islam in tema di comunicazione è il tema della rappresentazione.
Per la Chiesa ortodossa, esiste una vera e propria incorporazione della rappresentazione (simile alla transustantazione) e un culto dell’immagine (i.e. icona), secondo il principio dell’iconostasi.
Per la Chiesa cattolica, la rappresentazione è tale, ovvero un’opera terrena che rimanda simbolicamente alla realtà divina.
Per l’Islam, esiste un livello minimo di designazione, ovvero non si possono rappresentare soggetti divini in modo diretto, perché si crede che la rappresentazione sia un’emulazione della creazione divina; si ha in questo caso l’iconoclastia.
La Chiesa cattolica, trovandosi nel mezzo, ha sempre combattuto gli estremisti.
Nella nostra società moderna, l’artisticità redime da qualunque turpitudine, ovvero la bellezza della creazione artistica è totalmente indipendente dal comportamento dell’artista che l’ha creata.

Susan Zontag, nel suo libro “Davanti al dolore degli altri”, ha posto il quesito etico sul limite della rappresentazione di immagini di sofferenza umana; la risposta che si è data è che il limite dipende sempre dalle finalità della comunicazione e dall’atteggiamento, sia dei comunicatori, sia dei recettori.
Alcuni dei temi su cui sorgono i più grandi quesiti etici sono: il diritto all’oblio  vs il diritto all’informazione, la sensibilizzazione vs il rispetto dell’individuo, le regole del mezzo vs i valori dei soggetti, il pensiero personale vs il ruolo, il libero pensiero vs la scienza, la cultura vs l’intrattenimento.

Un altro tema importante è quello del potere relativo dei soggetti coinvolti nel processo comunicativo: la comunicazione può non essere etica a causa di un’asimmetria di potere esagerata esistente tra i soggetti stessi (e.g. la propaganda politica o certe forme di pubblicità svolte da parte nei Paesi ricchi presso quelli poveri.

Il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 e l’Istruzione pastorale “Communio et progressio” del 1971 (e relativo aggiornamento del 2000) sono due documenti legati alla comunicazione in diversi ambiti; vi sono poi nella storia della Chiesa documenti che analizzano settori molto particolari di questo fenomeno, a partire dalla “Vigilanti cura” del 1936, dedicata alla cinematografia, per arrivare ai documenti sull’arte, ai microinterventi della Santa Sede inviati in occasione delle giornate annuali sulla comunicazione sociale. Infine, 2 documenti di dimensioni e spessore più rilevanti sono dedicati all’etica nella pubblicità (1997) ed all’etica in internet (2002), senza dimenticare il documento dedicato all’etica nelle comunicazioni sociali (2000).

Il CAP è un ordinamento autodisciplinare interamente dedicato all’etica della comunicazione pubblicitaria. Esso parte dalla considerazione delle specificità che coinvolgono la dimensione etica della pubblicità: l’asimmetria di potere tra chi realizza la pubblicità e chi la subisce e la veridicità di quanto affermato; in particolare il secondo punto è rilevate perché la componente di apofanticità è molto bassa (ovvero, non è possibile o è molto difficile praticare un giudizio di veridicità) poiché il contenuto informativo delle pubblicità è raramente significativo.
La critica all’attuale etica pubblicitaria si basa su 2 punti:
- modello culturale proposto: etnocentrico (bianco-occidentale), che tuttavia viene riproposto come modello anche a Paesi culturalmente molto lontani da esso.
- sostenibilità sociale: vengono proposti modelli di comportamento non sostenibili, a varii livelli: ambientale, sociale, economico; si tratta di modelli autocontraddittorii, basati su punti di vista strutturalmente indifendibili.
L’asimmetria strutturale tra chi comunica ed il destinatario è un tema di riflessione, tanto è vero che lo scopo di dare voce al pubblico; il risultato è stato che oggi molte organizzazioni non considerano più gli stakeholders come semplici destinatarii, ma come veri e propri interlocutori.
L’aspirazione all’universalismo e all’uniformazione che la pubblicità porta con sé è stemperato dal suo carattere informativo (anche se a volte questo risulta molto limitato) e creativo e dal fatto di sostenere con le sue risorse altri eventi culturali, capaci di compensare le spinte culturali delle campagne pubblicitarie e di difendere le tradizioni locali o comunque aspetti di consumo locali.
Nel documento del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali riguardante la “Etica della pubblicità”, sono giudicati gli effetti benefici di questo fenomeno comunicativo in varii ambiti; il giudizio complessivo della Chiesa è sostanzialmente positivo.
Nel documento del medesimo Consiglio riguardante la “Etica in Internet”, vengono affrontati alcuni motivi di preoccupazione, come il fatto che sia difficile valutare la veridicità o falsità di una rappresentazione a causa dell’eccesso di notizie, frammentate e spesso di incerta origine. Inoltre, Internet, a causa dell’iperspecializzazione e della frammentazione dei contenuti, può favorire la formazione di gruppi molto chiusi, che finiscono con l’isolarsi dal mondo e dall’aeropago mondiale che la rete e gli altri media costituiscono oggi.
La Chiesa, infine, propone una regolamentazione dei fenomeni di comunicazione sociale su scala mondiale, onde favorire un controllo ed un’efficacia che solo la cooperazione internazionale possono garantire.

 

Deontologia della Comunicazione

Matteo Verda

Appunti 5

La “Carta di Treviso”, siglata nel 1990 dal Telefono azzurro e dalla Federazione nazionale della stampa italiana ed aggiornata con il “Vademecum” del 1995, è il documento più conosciuto in tema di comunicazione e minori in Italia.
Si tratta di un caso di autoregolamentazione, nato spontaneamente e indipendentemente dallo Stato, che vincola tutti i giornalisti del nostro Paese.
In seguito alla sua redazione e diffusione, la Carta è stata citata in numerosi testi di legge, dandole così una forma di riconoscimento che va al di là dell’autonomia dei sottoscrittori originarii.
La Carta inizia con un richiamo ai valori (quali la centralità della persona umana), poi sono individuate situazioni di rischio potenziale (ampliate poi nel Vademecum del 1995, che per primo cita il concetto di “cultura dell’infanzia) ed infine sono elencate alcune modalità di protezione dei minori.
Il gran numero di infrazioni registrato dal ’90 al ’95 è dipeso dallo scarso approfondimento nel testo delle situazioni di rischio potenziale; è per questa ragione che il Vademecum del ’95 puntualizza le più frequenti violazioni verificatesi, onde prevenirne il perpetrarsi ulteriore.
Il diritto alla privacy dei minori è poi diventato legge dello Stato a partire dalla l. 675/96, al fine di garantire un armonico sviluppo della personalità dei minori interessati in vicende di cronaca.
Negli anni, è cresciuta moltissimo la tutela del minore in quanto oggetto della comunicazione, mentre resta ancora debole la sua tutela quando esso è semplice fruitore dei mezzi di comunicazione sociale.

Nel novembre del 2002 è stato sottoscritto il Codice di Autoregolamentazione Tv e minori; sebbene sia passato poco tempo, esso è stato già richiamato da alcune normative statali (ampliandone la portata ben al di là della semplice, originaria autoregolamentazione). Si tratta di un codice pienamente deontologico, ispirato e voluto dal ministero delle comunicazioni.
Il documento è strutturato in diverse parti:
- una dichiarazione di valori e principii generali (ovvero, valori applicati ai casi) da tutelare;
- alcune situazioni che possono essere a richio;
- le modalità di attuazione del codice (la diffusione e l’attuazione del controllo).
Il sistema sanzionatorio del codice è studiato in modo che alcune violazioni possano essere sanzionate non solo in ambito di autoregolamentazione, ma anche in ambito giuridico.
Nel documento, è importante ricordare come siano considerati minori tutti i cittadini fino a 14 anni.
Il codice prevede 2 fasce orarie di interesse:
- dalle 7.00 alle 22.30 si parla di tv per tutti (ovvero si presume che il bambino possa potenzialmente accedere alle trasmissioni televisive); all’interno di questa fascia, si presume che il bambino fruisca della televisione in presenza di un adulto, tranne che nella fascia per minori che va dalle 16.00 alle 19.00 (quando si pensa che il bambino possa essere lasciato davanti alla tv da solo).
- dalle 22.30 alle 7.00 si parla di tv per adulti.
La pubblicità, risentendo di questa classificazione, deve sottostare a 3 regimi differenziati di protezione:
- generale, nella fascia della tv per adulti (22.30-7.00); questo livello di protezione prevede il divieto di mostrare bambini in situazioni di pericolo o intenti a consumare alcolici o stupefacenti e di rivolgersi a loro abusando della loro credulità.
- rafforzata, nella fascia della tv per tutti (7.00-22.30); questo livello di protezione prevede il divieto di rivolgere ai bambini pubblicità che ne possano turbare l’equilibrio psichico.
- specifica, nella fascia della tv per minori (16.00-19.00); questo livello di protezione prevede l’obbligo di separare in modo evidente le trasmissioni da pubblicità e promozioni ed il divieto di pubblicizzare prodotti quali alcolici, servizii telefonici e contraccettivi.

Nell’ambito del codice di autoregolamentazione tv e minori è stato predisposto un modulo per la segnalazione delle infrazioni al Comitato, compilabile da parte di qualunque cittadino.
Il tema tv e minori è trattato dalla letteratura e da numerose attività di ricerca; nella storia del pensiero occidentale, c’è sempre una zone in cui il minore è protetto e non è soggetto ad un discernimento di valori, c’è sempre una zone di grande protezione e di non accesso ai valori. La società moderna, in particolare, è una società della trasparenza, in cui le regole ed i valori vengono esplicitati.
Un’immagine importante, centro di un conflitto simbolico, è quella del velo, che contrasta con l’idea della trasparenza; il velo delle donne musulmane nasconde e protegge, esso è simbolo dell’ambivalenza del concetto di protezione, protegge nascondendo, conserva. Non è un caso che l’espressione velo nella lingua araba abbia lo stesso significato di tenda, questo principio di copertura della società tradizionale è antitetico alla società della trasparenza, alla nostra società.
Il velo è antitetico alla verità (si tratta di vere e proprie polarità), il termine deriva dal greco “aletheia”; Heidegger ha fatto una ricerca etimologica sul significato di questo termine ed ha posto in evidenza come essa sia formata da un termine e dalla sua negazione, più precisamente essa significa “disvelamento”.
Anche nei confronti del minore, o più in generale del pubblico della comunicazione, possiamo “mettere o togliere” il velo (per il minore, il diritto tende a velare).
La veridicità ha la funzione di mostrare le cose come sono, ma le società tradizionali disattendono questo principio e tendono a mettere veli così numerosi che finiscono col risultare antitetici ai fondamenti stessi dell’illuminismo; tuttavia, alcuni sostengono che un disvelamento completo rischia di mettere in imbarazzo chi vede, compromettendone la dignità.
Le società trasparenti, come la nostra, tendono a non mettere veli: i media, nella società della comunicazione, tendono a seguire questo principio; per contro, molte delle deontologie e dei comportamenti normativi tendono a compensare questa tendenza.

La Risoluzione approvata dalla commissione parlamentare per l’infanzia in materia di tv e minori (2003) è un documento di valore paranormativo dedicato al rapporto tra tv e minori; i parlamentari ed i senatori hanno redatto questo documento dopo varie ricerche.
Tra i testi che il documento indica all’inizio, meritano di essere ricordati:
- il codice di autoregolamentazione tv e minori e
- il comitato di servizio tra ministero e Rai, che si è assunta ulteriori impegni in quanto concessionaria pubblica (e.g. fare un certo numero di trasmissioni nuove).
Esiste un legame tra queste iniziative e gli argomenti trattati dalla Chiesa; questa sostiene che la deontologia della comunicazione sia fatta da chi comunica e da chi riceve (e che entrambe le parti debbano essere adeguatamente formate), con un dovere da parte di questi ultimi di apprendere come porsi con un approccio critico nei confronti dei media.
Attraverso la suddetta risoluzione si possono esaminare due tipi di giustificazione:
- giuridificazione diretta: si prende un testo deontologico, un corpo di norme deontologiche e lo si fa diventare legge; lo Stato dunque prende atto di queste norme, secondo un procedimento poco diffuso.
- giuridificazione indiretta: lo Stato non recepisce il codice deontologico in una legge, però subordina la concessione di tutta una serie di vantaggi al rispetto di certi codici deontologici; si tratta del procedimento più diffuso in tutti i Paesi civilizzati.
La suddetta risoluzione si presenta come un decalogo, accentuando in questo modo il suo carattere prescrittivo; essa, inoltre, contiene una novità che ha importanza in molti settori deontologici, la figura dello “ethical officier” (punto 8), ovvero un punto di riferimento per la correttezza deontologica di una determinata organizzazione. Si tratta di una persona relativamente autonoma all’interno dell’organizzazione, pur facendone parte.

 

Deontologia della Comunicazione

Matteo Verda
Appunti 6

La deontologia delle relazioni pubbliche sta assumendo nel nostro Paese un peso rilevante nell’ambito dell’etica delle professioni legate alla comunicazione.
Quella del professionista di relazioni pubbliche è una figura molto diffusa ed ha avuto di recente una fioritura di codici deontologici mirati, ad opera delle associazioni di categoria (sia a livello di singoli professionisti, sia a livello di agenzie).
Cosa sono le relazioni pubbliche (public relation, in inglese)? Si tratta dell’attività comunicativa volta a migliorare le relazioni tra il proprio cliente e tutti i soggetti che a questi interessano; spesso si tratta di costruire queste relazioni ex novo, altre volte di gestirle in modo nuovo, ma sempre con lo scopo di migliorare l’immagine percepita del proprio cliente.
Le relazioni pubbliche nascono come professione alla fine dell’800 nell’ambito parlamentare, allo scopo di migliorare la posizione di determinati soggetti presso i deputati; si trattava di un’attività strettamente legata all’attività di lobby.
Oggi, sono 3 le categorie a cui le relazioni pubbliche si rivolgono:
- gli influenti, ovvero coloro che possono prendere decisioni strategiche o comunque di rilievo;
- gli “stakeholders”, ovvero tutti i soggetti portatori di interessi, che in senso lato possono influire sull’attività del cliente;
- l’opinione pubblica, ovvero tutti i potenziali pubblici di una società pluralistica e democratica.
Il cliente beneficiario può essere un’azienda, un’istituzione od un personaggio pubblico.
Gli obiettivi delle relazioni pubbliche si possono dividere in:
- tattici: far cambiare o venire un’idea su un determinato argomento ad un determinato soggetto destinatario;
- strategici: sviluppare relazioni positive non immediatamente finalizzate all’ottenimento di risultati concreti.
La maggior parte dell’attività di relazioni pubbliche si basa sulle informazioni e sulle modalità della loro circolazione.
Esiste un numero consistente di problemi etici per gli operatori di relazioni pubbliche, tra cui:
- la tentazione costante di ricorrere a vie non legali (oltre che non etiche) per influenzare i soggetti (i.e. corruzione);
- la potenziale minaccia della libertà di stampa attraverso indebite pressioni sui giornalisti;
- il rischio di affrontare campagne in favore di fenomeni o situazioni palesemente negativi;
- dire il falso sapendo di travisare la realtà;
- violare il dovere di riservatezza nei confronti dei clienti.

In Italia, i professionisti delle relazioni pubbliche sono circa 70.000; la figura del professionista in questo campo ha subito profonde modificazioni negli ultimi decenni: fino a pochi anni fa, a fare relazioni pubbliche (o meglio, “pr”, pranzi e ricevimenti) erano le mogli dei personaggi influenti. Oggi, le relazioni pubbliche, come la pubblicità, sono attività svolte su scala internazionale, da agenzie presenti in tutto il mondo; rimane, tuttavia, una nicchia di piccole società, specializzate nelle realtà locali, soprattutto a livello politico.

L’etica minimale in tutte le professioni è quella di avere le competenze per svolgere il proprio lavoro (soprattutto per le professioni giovani, come quelle legate alla comunicazione, giornalismo escluso), ovvero l’etica del mestiere (che non comprende solo le conoscenze al momento dell’ingresso sul mercato del lavoro, ma anche la capacità di tenersi aggiornati e di continuare a formarsi per tutta la vita).
Il problema etico di tutto il settore delle relazioni pubbliche è l’accesso, ovvero il fatto che solo alcune opinioni hanno i mezzi finanziarî per essere difese, in palese contrasto con le premesse democratiche e pluralistiche delle società in cui le agenzie di relazioni pubbliche operano. In parte, questo problema è stato stemperato dall’avvento di Internet, ma resta di piena attualità.
L’Assorel (associazione delle agenzie di relazioni pubbliche a servizio completo) ha impegnato, a partire dall’anno scorso, tutte le sue associate a condurre almeno una volta all’anno una campagna di relazioni pubbliche a favore di una causa meritevole priva di mezzi.
All’interno dello stesso settore, in concreto, non accade mai che un’agenzia assista 2 concorrenti, anche se in linea teorica questo può accadere, a patto che entrambe i clienti ne siano al corrente e siano d’accordo.
Un’agenzia di relazioni pubbliche può rifiutare un incarico, ad esempio perché ritiene la campagna in questione immorale; quella del rifiuto è una facoltà molto importante per le agenzie, giacché, a differenza degli avvocati, un’agenzia di pubbliche relazioni che difende una causa immorale si assume parte delle responsabilità (non si può chiamare totalmente fuori dalla condotta del cliente, come ovviamente può fare un legale).
Occorre sempre che chi fa relazioni pubbliche sia sempre distinti dal cliente.
Per quanto concerne l’obbligazione che sorge in capo ad un’agenzia di relazioni pubbliche che stipula un contratto con un cliente, questa deve sempre essere di mezzo e non di risultato.
Le obbligazioni di risultato, infatti, hanno come presupposto costituente della fattispecie che il risultato in questione abbia una qualche misurabilità; ora, avendo l’attività di relazioni pubbliche lo scopo di influenzare un soggetto (influente, stakeholder od opinione pubblica), non esistono modi sicuri per misurare l’influenza che si ha avuto su un soggetto (tuttavia, per misurare l’efficacia di una campagna di relazioni pubbliche a titolo indicativo si usano i sondaggi o si misura la lunghezza degli articoli apparsi sui giornali). Inoltre, l’obbligazione di risultato nel campo delle relazioni pubbliche porrebbe problemi etici enormi: il professionista, pur di percepire l’onorario, sarebbe spinto a comportamenti illeciti.

Le associazioni di 1° livello sono quelle a cui aderiscono persone fisiche o imprese, agenzie, etc.; le associazioni di 2° livello sono quelle a cui aderiscono le associazioni di 1° livello; le associazioni di 3° livello sono quelle a cui aderiscono le associazioni di 2° livello, etc.

 

Deontologia della Comunicazione

Matteo Verda
Appunti 7

I grafici sono i professionisti della comunicazione visiva e, nel nostro Paese, sono raccolti nell’AIAP – Associazione italiana progettazione per la comunicazione visiva.
Il codice deontologico di Aiap tiene conto degli accordi internazionali e unisce norme etiche e professionali, partendo dal presupposto che il livello minimo di eticità sia quello di saper fare il proprio lavoro.
I codici sono testi particolari, in quanto sono oggetto di continue contrattazioni e sono molto poco arbitrarî.
Dal punto di vista linguistico e formale, è molto forte la componente connotativa dei termini; nello specifico, si può notare un continuo (quasi ossessivo) riferimento all’eccellenza ed alla qualità.
Merita attenzione l’ultimo punto della premessa, in cui traspare un particolare aspetto dell’etica del design, quello dell’attenzione per l’ecologia e per il sociale.
I designers, in questo momento storico, condividono l’ideale di non condizionare troppo la vita dei posteri; se si fanno cose troppo ingombranti, si condiziona il comportamento delle generazioni successive. Si parla anche di coscienza critica, tipico termine di sinistra.
Ogni membro, con il suo comportamento, gestisce un bene comune, ovvero la reputazione della categoria, che nel caso specifico, essendo di recente formazione, non ha una solida tradizione alle spalle e quindi risente in modo più forte delle condotte dei singoli professionisti.

I codici deontologici (come i testi politici e sociali, più in generale) sono testi omeomeri, ovvero fatti di parti uguali tra loro, tanto da poter ricostruire tutto il testo (o quasi) a partire da una sua singola parte; questo fatto non vuol dire necessariamente che il testo abbia un alto livello di coerenza interna, ma semplicemente che esiste analogia tra le sue parti, evidenziata da continue ripetizioni e rimandi ai medesimi concetti.

Le sigle sono meccanismi di continuità formale e discontinuità sostanziale.

 

Deontologia della Comunicazione

Matteo Verda
Appunti 8

Sulla deontologia c’è un dibattito quotidiano; chi comunica deve avere sempre a che fare con l’etica.
La deontologia del giornalismo non è l’aspetto propriamente giuridico della professione, quanto quello riguardante l’autonomia (giacché il rispetto della legge si dà in ogni deontologia per scontato).
I giornalisti hanno, in Italia (ed in quasi tutti i Paesi civilizzati), un ordine professionale vero e proprio, unici tra i professionisti della comunicazione.
Per quanto riguarda questa professione, i valori etici principali più rilevanti sono: verità, obiettività, rispetto, completezza, chiarezza ed imparzialità.
I problemi più rilevanti sul piano della verità riguardano le fonti anonime.
Un altro problema rilevante è quello del conflitto di interessi, sia a livello di singolo giornalista, sia a livello di testata (eventuali influenze dell’editore o degli inserzionisti).

La “Carta dei doveri del giornalista” (1993) è un codice deontologico di retroguardia, tratta pochi concetti e li itera, nonostante abbia avuto una lunga e complessa gestazione. Nonostante questo, rimane una parte fondamentale dell’esame per diventare giornalisti professionisti.
Al punto 7, relativo a “minori e soggetti deboli”, è espressamente citata la “Carta di Treviso” per i minori (1990).

Si parla di giuridificazione della deontologia quando i codici deontologici vengono presi come punto di riferimento ed espressamente citati in testi di legge ed altre norme.

È a partire dalle riflessioni di Kant in campo morale che la parola rispetto è associata alla dimensione etica.

 

Deontologia della Comunicazione

Matteo Verda
Appunti 9

Il Codice di Autodisciplina Pubblicitaria (Cap) dell’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (Iap) (1977) è uno degli esempî più completi ed accurati di autoregolamentazione della deontologia della comunicazione, non solo a livello italiano ma anche internazionale.
La deontologia è in questo caso intesa come autonoma capacità di regolazione della propria condotta in un ambito specifico, che nel corso del tempo è stata richiamata dalla giurisprudenza.
Si tratta di un vero diritto parallelo all’ordinamento giuridico (con organi come il Giurì ed il Comitato di controllo) e si presta ad essere considerato un vero e proprio caso a livello internazionale, anche in virtù della velocità con la quale i casi sono affrontati.
Il Cap è suddiviso in 2 parti: una che richiama i principî alla base della comunicazione pubblicitaria ed una che affronta separatamente i diversi settori merceologici.
Il Cap è in continuo aggiornamento ed è sempre più preciso nel disciplinare i comportamenti dei pubblicitarî.
Il Cap regola la pubblicità nei suoi aspetti comunicativi (verità del messaggio, non ingannevolezza).

L’Assocomunicazione (ex Assap) raggruppa le aziende di pubblicità e ha fatto un codice deontologico che riguarda i comportamenti dei pubblicitarî (in verità, come codice non è molto valido).

In campo pubblicitario, esistono 3 diverse fonti di autoregolamentazione:
- Cap, a livello di campagna, di contenuto e di forma del messaggio pubblicitario in generale;
- Codice Assap, a livello di agenzie;
- Codice Tp, a livello di professionisti.

Il Codice deontologico dei comunicatori pubblici è fatto piuttosto bene e si rivolge a tutti gli operatori della comunicazione che operano negli Urp del nostro Paese.

Una professione della comunicazione, più delle altre, deve chiedersi se il comportamento che tiene è deontologico.
La parte più importante della deontologia non è dare delle risposte certe ed univoche alle proprie domande, quanto di tener viva e quotidiana la domanda sulla correttezza di ogni proprio comportamento.

 

Fonte: http://www.matteoverda.com/documenti/Deontologia/deontologia.zip

Sito web: http://www.matteoverda.com/

Autore del testo: Matteo Verda

 

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