Diritti e doveri dei cittadini

 

 

 

Diritti e doveri dei cittadini

 

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Diritti e doveri dei cittadini

 

10. La Costituzione italiana. I diritti fondamentali

 

All’interno dei diritti contenuti nella Costituzione si possono individuare due categorie: i diritti individuali e i diritti collettivi. I diritti individuali, a loro volta, possono essere distinti in diritti che riguardano la libertà fisica e diritti che riguardano la libertà morale.

La libertà fisica comprende il diritto di circolare e soggiornare liberamente ovunque si desideri (art. 16), mentre la libertà di domicilio (art. 14) impedisce a chiunque di entrare nell’abitazione, ritenuta inviolabile, di un cittadino. La polizia ha questo diritto solo per eseguire perquisizioni e ispezioni quando è munita di un preciso mandato emesso dalle competenti autorità giudiziarie. L’aspetto più importante della libertà fisica è rappresentato dalla libertà personale (art. 13): nessuno può essere arrestato senza motivo. Perché l’arresto sia valido occorre che un giudice emetta un provvedimento specifico (ordine o mandato di custodia) e che ci siano motivi validi.

La libertà morale è caratterizzata dalla libertà di opinione, nonché dalla libertà di manifestare le proprie idee (art. 21): la libertà di manifestare il pensiero può venire esercitata anche attraverso i mezzi di diffusione di massa.

La Costituzione si rivolge non solo al cittadino come singolo individuo, ma anche al cittadino organizzato insieme agli altri. A tale scopo sono stati individuati una serie di diritti collettivi: il diritto di riunione (art. 17), purché le adunanze – comizi, cortei, assemblee, manifestazioni sindacali – siano pacifiche; il diritto di associazione (art. 18) che si manifesta attraverso la fondazione di sindacati e partiti politici; il diritto di formare una famiglia (art. 29); il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa (art. 19), purché i riti non siano contrari al buon costume.

 

PARTE I

DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI

TITOLO I

RAPPORTI CIVILI

Art. 13.

La libertà personale è inviolabile.

Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.

In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.

È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.

La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.

 

Art. 14.

Il domicilio è inviolabile.

Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale.

Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali.

 

Art. 15.

La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili.

La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.

 

Art. 16.

Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche.

Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge.

 

Art. 17.

I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi.

Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso.

Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.

 

Art. 18.

I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale.

Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

 

Art. 19.

Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.

 

Art. 20.

Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.

 

Art. 21.

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.

In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto.

La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.

Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.

 

Art. 22.

Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome.

 

Art. 23.

Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.

 

Art. 24.

Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.

La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.

Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.

La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.

 

Art. 25.

Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.

Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.

Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.

 

Art. 26.

L'estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali.

Non può in alcun caso essere ammessa per reati politici.

 

Art. 27.

La responsabilità penale è personale.

L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.

 

Art. 28.

I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.

 

            Particolarmente interessante all’interno dell’insieme dei diritti e dei doveri dei cittadini risulta l’articolo 21, che contiene la libera espressione di pensiero con ogni mezzo, compresa la stampa. Il riconoscimento di tale libertà viene dato per la prima volta nell’Inghilterra settecentesca, mentre nel resto dell’Europa sia cattolica sia protestante vige la più rigida censura nei confronti delle persone che esprimano idee non conformi a quelle accettate dall’ortodossia e dei libri che divengono «proibiti». Un ruolo particolarmente rilevante nell’esercizio della censura sulla produzione stampata ricopre la Chiesa cattolica, nell’ambito della lotta contro l’eresia protestante. Diverse autorità ecclesiastiche, tra cui si annoverano il tribunale dell’inquisizione, i vescovi, i generali dei diversi Ordini religiosi, hanno il compito di autorizzare, con il rilascio dell’imprimatur, la stampa e la diffusione di materiale librario. Inoltre la Congregazione dell’Indice, un organismo creato appositamente nel 1572 e composto da cardinali, ha il compito di rivedere la produzione esistente e di indicare quali testi non debbano essere letti dai cattolici. Un simile sistema di controllo della produzione stampata viene attivato anche nelle principali monarchie nazionali di antico regime, come sottolinea la seguente pagina di Mario Infelise.

 

Mario Infelise

I libri proibiti

La bolla Inter sollicitudines del 1515 fissava i principi di massima di una censura ecclesiastica preventiva generalizzata. Nel corso del secolo, soprattutto tramite le regole allegate agli indici dei libri proibiti, quelle norme vennero meglio precisate con il proposito di renderle sempre più rigide. L’intento romano era quello dunque di sottoporre tutta la produzione libraria europea a un controllo centralizzato che avesse nelle autorità religiose il proprio perno. L’imprimatur, ovvero l’autorizzazione ecclesiastica alla stampa, era l’unico salvacondotto che consentiva la pubblicazione e la circolazione di un’opera. Per evitare abusi i suoi estremi sarebbero dovuti figurare in evidenza nelle prime pagine di ogni libro.

I propositi ecclesiastici vennero tuttavia sistematicamente a scontrarsi con le aspirazioni giurisdizionali dei principi, poco inclini ad abdicare del tutto a un’azione di vigilanza in cui potevano avere un evidente tornaconto, avendo ormai intuito che ingerirsi nel controllo delle idee serviva a contribuire al rafforzamento in senso assolutistico dei propri domini. La discussione, ben inteso, verteva sopratutto su chi avesse titolo ad autorizzate e molto meno su cosa si dovesse proibire. Gli Stati di antico regime erano convinti non meno della Sede Apostolica che fosse opportuno impedire che l’eresia si propagasse, ritenendo che nessun regno potesse mantenersi senza l’apporto della religione. I conflitti tra sovrani e Chiesa, frequentissimi sino a tutto il ‘700 soprattutto negli Stati principali e influenti e laddove la produzione editoriale era economicamente rilevante, miravano dunque a ricontrattare periodicamente i rispettivi confini di competenza. All’imprimatur ecclesiastico sottoscritto dall’autorità religiosa, si contrapponeva quindi la licenza di stampa rilasciata dal principe con una di quelle formule, a lungo ridiscusse, che regolarmente ritornavano sui frontespizi: «avec le privilège du roi», «superiorum permissu», «con licenza de’ superiori».

[...] Il processo di costituzione di censure di Stato fu lungo e travalicò ampiamente i limiti del secolo XVI. In qualche caso iniziò prima dello scoppio della Riforma, in molti altri casi gli uffici di censura si svilupparono contemporaneamente a imitazione, ma anche in concorrenza con le strutture ecclesiastiche; in altri ancora, come in Francia, vi si arrivò più tardi a causa dei lunghi e violenti contrasti religiosi. A fine ‘500, pressoché ovunque si erano costituite o almeno erano abbozzate strutture burocratiche più o meno complesse che avrebbero vigilato sulla stampa in nome dello Stato, sino a che i Lumi e le riforme settecentesche non le avrebbero poste in discussione.

In Spagna, a differenza di quanto avvenne nel resto del continente, i limiti delle diverse competenze vennero precocemente risolti, favorendo l’efficacia dell’azione censoria. [...] Le vicende del secolo imposero in Spagna, come altrove, la necessità di centralizzare il rilascio delle autorizzazioni. Nel 1554 il Consiglio Reale di Castiglia se ne assunse l’esclusivo onere. Negli anni immediatamente successivi altre prammatiche istituirono una sorta di deposito legale per i libri licenziati, mentre le esportazioni in America vennero assoggettate a una regolamentazione ancora più severa. Nel frattempo tendeva a precisarsi  meglio la competenza dell’Inquisizione.

Nel 1558 una nuova prammatica dispose norme più rigide che rimasero nella sostanza in vigore sino alla metà del secolo XVIII. A differenza delle precedenti, che badavano a regolamentare il momento dell’impressione dei libri o del loro ingresso nel circuito iberico, in questa occasione ci si preoccupò di seguire lo stampato in ogni istante della sua esistenza. Si decisero così ispezioni periodiche a librerie e biblioteche effettuate dai vescovi e dagli inquisitori di concerto con le autorità civili locali. Queste operazioni andavano di pari passo con l’accentuarsi della centralizzazione. Attraverso i suoi Consejos la monarchia iberica controllava ogni fase della produzione e della circolazione dei libri: solo il Consiglio Reale poteva autorizzare la stampa per iscritto e solo il Consiglio Supremo dell’Inquisizione poteva dirigere l’attività repressiva.

[...] Completamente diverse furono le vicende della censura francese. [...] In origine in Francia, come in Spagna, fu la definizione del sistema di privilegio di stampa a consentire alla monarchia una certa sorveglianza sull’attività editoriale. Il controllo tuttavia rimase a lungo molto ridotto. [...] Diversi organi si contesero a lungo il diritto di sovrintendere alla produzione editoriale: teologi dell’Università, che avevano il compito di rivedere le opere e decretare le proibizioni, il Parlamento di Parigi, che aveva funzioni esecutive di polizia, e infine la monarchia. Ma proprio i mai ben definiti ambiti giurisdizionali e i violenti conflitti religiosi impedirono per decenni che si determinasse un ferreo sistema di controllo preventivo come avveniva altrove in Europa. Se la Sorbona decretava decise condanne contro Lutero e i suoi seguaci, poteva però capitare che il re, a cui stava a cuore mantenere alta la tensione contro Carlo V, cercasse di non alienarsi troppo la simpatia dei principi protestanti e del re d’Inghilterra Enrico VIII. Solo quando le tre istituzioni deputate si trovavano contemporaneamente consenzienti, l’efficacia dei provvedimenti era sicura.

[...] In Inghilterra [...] non si arrivò mai alla costituzione di un sistema di sorveglianza efficiente e ramificato come quello che operava nei paesi cattolici.

[...] Un giudizio sull’opera, indipendentemente da qualsiasi valutazione circa l’ortodossia cattolica della stessa è elemento corrente nell’idea di censura che predomina lungo tutto l’arco temporale considerato. Gli intelletti andavano educati o, meglio ancora – utilizzando un termine dell’epoca – coltivati. Lo scrisse esplicitamente uno dei maggiori bibliografi di fine ‘500, il gesuita Antonio Possevino, in un libro la cui tradizione italiana suonava appunto La Coltura degli ingegni, che trattava di scuole, di libri e del loro uso. Come si coltivavano le piante, si doveva agire sugli intelletti umani. Ha affermato Adriano Prosperi nel 1997 che «nella mente e nei concetti di questi uomini del tardo ‘500 è ben fisso il principio che gli intelletti debbono essere sorvegliati, educati, diretti, magari intervenendo con operazioni dolorose come il tagliar via certi modi di pensare dannosi e pericolosi, soprattutto facendo crescere la pianta dell’intelletto in direzioni giuste, adeguate a un’idea della civiltà fondata sull’eredità politica dell’Impero romano e su quella religiosa del cristianesimo». Non vi era spazio per la libertà un simile concezione, tanto meno per la libertà di scelta. ecco quindi offerto uno strumento che serviva da guida all’interno della congerie dei libri; ecco quindi «le candide et prudenti censure», «grandemente a tutti gli studi giovevoli» in grado di contrastare i vari «mezi tenuti da satanasso per turbar la coltura degl’ingegni negli studi».

[...] Occorrerà attendere il XVII secolo per iniziare a intravedere una diversa concezione dell’attività intellettuale in cui la libertà di scelta era posta in primo piano. Solo allora cultura laica e religiosa iniziarono a prendere vie radicalmente diverse. A quell’idea di controllo del resto la Chiesa cattolica rimase a lungo tenacemente attaccata. Solo nel 1966 papa Paolo VI abolì l’indice e ancora negli anni ’50 di questo secolo si poteva leggere in una Enciclopedia apologetica della religione cattolica (1953) che alle accuse laiche contro l’indice occorreva rispondere che «la libertà ha bisogno di essere illuminata, aiutata, protetta» e che la Chiesa nella sua missione doveva essere considerata come la madre che «restringe la libertà del bambino», per porlo al riparo di ogni pericolo.

(da M. Infelise, I libri proibiti, Roma-Bari, Laterza, 2003)

 

Il controllo sulla carta stampata comincia a essere scalfito solo quando, nell’Inghilterra liberale prima e negli Stati Uniti poi, vengono affermati in sede istituzionale principi liberali di convivenza sociale. L’affermazione del principio della libertà di stampa viene analizzato nella pagina seguente da Meuccio Ruini, un componente della Costituente italiana che illustra la genesi storica dell’articolo 21.

 

Meuccio Ruini

L’articolo 21

Fra tutte le libertà, quella di stampa è la più «costituzionalizzata»; un rapporto del 1944 dell’American Law Institute constata che su cinquantacinque Costituzioni vigenti è garantita in cinquantacinque (mentre il diritto di proprietà lo è in 50, il diritto all’istruzione in 40, all’associazione in 39, all’alloggio decente in 11, al lavoro in 9).

È una conquista civile da due secoli, ed è avvenuta prima che altrove in Inghilterra, dove però, come nota lord Kenyon, la libertà di stampa ha una posizione diversa che nei paesi a Costituzione scritta: «ogni uomo vi può pubblicare ogni cosa che dodici suoi conterranei (un giurì) ritengono non biasimevole, ma è punito se lo ritengono biasimevole». Libertà piena, ma gravi responsabilità specialmente civili di danni; le sanzioni pecuniarie contro i libels giungono talvolta (fu ricordato anche alla nostra Costituente) ad eliminare di fatto le aziende responsabili; vi sono altresì sanzioni penali e divieti di pubblicar cose segrete, turbare la pace pubblica e così via; nel silenzio della Costituzione la stampa è regolata, oltreché dalla common law, da acts speciali.

La prima Costituzione che parla di libertà di stampa è la nordamericana, non nel testo originario ma pochi anni dopo nel primo suo emendamento; la Costituzione staffetta di Virginia aveva affermato che «la libertà di stampa è uno dei grandi capisaldi del regime libero che non potrebbe essere limitato se non da governi dispotici». Si era allora nella fase delle grandi dichiarazioni di principio, ed era intanto avvenuta quella francese dei diritti dell’uomo; il primo emendamento del 1791 della Costituzione Federale vieta al Congresso di fare legge alcuna che restringa la libertà di parola e di stampa, e vieta ai singoli Stati di privare un individuo di tale libertà [...]. L’emendamento in sostanza presidia la libertà di stampa come diritto naturale con la penetrante tutela del giudice, ma non esclude, e le Costituzioni degli Stati Federati non considerano anticostituzionali, restrizioni che hanno lo scopo, come classificano i commentatori, di proteggere gli altri individui da calunnie e diffamazioni, di proteggere la società dalla propaganda oscena, di proteggere lo Stato dai disordini interni e dalle aggressioni esteriori.

Ed ecco la terza «madre delle Costituzioni», la Francia; la dichiarazione dei diritti del 1789 proclama che «la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge». Vi è il grido e la rivendicazione della libertà di stampa contro l’antica oppressione; ma si pone subito l’altro principio della repressione degli abusi e del rinvio per tali effetti alla legge ordinaria. La Costituzione del 1791 precisa altri due punti: il divieto della censura preventiva e la competenza del giurì popolare per ogni responsabilità civile e penale di stampa. Nel vortice delle Costituzioni quella del 1793 sembra andare più in là e voler garantire a tutti i francesi la libertà «indefinita» di stampa; ma un’altra dell’anno terzo torna all’impostazione che caratterizza per così dire la fase costituzionale dell’ottocento: «nessuno può essere responsabile di ciò che ha scritto se non nei casi previsti dalla legge».

Impostazione ripresa, dopo l’eclissi napoleonica della libertà di stampa, dalla Carta 1814 della restaurazione; «i francesi hanno il diritto di far stampare e pubblicare le loro opinioni conformandosi alle leggi che devono reprimere gli abusi di questa libertà». È il consueto binomio – libertà ma leggi repressive degli abusi – che riecheggia in altre Costituzioni e, mentre afferma il principio di libertà si rimette alle leggi senza alcun limite alle limitazioni che queste potevano imporre; qualcuno la disse una «carta bianca» lasciata al legislatore senza garanzie costituzionali. Aderì a questa formula l’articolo 28 dello Statuto Albertino del 1848: «la stampa sarà libera ma una legge ne reprime gli abusi».

(da M. Ruini, Il diritto di stampa nella Costituzione, Milano, Giuffrè, 1952)

 

Il rimando che lo Statuto albertino fa a leggi specifiche sulla stampa per reprimerne «gli abusi» consente, anche in questo ambito, a Benito Mussolini di lasciare invariata la lettera del dettato della costituzione del 1848 e di procedere alla censura della libera espressione con un’apposita politica, supportata da precisi provvedimenti e tesa non solo a zittire qualsiasi voce contraria al regime ma anche ad amplificare quelle che suonano positivamente, con un fortissimo intento pedagogico, come si legge nella seguente pagina dello studioso Mario Isnenghi.

 

Mario Isnenghi

La stampa dell’Italia fascista

A lungo si è misurata la stampa dell’Italia fascista con il metro della «libertà di stampa», liquidandola come un non-essere. Era questa una variante del luogo comune, riduttivo e banalizzante, del fascismo come «parentesi»: un vuoto di cui non si dava storia.

In realtà, lo specifico della stampa italiana fra le due guerre sta proprio nel suo sorgere dalla dichiarazione teorica di morte del principio del «quarto potere». Giornali e giornalisti non solamente non sono, ma neanche intendono essere un potere distinto e autonomo, chiamato a fare da contrappeso critico all’equilibrio fra i tre poteri. Quello stato e quella stampa non ci sono più: non concettualmente, non politicamente, non giuridicamente. Ciò che ancora parzialmente persiste negli «angolini da ripulire» di qualche «borghese con la tuba» è elemento residuale, di ritardo e di freno. Ma l’essere e il dover essere, la teoria e la prassi del giornalismo in sintonia col regime, sono altrove. Chi dunque voglia tracciarne oggi un profilo deve focalizzare la propria attenzione non più sulla «libertà», ma sulla «responsabilità».

È un processo di conquista, rapido, a passo di marcia, che avviene dopo la svolta del 1924, mentre sino a quel punto la grande stampa d’informazione, nazionale e regionale, aveva inter-agito – con il movimento, il partito, il governo di Mussolini – non diversamente dai potentati economici e dal resto delle istituzioni e del personale politico dell’Italia liberale: lo aveva coperto e blandito; aveva sperato di usarlo e di «normalizzarlo». Il delitto Matteotti e poi l’Aventino provocano un tardivo assalto, nella stampa come in tutto il vecchio mondo delle istituzioni e degli spiriti liberali. Sono sei mesi di agonia: del fascismo, pareva; della democrazia, nei fatti. I decreti liberticidi sono già nel cassetto del capo del governo. Dopo le azioni squadriste (assalti e incendi) contro le redazioni ostili, le nuove forme di controllo dall’alto, l’intimidazione, l’epurazione politica, i sequestri prefettizi entrano in funzione per garantire l’allineamento di chi non è già stato costretto al silenzio. È la nota faccia repressiva di una nuova concezione autoritaria e dirigista – delle funzioni della stampa, fra le altre cose – che sta prendendo piede. Meno risaputa è invece la faccia positiva, ovvero la dimensione progettuale e partecipata della visione che si va affermando. La si può cogliere attraverso il conflitto ai vertici nazionali e nelle realtà provinciali del sindacato di categoria, l’ex Federazione della stampa, che cambia nome, orientamento e uomini nel giro di un anno, tra dicembre 1924 e dicembre 1925, diventando anche luogo di selezione e rampa di lancio delle nuove gerarchie professionali. Basti ricordare il nome dei politici-giornalisti che guidano quest’opera di svuotamento e di conquista della rappresentanza: Ermanno Amicucci, che sarà direttore della Gazzetta del Popolo di Torino e, nel biennio 1943-45, del Corriere della Sera di Milano; Umberto Guglielmotti, destinato a diventare direttore, a Roma, della Tribuna (che, nel 1929, assorbirà l’Idea nazionale) e del Giornale d’Italia. Vicende e organigrammi locali confermano la formula dell’operazione condotta dall’alto, ma è un «dall’alto» diffuso, che si moltiplica di sede in sede e di regione in regione. All’inizio i militanti che conquistano le posizioni più ambite, emarginando notabili e funzionari, vengono dal Popolo d’Italia o dall’Idea nazionale; negli anni trenta, cioè a regime, lo schema-tipo del direttorio sindacale regionale arriva a essere composto di soli direttori. Il partito si è fatto così stato e le gerarchie – sindacali, politiche, professionali – si sovrappongono cumulativamente sino a coincidere.

Nel 1928, a ottobre, Mussolini convoca a Roma settanta direttori, illustrando loro il modello del giornalismo come orchestra: cacofonie e stecche non possono più essere tollerate; l’armonia viene dal saper suonare tutti insieme e dal fatto che i flauti non sono trombe e non tutti possono essere primi violini. L’immagine musicale può ancora preservare uno spazio di relativa diversità per le grandi testate preesistenti, sottoposte a un gioco combinato di fascistizzazione e di autofascistizzazione. Quotidiani nuovi e intransigenti, quali a Roma l’Impero o il Tevere e in provincia il Regime fascista di Farinacci, o «battaglieri fascisti», quali il selvaggio di Mino Maccari, continuano a tenere sotto pressione il Corriere, la Stampa e i loro emuli, strillando ai vecchi malvissuti e ai malconvertiti «borghesi». Il duce sa di aver bisogno degli uni e degli altri, militanti e funzionari, entusiasti e conniventi, apostoli e catecumeni, perché le storie d’Italia erano state diverse, i percorsi di accesso al «Fascio» per definizione non univoci, e anche le attese e i pubblici rimanevano, in parte, differenti. Del resto, è nella logica del partito unico che il conflitto di interessi e di linee si ripresenti, schermato, al proprio interno, non potendo più esplicarsi all’esterno. [...]

Il modus vivendi polifonico concesso sul finire degli anni venti, e pur sempre a rischio, non è destinato a reggere agli eventi. Lo stato di guerra – militare e ideologico – che caratterizza le vicende e l’autorappresentazione dell’Italia fascista dalla metà degli anni trenta induce un irrigidimento ulteriore del modello teorico che ha sostituito le presunzioni di autonomia, dissolutive e disgreganti, del «quarto potere». Nel blocco totalizzante della «nazione armata», anche la stampa ha da essere psicologicamente e politicamente «armata». Di «quarta arma» parleranno infatti in tempo di guerra i teorici del giornalismo nuovo, arma che dovrà servire a «educare», non già a informare. L’«effetto» prevale dunque sulla veridicità e la «responsabilità» prende ostentatamente il posto della «libertà». Nel connubio pubblico-privato (tra voluto e subito), il giornalismo si vuole servizio di stato, pur se permane la proprietà privata dei mezzi di produzione. Non a caso i direttori, come prima i prefetti e i questori, vengono ora nominati dal Governo. in una località figurano come i podestà dell’informazione, concessa o negata. Questi approdi teorici e istituzionali degli anni quaranta sono preceduti e non contraddetti dalla nascita, per progressivo sviluppo dell’originario Sottosegretariato alla stampa alle dipendenze di Mussolini, di quello che dal 1935 si chiamerà Ministero della Cultura Popolare. Stampa, cinema, teatro, tutto ciò che fa modernamente «cultura» fuori dalla scuola passa dalle dipendenze del nuovo organo di pianificazione statale. Direttori e redattori incaricati vi vengono di frequente convocati a militaresco «rapporto»; giornalmente ne partono, in molte copie, verso i giornali, le famigerate «veline», destinate – quando nel dopoguerra verranno riesumate – a risolvere e contraffare in riso amaro quegli anni di dipendenza, depauperati ormai di qualunque senso di missione. Una catarsi alquanto precaria, come oggi siamo meglio in grado di valutare, sia perché gli ex «velinari» e «velinati» rimangono nei ranghi della categoria anche nell’Italia post-fascista, sia perché quella subordinazione aveva i suoi lati servili, ma era anche strumento di un progetto nazionalpopolare (l’educazione dell’italiano di impronta fascista) non da tutti solo subito, ma partecipato. C’è chi, ancora nel 1942, parla del giornalismo come «cattedra delle moltitudini»: lo fa sul cattolico Avvenire d’Italia, non si un qualunque organo di federazione fascista. È una visione pedagogica, concomitante nel metodo anche se – in un futuro ormai prossimo – distinta nei contenuti.

(da M. Isnenghi, Stampa dell’Italia fascista,

in P. Milza, S. Bernstein, N. Tranfaglia, B. Mantelli, Dizionario dei fascismi, Milano, Bompiani, 2002)

 

L’affermazione della libertà di espressione, così come essa viene formulata nella Costituzione italiana, non tiene conto dello sviluppo dei nuovi media, limite già sentito nei primi anni cinquanta, quando Meuccio Ruini mette a confronto il dettato costituzionale italiano con quanto prodotto sul tema nello stesso periodo dall’Onu.

 

Meuccio Ruini

Il diritto di informazione e i principi internazionali

Giova a questo punto un richiamo a trattazioni che ebbero luogo in seno alle «Nazioni Unite» (quando la nostra Costituzione era già emanata). Non siamo più nel campo delle costituzioni e delle loro norme precettive, ma di principii e di patti in via di ratifica, a profilo sovranazionale, ed in certo senso sovracostituzionale, in quanto i singoli Stati terranno anche nelle loro costituzioni conto delle norme adottate da una comune organizzazione; intanto il richiamo serve a mettere in luce orientamenti nuovi e recenti nelle questioni della stampa.

Articolo 19 della dichiarazione dei diritti dell’uomo fatta nel 1948 dall’ONU (fu nella discussione detto l’articolo più importante di tutti): «ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione; il che implica il diritto di non essere inquietati per proprie opinioni ed il diritto di cercare, ricevere e diffondere senza considerazioni di frontiere le informazioni e le idee mediante qualsiasi mezzo di espressione». Viene subito in lice che accanto ed insieme al diritto di stampa si è sviluppato quello d’«informazione». Si rimane tuttavia ad una formulazione generale ed indeterminata. Fu respinta la proposta di inserire che ognuno esercitava il diritto «sotto la sua responsabilità», secondo le Costituzioni dei singoli Stati che si basavano sul binomio: libertà e responsabilità; né fu accolta la limitazione proposta dai delegati dell’Urss: «libertà di pensiero e d’opinione non devono essere accordate che nei limiti compatibili con l’interesse della sicurezza nazionale».

Si cercò poi di passare dalle dichiarazioni ai «patti» pei diritti dell’uomo; con una formula-base, più estesa e definita: «ogni individuo ha dritto alla libertà di pensiero ed alla libertà di espressione senza che possa esservi ingerenza di governo. Questo diritto comprende la libertà di opinione e quello di ricercare, ricevere e comunicare informazioni ed idee senza considerazione di frontiere, in forma orale, scritta, stampata, illustrata o con procedimenti visuali ed auditivi egualmente ammessi. Il diritto di espressione comporta doveri e responsabilità e può in conseguenza essere sottoposto a sanzioni e condizioni e restrizioni chiaramente definite dalla legge ma solamente per ciò che concerne ... ». Segue l’indicazione di categorie di atti, che comprendono 1) oltre la diffusione di segreti «di sicurezza nazionale» (dizione sostenuta dall’Inghilterra in modifica della originaria proposta di «interessi vitali per lo Stato»; 2) ed oltre alla «diffusione sistematica di notizie false o deformate con cognizione di causa che nuociano alle relazioni amichevoli fra popoli e Stati»; 3) le espressioni di opinioni che «incitano a cambiare con la violenza il sistema di governo»; 4) o incitano «direttamente a commettere atti criminali»; 5) o «compromettono il corso regolare della giustizia»; 6) si colpiscono naturalmente le «espressioni oscene» (che sono ormai oggetto dovunque di più forte repressione; 7) e si mettono infine le espressioni di opinione che «portano danno alla reputazione di persone fisiche e morali o nuociono loro in altra maniera senza vantaggio della comunità». Il testo del patto è interessante perché offre la visione di categorie che possono essere tenute presenti all’interno dei singoli Stati, quando ad esempio costituzioni come la nostra rimandano alle leggi appunto per determinare le categorie dove si può limitare la libertà di stampa. Va ricordato che la maggioranza della commissione che elaborava il testo non si sentì di «andare al di là e prevedere l’abolizione completa di ogni censura, specie nei films».

L’esame degli atti ONU (ed anche dell’UNESCO che si occupa di questi argomenti) mostrano [sic] che la nozione di libertà di stampa, come l’avevano intesa il sette e l’ottocento si è slargata in più sensi; è diventata (logicamente) anche diritto di informazione e si è – pei progressi tecnici – estesa ad ogni altro mezzo visuale ed auditivo di diffusione dell’informazione e della opinione. Alla salvaguardia della diffusione si è unita la protezione della attività che consiste nel raccogliere le informazioni e le opinioni; duqnue libertà dei corrispondenti di spostarsi col loro materiale, libertà di circolazione pei loro documenti; libertà di ascoltare radio estere. L’azione dell’ONU è rivolta a facilitare rapporti e scambi tra i popoli per una realizzazione integrale della libertà di informazione e di diffusione.

(da M. Ruini, Il diritto di stampa nella Costituzione, Milano, Giuffrè, 1952)

           

Dal punto di vista espresso da Ruini, molto cammino è ancora da fare: il diritto di informazione, ancora in molti Paesi, viene misconosciuto con tutto quello che ciò può comportare in termini di trasparenza dell’esercizio del potere.

 

Fonte: http://bazzano.comunite.it/contenuti/dispense/istituzioni07_08/10.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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Diritti e doveri dei cittadini

11. La Costituzione italiana. I diritti sociali

 

Oltre i diritti fondamentali che si riferiscono ai cittadini in quanto singole persone, la Costituzione riconosce diritti «sociali», che riguardano i bisogni dei cittadini in quanto membri di una comunità.

Un grande settore è quello della sicurezza sociale, cioè della realizzazione delle condizioni minime di vita per tutti. È in questo ambito che si parla di diritto alla salute (art. 32), grazie al quale si garantiscono cure e assistenza anche ai bisognosi.

Il diritto all’istruzione (art. 34) si realizza attraverso la scuola dell’obbligo, aperta a tutti i condizioni di uguaglianza e di completa gratuità. Al di là dell’obbligo scolastico, la Costituzione prevede che i capaci, anche se privi di mezzi, abbiano il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, attraverso aiuti economici.

Ci sono poi i diritti sociali che riguardano l’economia, primo fra tutti il diritto al lavoro (art. 35). La Costituzione afferma che il lavoro è un diritto del cittadino e che è compito dello Stato intervenire con ogni mezzo per consentire a ciascuno di poter lavorare. Questo non dà automaticamente a chiunque la possibilità di ottenere un lavoro e non consente al cittadino di poter ottenere un lavoro per legge: è piuttosto un programma dello Stato che deve creare condizioni favorevoli allo sviluppo dell’occupazione.

Per mettere i lavoratori in grado di far valere efficacemente le loro richieste, la Costituzione riconosce loro il diritto di sciopero (art. 40), il diritto cioè di sospendere il lavoro per protesta (contro salari troppo bassi, condizioni di lavoro troppo dure e così via), senza incorrere in sanzioni (per esempio il licenziamento) da parte del datore di lavoro. Inoltre, ogni cittadino impossibilitato per problemi fisici a svolgere un’attività e sprovvisto delle risorse per vivere ha diritto all’assistenza da parte dello Stato (art. 38). L’assistenza scatta anche in caso di infortuni, malattie e disoccupazione involontaria.

 

TITOLO II

RAPPORTI ETICO-SOCIALI

 

Art. 29.

La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.

Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.

 

Art. 30.

È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.

Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti.

La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima.

La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità.

 

Art. 31.

La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.

Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.

 

Art. 32.

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

 

Art. 33.

L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.

La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.

Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.

La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.

È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale.

Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

 

Art. 34.

La scuola è aperta a tutti.

L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.

I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

 

TITOLO III

RAPPORTI ECONOMICI

 

Art. 35.

La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori.

Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro.

Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero.

 

Art. 36.

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.

Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

 

Art. 37.

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.

La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.

 

Art. 38.

Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale.

I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale.

Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.

L'assistenza privata è libera.

 

Art. 39.

L'organizzazione sindacale è libera.

Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.

È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.

I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

 

Art. 40.

Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano.

 

Art. 41.

L'iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

 

Art. 42.

La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.

La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale.

La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.

 

Art. 43.

A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.

 

Art. 44.

Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà.

La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane.

 

Art. 45.

La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.

La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell'artigianato.

 

Art. 46.

Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.

 

Art. 47.

La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito.

Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

 

            I diritti sociali garantiti dalla Costituzione contribuiscono a caratterizzare la Repubblica italiana come uno Stato sociale, in cui non solo è garantita la sicurezza sociale del singolo, che viene sostenuto con misure di tutela del reddito in caso di vecchiaia, invalidità, malattia, infortunio e disoccupazione, con assegni familiari, con l’assistenza sanitaria e l’edilizia sociale, ma anche con misure volte a uguagliare le diverse possibilità iniziali del singolo, con l’istruzione, la formazione statale, la redistribuzione parziale del reddito da parte del sistema fiscale, nonché con la regolamentazione del mercato del lavoro e con provvedimenti di tutela delle condizioni lavorative. L’idea che lo Stato debba preoccuparsi del benessere dei singoli affonda le radici in precise politiche attuate in campo pubblico nel corso del medioevo e dell’età moderna, come è possibile rilevare dalla seguente pagina di Gerhard A. Ritter.

 

Gerhard A. Ritter

Assistenza ai poveri e tutela del benessere dal Medioevo alla fine del XVIII secolo

            La libertà dalla paura e dal bisogno ed il raggiungimento della felicità sulla terra grazie ad uno Stato ideale, spesso organizzato secondo i principi della proprietà comune e dell’assoluta eguaglianza fra gli uomini, è un antichissimo sogno dell’umanità, che ha continuamente influenzato il genere letterario dell’utopia.

Nella realtà, però, le istituzioni e le risorse del medioevo e degli inizi dell’età moderna non bastavano a garantire la sicurezza sociale, soprattutto in seguito alle crisi agrarie, ai secolari mutamenti delle risorse alimentari, alle epidemie ed alle guerre. L’assistenza agli anziani, ai malati, alle vedove, agli orfani e soprattutto ai poveri, nel medioevo spettava principalmente a famiglie e parenti. Esistevano inoltre un obbligo di tutela da parte dei proprietari terrieri e dei datori di lavoro verso i loro dipendenti ed un dovere assistenziale dei sovrani, dei nobili e dei cavalieri verso i poveri e i «deboli»; mentre chi apparteneva a gilde e corporazioni poteva beneficiare dell’attività delle loro istituzioni mutualistiche, basate sul principio solidaristico. Dei poveri e degli inabili al lavoro non protetti da queste reti sociali si interessava in prevalenza la Chiesa, soprattutto le parrocchie e i conventi. Le fondazioni di beneficenza sostenevano gli ospedali, così importanti nel medioevo per l’assistenza ai bisognosi, nei quali venivano soccorsi tanto i poveri di passaggio quanto un determinato numero di bisognosi del luogo, oltre ai cosiddetti prebendari, che cedevano i loro beni in cambio di vitto e alloggio durante la vecchiaia e la malattia. Mentre alcuni di questi ospedali si occuparono soprattutto di orfani, anziani, invalidi o dementi, altri operarono per tutti i bisognosi.

La miseria estrema era un fenomeno di massa. Accanto a disoccupati, malati, orfani, anziani, deboli di mente, indolenti, bastardi o criminali, essa coinvolgeva un numero rilevante di braccianti, contadini, lavoranti a domicilio, giornalieri di città, apprendisti, molti artigiani – soprattutto i più anziani – e, particolarmente, molte donne vedove o abbandonate dai mariti. Secondo alcune stime, nel tardo medioevo il 10-20% circa della popolazione residente nelle città della Germania meridionale dipendeva dall’elemosina e da istituzioni assistenziali. Circa il 50 % della popolazione viveva al limite della povertà, «alla giornata», e in caso di malattia, vecchiaia, vedovanza, raccolto scarso, carestia o disoccupazione, c’era la possibilità che andasse ad allargare la schiera dei mendicanti.

La miseria era considerata un «fenomeno costante», «naturale ed inevitabile come le catastrofi naturali», un destino per chi ne era colpito, un problema sociale minaccioso e terribile in costante aumento dopo il XIII secolo. Forse come reazione all’umiliazione e al disprezzo per i poveri, già all’epoca del papato riformistico dell’XI e XII secolo, e ancor più nel XIII secolo, si giunse, con una serie di movimenti laici e ordini religiosi, come i cistercensi, i premonstratensi, i francescani e i domenicani, ad idealizzare la povertà e soprattutto i pauperes Christi, che la abbracciavano volontariamente per prepararsi a vivere come Cristo e i suoi apostoli. L’allontanamento protocristiano dal mondo si collegava, da un punto di vista escatologico, all’anticipazione, già sulla terra, della vita dopo il ritorno di Cristo. Insieme alla rivalutazione della povertà, prese piede il tentativo di concedere almeno ai poveri rispettabili, finiti involontariamente in miseria, il diritto all’assistenza da parte dei benestanti, dei potentes, che in tal modo avrebbero potuto assicurarsi l’intercessione dei poveri davanti a Dio, salvando così la propria anima.

Né il libero sistema dell’assistenza religioso-monastica, pubblica, mutualistica e privata, che a seconda dei casi dava troppo o niente, né la parziale rivalutazione della povertà nell’etica cristiana poterono evitare la miseria di massa, dovuta alle ingenti carestie, soprattutto i tempi di scarso raccolto. Nel tardo medioevo e nel XVI secolo, con il grande esodo della popolazione, la fuga dalle campagne, la maggiore divisione del lavoro e la riduzione dei salari reali, aumentò il numero delle persone che, non più tutelate dalla famiglia, dai comuni, dai proprietari terrieri o dalle corporazioni, non erano più in grado di fare economia per i momenti di bisogno e di disoccupazione e che, insieme a malati cronici, inabili al lavoro ed indolenti, formarono quelle schiere di mendicanti girovaghi, considerate, da fonti del XV e del XVI secolo, una vera e propria calamità, un pericolo sociale, un problema di ordine e di sicurezza.

Il fenomeno colpì soprattutto le città sovrappopolate, le quali tentarono di ovviare alla nuova situazione costituendo ordini per poveri e mendicanti e cercando di rendere più efficiente l’assistenza ai bisognosi. Fu inoltre operata una distinzione più netta tra i diversi casi di povertà. Si differenziarono i poveri «immeritevoli» abili al lavoro, per lo più fannulloni e vagabondi, dai bisognosi «meritevoli» finiti in miseria: anziani, invalidi, storpi, malati, vedove con bambini. Il soccorso si concentrò inoltre sui bisognosi del luogo, scoraggiando i forestieri. Mentre all’inizio, accanto al crescente controllo delle autorità sui casi di bisogno, effettuato secondo criteri il più possibile obiettivi, contribuivano all’amministrazione ed alla distribuzione della carità anche le istituzioni religiose, dal 1520, su iniziativa di circoli umanitari e associazioni religiose, si avvertirono soprattutto nelle città i primi sintomi di una riforma sostanziale dell’assistenza ai poveri. L’accentramento dell’assistenza in fondi cittadini per i bisognosi, sostenuti però prevalentemente da fondazioni e solo sussidiariamente da tasse per i poveri, limitò l’assistenza religiosa. Il soccorso ai bisognosi non era più solo un mezzo per lenire la miseria individuale; la politica dei poveri fu piuttosto uno strumento con cui si cercava di risolvere i problemi sociali generali.

Alla severità della politica assistenziale esercitata dalle città, favorita dalla trasformazione dei magistrati cittadini in autorità superiori, corrisposero i tentativi delle città-Stato, influenzati da questo esempio, di regolamentare la povertà e la mendicità e di coinvolgere legislativamente i comuni nell’assistenza ai bisognosi del luogo. Gustav Schmoller ha visto nel «passaggio dell’assistenza ai poveri o ai malati da organi sociali molto limitati e piccoli ad istituzioni più grandi ed efficienti [...] una delle più grandi condizioni in grado di riorganizzare radicalmente l’economia politica e statale, [...] uno dei criteri più importanti di statalizzazione delle istituzioni economiche».

Nonostante la secolarizzazione del patrimonio ecclesiastico accelerasse e rafforzasse lo sviluppo in zone protestanti, nell’Europa del XVI secolo si affermarono quasi ovunque i nuovi metodi – basato per lo più su obblighi, controlli sociali ed esami molto rigoroso circa lo stato individuale del bisogno – e le nuove istituzioni per i poveri, libere da limiti confessionali. Non si trattava solo di una conseguenza dei nuovi bisogni e problemi sociali, ma anche di un aspetto del fondamentale «disciplinamento sociale» connesso all’affermazione dello Stato assolutistico e della sua aspirazione ad una competenza generale in tutti i campi della vita sociale. La povertà dei bisognosi abili al lavoro non era più ritenuta – come nel medioevo – un destino o un’espressione di particolare vicinanza al Signore, né – come accadde all’inizio del XX secolo – un frutto dei rapporti sociali, bensì la conseguenza di ozio, prodigalità o imprevidenza, e quindi un difetto morale del singolo che bisognava correggere. Come strumento di risoluzione del problema della povertà, ma anche come punizione o educazione del singolo – in particolare dei bambini poveri – all’indipendenza economica, il lavoro coatto assunse un’importanza centrale. L’indignazione per la rivolta dei contadini, l’affermazione del movimento anabattista, che ridusse la propensione dei benestanti a donazioni e offerte, la penuria finanziaria, le carenze nell’amministrazione del denaro destinato ai poveri, l’aumento dei mendicanti, dovuto all’aumento repentino dei prezzi a partire dalla metà del XVI secolo, hanno contenuto gli aspetti emancipatori e assistenziali dei provvedimenti di riforma a favore di una nuova politica repressiva e di una interpretazione restrittiva dello stato di bisogno.

Quanto detto appare particolarmente evidente nel periodo del mercantilismo, quando la politica statale e comunale per i poveri servì anche a procurare coattivamente alle nuove manifatture forza lavoro assolutamente necessaria e a buon mercato. La repressione dell’accattonaggio e del vagabondaggio, considerata un problema di sicurezza, di disciplina sociale e di correzione delle debolezze caratteriali grazie al lavoro e al guadagno economico, andò quindi di pari passo con l’istituzione di penitenziari e case di correzione, i cui ospiti furono spesso abbandonati allo sfruttamento dei datori di lavoro. Nei paesi protestanti, l’assistenza ai poveri – anche in considerazione del fallimento di tutti gli sforzi della Chiesa – passò ai comuni ed allo Stato, che spesso la assunsero malvolentieri; nei territori cattolici, invece, come risposta alla riforma, l’assistenza ai bisognosi fu di nuovo considerata un compito ecclesiastico-religioso, trovando tra l’altro eco nelle aspirazioni caritatevoli dei vescovi e nell’opera di soccorso dei gesuiti e delle suore teatine e di carità.

Molto più tardi, verso il 1700, anche il protestantesimo cercò, con il pietismo, di far rivivere in Prussia quel carattere religioso-assistenziale passato in secondo piano nella politica sui bisognosi degli ultimi 150 anni. Secondo Lutero, ai poveri veri – selezionati secondo rigidi criteri – doveva essere assicurato solo il minimo esistenziale, e la sua dottrina sulla giustificazione solo attraverso la fede ebbe tra l’altro come conseguenza il venir meno di un importante motivo della carità, cioè la preoccupazione di salvare la propria anima. I pietisti pretendevano ora un cristianesimo attivo, fatto di lavoro per il prossimo e in particolare per i bisognosi. Ciò era considerato espressione di fede, strumento di prova dell’uomo rinato dinanzi a Dio. Anche per i pietisti al centro delle proposte per eliminare la povertà c’erano lo sviluppo dell’occupazione l’educazione all’autonomia. Sorsero così scuole per poveri, orfanotrofi e case di riposo, e furono costruite fabbriche per un impiego produttivo dei bisognosi.

[...] Gli illuministi erano in genere dell’opinione che la povertà non fosse un male eterno ed inestirpabile. Il problema della povertà doveva essere risolto, in sintonia con la fede generale nel progresso verso un’umanità razionale,dal punto di vista oggettivo attraverso l’eliminazione delle sue cause e l’incremento delle possibilità produttive e lavorative, e dal punto di vista soggettivo attraverso un’educazione migliore, soprattutto dei giovani. al posto della vecchia politica repressiva dei poveri, il cui bersaglio principale erano i vagabondi e i mendicanti, e che aveva privilegiato la punizione, il disciplinamento e la correzione dei poveri con l’umiliante lavoro coatto, subentrò l’idea di una politica filantropica, basata sull’idea della solidarietà fra gli uomini. Dietro le nuove tendenze di riforma sociale dell’assistenza ai bisognosi c’era una nuova immagine dell’uomo, che privilegiava la dignità dell’individuo, il diritto alla felicità ed al mantenimento in caso di bisogno, sostituendo la caritas cristiana con il sentimento sociale della compassione, della ripugnanza provata nel vedere un altro uomo soffrire.

[...] Nella rivoluzione francese l’idea liberale dei diritti dell’uomo e del cittadino, che sottolineò la libertà del cittadino nei confronti dello Stato, fu collegata al concetto di uno Stato attivo, pronto ad intervenire nei rapporti sociali. Con l’intensificarsi del dibattito sui diritti sociali fondamentali del cittadino si aprì un nuovo capitolo nella storia dello Stato sociale.

Sotto l’influsso dello Stato illuminista, già prima della rivoluzione, gli statisti francesi Anne-Robert-Jacques Turgot e Jacques Mecker avevano cercato di sostituire con sistemi umanitari la repressiva assistenza ai poveri praticata in Francia. Talvolta, poi, la letteratura prerivoluzionaria derivò dal principio della «fraternità» alcuni diritti sociali fondamentali. La richiesta, nata ben presto dalla rivoluzione, di un ampliamento della responsabilità sociale dello Stato si materializzò nella integrazione del testo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino compresa nella Costituzione del settembre 1791, secondo cui bisognava «creare ed organizzare un’istituzione generale per l’assistenza pubblica, per allevare i bambini abbandonati, aiutare i malati poveri e procurare lavoro alle persone sane povere, che non riescono a procurarselo autonomamente». Bisognava poi creare un’istruzione elementare gratuita e pubblica.

In seguito alle insistenze dei giacobini, furono infine inseriti nella Costituzione del 1793 i diritti sociali fondamentali del cittadino. Si stabiliva espressamente che la società doveva mantenere i suoi cittadini sfortunati, «sia procurando loro un lavoro, sia garantendo i mezzi di sussistenza a chi è in grado di lavorare».

(da G.A. Ritter, Storia dello stato sociale, Roma-Bari, Laterza, 1991)

 

Le idee contenute nella Costituzione del 1793 costituiscono in Europa il punto di partenza del dibattito sui diritti sociali fondamentali che si svolgerà durante tutto l’Ottocento, contribuendo a ispirare tutta una serie di provvedimenti mirati a definire una politica assistenziale. A questo riguardo, un ruolo pionieristico ricoprono l’Inghilterra della prima rivoluzione industriale, dove viene varata una legislazione di tutela dei lavoratori, e la Germania di Otto von Bismarck (1815-1898), vengono varati in funzione antisocialista tutta una serie di provvedimenti che garantiscono diverse assicurazioni sociali. La legislazione inglese, per un verso, e tedesca, per un altro, divengono punto di riferimento costante per gli altri Paesi europei, anche per l’Italia, dove però la legislazione sociale varata dal momento dell’unità all’ascesa al potere di Mussolini appare estremamente frammentaria, diseguale (ogni provvedimento è dedicato a un tipo ben preciso di lavoratore) e tesa a blandire il lavoratore, potenzialmente rivoltoso nell’idea del legislatore. Di diverso carattere appaiono i provvedimenti di natura sociale messi a punto durante il Ventennio e che vengono esposti nella pagina seguente.

 

Lorenzo Gaeta

La «politica sociale», tra autoritarismo e consenso

Negli anni ’30 la rivista «Politica sociale» apriva ogni suo numero col motto mussoliniano «La legislazione sociale del regime fascista è la più avanzata del mondo», mentre era diventato un luogo comune che le altre nazioni, anche quelle non totalitarie, attingessero a piene mani dalla legislazione sociale italiana. Era solo propaganda e, soprattutto, si trattava di una strategia organica al progetto di riorganizzazione corporativa della società e dello Stato oppure di una adeguamento standard rispetto a quanto avveniva contemporaneamente all’estero? Il notevole ampliamento delle funzioni statali era legato davvero alla nuova essenza dello Stato totale, «che tutto prevede ed a tutto provvede»?

[...] Un primo filone di provvedimenti può dirsi funzionale a logiche di politica espansionistica. Viene innanzitutto in luce l’intervento demografico, tema per la verità non estraneo anche ad altri paesi non totalitari. Oltre alla famosa tassa sui celibi ultraventicinquenni (1926) – che fallì completamente, almeno nella misura in cui ci si aspettava non tanto un aumento dell’introito fiscale, quanto una diminuzione del numero degli onerati – ai premi di nuzialità per gli impiegati statali (1937), un grosso incentivo all’aumento della natalità doveva essere offerto da quelle norme che garantivano alle lavoratrici madri (come al solito, non a tutte) l’astensione prima e dopo il parto (1929 e 1934), nonché il divieto di licenziamento (1930). [...]

Letti in un’ottica demografica, tali provvedimenti non potevano certo nascondere la strumentalità della tutela della donna. [...]

Pur essendo svariate le facilitazioni di assunzione e di carriera e le agevolazioni fiscali concessi ai capi di famiglie numerose, la politica demografica, «il problema dei problemi», naufragò completamente. I sessanta milioni di italiani che avrebbero fatto sentire «il peso della loro massa e della loro forza nella storia del mondo» rimasero solo nelle parole di Mussolini. Anzi, se la popolazione italiana aumentò in cifra assoluta, il merito fu con ogni probabilità della parte meno enfatizzata della politica sociale demografica: la lotta contro la mortalità infantile, inserita nel quadro più generale del progresso della ricerca scientifica contro le malattie «sociali», che produsse l’allungamento della durata media della vita.

In questo campo furono mobilitati gli enti che dovevano fungere da supporto alla politica sociale del regime, in primo luogo l’Opera nazionale per la maternità e l’infanzia (ONMI), istituita nel 1925 sulla scorta di istituzioni analoghe esistenti in periodo liberale. Tra i suoi molteplici compiti figurava anche la predisposizione di refettori, consultori, cliniche ostetriche, sussidi alimentari, e così via, per arginare appunto il fenomeno, preoccupante in Italia molto più che altrove, dell’elevatissima mortalità infantile.

«Molti, sani e forti», recitava uno dei tanti slogan dell’epoca. In effetti, l’esigenza sociale dell’assistenza generale al popolo e l’esigenza politica di avere un numero rilevante di cittadini sani e robusti costituivano l’anima della politica fascista di potenziamento interno ed esterno. La politica sociale doveva quindi, innanzitutto, assecondare l’imperialismo – «straccione» quanto si vuole – del regime: «il  numero è potenza», per continuare con gli slogan. E perciò, ad esempio, l’Opera nazionale balilla (ONB, fondata nel 1926) e poi la Gioventù italiana del littorio (GIL, dal 1937) dovevano fornire ai ragazzini, oltre che assistenza sanitaria, anche un’educazione paramilitare, allo scopo di preparare una generazione forte per le future battaglie espansionistiche.

La grande crisi degli anni ’20 e ’30 non risparmiò ovviamente l’Italia, che ne risentì anzi in misura massiccia. E la politica sociale di quegli anni fu senz’altro piegata a logiche di contenimento della crisi economica. [...]

La politica sociale «della crisi» agì grosso modo in due direzioni: da un lato tentando di attutirne gli effetti economici, dall’altro governando e selezionando il mercato della disoccupazione. L’ampliamento in senso familiare delle assicurazioni sociali obbedì appunto al primo obiettivo, il cui fulcro fu però la politica del salario «familiare».  [...]

Il secondo versante sul quale agì la politica sociale anticrisi fu quello della selezione della disoccupazione a scapito di fasce ben determinate della popolazione. E, se anche la lotta contro il celibato ebbe un addentellato di questo tipo, favorendo nelle assunzioni i padri di famiglia, il fulcro di tali strategie fu senza dubbio la massiccia espulsione della manodopera femminile dal mercato del lavoro, che si abbassò infatti dal 28 % del 1920 al 18 % del 1931. Come si vedrà, col ritorno a casa della donna si servirono anche altri obiettivi di politica sociale; la maschilizzazione del mercato del lavoro ebbe, comunque, anche un considerevole ruolo anticrisi.

La politica sociale incentivò questo processo sotto più di un punto di vista, a cominciare proprio dagli interventi di tutela della donna lavoratrice, già in parte ricordati, e riuniti tutti nella legge organica del 1934 sul lavoro femminile (e minorile, come era consuetudine). Le sue disposizioni (su orario di lavoro, lavoro notturno, divieto o limitazione di determinate lavorazioni, riposo settimanale, igiene, sicurezza e moralità nei luoghi di lavoro ecc.), per più versi largamente insoddisfacenti finirono, nella misura in cui aumentavano il costo della forza lavoro femminile, con il favorire l’espulsione dal lavoro della donna, sempre meno conveniente da assumere e da continuare a occupare. Se la crisi esigeva il sacrificio di un certo numero di persone, queste dovevano essere prevalentemente donne. [...]

Fu poi percorsa un’altra strada, molto meno tortuosa della precedente: quella dell’espulsione diretta, comune del resto a tanti altri paesi in quegli anni. Si cominciò col porre dei limiti all’assunzione di donne nelle pubbliche amministrazioni (1933) e con l’escludere del tutto le donne da alcuni uffici pubblici (1934). Nelle aziende private fu fissato nel 1934 un tetto massimo per il personale femminile (20 % per il commercio e 16 % per il credito e le assicurazioni) ovvero oprata una discriminazione tra occupazioni adatte e non adatte alle donne (in tutto il settore industriale). La logica conclusione di questa corsa fu una legge del 1938, che limitò al 10 % il personale femminile sia nel settore pubblico che in quello privato, ed attribuì alle pubbliche amministrazioni il potere discrezionale di escludere completamente le donne nel caso in cui l’impiego fosse giudicato ad esse non confacente (pochi anni dopo, con la guerra, la situazione ovviamente si invertì, fino a che nel 1943 addirittura si vietò l’impiego di personale maschile in determinate attività).

La crisi poteva poi essere combattuta anche cercando di decongestionare le grandi concentrazioni industriali, tentando cioè di spostare le masse di disoccupati dalla città alla campagna, dove fra l’altro risultavano meno visibili. Con la consueta politica del doppio binario, da un lato furono emanate le leggi sulle migrazioni interne e contro l’urbanesimo (1928, 1931, 1939), quasi a voler reintrodurre una sorta di servitù della gleba, dall’altro lato vennero create o  perfezionate strutture che rendessero più confortevole la vita nei campi, dalle case coloniche alle opere pubbliche, al credito agrario, alla bonifica integrale, all’assistenza pediatrica «ambulante». [...]

La politica sociale, naturalmente fece la sua parte nella creazione di un’opinione pubblica favorevole al regime. Fu fondamentale il lavoro svolto dalle grandi strutture pubbliche dette «opere sociali», che costituirono uno strumento privilegiato di tramite tra lo Stato e la famiglia, con forti valenze propagandistiche. L’ONB (poi GIL), dopo lo scioglimento delle associazioni scoutistiche cattoliche dopo il 1928, assunse il monopolio nel campo dell’educazione fisica e morale di fanciulli e adolescenti. Agli adulti provvedeva dal 1925 l’Opera nazionale dopolavoro (OND), ente di rilevante importanza politica e propagandistica, indirizzato ad occupare il tempo libero dei lavoratori. Tra i tanti compiti spettanti, poi, all’ONMI, non a caso politicizzato più a fondo nel 1933, non mancava la permeazione fascista della famiglia.

La donna svolse un ruolo fondamentale nella realizzazione di queste attività di creazione del consenso. I fasci femminili organizzavano l’assistenza alle madri; le visitatrici fasciste portavano a domicilio (soprattutto nei rioni popolati e in campagna) aiuti morali e materiali, propagandando le leggi sociali e le provvidenze del regime; le massaie rurali fasciste curavano l’assistenza e la propaganda in campagna; le assistenti sociali fasciste, preparate da un’apposita scuola, curavano le relazioni sociali nelle fabbriche, propagandando le leggi di tutela del lavoro, cercando di convincere gli operai ad accettare i sacrifici che venivano richiesti e facendo opera di persuasione politica.

Il rapporto fra Stato e famiglia, quindi, non fu certo a senso unico: essa non doveva soltanto ricevere provvidenze, ma offrire in cambio l’appoggio al nuovo Stato totale. Il fascismo cercò, insomma, di plasmare una famiglia a sua immagine e somiglianza, microcosmo della società autoritaria. E la politica sociale agevolò anche questa operazione.

(da L. Gaeta - A. Viscomi, L’Italia e lo Stato sociale, in G.A. Ritter, Storia dello stato sociale, Roma-Bari, Laterza, 1991)

 

La caduta del regime fascista non comporterà l’abolizione della normativa messa a punto durante il Ventennio. Solo nei decenni seguenti, verrà messa a punto una nuova legislazione in accordo con il dettato costituzionale; tuttavia, la crescente mancanza di risorse da destinare allo «Stato sociale» costringe a un continuo ripensamento delle condizioni di salvaguardia dei lavoratori e a un parallelo incessante sforzo regolativo.

 

Fonte: http://bazzano.comunite.it/contenuti/dispense/istituzioni07_08/11.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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Diritti e doveri dei cittadini

12. La Costituzione italiana. I diritti politici

 

I diritti politici sono quelli che assicurano la partecipazione attiva del cittadino alla vita e alla direzione dello Stato. Il diritto pubblico fondamentale è il diritto al voto, che si può esprimere in forma attiva (quando si partecipa alle votazioni per eleggere i propri rappresentanti) e passiva (quando ci si presenta come candidati in una formazione politica, per essere eletti).

Si vota quando si è raggiunta la maggiore età, cioè a partire dai 18 anni. Il voto è personale, dato che nessuno può votare per un altro; uguale (il voto di una persona benestante vale quanto quello di una persona disagiata; quello di un anziano quanto quello di un giovane); libero (non può essere condizionato da nessuno) e segreto (in quanto espresso su una scheda anonima, all’interno di una cabina elettorale dove può entrare solo l’elettore).

I voti si esprimono per i raggruppamenti politici, i partiti, che sono associazioni caratterizzate da un programma politico elaborato allo scopo di conseguire determinati obiettivi.

 

TITOLO IV

RAPPORTI POLITICI

Art. 48.

Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.

Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.

La legge stabilisce requisiti e modalità per l'esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all'estero e ne assicura l'effettività. A tal fine è istituita una circoscrizione Estero per l'elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge.

Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.

 

Art. 49.

Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.

 

Art. 50.

Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità.

 

Art. 51.

Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.

La legge può, per l'ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica.

Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro.

 

Art. 52.

La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.

Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l'esercizio dei diritti politici.

L'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica.

 

Art. 53.

Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.

 

Art. 54.

Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.

I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

 

            La democrazia funziona, ha sempre funzionato, attraverso un sistema di partiti. Essi appaiono necessari affinché possa manifestarsi questa particolare forma di organizzazione politica. I partiti sono infatti, allo stesso tempo, organizzatori di interessi materiali di diversi gruppi sociali, propositori di idee e di teorie di interpretazione della società e canale di selezione della classe politica. In tutta l’Europa democratica, dove vigono sistemi di democrazia rappresentativa, attraverso i partiti vengono selezionati i presidenti del consiglio, i ministri, i parlamentari. È appunto il fatto che il sistema dei partiti all’interno delle democrazie rappresentative serva a selezionare una classe dirigente dal ricambio controllato (oggi al governo, domani all’opposizione a seconda dei risultati elettorali) che rende diversa la politica contemporanea da quella dell’antico regime, dove non era data cittadinanza all’opposizione. E, non a caso, l’origine dei partiti e del sistema cui danno vita è da ricercare all’interno delle grandi rivoluzioni borghesi – quella inglese del Seicento e quella francese del Settecento – che sono alla base del successivo sviluppo democratico, come ricorda nella pagina seguente G. Galli, sottolineando come l’emergere di tali conformazioni debba essere messo in relazione con il contemporaneo scoppio della rivoluzione industriale.

 


Giorgio Galli

Le prime formazioni partitiche

            I moderni partiti politici cominciano a delinearsi quando si completa il processo cui la borghesia mercantile, quella che poi diventa capitalistica industriale, organizza il proprio potere politico. Questo processo rompe rivoluzionariamente le caratteristiche originarie della monarchia assoluta erede del mondo feudale: erede perché nel Seicento in Inghilterra, come nel Settecento in Francia, rimanevano i residui sovrastrutturali del feudalesimo, mentre i modi di produzione cominciavano a essere capitalistici anche se non si era ancora sviluppata l’industria moderna.

            A me sembra di poter dire che sia nell’Inghilterra del Seicento sia nella Francia del Settecento i modi coi quali lo scontro rivoluzionario esprime la direzione borghese del processo rivoluzionario si manifestano in primo luogo nell’istituzione del parlamento, è già indicano quella particolare forma moderna di organizzazione di interessi e di idee che è il partito politico.

            In Inghilterra già nel Seicento si formano i due grandi partiti che sono rimasti a lungo i partiti storici del sistema politico britannico a democrazia parlamentare consolidata, cioè whigs e tories, che sono gli antecedenti di quelli che anche ora in Inghilterra si chiamano partito conservatore (tories) e partito liberale (whigs), rimasti tali sino all’inizio di questo secolo, allorché sorge e si sviluppa il partito laburista.

            L’articolarsi dei due principali raggruppamenti, quello più conservatore (tories) e quello più liberale e progressista (whigs) è all’origine della rivoluzione inglese e spiega il funzionamento del sistema parlamentare in Inghilterra sin dal Seicento. Queste tendenze si delineano durante la prima rivoluzione del 1640-1649 anche se vi sono altre caratteristiche di raggruppamenti sulla base della religione o altro. Whigs e tories sono infine nettamente presenti a partire dal 1688, in quella che gli inglesi chiamano «The glorious Revolution» (la gloriosa rivoluzione) così definita perché diversamente dalla prima non comportò una guerra civile. È appunto la rivoluzione del 1688 che sancisce definitivamente la vittoria del regime parlamentare in Inghilterra. L’impegno verso il parlamento della monarchia degli Orange ne sancisce il funzionamento sulla base di questi due grandi raggruppamenti di idee e di interessi che possiamo definire partiti politici, anche se non nel senso moderno del termine. Da un lato abbiamo una tendenza maggiormente conservatrice, per certi aspetti legata alla corona, alla monarchia degli Stuart, con componenti di impostazione cattolica e con una base sociale nelle campagne, nella proprietà terriera: quindi un insieme di fattori economici e culturali; dall’altro il partito dei whigs, che si può definire liberale in senso lato, più radicato a Londra e nella borghesia mercantile cittadina, nettamente anticattolico e quindi a favore della Chiesa nazionale inglese, forte sostenitore dei diritti del parlamento nei confronti della monarchia: anche in questo caso abbiamo un insieme di interessi e di idee.

            Un secolo più tardi, quando si ha il secondo grande processo rivoluzionario in Europa, che determina le condizioni per la parallela creazione della società industriale e della moderna democrazia rappresentativa, troviamo anche in Francia raggruppamenti politici. Duverger li definisce Clubs rivoluzionari, ma hanno caratteristiche che li rendono precursori dei moderni partiti politici: tra l’altro, hanno anche un’organizzazione (i Clubs, appunto) abbastanza radicata nella società. Con la conquista del potere politico da parte della borghesia francese per organizzare parallelamente democrazia rappresentativa e società industriale, due sono le distinzioni note tra i raggruppamenti politici: si tratta dei giacobini e dei girondini. Sono i due partiti politici che si contendono la guida e l’egemonia del processo rivoluzionario in Francia e che hanno, come i tories e i whigs, la caratteristica di essere al tempo stesso organizzazioni di interessi materiali e di posizioni teoriche e culturali.

            I girondini, che guidano il processo iniziale della rivoluzione e che hanno la loro base sociale soprattutto nella Gironda, rappresentano settori dell’alta borghesia; la loro caratteristica culturale è la derivazione dai filosofi illuministi e hanno in comune con i loro corrispettivi inglesi (i tories) di essere organizzatori di interessi materiali (quelli della media e alta borghesia francese) e una posizione ideale, l’illuminismo qual era stato elaborato dai suoi più noti esponenti sino a Condorcet.

I giacobini, più legati alla piccola e media borghesia prevalentemente di Parigi (anche se Robespierre, loro leader più noto, veniva da Arras), sono in parte espressione, con la loro ala sinistra, dei ceti popolari parigini; in tante scene di romanzi sceneggiati si sono viste le donne giacobine che facevano la maglia davanti alla ghigliottina: è una immagine stereotipa, che però ci dà anche l’idea di una partecipazione popolare e femminile a un processo rivoluzionario.

I giacobini sono anche i rappresentanti di settori di quello che si chiamava il popolo (un illuminista come Voltaire diceva «populace»); essi rappresentano, dal punto di vista culturale, posizioni che per certi versi si avvicinano a quelle di Rousseau, quindi non un illuminismo moderato e pedagogico, quanto un desiderio di contrapposizione a questo illuminismo di ottimati mediante una spinta alla partecipazione dal basso, una democrazia diretta, espressione di una volontà generale.

Un giacobino di estrema sinistra molto noto, Marat, diceva che la volontà generale (concetto che Rousseau aveva costruito prendendo in parte a modello la repubblica di Ginevra) era il popolo in armi. Anche in Francia, come in Inghilterra, abbiamo queste caratteristiche dei moderni partiti politici: raggruppamenti e organizzazioni di interessi da un lato, organizzazione di idee e forte caratterizzazione culturale dall’altro. Tutto questo sempre nell’ambito della borghesia che conduce la rivoluzione, anche se il popolo, come nel caso di alcune frange di sinistra dei giacobini, partecipava in qualche misura all’attività politica. Un segno dell’allargamento della presenza sociale dei partiti (di questi precedenti dei partiti) è appunto dato dalle caratteristiche di Clubs che abbiamo nella rivoluzione francese, mentre non abbiamo nulla di simile in quella inglese. In quest’ultima il massimo di democraticità e di partecipazione lo troviamo nell’esercito del «Nuovo modello» di Cromwell, dove vi sono rappresentati degli ufficiali e dei soldati: è la massima istanza democratica istituzionalizzata dalla rivoluzione, almeno fino all’abbattimento della monarchia; il fatto che sia un esercito a rappresentare questa istanza democratica ci dà la misura del carattere ancora fortemente autoritario e gerarchico del processo rivoluzionario guidato dalla borghesia.

In Francia, un secolo dopo, la situazione è diversa e i Clubs istituiti sia dai girondini sia dai giacobini a Parigi e nel resto della Francia, sono in un certo senso i precursori delle organizzazioni dei moderni partiti politici; vi sono assemblee con notevole partecipazione e con contrasti di posizioni anche all’interno di ciascuna di queste due principali componenti.

Credo che si possano ricostruire i dati fondamentali emersi da questo esame in questo modo: i moderni partiti politici nascono in Europa attorno al 1850 in relazione all’estensione del suffragio e al rafforzamento della democrazia parlamentare. Ma i loro precedenti risalgono alle grandi rivoluzioni borghesi d’Inghilterra e Francia del Seicento e del Settecento, che accompagnano l’istituzione della democrazia rappresentativa e l’avvio del processo che porterà alla rivoluzione industriale.

(da G. Galli, Storia dei partiti politici europei. Dal 1649 a oggi, Milano, Rizzoli, 1990)

 

Dal 1850 ad oggi, con la formazione della cosiddetta società di massa e l’allargamento del suffragio elettorale fino a essere universale, i partiti si affermano e si strutturano nella forma che hanno attualmente, con un’organizzazione territorialmente diffusa, con un sistema di comunicazione fra centro e periferia; la volontà di ottenere il potere a livello locale e centrale attraverso il sostegno popolare. Alla fine dell’Ottocento, con la crescita del mondo operaio, ai partiti conservatori e a quelli liberali si affiancano quelli di ispirazione socialista: in questi tre grandi insiemi si articola il panorama politico nelle democrazie occidentali. Nella seconda metà del Novecento nuove culture politiche, come il femminismo o l’ambientalismo o l’autonomismo locale, contribuiscono ad arricchire il patrimonio dei singoli partiti esistenti o portano alla fondazione di nuove formazioni. L’estrema frammentarietà del quadro politico, unita negli ultimi anni all’adozione in Italia di un sistema elettorale che premia le grandi coalizioni, in grado di garantire la stabilità al governo, in un momento in cui le ideologie affermatesi nel corso dell’Ottocento risultano obsolete, può essere può facilmente interpretata se, sulle orme di N. Bobbio, si colgono le differenze fra «destra» e «sinistra», gli estremi versanti nei quali siamo soliti collocare le diverse forze politiche, precisando la distanza da un ipotetico «centro».

 

Norberto Bobbio

Destra e sinistra, libertà e uguaglianza

Il criterio più frequentemente adottato per distinguere la destra dalla sinistra è il diverso atteggiamento che gli uomini viventi in società assumono di fronte all’ideale dell’eguaglianza, che è, insieme a quello della libertà e a quello della pace, uno dei fini ultimi che si propongono di raggiungere e per i quali sono disposti a battersi. [...] Il concetto di eguaglianza è relativo, non assoluto. È relativo almeno a tre variabili, di cui bisogna sempre tener conto ogniqualvolta viene introdotto il discorso sulla maggiore o minore desiderabilità dell’eguaglianza: i soggetti tra i quali ci si propone di ripartire i beni; i beni da ripartire; il criterio in base al quale ripartirli.

Combinando queste tre variabili si possono ottenere, com’è facile immaginare, un numero enorme di tipi diversi di partizioni egualitarie. I soggetti possono essere tutti, molti o pochi, o anche uno solo; i criteri possono essere il merito, il bisogno, il lavoro, il rango. Il suffragio universale maschile e femminile è più ugualitario di quello sono maschile; il suffragio universale maschile è più egualitario del suffragio limitato ai soli maschi non analfabeti, in cui il bene, in questo caso uno dei diritti di cittadinanza, è ripartito in base ad un criterio discriminante come quello del saper leggere e scrivere. In altre parole, nessun progetto di distribuzione può evitare di rispondere a queste tre domande: eguaglianza sì, ma «tra chi?», «in che cosa?», «in base a quale criterio?».

Quando si dice che la sinistra è egualitaria e la destra è inegualitaria non si vuole dire affatto che per essere di sinistra occorra proclamare la massima che tutti gli uomini sono eguali in tutto, indipendentemente da qualsiasi criterio discriminante, perché questa sarebbe non solo una visione utopistica ma, peggio, una proposizione cui non è possibile dare un senso ragionevole. Si vuole dire un’altra cosa, che cerco di spiegare in questo modo, l’unico che dà ragione della contrapposizione dandole un senso non solo comprensibili ma assiologicamente indifferente, in quanto fondato su un dato di fatto. Il dato di fatto è questo: gli uomini sono tra loro tanto uguali tanto diseguali. Sono uguali per certi aspetti, diseguali per altri. Volendo fare l’esempio più familiare: sono eguali di fronte alla morte perché sono tutti mortali, ma sono diseguali di fronte al modo di morire perché ognuno muore in modo diverso. S può dire anche così: sono eguali se si considerano come genus e li si confronta con genus a un genus diverso come quello degli altri animali e degli altri esseri viventi, da cui li distingue una differenza specifica; sono diseguali tra loro, se li si considera uti singuli, cioè prendendoli uno per uno. Tra gli uomini tanto l’eguaglianza quanto la diseguaglianza sono fattualmente vere perché corrispondono a osservazioni empiriche irrefutabili. Ma l’apparente contraddittorietà delle due preposizioni – «Gli uomini sono eguali», «Gli uomini sono diseguali» – dipende unicamente da ciò che si osserva. Ebbene: si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, danno maggiore importanza, per giudicarli e per attribuir loro diritti e doveri, a ciò che li rende uguali piuttosto che a ciò che li rende diseguali; inegualitari, coloro che, partendo dalla stessa constatazione, danno maggiore importanza, per lo stesso scopo, a ciò che li rende diseguali piuttosto che a ciò che li rende eguali. Si tratta di un contrasto tra scelte ultime, che affondano le loro radici in condizionamenti storici, sociali, culturali, anche familiari, e forse biologici, di cui si sa, o per lo meno io so, molto poco. Ma è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che serve molto bene, a mio parere, a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra, da un lato il popolo di chi ritiene che gli uomini siano più eguali che diseguali, dall’altro il popolo di chi ritiene che siamo più diseguali che uguali.

A questo contrasto di scelte ultime si accompagna anche una diversa valutazione del rapporto tra eguaglianza-diseguaglianza naturale ed eguaglianza-diseguaglianza sociale. L’egualitario parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili; l’inegualitario, invece, parte dalla convinzione opposta, che siano naturali, e in quanto tali, ineliminabili. Il movimento femminista è stato un movimento egualitario. La forza del movimento è dipesa anche dal fatto che uno dei suoi temi preferiti è sempre stato, indipendentemente dalla veridicità fattuale, che le diseguaglianze fra uomo e donna, pur avendo radici nella natura, sono state il prodotto di costumi, leggi, imposizioni del più forte sul più debole, e sono socialmente modificabili. Si manifesta in questo ulteriore contrasto il cosiddetto «artificialismo», che viene considerato una delle caratteristiche della sinistra. La destra è più disposta ad accettare ciò che è naturale, e quella seconda natura che è la consuetudine, la tradizione, la forza del passato. L’artificialismo della sinistra non si arrende neppure di fronte alle palesi diseguaglianze naturali, a quelle che non possono essere attribuite alla società [...]. Accanto alla natura matrigna c’è anche la società matrigna. Ma l’uomo è ritenuto capace di correggere tanto l’una che l’altra.

 Questo contrasto nella diversa valutazione delle eguaglianze naturali e di quelle sociali può essere esemplarmente documentato facendo riferimento ai due autori che possono essere elevati a rappresentare rispettivamente l’ideale egualitario e quello inegualitario: Rousseau e Nietzsche, l’anti-Rousseau.

Il contrasto da Rousseau e Nietzsche può essere bene illustrato proprio dal diverso atteggiamento che l’uno e l’altro assumono rispetto alla naturalità ed artificialità dell’eguaglianza e della diseguaglianza. Nel Discorso sull’origine della diseguaglianza, Rousseau parte dalla considerazione che gli uomini sono nati uguali ma la società civile, vale a dire la società che si sovrappone lentamente allo stato di natura attraverso lo sviluppo delle arti, li abbia resi diseguali. Nietzsche, al contrario, parte dal presupposto che gli uomini siano per natura diseguali (ed è un bene che lo siano perché, fra l’altro, una società basata sulla schiavitù come quella greca era, proprio in ragione dell’esistenza degli schiavi, una società evoluta) e soltanto la società, con la sua morale del gregge, con la sua religione della compassione e della rassegnazione, li ha resi eguali. Quella stessa corruzione che, per Rousseau, ha generato la diseguaglianza, ha generato, per Nietzsche, l’eguaglianza. Là dove Rousseau vede diseguaglianze artificiali, e quindi da condannare e da abolire perché in contrasto con la fondamentale uguaglianza della natura, Nietzsche vede un’eguaglianza artificiale, e quindi da esecrare in quanto riduttiva della benefica diseguaglianza che la natura ha voluto regnasse fra gli uomini. L’antitesi non potrebbe essere più radicale; in nome dell’eguaglianza naturale, l’egualitario condanna la diseguaglianza sociale; in nome della diseguaglianza naturale, l’inegualitario condanna l’eguaglianza sociale. [...]

L’idea qui formulata, secondo cui la distinzione tra sinistra e destra corrisponde alla differenza fra egualitarismo e inegualitarismo, e quest’ultima si risolve, in ultima istanza, nella differenza di percezione e di valutazione di ciò che rende gli uomini uguali o diseguali, si pone ad un livello tale di astrazione che può servire tutt’al più a distinguere due tipi ideali.

Scendendo ad un gradino più basso, la differenza fra due tipi ideali si traduce praticamente nella contrastante valutazione di ciò che è rilevante per giustificare o meno una discriminazione.

Il suffragio femminile non è stato riconosciuto sino a che la differenza fra uomo e donna è stata considerata una differenza rilevante per giustificare l’esclusione delle donne dal diritto di voto. È come dire che tra gli uomini e le donne vi sono differenze, ma fra queste differenze non ce n’è una che giustifichi la discriminazione rispetto al diritto di voto. In un tempo di grandi migrazioni, e quindi di incontro e di scontro fra genti diverse per origine etnica, costumanze, religione, lingua, la differenza fra egualitari e inegualitari si rivela nel maggiore o minore rilievo dato a queste differenze al fine di riconoscere a questi diversi alcuni diritti fondamentali della persona umana. Si tratta di stabilire il criterio (o i criteri) di discriminazione. La maggiore o minore discriminazione è fondata sul principio di rilevanza, vale a dire sul criterio o sull’insieme di criteri che permettono di distinguere le differenze rilevanti da quelle irrilevanti. L’egualitario tende ad attenuare le differenze, l’inegualitario a rafforzarle.

Una formulazione esemplare del principio di rilevanza è l’articolo 3 della Costituzione italiana. Questo articolo è una sorta di sintesi dei risultati cui sono giunte lotte secolari ispirate all’ideale dell’eguaglianza, risultati ottenuti eliminando via via le discriminazioni fondate su differenze che erano ritenute rilevanti e che a poco a poco vengono a cadere per ragioni storiche molteplici; risultati di cui si fanno rivendicatori, interpreti e promotori, dottrine e movimenti egualitari.

Se poi oggi, di fronte a questi risultati acquisiti e recepiti costituzionalmente, non vuol dire affatto che destra e sinistra vi abbiano egualmente contribuito, né che una volta resa illegittima una discriminazione, destra e sinistra vi consentano con la stessa forza di convinzione.

Una delle conquiste più clamorose, anche se oggi comincia a essere contestata, dei movimenti socialisti che si sono identificati almeno sino ad ora con la sinistra, da un secolo a questa parte, è il riconoscimento dei diritti sociali accanto a quelli di libertà. Si tratta di nuovi diritti che hanno fatto la loro apparizione nelle costituzioni dal primo dopoguerra in poi e sono stati consacrati anche dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e da altre carte internazionali successive. La ragion d’essere dei diritti sociali come il diritto all’istruzione, il diritto al lavoro, il diritto alla salute, è una ragione egualitaria. Tutti e tre mirano a rendere meno grande la diseguaglianza tra chi non ha e chi non ha, o a mettere in condizione un sempre maggior numero possibile di individui di essere meno diseguali rispetto a individui più fortunati per nascita e condizione sociale.

Ripeto ancora una volta che non sto dicendo che una maggiore eguaglianza è un bene e una maggiore diseguaglianza un male. Non voglio neppure dire che una maggiore eguaglianza sia da preferire sempre e in ogni caso ad altri beni come la libertà, il benessere, la pace. Attraverso questi riferimenti storici voglio semplicemente ribadire che se vi è un elemento caratterizzante delle dottrine e dei movimenti che si sono chiamati e sono stati riconosciuti universalmente come sinistra, questo è l’egualitarismo, inteso, ancora una volta, non come l’utopia di una società in cui tutti gli individui siano eguali in tutto, ma come tendenza a rendere più eguali i diseguali.

Non ignoro che, prendendo come punto di riferimento e come criterio di distinzione fra opposte parti dell’universo politico l’altro grande ideale che accompagna, come quello dell’eguaglianza, tutta la storia dell’umanità, l’ideale della libertà, considerato ora come alternativo ora come complementare a quello dell’eguaglianza, ci si trova di fronte a un’altra opposizione, quella tra dottrine e movimenti libertari e dottrine e movimenti autoritari. Ma, benché storicamente rilevante quanto quella tra egualitarismo e inegualitarismo, questa distinzione non coincide con la distinzione fra destra e sinistra. Vi sono dottrine e movimenti libertari e autoritari tanto a destra quanto a sinistra. E vi sono tanto a destra quanto a sinistra dottrine e movimenti libertari e autoritari, perché il criterio della libertà serve a distinguere l’universo politico non tanto rispetto ai fini quanto rispetto ai mezzi, o al metodo, da impiegare per raggiungere i fini: si riferisce cioè, all’accettazione o al rifiuto del metodo democratico, inteso come l’insieme delle regole che consentono di prendere decisioni collettive attraverso liberi dibattiti e libere elezioni, e non facendo ricorso all’uso della violenza. Il contrasto rispetto al metodo permette di distinguere nell’ambito della destra e della sinistra l’ala moderata e l’ala estremista [...]. Rivoluzione e controrivoluzione o, con altre espressioni equivalenti, rivoluzione innovatrice e rivoluzione conservatrice, stanno ad indicare, più che un programma politico, un certo modo di concepire e mettere in pratica la lotta per la conquista per il potere, che non rifiuti, anzi esiga, la violenza come il mezzo più efficace per attuare una trasformazione radicale della società.

Se mi si concede che il criterio rilevante per distinguere la destra e la sinistra è il diverso atteggiamento rispetto all’ideale dell’eguaglianza, e il criterio rilevante per distinguere l’ala moderata e quella estremista, tanto nella destra quanto nella sinistra, è il diverso atteggiamento rispetto alla libertà, si può ripartire schematicamente lo spettro in cui si collocano dottrine e movimenti politici, in queste quattro parti:

  1. all’estrema sinistra stanno i movimenti insieme egualitari e autoritari, di cui l’esempio storico più importante, tanto da essere diventato un’astratta categoria applicabile, ed effettivamente applicata, a periodi e situazioni storiche diverse, è il giacobinismo;
  2. al centro-sinistra, dottrine e movimenti insieme egualitari e libertari, per i quali potremmo oggi usare l’espressione «socialismo liberale», per comprendervi tutti i partiti socialdemocratici, pur nelle loro diverse prassi politiche;
  3. al centro-destra, dottrine e movimenti insieme libertari e inegualitari, entro cui rientrano i partiti conservatori, che si distinguono dalle destre reazionarie per la loro fedeltà al metodo democratico, ma, rispetto all’ideale dell’eguaglianza, si attestano e si arrestano sull’eguaglianza di fronte alla legge, che implica unicamente il dovere da parte del giudice di applicare imparzialmente le leggi;
  4. all’estrema destra, dottrine e movimenti antiliberali e antiegualitari, di cui credo sia superfluo indicare esempi ben noti come il fascismo e il nazismo.

Va da sé che la realtà è più varia di questo schema, costruito solo mediante due criteri, ma si tratta di due criteri fondamentali che, combinati, servono a designare una mappa che salva la contestata distinzione fra destra e sinistra e nello stesso tempo risponde alla troppo facile obiezione che vengano considerati di destra o di sinistra dottrine e movimenti non omogenei come, a sinistra, comunismo e socialismo democratico, a destra, fascismo e conservatorismo; spiega anche perché, sebbene non omogenei, possano essere in situazioni eccezionali di crisi, potenzialmente alleati.

(da N. Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Roma, Donzelli, 1994)

 

Il confronto elettorale fra i diversi partiti avviene durante le elezioni. Nel corso della storia unitaria l’Italia annovera diverse leggi elettorali, a partire da quella del Regno di Sardegna del 17 marzo 1848. Nella pagina seguente, lo storico Roberto Martucci delinea e commenta la legge elettorale pubblicata contestualmente alla concessone dello Statuto. Rigide sono le norme che delimitano l’esercizio attivo del voto. Al contrario non vi sono regole per l’elettorato passivo. Tuttavia, il fatto che i deputati non ricevano alcuna indennità parlamentare restringe notevolmente il novero di coloro che possono ragionevolmente aspirare a un incarico politico.

 

Roberto Martucci

Il corpo elettorale nel Piemonte sabaudo

Come veniva eletta la Camera dei deputati? Nella fase liberale furono applicate tre diverse leggi elettorali: a suffragio censitario (1848-1882), a suffragio allargato (1882-1913), a suffragio universale maschile (1913-1921). [...]

            Nel silenzio dello Statuto albertino che non stabiliva alcun requisito per l’esercizio dell’elettorato attivo, [...] l’Editto sardo del 17 marzo 1848 – destinato a perpetuarsi nell’Italia unita con irrilevanti modifiche fino alla riforma elettorale del 1882 – attribuiva i diritti politici a una ristretta aliquota di sudditi maschi di età superiore ai 25 anni. [...]

            I diritti politici venivano riconosciuti ai soli cittadini maschi ultraventicinquenni alfabetizzati (in grado di leggere e scrivere) e assoggettati a un’imposta diretta annua di almeno 40 lire (art. 1). Imposta dimezzata per gli abitanti di Nizza, Savoia e Liguria (art. 1), per laureati, notai, avvocati, ufficiali subalterni in pensione, impiegati civili a riposo con trattamento annuo di 600-1.200 lire (art. 4), capitani marittimi e direttori di stabilimenti industriali con almeno 30 operai (art. 6). Imprenditori e commercianti per l’ammissione all’esercizio del diritto di voto facevano valere il «valore locativo» (affitto) dei locali adibiti ad abitazione o esercizio commerciale (art. 5).

            Risultavano, invece, ammessi all’elettorato, prescindendo dal censo, gli appartenenti a nove categorie privilegiate: membri di varie Accademie, professori di scuole regie, docenti universitari, membri delle Camere di commercio, ufficiali in pensione di grado superiore a quello di capitano, magistrati inamovibili, impiegati civili a riposo con pensione annua superiore alle 1.200 lire (art. 3). [...]

            Nel 1848, erano in possesso dei diritti politici solo 77.366 cittadini maschi ultraventicinquenni, su una massa di cittadini maggiorenni di circa un milione; essi diventeranno 94.766 nel 1853.

            Ai fini dell’elezione dei deputati gli elettori erano ripartiti in 204 collegi elettorali uninominali [...]. Astrattamente si potrebbe dire che in ognuno di quei collegi erano chiamati alle urne dai 379 (1848) ai 464 (1853) elettori in due turni; vi erano, tuttavia, nelle zone più arretrate dello Stato, collegi con appena una trentina di cittadini in grado di soddisfare le richieste condizioni di censo per poter essere elettori. [...]

            Si consideri che alle elezioni del 17 aprile 1848 Garibaldi viene eletto dal collegio di Cicagna con diciotto voti e a quelle del 15 luglio 1849 il conte Gustavo Ponza di San Martino viene eletto dal collegio di Torriglia con sei voti.

            Con l’occhio di oggi, appare discutibile la rappresentatività di un sistema politico che delegava la scelta dei deputati a pochi cittadini particolarmente agiati. Ma alla metà del XIX secolo, in una società arretrata tenuta insieme da secolari rapporti di deferenza mediati dalla periferia al centro dello Stato da notabili locali (proprietari, professionisti, magistrati, ufficiali), una comunità locale finiva con il ritenersi virtualmente rappresentata da un suo esponente, anche se all’atto pratico la sua investitura a deputato era stata decisa da poche schede. Rifuggendo da suggestioni modernizzanti (e anacronistiche), non è da escludere che alla competizione fosse interessato solo quel ristretto gruppo di cittadini che leggeva abitualmente i giornali, seguiva gli avvenimenti politici, frequentava i caffè. Con l’aggiunta degli studenti – che però non votavano, in quanto si presume avessero meno dei 25 anni richiesti – e dei pochi artigiani o impiegati raggiunti, anche se non necessariamente influenzati, dalla propaganda mazziniana.

(da R. Martucci, Storia costituzionale italiana. Dallo Statuto Albertino alla Repubblica (1848-2001), Roma, Carocci, 2002)

 

Nel 1882 la legge elettorale viene riformata: non è più il censo il requisito principale di ammissione al voto, ma il superamento del corso elementare obbligatorio, permanendo intatti i limiti fissati dalla precedente legge elettorale, come si legge nella seguente pagina di Raffaele Romanelli.

 

Raffaele Romanelli

L’accesso al suffragio

Quali erano le condizioni minimali per esercitare il diritto elettorale? Cosa poteva garantire l’indipendenza e la consapevolezza della scelta elettorale? E soprattutto, cosa si poteva chiedere all’istruzione, cosa all’educazione? Inevitabile, per l’opinione democratica, il requisito del “saper leggere e scrivere”, che già compariva nella legge del ’48 e tutti i progetti successivi ripetevano, ma che in Italia era già un criterio di esclusione feroce. Non a caso Crispi, che pure chiedeva anch’egli il requisito dell’alfabetismo fin dal suo progetto del 1864, precisò nel 1881 che era soltanto perché al momento non vedeva altra via di garantire la sincerità del voto. Ma la vera gestione s’agitò intorno al ruolo che doveva svolgere la scuola nel sancire il voluto grado d’istruzione.

Un tratto peculiare della legge elettorale italiana del 1882 messa a confronto con le altro del tempo è che a garantire quel tanto di educazione civile da richiedersi al citoyen actif sia il diploma scolastico. Alla norma si arrivò per successivi aggiustamenti, come per una manovra d’incontro fra concezioni dottrinarie e concezioni democratiche, da un lato “allargando” le condizioni di capacità che già in origine includevano alcuni titoli accademici come condizioni di status, dall’altro delegando all’istruzione scolastica l’accertamento di una elementare educazione. Punti di vista concettualmente assai distanti, giacché era evidente che per i “dottrinari” l’abbassamento del titolo di studio non avrebbe dovuto spingersi oltre agli studi secondati, gli unici dotati di una certa completezza culturale e che ammettevano agli uffici pubblici, mentre per i democratici il titolo che laureava il cittadino era per definizione l’istruzione elementare obbligatoria e gratuita.

In quest’ultimo senso la norma avrebbe enfatizzato la funzione mobilitante che i democratici attribuivano al suffragio fin dagli esordi della vicenda statutaria, collegandosi a un’altra delle leggi che meglio caratterizzavano la costruzione dello stato-nazione: quella sull’istruzione elementare obbligatoria che risaliva, come è noto, al 1859 e che la sinistra aveva voluto poi ribadire e rafforzare nel ’77. Dato appunto che andare a scuola era obbligatorio, collegando il voto all’istruzione la legge elettorale avrebbe concesso un suffragio universale potenziale, che tra l’altro suonava d’incoraggiamento alla scolarità. Anche molti degli interpellati dall’inchiesta del 1869 avevano visto nella legge scolastica il maggiore ostacolo alla concessione del voto agli analfabeti, una concessione che avrebbe premiato l’evasione. V’era un ampio accordo nelle file democratiche su questo nesso tra nazione, scuola e partecipazione politica: “le liste elettorali politiche, disse Depretis alla camera, sono un libro perpetuamente aperto, nel quale ciascun cittadino può facilmente, se lo vuole, iscrivere il suo nome. [..] Se vi sarà esclusione non dipenderà dalla legge, né dalla società, dipenderà dal cittadino ...”. E Crispi, parlando quell’anno alla Società democratica di Palermo: «Gli analfabeti resteranno fuori dalla vita ufficiale, e me ne duole. Dipende però da loro il divenire abili ...».

Notevoli dosi di orgoglio modernizzanti accompagnano queste scelte che collegavano il voto alle grandi istituzioni nazionali-popolari come l’esercito e la scuola. Intesa alla prussiana come “università del popolo”, la scuola elementare – disse alla Camera Domenico Berti - «esprime il massimo della potenza intellettiva a cui può elevarsi l’universalità del cittadino». [...]

Un quadro arioso e progressivo che ancora una volta la realtà del paese smentisce. V’è intanto il “suffragio universale graduato”, come recitava la relazione Zanardelli: mediante proiezioni statistiche sul progresso scolastico veniva calcolato che l’intera popolazione, idioti esclusi, avrebbe ottenuto il voto per capacità nel 1980. Ma i conti erano presto fatti. Concessa, sia pure con un po’ di benevolenza e molta retorica, alla scuola elementare italiana d’allora una dignità “germanica”, ciò avrebbe riguardato il completamento dei due cicli di cui allora essa si componeva, e non solamente del primo ciclo, biennale, che la legge rendeva obbligatorio. E di fatto le ultime statistiche dicevano che il ciclo superiore era istituito, non sempre completo, solo in 1503 comuni su 8279, che complessivamente servivano il 53,7% della popolazione del regno; che, inoltre, di tale popolazione che aveva teorico accesso alla scuola elementare superiore solo lo 0,47% risultava iscritta ai corsi, per un totale di 68.190 persone in tutto il paese, fermo restando, ovviamente che non molti di tali iscritti erano destinati a finire il ciclo. Per quanto le cifre dicessero dei continui progressi fatti dall’istruzione elementare (ma prevalentemente da quella inferiore obbligatoria, che pare avesse assorbito anche risorse prima destinate alla superiore), rimaneva dunque il fatto che il diploma di IV elementare previsto dal disegno di legge ministeriale non ammetteva al voto né il “popolo” né una élite, ma una minoranza urbana oltretutto distribuita in modo estremamente disomogeneo. Inutile dire che il maggior numero degli iscritti a tali scuole si trovava nelle zone più sviluppate e/o con popolazione aggregata (Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto), e il minor numero nelle zone arretrate e/o a popolazione sparsa (tutto il Meridione, più Toscana, Marche e Umbria).

Depretis, e con lui, dopo lungo dibattito, la commissione, intendevano conservare la soglia originaria della quarta elementare, ma si sforzarono di raggiungere un elettorato più ampio sia introducendo una norma transitoria – che subì vari rimaneggiamenti nel corso del dibattito – che avrebbe ammesso a votare chi fosse stato in grado di presentare domanda autografa presso un notaio (sistema, veniva precisato, già adottato dal Portogallo, e che parve meno pericoloso d’una “prova d’istruzione”) sia ammettendo i soldati congedati dopo almeno due anni di servizio che avessero frequentato con profitto le scuole reggimentali o ne fossero stati esentati per il loro grado d’istruzione.

Ma la soglia della quarta elementare era pur sempre assai restrittiva e soprattutto appariva troppo socialmente caratterizzante all’opinione conservatrice, ch’era già estremamente polemica verso il “feticcio dell’alfabeto”. Fu facile all’opposizione farsi gioco di quell’esaltazione delle virtù educative della scuola elementare che tra l’altro, osservò Minghetti, finiva a nove o dieci anni: perché allora non dare il voto agli undicenni, senza attendere che altri dieci anni cancellassero dalla loro mente le poche nozioni apprese? [...] Ma soprattutto affiorò qui la polemica contro l’effetto pernicioso che attraenti dottrine potevano avere sugli spostati dell’alfabeto. [...] Osservava la minoranza della commissione – della quale faceva parte lo stesso Minghetti – che l’istruzione non collegata con una posizione sociale «non crea che gente spostata, gente che non è desiderabile entri a costituire il corpo elettorale». «Noi pensiamo pure, replicava la maggioranza, che la coltura fuori di proporzione coi bisogni che crea possa essere una dote funesta; ma questi effetti non potranno esser prodotti da quella istruzione elementare di cui si disconosce il titolo: bensì piuttosto da quella istruzione secondaria, che, da chi si vale di simile argomento, viene reputata idonea ad attribuire il diritto al suffragio».

Ma al di là della polemica sull’alfabeto, che pure è di per sé di grande significato, il fatto è che la destra esaminava le cifre sulla diffusione e la distribuzione delle scuole per accusare il governo di ritagliarsi con la riforma la propria base elettorale, contrapponendo la città alla campagna. «Questa legge, disse Minghetti alla Camera, non si propone di accordare il voto secondo giustizia ed equità. Essa ha per fine di favorire certe età, certe classi, certi luoghi, e di dare loro indebita prevalenza sopra altre età, sopra altre classi, sopra altri luoghi ...». Ma valga per tutti l’intervento dell’on. Codronchi: «Pare che si miri a trasferire ogni potere dalle classi superiori alle classi inferiori, e che si voglia respingere ogni proposta che abbia per scopo di livellare le due classi». La IV elementare, continuava Codronchi, «assicura la prevalenza delle classi urbane contro le popolazioni rurali, divide, invece di unificare, gl’interessi nazionali, e abbandona il paese in balia di forze sconosciute». Dove la popolazione era maggiormente scarsa, l’oratore vedeva agricoltori laboriosi sopraffatti da operai di città: «avremo gli spartani della città, gl’iloti del contado». Ci sono solo due forme razionali di suffragio, ne concludeva, quello censitario e quello universale: L’Italia mal si contenterebbe d’una riforma borghese.

È proprio questo, forse il punto. Se si era dimostrata inattuale la “riforma dei proprietari” – sia che si basasse sul censo, sua sul suffragio universale, o su entrambi – non più vitale doveva rivelarsi la “riforma borghese” ove la si intenda come la Destra un po’ letterariamente paventava e la Sinistra un po’ letterariamente auspicava, in senso laico, democratico e urbano.

Intanto, la pochezza stessa dell’elettorato “democratico” costringeva a delle modifiche che rendessero più consistente l’ampliamento e ne riequilibrassero la distribuzione. Oltre ai licenziati delle scuole reggimentali, governo e commissioni dovettero ammettere al voto anche tutti gli ex-consiglieri comunali, un altro modo per ampliare il numero degli ammessi per capacità nelle campagne (la gran parte dei soldati di leva e dei consiglieri era evidentemente di origine rurale) e, finalmente accettare di abbassare la soglia della quarta alla seconda elementare, il che fra l’altro rendeva sempre meno realistici i riferimenti alla scuola elementare con “università del popolo”.

Ma la Destra dette battaglia per ampliare ulteriormente l’elettorato rurale chiedendo di abbassare il censo. Come si è detto, la legge del 1882 retrocesse a requisito sussidiario e residuale il censo, che Depretis avrebbe voluto conservare a 40 lire d’imposta, ma che fu invece abbassato a 19,80 lire, una cifra appositamente calcolata per includere tutti i contribuenti della ricchezza mobile iscritti nei ruoli per redditi da lavoro dipendente.

(da R. Romanelli, Il comando possibile. Stato e società nell’Italia liberale, Il Mulino, Bologna, 1988)

 

Il 18 marzo 1911 Giovanni Giolitti dichiara solennemente alla Camera dei deputati: «Io credo che al giorno d’oggi sia indeclinabile un ampliamento del suffragio. Dopo vent’anni dall’ultima legge elettorale, una grande rivoluzione sociale è avvenuta in Italia, la quale produsse un grande progresso nelle condizioni economiche, intellettuali e morali delle classi popolari. A questo progresso, secondo me, corrisponde il diritto a una più diretta partecipazione nella vita politica del Paese». Con queste parole viene introdotta la discussione che condurrà, il 25 maggio 1912, all’avvento del suffragio universale. La nuova legge elettorale abbatte la barriera dell’analfabetismo. Vengono infatti ammessi al voto tutti indistintamente i maschi che abbiano compiuto trent’anni e quelli fra i ventuno e i trent’anni che abbiano compiuto il servizio militare: nell’un caso come nell’altro, anche se analfabeti. Gli elettori passano così da 2.930.473 a 8.443.205: in percentuale dall’8,3% della popolazione al 23,2%. La giustificazione si fonda ancora una volta sulla capacità, intesa come facoltà sganciata dall’istruzione e fatta derivare dall’esperienza di vita.

Tale premessa ideologica viene a cadere con la riforma elettorale del 1919, che porta a completa maturazione la precedente riforma. La nuova legge, che viene approvata dopo la prima guerra mondiale, riconosce, secondo i principi del suffragio universale maschile, il diritto di voto inalienabile a tutti gli uomini sopra i ventuno anni e a tutti coloro che, alla data elettorale, abbiano prestato servizio militare attivo: si dà così possibilità di voto a molti uomini sotto i ventun’anni. La legge abolisce ogni traccia di regime censitario e sopprime ogni requisito di capacità nella definizione del corpo elettorale.

Tale sistema elettorale viene cancellato con la proclamazione della cosiddetta «legge Acerbo», proclamata nell’aprile 1924 e accantonata all’inizio del 1925, cui è dedicata la seguente pagina di Giovanni Sabbatucci.

 

Giovanni Sabbatucci

La legge Acerbo 1923-24

La legge maggioritaria del 1923 dovrebbe chiamarsi, a rigore, “legge Mussolini” (e come tale viene in effetti menzionata nell’indice degli Atti parlamentari). L’allora segretario alla presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo fu infatti solo l’estensore materiale del disegno di legge di iniziativa governativa poi discusso e approvato (salvo modifiche marginali) dai due rami del Parlamento e trasformatosi nella legge n. 2444 del 18 novembre 1923: legge che porta il titolo, alquanto modesto, di Modificazioni alla legge elettorale politica, t.u. 2 settembre 1919 e che sarebbe poi confluita in un nuovo testo unico varato col regio decreto n. 2649 del 13 dicembre 1923.

Le “modificazioni” alla legge del 1919 sono in gran parte di carattere tecnico e riguardano per lo più i requisiti per l’elettorato attivo e passivo e le modalità delle operazioni di voto e di scrutinio. Fra le novità rilevanti, va ricordata quella relativa all’abbassamento per l’età minima per la eleggibilità, che passa da trenta a venticinque anni. Importante, e senz’altro positiva, è la norma che introduce la cosiddetta “scheda di Stato”: una pratica che oggi ci appare scontata, ma che allora incontrò non poche opposizioni nello schieramento liberal-conservatore.

Le innovazioni “forti” dal punto di vista politico sono contenute in pochi articoli, in particolare il 40 e l’84-bis (82 del testo unico). L’articolo 40 stabilisce che “tutto il regno forma un Collegio unico nazionale”. Questo collegio è però diviso in circoscrizioni elettorali. Le circoscrizioni sono quindici (contro le quaranta delle elezioni del 1921) e corrispondono grosso modo alle regioni. [...] Le liste devono essere presentate in almeno due circoscrizioni (una misura rivolta chiaramente contro le liste locali o etniche) e non possono contenere un numero superiore ai due terzi di quelli assegnati alla circoscrizione. [...]

A votazioni ultimate, un Ufficio centrale nazionale, costituito presso la Corte d’appello di Roma, stabilisce qual è la lista che ha ottenuto il maggior numero di voti nel collegio unico nazionale; a questa lista, purché abbia superato il 25 per cento del totale, vengono assegnati 356 seggi, ossia i due terzi dei 535 disponibili (art. 84-bis). Questo significa che la lista vincente vede eletti tutti i suoi candidati: al limite anche quelli che non abbiano ricevuto nessun voto di preferenza o che non abbiano ottenuto nessun voto di lista nella propria circoscrizione. I rimanenti 179 seggi sono divisi fra le minoranze con criterio proporzionale, nell’ambito delle circoscrizioni regionali: fra i candidati delle liste di minoranza, risultano naturalmente eletti quelli con il maggior numero di preferenze. Nell’ipotesi, del tutto teorica, che nessuna lista ottenga il 25 per cento dei voti, i seggi vengono assegnati con criterio proporzionale nell’ambito delle singole circoscrizioni.

Dal punto di vista tecnico, l’aspetto più interessante e innovativo della legge sta sicuramente nell’introduzione di un premio di maggioranza legato a un computo dei voti su base nazionale: un meccanismo che, combinando il principio maggioritario col metodo dello scrutinio di lista, consente la formazione di maggioranze stabili, lasciando al tempo stesso ai partiti minori la possibilità di essere rappresentati in parlamento (cosa che in genere non avviene in regime di collegio uninominale). [...]

Gli aspetti abnormi della legge Acerbo sono altri, e si possono sintetizzare in due punti:

  1. l’entità del premio di maggioranza, in rapporto all’esiguità del quorum richiesto per farlo scattare: nel caso limite, un quarto dei voti avrebbe potuto fruttare i due terzi dei seggi, moltiplicando per oltre due volte e mezzo il numero dei deputati spettanti alla lista vincitrice;
  2. la coincidenza fra il numero dei candidati e il numero degli eletti della lista vincente: in pratica, un meccanismo di blocco che trasferiva il diritto di scelta dei deputati dall’elettorato al vertice dei partiti (nella fattispecie, del Partito fascista), dal momento della votazione a quello della formazione delle liste. Un meccanismo abnorme non tanto in sé e per sé, quanto per la rottura che segnava nei confronti di tutta la tradizione della classe dirigente liberale, che si era sempre fondata sul rapporto personale fra eletto ed elettore (e proprio per questo era ostile alla proporzionale).

(da G. Sabbatucci, Il suicidio della classe dirigente liberale. La legge Acerbo 1923-24, in «Italia contemporanea», marzo 1989, pp. 57-80)

 

Una nuova riforma, di taglio plebiscitario, viene varata nel 1928 da Mussolini. Gli elettori sono i cittadini che abbiano compiuto ventun’anni, o diciott’anni se ammogliati con prole e in possesso di determinati requisiti. Sono ammessi al voto i contribuenti sindacali; quanti pagano almeno cento lire annue di imposte dirette allo Stato, alle province e ai comuni; gli stipendiati dello Stato, delle province e dei comuni o di altri enti sottoposti per legge alla tutela o alla vigilanza dello Stato, delle province e dei comuni; i membri del clero cattolico, secolare o regolare, e i ministri di altro culto ammesso dallo Stato. Il voto si esprime con un “sì” o con un “no” alla domanda formulata nella scheda elettorale: «Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio Nazionale del fascismo?». Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge il guardasigilli Alfredo Rocco spiega il senso tutto politico delle operazioni di voto condotte con questo sistema: «L’elettore non è chiamato a fare cosa impossibile per lui; a scegliere una o più persone, che egli non conosce, di cui spesso non ha mai sentito parlare. È chiamato a dire se l’indirizzo politico generale che il Regime segue, e che trova nella lista l’espressione concreta, sia da lui approvato. È già abbastanza difficile, ma è certamente meno lontano dalla possibilità, quello che in tal modo si domanda. L’elezione è ridotta perciò a una semplice espressione di consenso o di dissenso in confronto di un sistema di Governo, di un indirizzo politico; espressione non impossibile a farsi anche da una persona di media levatura e di media cultura, e che si concreta in un sì o in un no».

Il crollo del regime comporta la ridefinizione in senso autenticamente democratico dei meccanismi elettorali, con la significativa inclusione nel corpo elettorale delle donne, fino a quel momento escluse da ogni diritto di tipo politico. L’ammissione del voto femminile non avviene senza discussione, come sottolinea nella seguente pagina lo storico Ernesto Bettinelli:

 

Ernesto Bettinelli

L’estensione di diritto di voto alle donne

Il provvedimento certamente più significativo (e più “chiacchierato”) di questa prima fase di legislazione elettorale è l’estensione alle donne del diritto di voto (DDL 1° febbraio 1945, n. 23), “elargito” – come qualcuno un po’ polemicamente volle osservare – dal governo Bonomi quasi di sorpresa. [...]

In generale, però, i giudizi politici sull’indubbio valore progressista del provvedimento prevalevano sulle valutazioni di ordine tecnico-giuridico e furono, tanto a destra quanto a sinistra, nella sostanza senz’altro positivi, sia pure costellati qua e là di perplessità e riserve talora anche “curiose”. Per esempio in alcuni ambienti, pur democratici e repubblicani, si annotava: « Quando si vuole ottenere il riconoscimento di un diritto o l’applicazione di una riforma bisogna farne prima una buona propaganda, far capire e apprezzare ciò che si vuole; bisogna muoversi, agitarsi, discutere. Bisogna che tutto venga dal basso, che sia qualche coda che il popolo italiano intenda, senta ed esiga».

In questi termini incalzava, [...] Mario Borsa che pareva troppo disinvoltamente dimenticare che la questione del suffragio femminile fosse già stata sollevata e dibattuta con una certa ampiezza in regime liberale, fino al punto che l’8 marzo del 1919 alla Camera dei Deputati veniva approvato un ordine del giorno dell’on. Sichel in favore dell’attribuzione dei diritti elettorali alle donne; e, solo pochi mesi dopo, una proposta di legge firmata dall’on. Martini riuscì finalmente a essere approvata nello stesso ramo del Parlamento, sebbene non potesse essere trasmessa al Senato per il sopravvenuto scioglimento della Camera. Non solo, ma successivamente – sei anni dopo – entrava in vigore la legge 22 novembre 1925, n. 2125 che, a certe condizioni, conferiva il diritto di voto alle donne, sia pure limitatamente alle elezioni amministrative.

Dunque, adombrare che i tempi nel 1945 non fossero ancora “maturi” per una definitiva riforma in materia era davvero poco plausibile!

Il problema reale e le preoccupazioni reali, non sempre sinceramente confessate, erano piuttosto politiche, nel senso più ristretto del termine, e nascevano da apprezzamenti assai pessimistici di talune parti (anche se collocate a sinistra) sul grado di “consapevolezza e maturità delle donne” (cioè, fuori di eufemismo, sul loro futuro comportamento elettorale, che si temeva pesasse troppo a destra). D’altro canto era anche sicuro come la Democrazia cristiana confidasse non poco di trarre forti benefici elettorali da una massiccia partecipazione femminile (circa il 53 per cento dell’elettorato) nelle imminenti consultazioni popolari.

(da E. Bettinelli, All’origine della democrazia dei partiti, Milano, Edizioni di Comunità, 1982)

 

In Italia, il voto alle donne conclude il cammino verso la conquista del suffragio universale. Tormentata rimane invece la vicenda delle riforme elettorali, che si susseguono nel corso del primo sessantennio di vita della Repubblica e che ancora oggi sono al centro del dibattito pubblico.

 

Fonte: http://bazzano.comunite.it/contenuti/dispense/istituzioni07_08/12.doc

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