Diritto tributario riassunto

 

 

 

Diritto tributario riassunto

 

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Diritto tributario riassunto

 

PRINCIPI DI DIRITTO TRIBUTARIO

 

La nozione di tributo. Il tributo nei suoi termini formali è una prestazione patrimoniale che l’ente pubblico può imporre a determinati soggetti, istituzionalmente destinata dalla legge al conseguimento di un’entrata.

Il tributo si caratterizza innanzitutto per il profilo formale dell’imposizione, “senza che la volontà del privato vi concorra”.

Combinando gli artt. 2 Cost. (La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale) e 53 Cost. (Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.        Il sistema tributario è informato a criteri di progressività), si ricava che il pagamento del tributo è l’adempimento di un dovere civico di solidarietà, consistente nel concorrere alle spese pubbliche sulla base della propria capacità contributiva.

La capacità contributiva va intesa come manifestazione determinata di ricchezza (reddito, consumo, patrimonio, trasferimento) che costituisce la causa del prelievo tributario e la misura: l’entità del tributo deve essere una parte (aliquota) di essa.

Sono sopravvissuti dei tributi, come le tasse, che non si giustificano in base alla capacità contributiva: la tassa è il corrispettivo di un servizio divisibile.

La tassa si distingue dal prezzo perché quest’ultimo è il corrispettivo di alcuni servizi che lo Stato può fare o non fare e che potrebbero essere prestati anche da privati, mentre quando l’utilità ai privati deriva da attività che solo lo Stato istituzionalmente può prestare, nella forma dell’atto amministrativo o giurisdizionale, allora il corrispettivo è una tassa.

Le tasse sopravvivono per esigenze pratiche, di gettito: la Corte costituzionale ha ammesso che il 53 Cost. non vieta che la spesa per servizi generali sia coperta da entrate che sono dovute esclusivamente da chi richiede la prestazione dell’ufficio organizzato per il singolo servizio: è un argomento debole.

La tassa non è un tributo, ma appartiene alla categoria delle prestazioni patrimoniali imposte, categoria che si caratterizza non per la causa impositionis ma per la presenza del solo elemento formale dell’imposizione (“senza che la volontà del privato vi concorra”).

I tributi si caratterizzano per una specifica causa, la capacità contributiva.

Imposta e tassa possono stare insieme nella categoria delle prestazioni imposte di cui parla il 23 Cost.

La nozione di tributo in senso formale ha preso rilevanza quando è stata unificata la giurisdizione tributaria: tutti i tributi di ogni genere e specie, compresi quelli locali, rientrano nella giurisdizione di un giudice speciale (le commissioni tributarie).

L’imposta come istituto giuridico. Come si determina la somma alla quale si riferisce l’imposta? La legge tributaria definisce una certa situazione economica e stabilisce una relazione fra essa ed un soggetto che diviene poi debitore di quella somma nei confronti dell’ente pubblico.

Questa somma è detta anch’essa imposta e può esser definita così: una parte (aliquota) di una somma definita (imponibile) che un soggetto passivo deve corrispondere ad un ente pubblico (soggetto attivo) al verificarsi di una determinata situazione di fatto (presupposto).

Le regole sulla struttura ed il funzionamento delle imposte devono rispondere ai principi fondamentali del diritto tributario, specie di quelli costituzionali:

  • il principio di legalità (23 Cost.), secondo il quale l’imposta deve essere sufficientemente determinata dalla legge, che deve prevedere i suoi elementi essenziali (presupposto, soggetti, aliquota);
  • il principio di capacità contributiva (53 Cost.), secondo il quale l’imposta deve fondarsi su una manifestazione determinata di ricchezza, alla quale deve essere collegata, anche sotto il profilo temporale;
  • l’interesse fiscale, che è lo scopo delle imposte, alla facile e sollecita percezione delle entrate per far fronte alle pubbliche spese.

Ai fini della pronta e regolare riscossione si legittimano una serie di deroghe al diritto comune;

  • l’attività dell’amministrazione finanziaria diretta all’applicazione delle imposte come attività vincolata e non discrezionale: la valutazione sulla convenienza a tassare è fatta dalla legge.

Il c.d. potere di imposizione della finanza è solo un potere strumentale di controllo dell’esattezza degli obblighi del privato previsti dalla legge.

La struttura dell’imposta. Per quanto concerne la struttura, la fattispecie tipica di un’imposta si riduce ad un elemento oggettivo e ad un elemento soggettivo: il primo è dato da un fatto o da un insieme di fatti che siano idonei ad esprimere una determinata capacità contributiva del soggetto (oggetto imponibile in senso lato); il secondo è dato dalla duplice individuazione da una parte del soggetto passivo, al quale si collegano gli elementi di fatto oggettivi, e dall’altra parte del soggetto attivo, ossia l’ente impositore.

Il presupposto è quel fatto economicamente rilevante che giustifica l’applicazione di una determinata imposta.

I fatti economicamente rilevanti, presi per lo più in considerazione dalla legge tributaria, sono il patrimonio (ricchezza posseduta), il reddito (ricchezza acquisita), il trasferimento, il consumo di ricchezza.

La norma giuridica non può mai, in generale, pervenire ad un completo e rigoroso sistema di definizioni, perché l’esigenza della pratica applicazione della legge richiede sempre un riferimento a comportamenti pratici degli uomini.

Perciò nella definizione dell’imposta assume grande importanza la semplificazione dei concetti, la riduzione cioè di un concetto astratto di fatto tassabile ad ipotesi specifiche.

Ma un’imposta solo applicabile, fatta di casistiche, farebbe perdere di vista la giustificazione economica del tributo.

L’assimilazione consiste nel ricondurre in una categoria ipotesi anche estranee, ma solo allo scopo di prevedere un trattamento tributario.

La prevalente natura tecnica delle leggi tributarie rende ardua la ricerca dell’oggetto tassabile al di fuori delle specifiche previsioni di legge: di qua il problema dell’interpretazione analogica.

La tecnica legislativa si caratterizza dunque per un’esasperante analiticità che arriva alla casistica.

Al verificarsi di un certo presupposto tributario, si richiede da parte del contribuente l’immediata riconoscibilità del fatto come presupposto, allo scopo di dichiararlo all’amministrazione finanziaria.

I casi incerti in diritto tributario vengono risolti per lo più dalla legge, non dalla giurisprudenza.

Il problema dell’interpretazione analogica delle leggi tributarie si pone non tanto per un divieto, che non esiste nell’ordinamento tributario, ma perché l’analogia è tecnicamente impossibile rispetto a quelle norme che la dottrina chiama a “fattispecie esclusiva”, che non lasciano intravedere una ratio.

Si chiamano esenzioni le eccezioni alla regola, secondo la quale quella cosa (eccezione oggettiva) o quella persona (eccezioni soggettive) dovrebbero essere tassate.

L’esenzione persegue interessi diversi da quelli fiscali.

La disuguaglianza è costituzionalmente legittima se il fine cui essa è preordinata è costituzionalmente degno di tutela: istruzione, cultura, beneficenza, risparmio, sviluppo economico, etc.

L’esclusione invece è la previsione negativa che non è eccezione alla regola, ma semplicemente chiarisce meglio la portata della regola.

La norma di esenzione, come norma eccezionale, non può essere interpretata analogicamente; la giurisprudenza ne ammette l’interpretazione estensiva.

Il contribuente è il soggetto passivo nei cui confronti si verifica il presupposto tipico di un’imposta.

Possono esser soggetti passivi:

  • le persone fisiche;
  • le persone giuridiche che sono fornite di personalità giuridica secondo il diritto comune;
  • soggetti diversi dalle persone fisiche, privi di personalità giuridica, purché si tratti di organizzazioni di beni o di persone, non riconducibili ad altre persone giuridiche, nei cui confronti il presupposto si verifichi in modo unitario (capace cioè di attuarsi nei confronti dell’insieme dei beni e delle persone) ed autonomo (suscettibile cioè di verificarsi senza alcun rapporto con altri soggetti);
  • soggetti passivi che non siano i contribuenti (soggetti cui si riferisce il presupposto): abbiamo la figura del sostituto d’imposta, il quale è effettivamente debitore verso il fisco (il sostituto non solo è tenuto a pagare l’imposta ma anche a rivalersi verso il reddituario: la rivalsa ha lo scopo di ristabilire la regola costituzionale secondo la quale l’imposta deve esser pagata dal soggetto che realizza il presupposto).

Inoltre la legge tributaria può affiancare al contribuente altri soggetti che si trovano con lui in un qualche rapporto giuridico od economico, allo scopo di rafforzare il credito d’imposta: la legge parla di responsabile d’imposta.

Il responsabile non si sostituisce al contribuente, ma piuttosto assicura l’adempimento del tributo; il responsabile non può sopportare il debito d’imposta ed anche per tale soggetto dovrebbe valere la regola secondo la quale un patto contrario alla rivalsa sia nullo in quanto contrario al principio di capacità contributiva (53 Cost.);

  • gli eredi: il debito tributario, come tutti i debiti, si trasmette ad essi, i quali rispondono solidalmente verso il fisco secondo una norma che viene ritenuta applicabile a tutti i tributi, come regola generale.

È una deroga alle regole del codice civile, che prevede la trasmissibilità pro quota.

Soggetti attivi sono lo Stato, i Comuni, le Province, le Regioni, le Aree metropolitane, le Camere di commercio, le Aziende di cura e di soggiorno e turismo, le comunità israelitiche.

Gli enti locali Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (119 Cost.); però solo la Regione ha potestà legislativa, per cui si pone il problema di come gli altri enti locali possano stabilire i rispettivi tributi propri.

Mentre le Regioni hanno il potere di intervenire con legge per l’esercizio dei loro poteri, gli enti locali possono solo applicare tributi istituiti dallo Stato e, nei limiti consentiti, dalla Regione.

La somma oggetto dell’imposta si determina applicando una certa aliquota o tasso d’imposta ad una grandezza chiamata parametro o base imponibile, che si ottiene dalla traduzione in termini monetari di un elemento della fattispecie d’imposta.

Mentre la determinazione dell’imposta, data dall’applicazione dell’aliquota, è operazione di automatica facilità, risolvendosi in un’operazione aritmetica, la determinazione della base imponibile è oggetto di una complessa attività, detta accertamento.

La legge tributaria segue diversi metodi nella determinazione della base imponibile:

  • può dettare criteri propri, come quando stabilisce che il reddito dei fondi sia determinato col sistema catastale, un sistema che fornisce il reddito medio ordinario e non il reddito effettivo dei fondi;
  • può rinviare a criteri tecnici, come quando assume le valutazioni dell’economia aziendale;
  • può introdurre correttivi ad altre regole, come quando stabilisce che il reddito d’impresa si determina in base al conto economico ma con le variazioni stabilite dalla legge tributaria;
  • può rinviare per l’accertamento della base imponibile di un tributo all’accertamento di un altro tributo, che riguardi però lo stesso oggetto tassabile.

Per la determinazione della base imponibile la legge tributaria può insomma od inseguire la realtà effettiva, od assumere criteri presuntivi, criteri di media: nel primo caso prevale il criterio della razionalità, nel secondo quello della semplificazione.

Queste semplificazioni si legittimano costituzionalmente solo se rispondono alla comune esperienza.

Nella fattispecie tributaria vanno distinte le norme di definizione del fatto tassabile da quelle probatorie, da quelle cioè che hanno la funzione non di descrivere ma di rappresentare il fatto tassabile.

Vi è differenza tra un fatto posto a base dell’imposta ed un fatto dal quale va desunto il primo.

In genere tutti i fatti sono idonei a provare il fatto tassabile (“in base agli elementi comunque raccolti”).

Il problema delicato nella materia in esame è dato dall’uso e dall’abuso delle presunzioni fiscali.

Quando la presunzione è relativa, essa produce solo l’inversione dell’onere della prova, che di regola incombe alla finanza.

Quando è prevista una presunzione fiscale è sufficiente che l’amministrazione provi il fatto rappresentativo del fatto tassabile, con la conseguenza che tocca al contribuente fornire la prova contraria.

Non ci troviamo più di fronte a prove quando invece la presunzione è assoluta: non è ammessa la prova contraria.

L’elusione fiscale consiste in atti, fatti, negozi, anche collegati fra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere rimborsi o riduzioni di imposte, altrimenti indebiti.

Le norme antielusive sono quelle che individuano specifici atti che, avendo le caratteristiche sopra dette, sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria, pur conservando la loro validità civilistica.

L’attuazione delle imposte: l’accertamento. Riassuntivamente attuare un’imposta vuol dire individuare un presupposto tassabile, liquidare la sua base imponibile, applicare ad essa un’aliquota e corrispondere la somma che ne deriva all’amministrazione finanziaria competente.

La determinazione dell’imponibile e dell’imposta è detta “accertamento”; essa si conclude quando l’imponibile è immodificabile, cioè quando l’accertamento diventa definitivo.

Sul piano cronologico la riscossione tende a precedere l’accertamento, mediante le anticipazioni (acconti), salvo conguaglio al momento dell’accertamento definitivo.

Alle imposte, che sono obbligazioni pubbliche perché ente pubblico è il creditore, si applicano le regole del codice civile se la legge tributaria non dispone diversamente in vista del proprio interesse pubblico.

L’interesse pubblico consiste nel far pervenire nel modo più semplice e rapido possibile le somme dovute a titolo d’imposta nelle casse dello Stato (o dell’ente impositore di cui si tratti).

Sia nella fase dell’accertamento che in quella della riscossione possono intervenire atti del soggetto passivo e/o dell’amministrazione finanziaria.

L’organismo preposto dall’ordinamento all’emanazione degli atti relativi al rapporto tributario è l’Agenzia delle Entrate.

Ai suoi uffici sono affidati l’accertamento e la riscossione delle imposte, la comminazione delle sanzioni amministrative, la trattazione del contenzioso tributario.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha il potere di vigilanza e controllo delle agenzie fiscali.

La gestione delle agenzie è affidata ad un direttore, che è il rappresentante legale ed esercita funzioni di indirizzo e di controllo, e ad un comitato direttivo, che delibera sulla disciplina regolamentare relativa al funzionamento dell’agenzia.

Le agenzie istituite sono quattro (Agenzia delle Entrate, Agenzia delle Dogane, Agenzia del Territorio, Agenzia del Demanio), delle quali l’Agenzia delle Entrate è competente per l’applicazione di quasi tutti i tributi statali.

L’Agenzia si articola in uffici centrali (con sede in Roma) e regionali (in ogni capoluogo di Regione).

Sono questi ultimi uffici che emanano gli atti da notificare ai contribuenti.

Accertare significa verificare se in concreto si è prodotto un presupposto d’imposta astrattamente previsto dalla legge, determinare la sua base imponibile.

Quando non è prevista una tale procedura si dice che si tratta di imposte senza accertamento.

Nelle procedure d’accertamento l’atto del privato è detto dichiarazione o denuncia: con essa il privato informa l’amministrazione finanziaria che un fatto tassabile si è verificato, liquida la base imponibile ed eventualmente l’imposta.

Se il contribuente non presenta la dichiarazione cui è tenuto, si versa nella situazione di omessa dichiarazione, situazione punita con sanzioni anche penali.

L’atto d’accertamento dell’amministrazione finanziaria è detto avviso d’accertamento ed interviene in funzione di controllo della dichiarazione, se presentata, od in vece di essa in caso di omessa dichiarazione.

A volte è previsto nella legge che la determinazione dell’imponibile possa essere concordata tra privato ed amministrazione finanziaria con un atto detto nella pratica “concordato”, ma che nella legge viene detto “adesione del contribuente alla determinazione dell’imponibile fatta dall’amministrazione”.

Per gli abusi cui dava luogo era stato soppresso, oggi è stato reintrodotto anche davanti al giudice.

Nella fase dell’accertamento è adesione all’imponibile determinato dall’ufficio.

Abbiamo dunque atto del privato, atto dell’amministrazione, atto del giudice, concordato.

Nella pratica applicazione delle imposte non occorre che intervengano tutti i tipi di atto: dipende dal comportamento delle parti (anche un solo atto di accertamento può esaurire la relativa procedura).

Non ci troviamo di fronte ad un procedimento in senso tecnico dove la serie degli atti è preparatoria di un atto finale produttivo dell’effetto di accertamento: ogni atto qui è idoneo a chiudere la procedura.

La conclusione si ha quando si produce un effetto detto “accertamento definitivo”, che può significare:

  • preclusione per l’amministrazione, per decorso del termine, di rettificare la dichiarazione del contribuente;
  • preclusione per il contribuente, per decorso del termine, di impugnare l’atto della finanza;
  • preclusione per l’uno o per l’altro soggetto, o per entrambi, di impugnare la sentenza del giudice tributario ritenuta sfavorevole.

L’effetto della sentenza anche nella materia tributaria è il “giudicato”, formulato con riguardo all’oggetto della domanda.

L’obbligazione tributaria è un’obbligazione legale che ha come causa un determinato fatto economico, al quale deve essere commisurata, previsto dalla legge.

I fatti che il contribuente deve dichiarare sono solo quelli che la legge prevede.

La dichiarazione ha l’effetto di liquidare l’imponibile (eventualmente l’imposta) e rendere adempibile l’obbligazione.

Essa è quindi titolo della riscossione e vincolo per l’amministrazione di seguire determinate regole nell’accertamento.

Se la dichiarazione non può sostituirsi alla legge ciò vuol dire che, malgrado la sua presentazione, il contribuente potrà chiedere il rimborso di quanto erroneamente versato sulla base della dichiarazione e sottoporre al giudice l’accertamento del debito nella sua effettività.

L’avviso di accertamento è un atto dell’amministrazione pubblica, vincolato dalla legge tributaria: l’individuazione del presupposto d’imposta e la determinazione della base imponibile.

L’atto determina il quantum dell’obbligazione da riscuotere ed è atto idoneo alla determinazione definitiva, qualora non venga impugnato.

L’avviso di accertamento è atto puramente dichiarativo del debito d’imposta, ma il debito nasce col verificarsi del presupposto previsto dalla legge.

Si allontana da questa concezione il regime processuale previsto per il controllo della legittimità delle pretese dell’amministrazione finanziaria: l’atto non impugnato rende incontestabile nell’an e nel quantum la pretesa del fisco, corrisponda o meno tale pretesa alla reale situazione di fatto.

La legge processuale sembra dunque trattare l’avviso come atto costitutivo, e non dichiarativo.

Con l’avviso l’amministrazione individua il presupposto, determina la base imponibile, individua l’aliquota e liquida l’imposta.

L’iter logico che l’amministrazione deve seguire è detto anche, nella legge, motivazione.

Essa serve a consentire il controllo, da parte del contribuente accertato, degli elementi di fatto e di diritto sui quali si fonda la pretesa fiscale, perché li possa sottoporre, se interessato, alla valutazione del giudice.

Mancando una legge generale sull’accertamento nelle singole leggi d’imposta, non sempre è previsto l’obbligo della motivazione a pena di nullità, però lo Statuto dei diritti del contribuente (l. 212/2000) qualifica la motivazione degli atti dell’Amministrazione finanziaria come principio generale dell’ordinamento tributario.

Non esistono accertamenti che non debbano essere motivati.

La previsione della nullità, per l’inosservanza di tale obbligo, solo in alcune leggi, è espressione di un principio generale.

Prima di emanare l’avviso di accertamento l’amministrazione esercita poteri di indagine diretti a reperire la materia tassabile, poteri che sono analiticamente previsti nelle singole leggi d’imposta.

La determinazione dell’imposta, della somma che deve essere pagata dal contribuente, non sempre è indicata nell’avviso: in alcune imposte essa è rimessa ad atto successivo a quello di accertamento, chiamato avviso di liquidazione.

Vi è un atto d’accertamento che possiamo dire comune al contribuente ed all’amministrazione, detto nella pratica “concordato” e nella legge “adesione all’accertamento”.

La proposta di definizione può essere fatta anche dal contribuente indagato od accertato, e l’atto di adesione deve essere motivato; l’atto si perfeziona col pagamento dell’imposta e non è impugnabile.

Altro modo di definire l’imponibile è il condono fiscale, che possiamo chiamare un concordato legale.

La disciplina del condono si può così riassumere: l’imponibile viene definito con una riduzione automatica, stabilita dalla legge con riguardo all’ultimo atto d’accertamento non definitivo intervenuto; la definizione si perfeziona con l’accettazione dell’istanza di condono, presentata dal contribuente entro un termine fissato dalla legge, da parte dell’ufficio con un atto impugnabile davanti al giudice tributario.

Secondo un principio generale del diritto amministrativo, gli uffici dell’amministrazione finanziaria possono procedere, salvo che sia intervenuto il giudicato, all’annullamento totale o parziale dei propri atti ritenuti illegittimi od infondati, con provvedimento motivato comunicato al destinatario dell’atto.

L’esercizio dell’autotutela può essere svolto anche in pendenza di giudizio od in caso di non impugnabilità; non si richiede l’istanza di parte.

È possibile distinguere due tipi di autotutela.

La prima ricorre quando l’atto non è divenuto definitivo, perché pende il termine per l’impugnazione od il giudizio instaurato attraverso il ricorso contro lo stesso.

Il secondo tipo di autotutela è quella che riguarda atti divenuti invece definitivi, nel qual caso l’autotutela è volta ad assicurare la conformità dell’azione amministrativa ai principi di imparzialità e buon andamento (97 Cost.) in presenza di situazioni nelle quali l’illegittimità dell’atto è assolutamente palese e come tale percepibile dalla collettività.

In ogni caso l’autotutela non può espletarsi per motivi sui quali sia intervenuta una sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione finanziaria.

Con legge 413/1991 è stato istituito il c.d. interpello, relativamente ad alcune fattispecie potenzialmente elusive (interpello speciale): si tratta del potere del contribuente di rivolgersi all’amministrazione perché essa dichiari la propria interpretazione di una determinata legge ritenuta incerta dal contribuente.

Il parere rilasciato dall’Amministrazione è vincolante per la stessa.

L’organo preordinato a tale funzione è il Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive.

Il Comitato consultivo è adito dal contribuente dopo che questi abbia preventivamente interpellato sulla questione l’Amministrazione, e non intenda adeguarsi al responso ricevuto.

La l. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente) ha ampliato la portata dell’istituto con una procedura residuale (interpello ordinario): al contribuente è consentito formulare istanza di interpello alla Direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate rispetto a qualsiasi fattispecie in cui ricorra un’obiettiva condizione di incertezza sull’interpretazione di disposizioni relative a casi concreti e personali.

L’Amministrazione interpellata ha 120 giorni per formulare una risposta scritta, motivata e vincolante rispetto alla sola questione in oggetto, e se non risponde entro il termine si intende che essa concordi con la soluzione prospettata dal richiedente nella propria istanza.

L’Amministrazione può rettificare la propria risposta nei confronti del contribuente solo qualora questi non si sia ancora adeguato alla posizione espressa o non espressa (mediante silenzio-assenso): in tal caso essa può recuperare le imposte eventualmente dovute, ma non irrogare le sanzioni.

La riscossione. La riscossione in diritto tributario è data da una serie di atti, sia del privato che della finanza, che tendono a precedere cronologicamente l’accertamento definitivo.

Questa precedenza si fonda su questi istituti:

  • il versamento di acconti, sia da parte del contribuente che da parte di terzi (sostituti d’imposta) per suo conto;
  • il potere dell’amministrazione di ordinare pagamenti, prima della definitività del debito, sia sulla base della dichiarazione, quando non sia stato assolto l’obbligo del versamento, sia quando penda la lite, quando cioè l’accertamento è stato impugnato davanti al giudice tributario;
  • il rimborso dell’imposta quando gli acconti ed i pagamenti effettuati pendente il giudizio siano maggiori dell’imposta definitivamente accertata.

Le leggi che disciplinano le singole imposte prendono in considerazione o aspetti particolari del diritto al rimborso o la procedura necessaria perché si provveda al rimborso, ma manca una regola generale che imponga al fisco di provvedere alla restituzione delle imposte indebitamente riscosse.

Il 2033 c.c. (Indebito oggettivo: Chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda), rappresentando un principio di diritto comune, dovrebbe trovare applicazione anche in campo tributario.

Nella riscossione l’atto del privato è detto versamento; si versa l’imposta dichiarata, scomputando gli eventuali acconti, anch’essi versati sia da parte del contribuente che di terzi per suo conto.

Per effetto di una regola introdotta dallo Statuto del contribuente, questi può compensare eventuali crediti che abbia verso l’Amministrazione col suo debito fiscale.

Dopo la riforma del 1973, l’atto della finanza contenente l’ordine di pagare rimane l’iscrizione a ruolo per quasi tutte le imposte (prima vi era anche l’ingiunzione fiscale, per alcune imposte indirette).

Gli atti della riscossione – iscrizione a ruolo ed ingiunzione fiscale – si caratterizzano per una certa loro astrattezza in quanto producono sempre lo stesso effetto, obbligano il contribuente a pagare quanto risulta dal loro contenuto e diventano titoli per l’esecuzione forzata in caso di inadempimento.

I crediti tributari dello Stato sono crediti privilegiati (2752 ss. c.c.).

La conseguenza processuale di tale profilo è che quando si è obbligati a pagare per un ordine dato dall’amministrazione con uno degli atti in esame, non fondato su un debito certo, si ha diritto al rimborso anche se non si è impugnato l’atto.

L’atto della riscossione insomma non è atto d’accertamento od atto equivalente e perciò la sua mancata impugnazione non preclude, in linea di principio, la ripetizione dell’indebito.

Gli atti della riscossione sono titoli per l’esecuzione forzata.

Tale esecuzione si differenzia da quella comune per l’assenza di alcune opposizioni previste dal codice di procedura civile (615 e 617), assenza preordinata a rendere l’esecuzione più rapida.

La nuova disciplina del contenzioso tributario attribuisce al giudice il potere di sospendere la riscossione fino alla data di pubblicazione della sentenza di primo grado quando dall’atto impugnato possa derivare al contribuente un danno grave ed irreparabile.

L’amministrazione ricorre all’iscrizione a ruolo quando il contribuente non versa spontaneamente l’imposta dovuta e quando viene accertata dall’ufficio un’imposta non dichiarata.

I titoli che fondano l’iscrizione a ruolo sono la dichiarazione, l’avviso d’accertamento, la sentenza del giudice.

Dire “ruolo” vuol dire riscossione affidata ad un soggetto estraneo all’amministrazione, chiamato “agente della riscossione”.

La funzione di agente della riscossione può essere attribuita alle s.p.a. con capitale sociale superiore ad un certo ammontare aventi per oggetto la gestione in concessione del servizio.

All’agente della riscossione vengono consegnati i ruoli dall’ufficio regionale delle entrate.

I ruoli sono elenchi di contribuenti in ordine alfabetico che indicano, per ognuno di essi, le generalità (o la denominazione o la ragione sociale per le persone giuridiche), il domicilio fiscale, il periodo d’imposta, l’imponibile, l’aliquota, l’imposta, la motivazione, l’ammontare delle imposte già versate, l’imposta di cui si chiede il pagamento, gli interessi e le sanzioni amministrative pecuniarie.

La voce del ruolo relativa ad un singolo contribuente è detta iscrizione a ruolo, contro la quale è ammesso ricorso al giudice.

È stata soppressa la regola del “non riscosso come riscosso”, secondo la quale il concessionario era tenuto a versare a determinate scadenze le somme iscritte a ruolo, avendo poi il diritto al rimborso delle somme praticamente inesigibili.

L’agente di riscossione non acquista la titolarità del credito d’imposta ma solo l’esercizio di esso.

La notificazione dell’iscrizione a ruolo, che viene fatta dall’agente mediante la notificazione della cartella di pagamento, obbliga il contribuente a pagare entro 60 giorni.

Decorso inutilmente tale termine, il concessionario procede all’espropriazione forzata.

Se l’espropriazione non è iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, l’espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notificazione dell’avviso di mora, contenente l’invito a pagare entro 5 giorni.

Il ricorso contro l’iscrizione a ruolo non sospende la riscossione.

Gli effetti dell’iscrizione a ruolo si riassumono così:

  • la legittima iscrizione a ruolo non comporta l’acquisizione definitiva della somma riscossa;
  • l’accertamento definitivo dell’imposta può fondare un diritto al rimborso della somma riscossa in base all’iscrizione a ruolo, a qualsiasi titolo l’iscrizione sia avvenuta;
  • il giudizio circa l’esistenza e la misura del debito per il verificarsi di un certo presupposto, oggetto di una previsione di legge, è autonomo rispetto al giudizio sulla legittimità dell’iscrizione a ruolo.

L’atto iniziale del procedimento di riscossione coattiva è l’ingiunzione fiscale, la quale consiste nell’ordine emesso dal competente ufficio dell’ente creditore di pagare entro 30 giorni, sotto pena degli atti esecutivi, la somma dovuta.

L’ingiunzione sopravvive come istituto della riscossione coattiva degli enti locali (comuni e province), quando essi provvedono in proprio alla riscossione coattiva e non ricorrono al concessionario.

L’ingiunzione presenta le seguenti caratteristiche:

  • contiene l’indicazione del debito d’imposta;
  • contiene l’ordine di pagare;
  • è il titolo esecutivo per la riscossione di alcune imposte indirette, l’atto necessario e sufficiente a legittimare l’esecuzione forzata.

Nello schema di applicazione delle imposte indirette è previsto il versamento del tributo da parte del contribuente o di sua iniziativa od in base alla liquidazione dell’imposta effettuata dall’ufficio.

Qualora quest’ultimo riscontri l’esistenza di una differenza dell’imposta notifica al contribuente un avviso di accertamento ed un avviso di liquidazione invitandolo ad adempiere.

Solo nell’ipotesi in cui il contribuente non paghi, l’ente provvederà a creare il titolo esecutivo mediante l’emissione dell’ingiunzione fiscale, ove prevista, ovvero mediante l’iscrizione a ruolo.

L’ingiunzione non accerta dunque l’esistenza del debito nascente dal presupposto, ma costituisce espressione del potere di riscuotere.

L’ingiunzione fiscale è emessa dall’ufficio tributario dell’ente impositore.

Deve essere vidimata e resa esecutiva dal giudice dell’esecuzione nella cui giurisdizione ha sede l’ufficio che la emette.

La vidimazione del giudice non trasforma l’ingiunzione da atto amministrativo in atto giurisdizionale, ma si sostanzia in una sorta di controllo formale del titolo emesso dall’ente in modo da attribuirgli efficacia esecutiva.

L’impugnazione dell’ingiunzione non sospende la riscossione.

La sospensione può essere disposta dallo stesso ente impositore.

Anche l’ingiunzione fiscale va impugnata davanti al giudice tributario, in quanto atto equipollente a quello di accertamento.

Obblighi del privato e poteri dell’amministrazione finanziaria. Gli atti distinti del privato, dichiarazione e versamento, riconducibili alle due procedure di accertamento e di riscossione, vengono identificati nella pratica col termine di “autotassazione”.

L’applicazione delle imposte non richiede necessariamente l’intervento della finanza, essa è rimessa allo stesso contribuente al quale vengono imposti specifici obblighi.

La violazione degli obblighi dà luogo a sanzioni, anche penali.

Quando l’amministrazione riscontra la violazione di obblighi ai quali il contribuente è tenuto, non solo la dichiarazione e/o il versamento, ma altri obblighi a questi connessi (ad es. la fatturazione), commina sanzioni amministrative con lo stesso avviso di accertamento dell’imposta o con atto distinto.

Gli atti della finanza sono sottoposti a decadenza: ogni potere di accertamento, di riscossione, di comminazione di sanzioni può essere validamente compiuto entro un termine di decadenza.

Il vizio dell’atto per avvenuta decadenza è un vizio insanabile.

Diverso dal termine di decadenza è quello di prescrizione del credito della finanza, il quale decorre da quando l’imposta diventa esigibile: se la legge tributaria non dispone diversamente il termine di prescrizione è quello ordinario decennale (2946 c.c.).

In materia di imposte dirette la competenza ad effettuare gli accertamenti ed i controlli è attribuita all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate nella cui circoscrizione è il domicilio fiscale del soggetto passivo.

Viene così in considerazione l’istituto del domicilio fiscale.

Il fatto che tutti i soggetti passivi debbano avere un domicilio fiscale distingue l’istituto in questione da quello regolato dalle norme di diritto privato: questo rappresenta una manifestazione di autonomia della volontà individuale, mentre il domicilio fiscale rappresenta una limitazione dell’autonomia del singolo poiché è la legge che lo impone per agevolare l’applicazione delle imposte.

Il domicilio fiscale ha anche la funzione di stabilire il luogo di notifica degli atti al soggetto passivo, nonché il Comune che ha il potere di intervenire nelle procedure di accertamento relativo alle persone fisiche.

Il domicilio fiscale è stabilito:

  • per le persone fisiche residenti, nel Comune nella cui anagrafe esse sono iscritte;
  • per le persone fisiche non residenti, nel Comune in cui si è prodotto il reddito o, se il reddito è prodotto in più Comuni, nel Comune in cui è stato prodotto il reddito più elevato;
  • per i soggetti diversi dalle persone fisiche, nel Comune in cui si trova la sede legale o, in mancanza, la sede amministrativa o secondaria od una stabile organizzazione ovvero nel Comune in cui i soggetti medesimi esercitano prevalentemente la loro attività.

Con riguardo alle imposte indirette, tranne l’I.V.A. per la quale vale la disciplina prescritta per le imposte sui redditi, l’Ufficio tributario competente alla loro applicazione viene identificato mediante la localizzazione del presupposto di fatto, perciò esso coincide con quello nella cui circoscrizione si è verificato tale presupposto.

In materia di imposte sui redditi è stabilito che la stessa imposta non può essere applicata più volte nemmeno nei confronti di soggetti diversi.

Si richiede l’identità del presupposto e dell’imposta, sicché la duplicazione non ricorre quando le due imposizioni dipendano da diverse qualificazioni giuridiche dello stesso fatto; in questo caso si pone solo un problema di detrazione di imposta da imposta.

Si ha invece doppia imposizione o quando l’amministrazione colpisce lo stesso oggetto più volte presso lo stesso soggetto o lo colpisce nei confronti di più soggetti.

Secondo la giurisprudenza il secondo soggetto tassato che vuole agire in duplicazione deve dimostrare la mancata titolarità del debito.

Ma in tale modo il principio verrebbe vanificato perché per contestare la mancanza di titolarità del debito non occorre invocare un altro principio in aggiunta a quello dell’intassabilità per difetto di presupposti.

Diversa dalla doppia imposizione è la doppia riscossione o duplicazione della riscossione, che costituisce motivo di rimborso.

Essa si risolve in un errore materiale ed ha rimedi propri.

Il divieto della doppia imposizione va fatto valere in sede di accertamento, quello della doppia riscossione in sede di rimedi contro gli atti della riscossione.

Le norme di applicazione delle imposte possono essere distinte in due categorie:

  • norme strettamente legate al presupposto dell’imposta cui si riferiscono;
  • norme che sono formulate con l’attenzione rivolta non all’oggetto del tributo, ma all’interesse fiscale, alla sicura e sollecita riscossione od all’interesse del privato ad essere tassato in base a quanto previsto dalla legge.

La giurisprudenza, sia quella ordinaria che quella costituzionale, rileva che molti istituti non sono strettamente legati alla struttura dell’imposta nella cui disciplina sono compresi, ma son posti nell’interesse generale alla riscossione delle imposte o nell’interesse del contribuente, con la conseguenza che essi o si applicano sempre oppure sono illegittimi per irragionevolezza.

Quando un istituto od una regola sia stata introdotta nell’ordinamento tributario come disposizione di legge relativa ad un singolo tributo, ma senza essere per forza legata alla struttura di quel tributo, la mancata applicazione di essa ad altri tributi provoca disparità di trattamento.

Il problema della disparità di trattamento può esser risolto sul piano interpretativo dallo stesso giudice di merito.

Questa situazione ha subito una svolta con l’approvazione dello Statuto dei diritti del contribuente (l. 212/2000), che ispirandosi espressamente agli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione intende introdurre nell’ordinamento dei principi generali con l’aspirazione ad una relativa stabilità delle leggi tributarie.

L’1 prevede che le disposizioni dello Statuto costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali.

Dunque in caso di deroga o modifica non espressa prevale la disposizione dello Statuto.

I principi generali, applicabili a tutte le imposte, sono i seguenti:

  • l’interpretazione autentica delle leggi tributarie è di regola vietata, ed è consentita solo in casi eccezionali, con legge ordinaria e qualificazione espressa;
  • le leggi tributarie non possono avere effetto retroattivo se non nei casi di interpretazione autentica legittima;
  • le leggi tributarie, dal punto di vista della forma, devono osservare i canoni della chiarezza e trasparenza;
  • i termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati;
  • il divieto di istituire con decreto legge nuovi tributi o estendere la portata soggettiva di tributi esistenti;
  • l’amministrazione finanziaria ha l’obbligo di assumere idonee iniziative al fine di consentire la completa ed agevole conoscenza delle disposizioni legislative ed amministrative vigenti in materia tributaria;
  • l’amministrazione finanziaria deve assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati; inoltre deve informare il contribuente di ogni fatto o circostanza a sua conoscenza dai quali possa derivare il mancato riconoscimento di un credito o l’irrogazione di una sanzione;
  • gli atti dell’amministrazione finanziaria devono contenere la motivazione.

Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama, a meno che non sia già a conoscenza del contribuente;

  • sono sempre ricorribili davanti al giudice amministrativo gli atti tributari che non siano già impugnabili davanti al giudice tributario;
  • l’obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione;
  • i rapporti fra contribuenti e fisco sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede.

Secondo la Cassazione in particolari ipotesi di affidamento in atti o comportamenti dell’amministrazione il principio di buona fede comporterebbe anche l’inesigibilità del tributo;

  • la legge prevede anche alcune garanzie a favore del contribuente sottoposto a verifiche fiscali ed istituisce la figura del Garante del contribuente, al quale i soggetti interessati possono segnalare disfunzioni, irregolarità, prassi amministrative anomale od irragionevoli o qualunque altro comportamento suscettibile di incrinare il rapporto di fiducia tra cittadini ed Amministrazione finanziaria.

Il Garante può rivolgere richieste di documenti o chiarimenti agli uffici competenti ed attivare le procedure di autotutela nei confronti di atti di accertamento o di riscossione illegittimi notificati al contribuente.

Le sanzioni fiscali. L’attuazione delle imposte riposa sulla collaborazione del contribuente al quale la legge impone una serie di obblighi, preordinati alle esigenze dell’accertamento e della riscossione, il reperimento della materia tassabile ed il sollecito e puntuale pagamento.

La funzione delle sanzioni vuol essere, soprattutto quando la sanzione è penale, una funzione deterrente, quella cioè di indurre, sotto la minaccia di una punizione (limitazione della libertà o del patrimonio), ad osservare la legge tributaria.

Coesistono sanzioni di vario tipo.

Le sanzioni vigenti si caratterizzano esclusivamente per l’effetto giuridico che producono.

Le disposizioni sanzionatorie si trovano o in leggi organiche o nelle singole leggi d’imposta.

Le sanzioni penali sono quelle riconducibili ai tipi di sanzioni previste dal codice penale per i delitti (reclusione e multa) e per le contravvenzioni (arresto ed ammenda).

Quando in una legge finanziaria è comminato uno dei tipi di sanzione previsti dal codice penale, quella violazione costituisce un reato.

Va premesso in linea generale che l’inadempimento dell’obbligazione tributaria accertata non dà luogo a punibilità penale.

Si distinguono i reati di evasione da quelli di pericolo.

Si hanno reati di evasione quando è sanzionata penalmente la sottrazione dell’imposta, sicché l’accertamento di questa diventa elemento costitutivo del reato: il contribuente non dichiara fedelmente l’imposta dovuta, accertata poi dal fisco.

Reati di pericolo si hanno quando vengono sanzionati quei comportamenti prodromici tesi inequivocabilmente a favorire l’evasione, come la falsificazione e l’uso di fatture false, la mancata osservanza delle regole relative alle scritture, etc.

La nuova legge prevede poche figure criminose, caratterizzate da rilevante offensività, costituita dall’evasione dolosa, dall’evasione cioè preveduta e voluta come conseguenza della propria azione od omissione.

Si tratta di delitti qualificati dal dolo specifico, dal perseguimento libero dello scopo di evadere.

Le figure criminose fondamentali derivanti dalla violazione dell’obbligo di dichiarazione consistono nell’omessa dichiarazione, nella dichiarazione infedele e nella dichiarazione fraudolenta.

Oggi l’ordinamento non punisce più i comportamenti antecedenti l’evasione, espungendo radicalmente il modello di “reato prodromico”.

La nuova legge penale inoltre non consente più il cumulo della sanzione penale con quella amministrativa in testa allo stesso soggetto per lo stesso fatto, si applica o l’una sanzione o l’altra: se lo stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale: quella che, rispetto ad un’altra, pur contenendo tutti gli elementi di essa, ne contiene alcuni in più, detti “specializzanti”.

È stata confermata la regola della reciproca autonomia del processo penale e del processo tributario.

Oggi si applica la regola del codice di procedura penale secondo la quale il giudice penale risolve incidentalmente ogni questione civile, penale od amministrativa, anche se la decisione non ha efficacia vincolante in nessun altro processo.

Parallelamente, il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione.

La sanzione amministrativa che viene comminata per la violazione di obblighi espressamente previsti dalla legge tributaria tecnicamente è un’obbligazione che, in caso di inadempimento, è soggetta all’esecuzione forzata.

Il credito dello Stato per sanzioni amministrative è garantito con privilegio generale solo per le sanzioni relative all’IVA (2752 c.c.).

Fino alla riforma del 1997 coesistevano nel nostro ordinamento due tipi di sanzioni amministrative aventi un prevalente profilo di obbligazioni civili che comportava la trasmissibilità dell’obbligazione agli eredi, la non convertibilità della sanzione amministrativa in sanzione penale, la responsabilità solidale nel caso di trasgressione imputabile a più soggetti.

Le due sanzioni erano la pena pecuniaria e la soprattassa.

La pena pecuniaria era stabilita dalla legge fra un minimo ed un massimo ed applicata dall’amministrazione avuto riguardo alla gravità del danno per l’erario ed alla personalità del trasgressore.

La soprattassa era caratterizzata dall’automaticità della sua applicazione, in quanto la sua misura fissa veniva ragguagliata all’imposta che si tentava di evadere prescindendo da elementi soggettivi.

Si diceva (Micheli) che la soprattassa avesse funzione risarcitoria, mentre la pena pecuniaria avrebbe avuto una funzione prevalentemente punitiva (affittiva).

La legge delega 662/1996 ha ridotto le due sanzioni amministrative vigenti ad un sola grosso modo modellata sulla pena pecuniaria.

Viene accolto il principio della personalità (sicché l’obbligazione non è trasmissibile agli eredi) ed il principio della colpevolezza, sicché diventa di grande momento il profilo soggettivo della condotta (colpa e dolo).

Tuttavia, con riguardo agli enti dotati di personalità giuridica, vi è un’attenuazione del principio personalistico, in quanto della sanzione amministrativa risponde solo l’ente che si è avvantaggiato dell’illecito.

Altra sanzione, avente carattere accessorio, è la chiusura di un pubblico esercizio o negozio, o di uno stabilimento commerciale o industriale, che può essere disposta da tre giorni fino ad un mese.

Per le trasgressioni represse con sanzioni penali può essere ordinata dal giudice la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto.

Le sanzioni amministrative sono inflitte dall’amministrazione finanziaria.

L’irrogazione è fatta o con lo stesso avviso che accerta l’imposta o con atto distinto quando l’applicazione della sanzione non comporta accertamento del tributo.

Anche il potere di irrogare sanzioni è sottoposto a termini di decadenza.

La sanzione è ridotta in particolari fattispecie che la legge qualifica di “ravvedimento operoso” da parte del contribuente.

Il giudice tributario e la stessa amministrazione possono dichiarare non dovuta la sanzione amministrativa quando la violazione è stata causata da obiettiva incertezza sulla portata e sull’ambito della legge tributaria.

Si è dato rilievo anche alle cause di forza maggiore che impediscono l’assolvimento di obblighi tributari (mancata presentazione della dichiarazione a causa di uno sciopero).

Esiste una polizia tributaria costituita dagli ufficiali e dagli agenti della Guardia di Finanza che ha il compito di accertare le violazioni che danno luogo all’applicazione delle sanzioni fiscali penali.

Con essa collabora la polizia giudiziaria ordinaria, che ha il dovere di trasmetterle le notizie di reato fiscale, a meno che non sussista il pericolo di alterazione o dispersione delle tracce di reato.

Quando la violazione non costituisce reato è accertata dalla polizia tributaria e dagli altri organi indicati dalle singole leggi.

I processi tributari. Gli atti della finanza emanati nell’esercizio della potestà di accertamento, di riscossione e di irrogazione di sanzioni amministrative possono essere impugnati davanti al giudice tributario.

Il ricorso è l’atto introduttivo della lite tributaria, le cui parti sono, come attori, i soggetti passivi d’imposta (compreso il sostituto ed il responsabile d’imposta) e, come convenuta, l’amministrazione finanziaria, od altro ente impositore, e talora anche il concessionario della riscossione.

Gli atti che secondo la legge puntualizzano l’interesse a ricorrere sono:

  • per quanto riguarda l’accertamento: l’avviso di accertamento, l’avviso di liquidazione, gli atti relativi alle operazioni catastali, il diniego o la revoca di agevolazioni ed il rigetto delle domande di condono tributario;
  • per quanto riguarda la riscossione: l’iscrizione a ruolo e l’avviso di mora;
  • per l’irrogazione delle sanzioni: o l’avviso di accertamento dell’imposta che le liquida insieme all’imposta o l’avviso che le irroga autonomamente.

Qualora manchi o non sia stato notificato uno degli atti sopra elencati, il contribuente che abbia versato l’imposta e che ritenga di aver diritto al rimborso fa istanza all’ufficio competente entro i termini stabiliti dalla legge e, in mancanza, entro due anni dal pagamento o dal giorno in cui sia sorto il diritto alla restituzione.

Trascorsi 90 giorni dalla presentazione dell’istanza, senza che sia stato notificato il provvedimento dell’ufficio tributario sulla stessa, può essere proposto ricorso alla commissione tributaria provinciale entro il termine dell’ordinaria prescrizione decennale (2946 c.c.).

Gli atti generali, quelli cioè che si riferiscono ad una generalità di contribuenti, come l’atto istitutivo di un tributo locale, possono essere impugnati davanti al giudice amministrativo secondo le regole della giustizia amministrativa; ma il giudice tributario può disapplicarli, anche se non impugnati, quando venga proposto ricorso contro uno degli atti di applicazione del tributo istituito.

Il processo può essere diretto o all’accertamento dell’insussistenza, totale o parziale, del debito d’imposta e di conseguenza alla pronuncia di illegittimità degli atti posti in essere o al semplice annullamento dell’atto indipendentemente da ogni giudizio di merito circa l’esistenza del rapporto.

La legge quando dispone che “ciascuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri” se interpretata letteralmente sembrerebbe dire che l’atto possa essere impugnato solo per motivi che non attengano al merito, all’esistenza ed alla misura del debito.

L’espressione si rileva inesatta perché non si può pensare che l’atto possa essere impugnato per mere illegittimità formali.

Pertanto con riguardo alla tipologia delle decisioni del giudice tributario va detto che esse possono essere:

  • di accertamento dell’esistenza del debito, sia sotto il profilo del fatto che del diritto;
  • di determinazione della base imponibile (c.d. decisioni estimative, anche esse di fatto e di diritto);
  • decisioni di annullamento dell’atto per “vizi formali” da cui il ricorrente ritiene che sia affetto l’atto impugnato;
  • decisioni di accertamento dei presupposti per la comminazione delle sanzioni e della loro misura.

La decisione del giudice di secondo grado circa la determinazione della sanzione pecuniaria è definitiva.

Per l’applicazione delle sanzioni penali esiste un processo penale tributario che si svolge secondo il codice di procedura penale.

Tale processo è del tutto autonomo dal processo tributario e questo dal primo.

Rapporto giuridico d’imposta e atti d’imposizione. Riassumendo: l’imposta, come istituto giuridico, si può configurare come un debito del contribuente (obbligazione tributaria) che trova la sua causa in un fatto economico (presupposto) assunto dalla legge come manifestazione di capacità contributiva, al quale viene commisurata la somma da pagare, appunto, a titolo di imposta.

La soddisfazione del credito da parte dell’amministrazione finanziaria è il risultato dell’intervento di una serie di atti del privato e/o dell’amministrazione finanziaria che non danno luogo ad un procedimento amministrativo in senso tecnico.

Questo si caratterizza per la strumentalità di una serie necessaria di atti rispetto ad un atto finale, l’unico produttivo di effetti.

È quella che si chiama fattispecie a formazione successiva.

In materia tributaria il concorso di ciascuno degli atti di applicazione è puramente eventuale e manca un atto che possa dirsi principale rispetto alla serie degli altri.

La composizione degli atti è variabile: dipende dal comportamento delle parti.

Ora il primo punto che va rilevato è che la pluralità degli atti non vuol dire pluralità di rapporti giuridici, ciascuno dei quali possa essere oggetto di accertamento giurisdizionale autonomo.

Vi è un elemento unificante, dato dalla causa d’imposizione e dal conseguente rapporto.

La posizione del contribuente di fronte alla legge, che esige il pagamento se si sono verificati certi presupposti, è quella di chi ha un diritto soggettivo perfetto: egli è tenuto a compiere quanto previsto dalla legge.

Non è consentito rivolgersi al giudice per rimuovere l’incertezza circa l’esistenza di un obbligo tributario se non ricorrendo contro atti dell’amministrazione finanziaria.

Questi atti nel loro contenuto e nei loro effetti non frantumano il rapporto tributario in tanti rapporti autonomi.

L’atto diventa occasione per l’accertamento del rapporto.

Lo studio dell’imposta, dal punto di vista della struttura, è studio di fatti e di rapporti: al verificarsi del presupposto economico è dovuta una somma a titolo d’imposta.

Lo studio dell’imposta dal punto di vista applicativo è studio di atti.

Il diritto processuale è ancora scritto come se al centro dell’attuazione delle imposte vi fosse l’atto della finanza, accordando la tutela solo in presenza di determinati atti dell’amministrazione finanziaria contro i quali si può proporre ricorso.

Sicché sembra che il diritto tributario sia solo diritto del potere della finanza di imporre determinati obblighi: si parla a questo proposito di “atti d’imposizione”.

In punto di diritto sostanziale, dominato dal principio di legalità, la finanza non ha il potere di imporre alcunché: per quanto riguarda l’accertamento essa liquida, con atto motivato, l’imposta; quando emette atti della riscossione, ordini di pagare, non emette atti discrezionali, ma atti dovuti, vincolati dalla legge nei presupposti e nel contenuto.

Il diritto processuale, come diritto strumentale dunque, deve essere in funzione del diritto sostanziale; esso deve accordare la tutela adeguata al primo.

Un’alterazione in sede processuale del diritto sostanziale sarebbe, come probabilmente è in alcuni punti, in contrasto coi principi costituzionali relativi al diritto di difesa anche contro gli atti della p.a.

La classificazione delle imposte. Ogni classificazione di istituti giuridici ha rilevanza giuridica solo se riveste utilità pratica ai fini della applicazione di essi.

Alcune classificazioni delle imposte sono tramandate dalla manualistica e non sembrano avere più una qualche rilevanza.

  • Imposte dirette e indirette: la più convenzionale delle classificazioni è quella fra imposte dirette e indirette, incentrata sul tipo di ricchezza oggetto di tassazione.

     Si dice che sono dirette le imposte che colpiscono il patrimonio ed il reddito, indirette quelle che colpiscono il trasferimento della ricchezza ed il consumo della ricchezza.

     Si vuol dire che con la prima forma di tassazione si aggredisce una manifestazione diretta e sicura di ricchezza, con la seconda una manifestazione indiretta e mediata di ricchezza.

     Oggi la terminologia relativa alla classificazione in esame è quasi del tutto scomparsa: le attuali imposte “dirette” sono quelle sui redditi che hanno una propria disciplina d’accertamento e di riscossione nella quale non si ripete più la vecchia terminologia.

     Solo nella disciplina dei privilegi si continua a parlare di “tributi diretti” e “tributi indiretti”.

  • Imposte personali ed imposte reali: è una classificazione che viene fatta a proposito delle imposte sui redditi.

     Quando nella determinazione dell’imposta si tiene conto di elementi che attengono alla vita della persona e non alla produzione del reddito si dice che nel tributo vi sono elementi di personalità.

     Nel nostro ordinamento l’imposta personale per eccellenza è l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), che si determina tenendo conto di varie spese, diversamente ritenute necessarie.

  • Imposte erariali ed imposte locali: nel nostro ordinamento un’imposta può essere locale nel senso che soggetto attivo del tributo è un ente locale previsto dalla legge tributaria come creditore tributario.

     Questo viene autorizzato dalla legge nazionale ad istituire un certo tributo (l’istituzione può essere facoltativa od obbligatoria).

     L’atto istitutivo del tributo locale è riconducibile alla categoria degli atti amministrativi generali.

     Quando è istituito un tributo locale ed il privato ritenga di essere interessato ad impugnare la delibera comunale, in quanto ritenga di essere ricompreso fra i soggetti che in base ad essa saranno tassati, può impugnare davanti al TAR tale delibera; se ritiene di non farlo, quando riceverà l’avviso di accertamento dell’imposta impugnerà davanti al giudice tributario l’avviso ed il giudice disapplicherà l’atto istitutivo, se la censura del contribuente risulterà fondata.

     Ma vi è una nozione più ristretta di tributo locale: l’ente locale è solo destinatario del gettito di tutto o parte del tributo.

     In tal caso la misura del gettito è solo la misura di una forma di contributo che lo Stato dà all’ente locale.

     Quando si parla di “tributo locale” bisognerà vedere qual è lo scopo della legge di riferimento, vedere cioè se si assume come criterio dell’imposizione la titolarità formale del rapporto, oppure si fa riferimento al criterio economico del gettito.

     L’imposta locale sui redditi (ILOR) che portava addirittura nel titolo l’etichetta di “locale” era nata invece come tributo erariale con una giustificazione (la tassazione dei redditi derivanti da patrimonio) che non aveva niente a che vedere con la potestà tributaria degli enti locali; essa veniva accertata e riscossa dallo Stato.

     Per stabilire se un’imposta è locale o meno bisognerà vedere in che senso la legge, che a tale categoria fa riferimento, adotta la nozione di “locale”.

  • La sovraimposizione: sovrimposte e addizionali: può avvenire che la stessa manifestazione di capacità contributiva venga assunta ad oggetto di tassazione o in via ordinaria da parte di soggetti diversi (lo Stato da una parte ed un ente locale dall’altra) o dallo stesso soggetto, in via ordinaria con una tassazione ed in via straordinaria con una tassazione concorrente.

     Tale concorso di più tassazioni sullo stesso oggetto sia da parte di più soggetti che da parte di un solo soggetto attivo può assumere due forme tecniche:

    • la sovrimposta: sulla stessa base imponibile concorrono le aliquote di più tributi, quella tipica e l’altra detta appunto sovrimposta.

     L’imposta principale viene detta imposta “madre”, la sovrimposta viene detta imposta “figlia”;

    • l’addizionale: è una somma che si ottiene applicando una seconda aliquota, a favore dello stesso soggetto attivo o di un altro soggetto, non all’imponibile ma all’imposta del tributo principale.
  • Imposte fisse e periodiche: la classificazione è fatta tenendo conto della durata del presupposto nel tempo.

     Se la durata del presupposto non è istantanea ma si prolunga nel tempo occorre che il legislatore introduca una sua limitazione convenzionale, sicché la parte di attività o di situazione che cade in esso può fondare una tassazione autonomamente determinabile.

     L’attività che si prolunga nel tempo per sua natura può essere il possesso di patrimonio o la produzione di reddito.

     La legge tributaria delimita tali situazioni a carattere tendenzialmente continuo con un lasso di tempo, detto periodo d’imposta, e rende autonomamente tassabile il possesso di patrimonio o la produzione di reddito ad esso imputabili con criteri tecnici convenzionali.

     Scopo pratico di questa delimitazione temporale è pervenire alla individuazione di una obbligazione che abbia un oggetto determinato.

     Le caratteristiche di tali obbligazioni sono le seguenti:

    • ad ogni periodo corrisponde una obbligazione tributaria autonoma: gli utili di un periodo non si compensano, di regola, con le perdite di un altro periodo;
    • la legge può porre una presunzione di continuità dell’attività produttiva o per stabilire che una volta nata l’obbligazione si rinnova automaticamente salvo prova contraria (era il regime vigente prima della riforma) o solo per imporre al contribuente certi obblighi: oggi chi ha prodotto un reddito in un certo periodo è obbligato a versare in acconto un anticipo d’imposta per l’anno successivo ragguagliato all’anno precedente.

L’obbligazione relativa ad un’imposta periodica non è periodica nel senso civilistico del termine, perciò ad essa non si applicano le regole civilistiche in tema di obbligazioni periodiche.

  • Imposte fisse, proporzionali, progressive: è una classificazione attenta alla misura dell’imposta espressa per lo più dal tasso d’imposta od aliquota.

È fissa l’imposta che viene prevista dalla legge stessa in misura determinata: al verificarsi di un certo presupposto è dovuta la somma di lire 100.

Ma le imposte fisse possono essere configurate più come tasse.

È proporzionale l’imposta che si applica in misura percentuale (es.: 10%) che non varia col variare della base imponibile.

L’imposta è detta graduale quando l’aliquota è commisurata a 1000 anziché a 100.

È progressiva l’imposta la cui aliquota varia in modo crescente col crescere della base imponibile.

La progressività è continua quando ad ogni variazione della base imponibile, anche infinitesimale, corrisponde una variazione della aliquota secondo una formula matematica che assicura la continuità della rispondenza.

Si ha invece la progressività a scaglioni quando l’aliquota varia solo in quanto il reddito è aumentato di una certa entità – detta scaglione – con l’ulteriore conseguenza che ad ogni scaglione corrisponde una sola aliquota.

La progressività può essere ottenuta anche mediante detrazioni di somme dall’imposta; il che produce un effetto analogo a quello della aliquota.

  • Imposte principali, complementari e suppletive: è una classificazione formulata dalla legge per alcuni tributi e che potrebbe avere una sua rilevanza di classificazione valida per tutte le imposte.

È detta principale l’imposta che l’amministrazione liquida in base ad una prima ricognizione della materia tassabile (registrazione dell’atto).

La differenza d’imposta che l’amministrazione può liquidare successivamente (imposta successiva) può essere dovuta a due ordini di cause: l’errore della stessa amministrazione da una parte e tutte le altre cause dall’altra.

Nel primo caso, errore dell’amministrazione, l’imposta è detta dalla legge di registro “suppletiva”, in tutti gli altri casi è detta “complementare”.

Il privilegio per i tributi indiretti non si può esercitare in pregiudizio dei diritti acquisiti successivamente dai terzi, quando si tratti di imposta suppletiva (2772 c.c.); il ricorso del contribuente di regola non sospende la riscossione, a meno che non si tratti di imposta suppletiva, che viene riscossa dopo la decisione del giudice di secondo grado.

Il principio di capacità contributiva. Abbiamo definito l’imposta come uno dei doveri di solidarietà posti dal 2 Cost., consistente nel dovere di concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva, più precisamente sulla base di manifestazioni determinate di detta capacità definite dalla legge.

Tale concorso avviene mediante l’imposizione ai privati di prestazioni patrimoniali.

Ora la Costituzione pone due limiti al potere di imposizione.

Il primo limite è di carattere sostanziale, posto dal 53, il quale affermando che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva pone il fondamento ed il limite dell’attività di imposizione, nel senso che da una parte non vi può essere imposizione senza capacità contributiva, dall’altra non si può chiedere ad un soggetto un concorso superiore a quello che sia consentito ragionevolmente dalla sua capacità contributiva.

Difatti la misura del prelievo fiscale è frutto di una valutazione discrezionale del legislatore, che sfugge a censure d’incostituzionalità a meno che non sconfini nell’arbitrio e nell’irragionevolezza.

Un limite di carattere formale, posto dal 23, il quale disponendo che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge introduce per le prestazioni patrimoniali imposte, e quindi anche per i tributi, il principio di legalità, più precisamente della riserva relativa di legge, secondo il quale l’imposta deve essere prevista dalla legge (riserva di legge) non in tutti i suoi elementi (relatività della riserva) ma solo nei suoi elementi fondamentali.

Che cosa vuol dire “capacità contributiva”?

La portata cambia a seconda che si consideri tale principio come norma programmatica o come norma precettiva.

Come norma programmatica, basta ricordare il dibattito politico ancora aperto circa la costituzionalità di un’imposta patrimoniale per rendersi conto dei margini di discrezionalità politica che quel principio lascia al legislatore: “capacità contributiva” è quella ritenuta tale dal legislatore.

Secondo alcuni infatti l’imposta patrimoniale è l’attuazione ideale del 53 Cost., essendo il patrimonio una manifestazione diretta, primaria, di capacità contributiva; secondo altri un’imposta sul patrimonio sarebbe incostituzionale potendo intaccare le fonti produttive di reddito e risolversi, soprattutto per i patrimoni infruttiferi, in una lenta espropriazione dei beni tassati.

In verità il 53 sembra dare una più precisa indicazione programmatica quando al secondo comma prescrive che il sistema tributario è informato a criteri di progressività.

Un tale sistema, non potendo tutte le imposte essere progressive in quanto la progressività tecnicamente si addice solo ad alcune di esse, dovrebbe fondarsi principalmente su quelle imposte che per la loro natura tecnica si prestano ad un meccanismo di aliquote progressive.

Per il resto il 53 vincola il legislatore solo nel senso che gli restringe il campo di discrezionalità, impedendogli di tipizzare come presupposti d’imposta certi comportamenti sociali che, di per sé, non sono manifestazione di ricchezza, di forza economica: ciò che era accaduto con l’imposta sui celibi.

Essendo il tributo un prelievo sulla ricchezza privata operato dai pubblici poteri, non si aggiunge molto quando, interpretando la norma costituzionale sulla capacità contributiva, si coniuga quella capacità in termini di forza economica, con cui far fronte al prelievo fiscale, di consistenza economica del contribuente, di disponibilità monetarie attuali.

La capacità contributiva deve essere qualcosa di obbiettivo, legato alla struttura della imposta, nel senso che la base imponibile deve essere incorporata nella fattispecie legale come valutazione dell’elemento di ricchezza.

I canoni che devono caratterizzare una buona legislazione sono la razionalità e la semplificazione.

Le definizioni legislative delle imposte in Italia sono estremamente complesse, perché risultano da una definizione di carattere generale non compiutamente formulata e da una serie di casi specifici (non sempre esemplificativi della regola generale).

Un semplice elenco di casi tassabili non può giustificasi da solo, ma deve far riferimento ad una definizione di capacità contributiva determinata, deve essere l’esemplificazione di una manifestazione determinata di ricchezza.

Tale tecnica spinta all’eccesso può rendere irrazionale e contraddittorio un tributo, oscura la ratio e può condurre ad una tassazione di fatti estranei alla capacità contributiva assunta ad oggetto di una certa imposta.

L’avverbio che il legislatore impiega quando esce dall’ambito di una imposta è “inoltre”; ci si trova di fronte a “fattispecie surrogatorie” che hanno sì una funzione antifrode, in quanto cercano di individuare i comportamenti anomali che il contribuente segue allo scopo di evadere, ma spesso possono sconfinare nell’arbitrio e quindi in una tassazione costituzionalmente ingiustificata.

C’è dunque un’irrazionalità della legge tributaria che è detta “fiscalismo”: essa è sicuramente incostituzionale per violazione del principio di capacità contributiva.

L’individuazione di un presupposto economico come manifestazione determinata di capacità contributiva serve per verificare due esigenze riconducibili alla razionalità della tassazione:

  • che vi sia un collegamento effettivo tra la prestazione imposta ed il presupposto economico considerato;
  • che le molteplici ipotesi di tassazione contemplate dalla legge tributaria siano coerenti con quel presupposto, non siano cioè una semplice accozzaglia di casi empirici.

Il principio di capacità contributiva esige prima di tutto che vi sia un collegamento effettivo tra la prestazione imposta ed il presupposto economico considerato.

Tale collegamento esige prima di tutto che la somma sia parte della ricchezza considerata e che vi sia proporzionalità inoltre fra l’una e l’altra.

Come dice la Corte costituzionale, il presupposto costituisce fondamento e limite dell’imposizione.

Esempio classico di tassazione non legata al presupposto economico è stato la maggiorazione dell’imposta nella misura del 10% nel caso di omessa presentazione della dichiarazione.

Ma l’omessa dichiarazione da parte di un contribuente già accertato per l’anno precedente è solo la violazione di un obbligo che viene colpita da sanzione, non manifestazione di capacità contributiva.

Così pure l’accertamento del reddito fatto per un anno non può divenire base di tassazione di un altro anno, quando l’attività produttiva può essere cessata.

Il collegamento effettivo fra presupposto ed imposta deve sussistere anche sotto il profilo temporale, deve essere rispettato cioè anche nel caso della tassazione retroattiva, intendendosi per retroattività anche la semplice modificazione o trasformazione di un obbligo tributario e dei criteri di commisurazione connessi quali risultano da una precedente normativa.

Quando la legge tributaria assume ad oggetto di tassazione fatti passati o modifica retroattivamente una disciplina esistente, il collegamento effettivo può essere interrotto dal decorso del tempo: occorre verificare di volta in volta se al momento del pagamento dell’imposta retroattiva permangano nella sfera patrimoniale del contribuente gli effetti della manifestazione di capacità contributiva verificatisi in passato.

Se tali effetti non perdurano la tassazione non è collegata al suo presupposto economico e perciò diventa incostituzionale perché priva di capacità contributiva.

È corretto il ricorso al principio costituzionale di capacità contributiva come principio interpretativo (d’altra parte i principi costituzionali sono anche principi interpretativi): fra più interpretazioni consentite dalla lettera della legge l’interprete deve attenersi a quella che faccia salvo il collegamento fra imposta e presupposto.

La questione di legittimità può essere risolta quindi già dal giudice di merito sul piano interpretativo, e la Corte costituzionale emette non di rado sentenze interpretative, salva la costituzionalità di una legge fondandola sull’interpretazione conforme a determinati principi.

Altra esigenza che scaturisce dal principio di capacità contributiva è che le molteplici ipotesi di tassazione, nelle quali si articola un’imposta che si caratterizza per un determinato presupposto, siano coerenti con esso.

La capacità contributiva è dunque anche esigenza di coerenza logica.

L’esempio più noto è quello dell’imposta locale sui redditi (ILOR), che estendeva la tassazione dei redditi derivanti da patrimonio, che è il presupposto tipico del tributo, a redditi non derivanti da patrimoni, come quello di lavoro autonomo.

Il principio di capacità contributiva è violato quando la legge tributaria altera la struttura dell’imposta, inventando quelle che si possono chiamare “sanzioni improprie”.

Esistono in diritto tributario sanzioni di natura penale ed amministrativa per la violazione di obblighi posti dalla legge.

Ora non è raro trovare nella legge tributaria italiana la previsione, oltre che delle sanzioni vere e proprie, di situazioni di svantaggio per il contribuente che abbia violato determinati obblighi, che possono essere di due tipi:

    • di carattere procedimentale, nel senso che al trasgressore vengono preclusi mezzi di tutela che altrimenti avrebbe o nel senso che vengono potenziati i normali poteri di accertamento dell’amministrazione;
    • di carattere sostanziale, nel senso che viene maggiorata l’imposta, negando l’applicazione di deduzioni, di detrazioni, elevando l’imponibile od assumendo come fatti tassabili elementi che diversamente non lo sarebbero.

La Corte costituzionale ha ritenuto che l’entità del tributo può essere subordinata all’osservanza di obblighi.

Bisogna vedere di quali obblighi si tratti perché dalla loro inosservanza possa discendere una determinazione dell’imposta parzialmente sganciata dalla capacità contributiva.

La subordinazione dell’imposta all’osservanza di obblighi è giusta quando si tratti di obblighi mediante la cui osservanza il contribuente prova l’esistenza di fatti a sé favorevoli.

Ma vi sono dei casi in cui la maggiorazione dell’imposta svolge una funzione puramente sanzionatoria, come nel caso della norma dichiarata incostituzionale secondo la quale in caso di omessa presentazione della dichiarazione il reddito veniva maggiorato del 10%, o come nel caso in cui non è ammessa la deduzione degli oneri perché il reddito è accertato sinteticamente.

Anche quando un contribuente viene accertato col metodo sintetico, il ricorso a tale metodo non può precludere l’applicazione delle regole relative alla struttura ordinaria dell’imposta: giuridicamente il reddito è lo stesso, dunque deve subire lo stesso trattamento.

In presenza della violazione di obblighi tributari può essere aggravata la situazione procedimentale del contribuente ma, una volta accertata l’imposta, secondo la procedura prevista, essa non può essere aggravata a titolo di sanzione, pena la violazione del principio di capacità contributiva.

La struttura pluriarticolata del presupposto d’imposta può palesarsi o nella previsione di fattispecie che pur non rientrando nella definizione base del tributo vengono tassate “come se vi rientrassero”, o nella previsione di fatti che non sono tassabili ma sono rappresentativi del fatto tassabile.

Nella fattispecie tributaria vanno distinte nettamente le norme di definizione del fatto tassabile da quelle probatorie, da quelle cioè che hanno la funzione non di descrivere ma di rappresentare.

Un terzo ordine di norme è quello relativo alla determinazione della base imponibile.

Il problema più delicato nella materia in esame è l’uso e l’abuso delle presunzioni: sia quelle assolute che quelle relative sono frequenti nel nostro ordinamento tributario ed hanno il fine di evitare l’evasione fiscale.

Le presunzioni relative invertono solo l’onere della prova (che normalmente incombe alla finanza), il problema della legittimità costituzionale si risolve nella loro idoneità a rappresentare il presupposto economico (in base alla comune esperienza: id quod plerumque accidit).

La presunzione assoluta non ammette la prova contraria, e pone un problema che non è di accertamento presuntivo, ma di parificazione ai fini fiscali di manifestazioni diverse di capacità contributiva.

Le formule che la legge impiega sono: “l’imposta si applica inoltre”; “sono altresì soggetti all’imposta”; “ai fini della presente legge si considerano come”; etc.

Occorre distinguere nettamente il profilo dell’esistenza del debito da quello della determinazione.

Rispetto ad un concetto generale di fatto tassabile, le diverse ipotesi che la legge pone non possono essere tutte allineate in una acritica configurazione di presunzioni assolute, anche quando la legge tributaria dovesse impiegare il termine di “presunzione”.

Abbiamo prima di tutto le esemplificazioni legali, non necessarie dal punto di vista concettuale, ma di grande rilievo pratico.

Seconda categoria è quella dell’assimilazione in senso lato, la contemplazione cioè di casi estranei alla definizione generale di un’imposta, ma che vengono sottoposti allo stesso trattamento per equiparazione di capacità contributive.

Esempio: la legge tratta come reddito di capitale una ricchezza che non lo è.

Riserverei la qualifica di “presunzione” ai fatti che vengono assunti dalla legge tributaria come fatti rappresentativi di fatti tassabili; es. la spesa per provare il reddito.

Tali fatti non sono essi oggetto di tassazione.

Gli scopi delle presunzioni fiscali sono ravvisati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale in due punti: dare certezza e semplicità al rapporto tributario e consentire una pronta e regolare percezione di tributi, ed evitare l’evasione.

La presunzione come tale non è contraria alla Costituzione.

Ma non è sufficiente che la presunzione abbia i requisiti della logicità e della rispondenza alla comune esperienza per essere costituzionale.

Se la presunzione non consente smentite, non ammette cioè la prova contraria, e quindi può dar luogo ad applicazioni ingiustificate, essa è incostituzionale.

La giurisprudenza costituzionale ha costantemente riconosciuto la necessità che le presunzioni, per poter essere compatibili con il principio di capacità contributiva, devono essere confortate da elementi concretamente positivi che le giustifichino razionalmente.

Se l’imposta deve collegarsi ad un presupposto certo, provato e non solo probabile, il divieto della prova contraria alla presunzione fiscale esclude che ci si possa trovare in presenza di quella certezza assoluta di presupposto di cui parla la Corte.

Il contribuente dunque deve avere il diritto di provare l’effettività del reddito soggetto all’imposizione.

Perché la presunzione fiscale sia costituzionale si richiede dunque non solo che essa sia logica e rispondente ai dati della comune esperienza, ma che ammetta la prova contraria.

Tale discorso vale anche quando la presunzione abbia una funzione antifrode.

Con riguardo ai criteri di determinazione della base imponibile diventa prevalente l’esigenza della semplificazione.

Il punto di riferimento d’obbligo diventa il sistema catastale: il reddito dei fondi non è un reddito effettivo, ma un reddito medio ordinario.

Se il quantum è dato dalla presunzione di elementi probabili, la prova contraria dovrebbe essere sempre ammessa.

La presunzione è il processo impositivo avente la funzione di dare certezza e semplicità al rapporto tributario.

La presunzione è verità giuridica, avente come substrato fatti giuridici di difficile accertamento.

La forfetizzazione, se i criteri posti a base di essa rispondono alla comune esperienza, non appare contraria alla Costituzione, anche se non è ammessa la possibilità di una determinazione con criteri di effettività.

I criteri di forfetizzazione, quando sono ragionevoli e fondati sulla comune esperienza, sembrerebbero non contraddire il principio di capacità contributiva.

Un’imposta può essere preordinata a fini extra-fiscali, essa cioè non è tanto diretta a procurare un’entrata allo Stato ma ad altri fini rispetto ai quali essa assume un profilo strumentale.

Tale profilo strumentale può assumere un altro aspetto: la struttura ordinaria dell’imposta viene modificata in vista dello scopo politico che si vuol perseguire.

Si ha così la funzione disincentivante ed incentivante dell’imposizione.

L’imposta viene impiegata come disincentivo quando ad es. vengono colpiti certi consumi allo scopo di scoraggiarli, senza vietarli.

La forma piena di agevolazione è l’esenzione, consistente in una norma eccezionale che sottrae a tassazione persone o beni che dovrebbero essere tassati secondo la regola.

Una forma attenuata di agevolazione è la riduzione di aliquota.

Possono aversi regimi sostitutivi del regime ordinario, consistenti in schemi di imposizione semplificati che sostituiscono appunto tutte le imposte che dovrebbero colpire una certa ricchezza come il reddito.

Una forma di regime sostitutivo è data dalla ritenuta d’imposta: un reddito di capitale che dovrebbe sopportare con la tassazione ordinaria l’IRPEF o l’IRES viene assoggettato ad una ritenuta da parte di chi lo corrisponde con la conseguenza che quel reddito non dovrà subire nessun’altra tassazione.

Di fronte alla tassazione preordinata al perseguimento di fini extrafiscali si pone il problema della legittimità costituzionale sia sotto il profilo del principio di uguaglianza che di capacità contributiva.

Ora sia le imposte incentivanti che quelle disincentivanti sono costituzionali quando il fine è degno di tutela dal punto di vista dell’ordinamento giuridico.

Una volta stabilito che il fine è degno di tutela la scelta del mezzo prescelto è rimessa alla valutazione discrezionale del legislatore.

Stabilire se una esenzione od un altro regime agevolato è funzionale rispetto alla politica del risparmio è un giudizio politico che sfugge a censura di costituzionalità.

Anche l’imposizione extra-fiscale deve rispettare il principio di capacità contributiva nel senso che deve avere come presupposto un fatto economicamente rilevante, un fatto che sia manifestazione di ricchezza.

Si discute in dottrina e nella giurisprudenza pratica se dal 53 Cost, il quale pone il dovere inderogabile di solidarietà di concorrere alle spese pubbliche, discende il divieto per i privati di negoziare le imposte allo scopo di garantire a determinati soggetti una specie di “neutralità fiscale”.

La contrattazione di un’imposta può essere fatta in due modi: o si tiene conto di essa solo dal punto di vista economico e si maggiora il corrispettivo, il che produce un aumento del reddito per il percipiente, che si vede aumentare anche l’imposta sullo stesso; oppure non si modifica il corrispettivo ed una delle parti si impegna nei confronti dell’altra a rimborsare l’imposta che questa paga, insomma si accolla l’imposta.

Il primo modo è del tutto lecito.

Il secondo modo invece sembra violare il 53 Cost., in quanto tende a garantire la neutralità fiscale di alcuni soggetti, che per un certo reddito non pagherebbero nessuna imposta, facendosela pagare dal contraente.

Nel nostro ordinamento esistevano delle disposizioni tributarie che vietavano l’accollo d’imposta.

Ma vi è una disposizione che assume rilievo di principio in tema di sostituzione tributaria.

Il sostituto, un soggetto cioè che paga l’imposta per fatti economici riferibili ad altri, per una capacità contributiva non propria, è obbligato a rivalersi nei confronti del reddituario; e la giurisprudenza pratica ha ravvisato in tale obbligo un principio generale riconducibile al 53 Cost. secondo il quale ad ogni capacità contributiva deve corrispondere una riduzione del patrimonio del soggetto.

Lo Statuto dei diritti del contribuente ammette l’accollo del debito d’imposta altrui senza liberazione del contribuente originario.

Lo studio del diritto tributario è studio di obbligazioni pubbliche che si caratterizzano per la loro subordinazione alla cura di un interesse pubblico.

L’interesse generale alla riscossione dei tributi è un interesse vitale per la collettività perché rende possibile il regolare funzionamento dei servizi pubblici.

Tale interesse è protetto dalla Costituzione (53) sullo stesso piano di ogni diritto individuale.

Si può così parlare di interesse fiscale nel senso costituzionalmente corretto del termine.

Si è parlato anche, in dottrina, di “ragion fiscale”.

L’interesse fiscale, mentre dal punto di vista del diritto sostanziale, della struttura delle imposte, esige la semplicità dell’imposta, dal punto di vista del diritto formale, della applicazione delle imposte, esige una regolare e sollecita riscossione.

Tale obiettivo viene perseguito nelle leggi tributarie con la “particolarità” del diritto tributario: la deroga alle regole del diritto comune, del diritto civile, amministrativo, processuale.

Quando il diritto tributario introduce delle deroghe ai principi ed alle regole del diritto comune, tali deroghe non violano il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) se perseguono correttamente l’interesse fiscale, sono cioè funzionali alla sollecita riscossione, salvo il principio della capacità contributiva.

La più irrazionale delle deroghe storicamente esistite è stata quella del solve et repete, una regola secondo la quale il contribuente non poteva agire in giudizio contro l’amministrazione se prima non aveva pagato l’imposta.

Una deroga è stata il divieto fatto al giudice tributario di sospendere gli atti della riscossione: c’era dunque un’eccezione alla regola generale secondo la quale il giudice, che ha il potere di annullare l’atto amministrativo, ha anche il potere strumentale della tutela cautelare, di sospendere cioè l’efficacia dell’atto quando esista un fumus boni iuris e quando dall’esecuzione dell’atto possa discendere un grave ed irreparabile danno.

Tale deroga è venuta meno in quanto la disciplina del nuovo processo tributario attribuisce al giudice il potere di sospendere, fino alla pubblicazione della decisione di primo grado, l’esecuzione dell’atto impugnato qualora possa derivare al ricorrente un danno grave ed irreparabile.

Tutto il sistema della riscossione delle imposte sui redditi si fonda sull’anticipazione, anche da parte di terzi, oltre che dello stesso contribuente, salvo conguaglio al momento della dichiarazione e dell’accertamento definitivo: il contribuente viene chiamato a pagare l’imposta prima ancora di sapere se un reddito c’è e in che misura.

Rispetto al principio di capacità contributiva l’anticipazione è legittima perché quel principio non viene compromesso in quanto il contribuente ha diritto al rimborso, con gli interessi, delle somme pagate.

Ora si tratta di vedere a quali condizioni essa è legittima rispetto ad altri diritti costituzionali, come il diritto di difesa (24 e 113 Cost.).

In conclusione l’interesse fiscale agisce da parametro per legittimare o meno sul piano costituzionale le “particolarità” del diritto tributario.

Il coinvolgimento nell’applicazione delle imposte di soggetti estranei al presupposto economico, l’essere tenuti a pagare l’imposta per “fatti e situazioni riferibili ad altri”, pone il problema della giustificazione di tale coinvolgimento rispetto al precetto costituzionale (53) secondo il quale ad ogni capacità contributiva deve corrispondere un sacrificio del soggetto cui quella capacità si riferisce.

La legge tributaria non può creare a proprio piacimento responsabili e sostituti d’imposta.

La Corte ha ritenuto costituzionali entrambi gli istituti.

Per quanto concerne il responsabile la giustificazione è la seguente: […] il necessario collegamento con la capacità contributiva non esclude che la legge stabilisca prestazioni tributarie a carico solidalmente oltre che del debitore principale, anche di altri soggetti, non direttamente partecipi del fatto assunto come indice di capacità contributiva. In tali casi peraltro occorre che una siffatta imposizione risulti legittimata da rapporti giuridico-economici, intercorrenti fra i soggetti predetti, rapporti idonei alla configurazione di unitarie situazioni che possano giustificare razionalmente il vincolo obbligatorio (120 del 1972).

Per il sostituto un rischio come quello del responsabile non sussiste, posto che normalmente il regresso viene esercitato mediante la ritenuta.

Il rischio è un altro: che malgrado la ritenuta l’obbligo della rivalsa venga neutralizzato mediante patti contrari; il sostituto cioè s’impegna a restituire al sostituito quanto ritenuto.

La Corte ha ritenuto legittimo l’istituto della sostituzione, perché risponde a criteri di tecnica tributaria basati sulla finalità di agevolare l’accertamento e la riscossione dei tributi.

Dire che la funzione è puramente tecnica vuol dire che la sostituzione non deve alterare la situazione sostanziale che si produce in testa al soggetto principale: questi deve sopportare il carico tributario.

La rivalsa, facoltativa prima della riforma tributaria, è diventata obbligatoria.

Quando la rivalsa è facoltativa il mancato esercizio di essa porta ad un risultato incostituzionale.

Lo Statuto dei diritti del contribuente ammette l’accollo del debito d’imposta altrui senza liberazione del contribuente originario.

Con la conseguenza che una volta che l’atto di accollo è comunicato all’amministrazione, obbligati al pagamento del debito d’imposta sono sia l’accollante che l’accollato.

Il principio di legalità (riserva relativa di legge). Il 23 Cost. stabilisce che nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.

Le prestazioni imposte non si esauriscono in quelle tributarie, ma comprendono tutte le prestazioni coattive che possono essere richieste senza che la volontà del privato vi concorra.

La nozione di “prestazione patrimoniale imposta” è dunque più ampia di quella di “tributo”.

Le prestazioni patrimoniali imposte possono essere le più varie e possono essere anche relative a contratti quando la prestazione contrattuale sia non libera.

Giustamente la Corte costituzionale ha ritenuto “prestazione patrimoniale imposta” il corrispettivo dovuto per la prestazione di servizi pubblici essenziali come il telefono.

Secondo la prevalente dottrina la norma che si ricava dal 23 Cost. può essere così enunciata:

  • non possono essere istituiti tributi innominati, che non siano cioè espressamente previsti dalla legge;
  • la previsione legislativa non può ridursi alla mera enunciazione di un titolo di imposizione che fornisca solo il supporto nominale al tributo, né la legge può enunciare il tributo in maniera così indeterminata da lasciare all’amministrazione una discrezionalità tanto ampia da trasformare l’attività di accertamento in attività di individuazione dell’oggetto del tributo;
  • la previsione legislativa non deve contenere l’intera disciplina del tributo, ma i suoi elementi essenziali, quelli idonei ad identificare il tributo, la cui struttura tecnica particolareggiata potrà essere integrata da un atto normativo secondario (regolamento) emanato dall’amministrazione, dall’ente impositore, lo Stato o l’ente locale.

L’imposta deve essere definita con sufficiente determinatezza nei suoi elementi fondamentali.

Il 23 contiene dunque una riserva di legge relativa.

Se l’imposta è un prelievo, ad una data occasione, sulla ricchezza di una persona, la legge dovrà indicare come elementi essenziali: il presupposto, i soggetti, i criteri di determinazione dell’imponibile, l’aliquota massima.

L’elasticità della potestà regolamentare che la legge tributaria può lasciare all’amministrazione deve essere in funzione di particolari esigenze relative alla natura del tributo od alla sua funzione economica che richiedano la determinazione di alcuni elementi che solo l’ente impositore è in grado di valutare.

Per quanto concerne le aliquote io credo che la legge, pur rimettendo un’elasticità di manovra all’ente impositore, debba sempre indicare il massimo.

Il conferimento ad organi amministrativi di compiti esecutivi, quali quelli di fissare forme e termini per il pagamento di un’imposta, non contrasta col 23 Cost.

Ove la legge tributaria non lo vieti l’ente impositore può, per ragioni di opportunità, modificare il regime fiscale degli atti della riscossione.

Insomma la funzione politica del 23 è quella di limitare, per la tutela della libertà e proprietà dei cittadini, la discrezionalità dell’amministrazione in ordine al quantum dell’imposta e non in ordine al quomodo che, di regola, non intacca la sfera del privato.

Per “legge” nella previsione del 23 si intende sia la legge ordinaria, sia il decreto legge, sia il decreto legislativo.

In caso di necessità ed urgenza, come prevede il 77 Cost., anche nella materia tributaria il Governo può adottare provvedimenti provvisori con forza di legge: decreti-legge (o decreti-catenaccio).

Il decreto-legge deve essere presentato al Parlamento il giorno stesso per la sua conversione in legge; la mancata conversione entro 60 giorni produce la perdita di efficacia ex tunc.

I regolamenti sono atti amministrativi dello Stato o degli enti locali a contenuto normativo.

Essi hanno la funzione di integrare la disciplina di un’imposta istituita dalla legge, secondo la previsione costituzionale del 23.

Sono atti legittimi quindi solo se rispettano la riserva di legge e non possono derogare alle norme di legge della quale debbono attuare i criteri fissati.

In quanto atti normativi, integranti la disciplina di un’imposta, i regolamenti dovrebbero essere impugnabili, per illegittimità costituzionale, davanti alla Corte (che peraltro nega tale impugnabilità).

Quando la legge dello Stato prevede un tributo locale, la sua istituzione da parte dell’ente impositore (sia obbligatoria che facoltativa) avviene con un atto amministrativo (atto generale) a contenuto eventualmente regolamentare.

Tale atto istitutivo è impugnabile davanti al giudice amministrativo e può essere disapplicato, se ritenuto illegittimo, dal giudice tributario quando venga impugnato l’atto impositivo che riguarda il singolo contribuente.

In base a questi principi il potere regolamentare dovrebbe essere attribuito all’ente impositore (Stato od ente locale) dalle singole leggi tributarie.

Ma per effetto di una riforma (d. lgs. 446/1997) i comuni e le province hanno un potere regolamentare generale per tutto ciò che attiene i loro tributi e che può essere esercitato indipendentemente dalla previsione della singola legge statale.

Ovviamente da tale potere sono esclusi gli elementi fondamentali del tributo: fattispecie imponibile, soggetti passivi, aliquota massima.

Il Ministero delle Finanze può impugnare, per vizi di legittimità, il regolamento dell’ente locale, davanti agli organi della giustizia amministrativa.

La legge tributaria è una legge sostanziale che pone diritti e doveri, accertabili dal giudice, dei soggetti tassabili.

La legge tributaria, per quanto riguarda l’interpretazione, è una legge che va interpretata come tutte le altre; essa si applica se ed in quanto ricorrano i presupposti stabiliti dalla legge.

Quindi anche l’analogia è ammessa come tutti gli altri criteri interpretativi.

Ora il ricorso all’analogia è possibile solo quando appaia chiaramente dalla legge il criterio informatore di essa.

L’analogia in diritto tributario non è tanto vietata quanto difficile, se non impossibile, a causa della struttura delle leggi tributarie.

Anche se le nostre leggi sono delle casistiche, alla definizione generale di un presupposto non si può rinunciare per esigenze pratiche e non solo di astratta razionalità.

La definizione serve infatti a giustificare la stessa casistica proposta dalla legge; altrimenti questa è del tutto arbitraria, con conseguente disparità di trattamento dei cittadini di fronte al fisco.

Ogni tributo si caratterizza per una determinata capacità contributiva.

E la sufficiente determinatezza di esso deve esistere prima di tutto nella definizione generale del presupposto.

Una tecnica legislativa fatta solo di casistica, che il legislatore è libero di allungare a suo piacimento, non è compatibile con il principio di legalità.

Alla base di ogni legge vi deve essere un chiaro criterio di capacità contributiva che diventi elemento di coerenza di tutti i casi espressamente contemplati dalla legge e fondamento dell’interpretazione analogica.

Naturalmente l’analogia è vietata per le disposizioni fiscali contenenti esenzioni che sono eccezioni alle regole: le norme eccezionali non sono in generale suscettibili di interpretazione analogica.

La giurisprudenza ammette peraltro l’interpretazione estensiva delle norme di esenzione.

Anche per quanto riguarda la retroattività, questa non è vietata dal principio di legalità: esso infatti non vieta che la legge tributaria preveda espressamente la propria retroattività come deroga al principio generale dell’ordinamento (posto con legge ordinaria e quindi derogabile) secondo il quale la legge dispone solo per l’avvenire.

Né una legge retroattiva può dirsi in contrasto col 25 Cost., il quale riguarda solo la materia penale.

È retroattiva sia la legge che assume a presupposto un fatto od una situazione passati, sia quella che modifichi un regime tributario già esistente.

Occorre verificare di volta in volta se la retroattività non violi un qualche principio costituzionale, in particolare quello di capacità contributiva.

È retroattiva anche la legge interpretativa che si ha quando il legislatore sceglie, rispetto ad una legge già esistente, una delle interpretazioni proposte.

L’interpretazione autentica secondo lo Statuto del contribuente può essere disposta solo in casi eccezionali, mentre la retroattività in generale può essere disposta solo come deroga espressa all’art. 1 di detto Statuto.

Quando si passa da un regime fiscale ad un altro la legge tributaria può porre un regime transitorio.

In mancanza di esso vale il principio secondo il quale ogni atto è retto dalla legge vigente al momento in cui esso è compiuto (tempus regit actum).

La dichiarazione d’incostituzionalità d’una legge, anche tributaria, vale ex tunc, con la caducazione degli effetti relativi a fatti già verificatisi.

Vi sono al riguardo due orientamenti che partono dal medesimo presupposto: il diritto alla restituzione di ciò che è stato indebitamente riscosso in base ad una norma dichiarata incostituzionale sorge dal giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della sentenza della Corte costituzionale che pronuncia sull’illegittimità.

Mentre, però, secondo un primo indirizzo, l’istanza di rimborso deve essere presentata dal contribuente nei termini previsti dalle singole leggi d’imposta o, in mancanza di disposizioni specifiche, entro due anni dal giorno in cui è sorto il diritto alla restituzione, in base ad altro orientamento l’istanza di restituzione può essere presentata entro il termine di prescrizione ordinaria (10 anni: 2946 c.c.).

La legge tributaria si applica a tutto il territorio nazionale e nei confronti di tutti coloro che, manifestando una certa capacità contributiva, abbiano un collegamento soggettivo od oggettivo col territorio stesso.

Tuttavia qualora un soggetto possegga dei beni o svolga la sua attività produttiva di reddito nel territorio di più Stati sorge il problema della doppia imposizione in quanto, non essendovi dei limiti derivanti dalla legge interna o dal diritto pubblico internazionale al potere di imposizione dei singoli Stati, ciascuno di essi può sottoporre a tassazione il medesimo presupposto di fatto.

Al fine di evitare la doppia tassazione vengono predisposti degli strumenti di diritto internazionale, cioè delle convenzioni bilaterali e plurilaterali che regolamentano il potere di imposizione di singoli Stati.

Affinché tali convenzioni possano limitare il potere di imposizione e quindi siano vincolanti all’interno dello Stato italiano occorre un atto ulteriore, e precisamente una legge di ratifica con la quale venga ordinata l’esecuzione del trattato ad essa allegato.

I metodi generalmente previsti dalle convenzioni internazionali per evitare la doppia tassazione sono:

  • attribuzione esclusiva del potere d’imposizione ad uno solo dei due Stati;
  • tassazione limitata sia da parte dello Stato in cui il reddito è prodotto, sia da parte dello Stato di residenza del soggetto passivo.

Nella seconda ipotesi, come anche nel caso in cui manchi una convenzione internazionale, il nostro ordinamento prevede un correttivo consistente nel credito d’imposta: tale istituto tende ad ovviare, mediante il meccanismo delle detrazioni d’imposta, all’inconveniente che deriva dalla concorrenza alla formazione del reddito complessivo del soggetto residente anche dei redditi prodotti all’estero.

Non viola il 23 Cost. il 189 del Trattato CEE in quanto permette l’emanazione di regolamenti e direttive comunitari contenenti imposizioni di prestazioni patrimoniali, giacché essi debbono statutariamente corrispondere ai principi e criteri direttivi stabiliti dal Trattato istitutivo della Comunità europea.

I regolamenti, contenenti principi generali, hanno efficacia immediata all’interno degli Stati membri, potendo attribuire ai cittadini dell’Unione diritti da far valere innanzi ai giudici nazionali.

Le direttive, che hanno come destinatari gli Stati membri, contengono delle discipline che devono essere recepite, entro una precisa scadenza, dagli Stati stessi.

Scaduto tale termine, le norme contenute nelle direttive, che siano incondizionate e sufficientemente precise, potranno essere direttamente applicate all’interno dei singoli ordinamenti nazionali, con conseguente disapplicazione della normativa interna.

Per legge, ai fini del 23 Cost. si intende anche quella regionale.

Le Regioni difatti hanno potestà tributaria, quelle a statuto ordinario secondo gli artt. 117 e 119 Cost. e quelle a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Trentino, Friuli, Val d’Aosta) secondo i rispettivi statuti.

Le Regioni, secondo la Costituzione, non possono istituire dazi d’esportazione o d’importazione o transito fra le Regioni (120).

 

Negli statuti delle Regioni a statuto speciale sono previsti i tributi e i poteri di tali enti.

Le direttive dell’amministrazione sono emanate in atti provenienti dall’amministrazione centrale, privi di valore normativo ed improduttivi comunque di effetti giuridici, detti circolari, normali, istruzioni: esse non vincolano il contribuente, il giudice e, secondo la Cassazione, nemmeno gli uffici finanziari.

Le circolari rappresentano l’interpretazione concreta data dall’amministrazione alle leggi tributarie.

Può darsi che la circolare reputi esistere un obbligo di ritenuta, penalmente sanzionato.

Il contribuente che dissente da essa e che vuole evitare il processo penale pagherà (esponendosi anche all’azione di danno del sostituito) e ripeterà l’indebito.

Gli atti della finanza vengono emanati sulla scorta delle circolari ed è la loro interpretazione che diventa oggetto di giudizio da parte del giudice.

Ora in presenza di una circolare dovrebbe essere consentita l’azione d’accertamento negativo dell’obbligo davanti al giudice; anche la circolare, per gli obblighi che concretamente pone al contribuente, puntualizza l’interesse a ricorrere.

Precludere una tale azione rispetto ad un obbligo di versare significa far rivivere l’odiosa regola del solve et repete.

Secondo un’interessante dottrina (Benatti) l’amministrazione non potrebbe tassare, quando muta orientamento, i fatti pregressi, perché verrebbe violato il principio di buona fede che si concretizza anche con riguardo ai principi costituzionali.

Il fisco ha l’obbligo di comportarsi con correttezza ed imparzialità (97 Cost.).

È pur vero che, in teoria, una circolare non vincola nessuno.

Ma quando una circolare dichiara dei fatti intassabili, pone il contribuente in una sorta di “necessità” di comportarsi da evasore.

E pertanto l’obbligo tributario concretamente nasce per gli operatori pratici solo quando l’amministrazione muta indirizzo.

Ora in questi casi la portata della  circolare dovrebbe valere solo per il futuro.

Altri principi contenuti nella Costituzione che interessano il diritto tributario sono:

  • il 14.3, in base al quale Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali: con tale norma si vuole tutelare l’interesse all’accertamento ed alla riscossione dei tributi, che si presenta come un interesse non meno fondamentale di quello dell’inviolabilità del domicilio, previsto dal 14.1 Cost.;
  • il 20, per il quale Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali […] gravami fiscali […]: si avrebbe altrimenti una disparità di trattamento tra soggetti credenti e non credenti;
  • il 75.2, in base al quale Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio […];
  • l’81.3, secondo il quale Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese: si tratta di una norma che trova la sua giustificazione nel fatto che la legge di approvazione del bilancio non è una legge sostanziale, ma un atto espressione della funzione di indirizzo politico, di controllo politico del Parlamento sulla finanza statale.

I tributi devono essere istituiti con una legge ordinaria, cioè con una legge che sia espressione della funzione legislativa e non della funzione di indirizzo politico.

La riforma tributaria del 1971 e l’attuale sistema delle imposte. Le linee direttrici della riforma sono le seguenti:

  • sostituire, sia nel campo dell’imposizione diretta, sia nel campo dell’imposizione indiretta, un ristretto numero di imposte alle molte prima esistenti;
  • adeguare la disciplina dell’accertamento e della riscossione;
  • rivedere la disciplina del contenzioso;
  • riorganizzare l’amministrazione finanziaria.

La riforma tributaria è stata dettata dall’intento di eliminare i difetti del vecchio sistema che venivano individuati con le seguenti critiche:

  • insopportabilità dal punto di vista economico;
  • eccessiva complessità, per l’elevato numero dei tributi, a volte interferenti fra loro, sicché la stessa manifestazione di ricchezza, ad esempio il reddito, veniva colpita più volte;
  • caoticità della legislazione, dettata solo dalla preoccupazione del gettito, ma inadeguata allo scopo.

Sui singoli difetti nei lavori preparatori si mettevano in evidenza:

    • l’eccessiva complessità del sistema, dovuta all’elevato numero dei tributi, ed alla loro reciproca interferenza, essendo spesso una stessa ricchezza colpita da più imposte non coordinate fra loro;
    • la difficoltà di individuare la norma applicabile al singolo caso, quindi l’inapplicabilità del sistema;
    • l’impossibilità, conseguente alla complessità ed all’inapplicabilità suddette, di valutare con esattezza il complessivo carico tributario, vale a dire l’incertezza tributaria che è causa di difficoltà nella determinazione dei costi di un prodotto o di un’attività produttiva con riflessi negativi nei rapporti economici internazionali;
    • eccessiva elevatezza delle aliquote, tale da neutralizzare l’interesse alla produzione di un maggior reddito (insopportabilità della tassazione); tra l’altro l’aggio esattoriale, diverso da Comune a Comune, spettante all’esattore per la riscossione dei tributi diretti, si risolveva in un maggior carico fiscale per il contribuente, poiché si calcolava in relazione all’imposta da pagare.

     Con detto aggio insomma il contribuente doveva pagare il costo della riscossione;

    • la sperequazione, sia di tipo legale, in quanto la legge tributaria trattava in modo differente i diversi tipi di reddito, sia quella di fatto relativa alla stessa categoria di reddito, a causa dell’imperfezione e grossolanità degli accertamenti.

     Per quanto concerne la sperequazione legale la legge accordava un trattamento diverso a redditi di pari entità tenendo conto della diversità della fonte produttiva.

     La sperequazione di fatto era dovuta (come oggi del resto) all’evasione.

     Una delle cause di tale sperequazione era il concordato fiscale.

     Si anticipava la definitività e quindi in parte la riscossione eliminando la litigiosità e le spese.

     Ma il concordato era una vera e propria transazione che tradiva la legalità dell’imposizione;

    • eccessiva lentezza degli uffici e degli organi del contenzioso nel definire gli accertamenti, con inconvenienti gravi nei confronti delle liquidazioni e dei fallimenti, essendo non raro il caso di procedure che non si potevano chiudere unicamente a causa delle pendenze dei carichi fiscali;
    • la disorganizzazione dell’amministrazione finanziaria.

Gli obiettivi della riforma del 1973 in risposta a questi difetti erano la semplificazione, la sopportabilità, la prevedibilità e certezza del carico fiscale ed infine la perequazione, sia sotto il profilo della parità di trattamento, sia sotto il profilo dell’efficienza degli strumenti d’applicazione.

Nel campo della tassazione dei redditi i criteri direttivi sono stati quello della personalità, cioè la tassazione del reddito complessivo e la considerazione delle spese personali, e quello della progressività, consistente nella previsione di aliquote non proporzionali, ma progressive, cioè crescenti col crescere della base imponibile.

La tassazione del reddito medio complessivo, della somma cioè di tutti i redditi, sia della persona giuridica che della persona fisica, intende dar rilievo a tale complesso di redditi come manifestazione autonoma di capacità contributiva.

Questa manifestazione di capacità contributiva consente la migliore applicazione del principio di progressività posto dalla Costituzione.

La riforma ha semplificato nel settore delle imposte sui redditi introducendo due imposte personali, una progressiva e l’altra proporzionale:

  • l’imposta sul reddito complessivo delle persone fisiche (IRPEF);
  • l’imposta sul reddito complessivo delle persone giuridiche (IRPEG), ora sostituita dall’imposta sul reddito delle società (IRES);
  • l’ILOR (imposta locale sui redditi) era stata la soluzione di compromesso raggiunta fra quanti richiedevano un’imposta sul patrimonio e quanti sollevavano riserve rispetto alla proposta, fra le quali la seguente: per i patrimoni privi di reddito l’imposta si sarebbe risolta in una lenta espropriazione.

Allora si introdusse l’ILOR, che dava rilievo al patrimonio, ma di questo assumeva come base imponibile il reddito prodotto diventando così l’imposta sui redditi derivanti da patrimonio.

L’imposta era nata anche con la funzione di far devolvere il suo gettito agli enti locali, di qua il suo nome.

Nel campo della tassazione indiretta la novità di maggior rilievo è stata l’introduzione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA).

Le imposte uscite dalla riforma sono queste:

  • imposte dirette erariali: IRPEF, IRPEG, ILOR;
  • imposte indirette:
  • sui consumi: IVA, imposte di fabbricazione, dazi doganali, imposte di circolazione;
  • sui trasferimenti: successione, donazione, registro, bollo, INVIM, spettacoli, tasse sulle concessioni governative, sulle assicurazioni, ipotecarie e catastali.

Nel campo della riscossione è stata generalizzata la regola secondo la quale chi dichiara un’imposta deve contestualmente versarla (autotassazione) ed è stato introdotto l’anticipo d’imposta da parte del contribuente.

È stata introdotta un’imposta sulle attività produttive (IRAP) del tutto nuova, sopprimendo l’ILOR.

È stata introdotta la compensazione tra debiti e crediti d’imposta.

I difetti fondamentali evidenziati nel 1971 sembrano ancora sussistere: l’insopportabilità dal punto di vista economico; la caoticità della legislazione e le incertezze relative all’esercizio della potestà legislativa; la disparità di trattamento, dovuta sia alla diversa configurazione dei redditi, sia alle diverse discipline accertative (conciliazione, studi di settore) di recente introdotte.

La legge delega 80/2003 modifica il sistema tributario attuale.

Tutto il disegno ruota intorno alla sostituzione dell’IRPEG con l’imposta sulle società (IRES).

La base imponibile viene corretta con una serie di esenzioni, esclusioni ed opzioni che tendono a rendere la società competitiva.

È riconosciuta rilevanza ai gruppi d’impresa.

Mentre gli enti non commerciali vengono inclusi fra i soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, gli enti commerciali, diversi dalle società, non sono espressamente previsti, se non nella disciplina del consolidato fiscale.

Dell’IRPEF e della nuova imposta sui redditi, elementi qualificanti sono le deduzioni e le aliquote.

I titoli delle deduzioni previsti sono quelli giusti: famiglia, casa, sanità, istruzione, previdenza, non-profit, volontariato, spese inerenti la produzione del reddito di lavoro dipendente.

Una progressività applicata agli enti non commerciali lascia perplessi.

È prevista la graduale eliminazione dell’IRAP.

La codificazione è incentrata sulla disciplina unitaria, per tutte le imposte, del soggetto passivo, della obbligazione, delle sanzioni, del processo, e sulla previsione di regole comuni a tutte le imposte per la dichiarazione, l’accertamento, la riscossione.

Viene introdotto un ribaltamento in ordine al soggetto passivo delle sanzioni amministrative, che sarà il soggetto che ha tratto beneficio dalla violazione (la società e non l’amministratore).

Il divieto della doppia imposizione giuridica andrebbe esplicitato anche per segnare i limiti della sovraimposizione da parte degli enti locali.

Il divieto della interpretazione analogica sembra inutile, perché in diritto tributario l’interpretazione analogica è impossibile.

Viene ripetuta la regola già discussa, a proposito dello Statuto del contribuente, secondo la quale il codice può essere derogato o modificato solo espressamente e mai con leggi speciali.

L’attuazione della legge delega:

    • l’attuazione per moduli: per l’applicazione di tale complesso disegno riformatore vi sono stati finora due interventi legislativi, individuati come moduli della riforma:
      • il minimo non imponibile in tema di tassazione delle persone fisiche, che consiste nell’applicazione di specifiche deduzioni dal reddito complessivo lordo al fine di attenuare la progressività dell’imposizione;
      • l’imposta sulle società, chiamata IRES; il suo punto qualificante (l’espulsione degli enti non commerciali) è stato rinviato per ragioni di opportunità politica, sicché l’IRES è nei suoi elementi strutturali identica all’IRPEG.
    • il nuovo Testo Unico delle Imposte sui Redditi: se nel decreto non c’è un eccesso formale di delega, c’è però sicuramente una sorta di abuso della delega, di scorrettezza nell’uso di essa, che appare censurabile: la delega è stata riempita parzialmente, con delimitazione arbitraria della materia, con grosse contraddizioni.

     Dalla tecnica normativa adottata (modifica parziale del T.U.) risulta un testo non necessario nemmeno ai fini della parziale riforma, con un’impostazione del tutto asistemica.

     L’attuazione, come abbiamo detto, è avvenuta per moduli, vale a dire per parti.

     Il legislatore non gode di assoluta discrezionalità nell’attuazione parziale di una delega: non si può infatti stabilire il contenuto minimo di ciascun intervento.

     L’attuazione della riforma solo in ordine all’IRES, mentre si voleva partire da un disegno sistematico della tassazione di tutti i soggetti, non corrisponde alla scelta di un modulo delimitato con razionalità.

     Veniamo al punto cruciale: la riforma del T.U. con cambiamento di titoli e numerazione è fonte di confusione.

     L’IRES, nella sua struttura, nella definizione del presupposto e dei soggetti, è identica all’IRPEG.

     Nella nuova ripartizione, le norme sul reddito d’impresa si trovano collocate in primo luogo nel titolo dedicato all’IRES, nella parte dedicata agli enti commerciali, ma devono poi essere integrate con le corrispondenti disposizioni applicabili ad altri soggetti (società di persone ed imprese individuali); ne risultano coppie di norme per le quali lo sdoppiamento non ha altra funzione che quella di diversificare la disciplina degli aspetti del singolo istituto.

     Il testo risulta appesantito dall’eccessiva analiticità dei nuovi istituti, particolarmente complessi.

     Gli accorgimenti di carattere grafico producono il risultato di trasferire sul contribuente il costo dell’interpretazione della modificazione strutturale, ma anche quello della sua identificazione.

     Un ultimo rilievo sul d. lgs. 344/2003: è discutibile qualificare, come esso fa, “non modificate” disposizioni nelle quali i richiami ad altre disposizioni non hanno più il significato originario, e quindi devono essere modificate.

     In ogni caso si dovrà tornare su buona parte del T.U.: siamo ben lontani da quella codificazione proposta nella legge delega (l. 80/2003): la stabilità normativa è uno dei presupposti della codificazione.

La nozione di reddito e il sistema di tassazione dei redditi. Come tutti i presupposti d’imposta il reddito non è un fatto naturale, ma è una costruzione convenzionale della legge tributaria: reddito è ciò che la legge tributaria definisce come tale.

Lo sforzo che si fa nelle leggi tributarie è di vedere come si manifesti una categoria scientifica rigorosa, come il reddito o il patrimonio, nei concreti fatti della vita.

I concetti teorici di reddito elaborati dalla scienza economica non coincidono con le definizioni giuridiche elaborate dalle leggi tributarie.

Vi è una perfetta autonomia delle nozioni giuridiche, caratterizzate dal criterio della semplificazione, dalle nozioni teoriche caratterizzate da rigore logico.

L’ordinamento giuridico conosce diversi concetti di reddito che sono caratterizzati da fattori contingenti.

Possiamo dire in linea di prima approssimazione che sono reddito alcune forme di arricchimento previste dalla legge.

Reddito dunque è ricchezza nuova, incremento di patrimonio.

Dal punto di vista delle scelte possiamo avere i seguenti concetti di reddito:

  • reddito prodotto, ricchezza nuova derivante da una fonte produttiva;
  • reddito entrata, qualunque forma di arricchimento, indipentendemente dalla considerazione di una determinata fonte produttiva;
  • reddito-spesa, una parte della ricchezza nuova non destinata al risparmio ma alla spesa appunto, al consumo.

Assimilate al reddito, come ricchezza nuova, vi possono essere alcune ipotesi di incremento di valore, che non è incremento di patrimonio ma aumento di valore di beni già posseduti (plusvalenze).

Può avvenire che nell’ordinamento vengano definiti come reddito fatti riconducibili a più nozioni.

Il che pone delicati problemi di parità di trattamento.

Nel sistema disegnato dal D.P.R. 597/1973 la nozione fondamentale di reddito è quella di reddito prodotto: difatti i singoli redditi sono classificati (art. 6) in base alla fonte produttiva.

L’art. 1 stabilisce che il reddito può derivare da qualsiasi fonte, e quindi può trovare origine anche in fatti diversi da quelli previsti dal 6.

Inoltre il concetto di reddito prodotto subisce una serie di dilatazioni riconducibili alle seguenti tecniche:

  • l’esemplificazione, la previsione di casi specifici nei quali i fatti tassabili non sono solo esempi del concetto proprio della categoria ma sono anche altri fatti, altri arricchimenti;
  • l’assimilazione, che tende ad individuare casi che non sono reddito prodotto, ma altri tipi di entrata (borse di studio, vincite, indennità politiche);
  • la categoria dei redditi diversi, che solo in parte sono redditi tipici privi di qualche connotato (come l’abitualità o la territorialità), ma che sono anche arricchimenti non riconducibili a nessuna categoria, e fra questi ricorrono anche gli incrementi di valore (plusvalenze);
  • infine, è tassabile ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati dalla legge.

Conclusivamente la nozione di reddito che si ricava dalla normativa del D.P.R. 597/1973 è ogni forma di entrata che costituisca ricchezza nuova che non sia risarcimento di danno od integrazione di perdita subita.

Col T.U. 917/1986, che ha sostituito i decreti che disciplinavano le imposte sui redditi, sono state conservate le categorie, sia pure modificate, si è conservata la tecnica della semplificazione e della assimilazione, ma la disciplina è stata innovata su un punto fondamentale, in quanto si è rinunciato al concetto generale di reddito.

Si è esasperato il metodo casistico, vale a dire sono state aggiunte ai redditi diversi tutte le fattispecie ipotizzabili allo stato attuale sulla scorta dell’esperienza amministrativa e giurisprudenziale.

L’art. 1 è stato depurato là dove dice “provenienti da qualsiasi fonte”, ed è stato soppresso l’art. 80: di fronte ad una normativa ricca e dettagliata non c’è più bisogno di una norma residuale.

È stato codificato il principio della legislazione a getto continuo, per quanto concerne la previsione dei redditi tassabili.

Abbiamo dunque un sistema aperto nel quale manca una nozione che possa giustificare sia le ipotesi comprese nel T.U. sia le nuove ipotesi che si aggiungeranno ove se ne presenti la necessità.

Un tale sistema non sembra costituzionalmente corretto.

Lo schema ricorrente nelle nostre imposte è quello della casistica preceduta o seguita da una norma residuale, per lo più generica od insignificante.

L’imposta secondo il 23 Cost. deve essere sufficientemente determinata, ed un’imposta fatta solo di casi e non di una definizione generale rischia di apparire incostituzionale per l’indeterminatezza del suo oggetto, per l’arbitrarietà dell’elenco e delle esclusioni.

Eliminando il concetto generale di reddito, non solo non si risolve il problema della certezza, ma nemmeno quello della perequazione, della parità di trattamento.

Difatti un tale sistema pone questo interrogativo: perché certi redditi sì ed altri no?

Sono redditi tassabili, secondo l’1 T.U., quelli rientranti nelle categorie del 6: a) redditi fondiari; b) redditi di capitale; c) redditi di lavoro dipendente; d) redditi di lavoro autonomo; e) redditi d’impresa; f) redditi diversi.

Tali categorie si fondano sul concetto di “reddito prodotto”, sono individuate cioè in base alla fonte produttiva.

Ma tale concetto subisce nella legge le stesse dilatazioni presenti nel D.P.R. 597, riconducibili alla tecnica dell’esemplificazione (che comprende anche casi non omogenei alla categoria) e alla tecnica della assimilazione (che comprende casi non riconducibili a nessuna categoria).

I redditi diversi sono redditi scelti sì in base all’esperienza, ma anche in base al più assoluto arbitrio: sicché rispetto ad essi nasce la questione costituzionale della loro scelta, ma soprattutto dell’esclusione di altri redditi possibili.

Il principio di capacità contributiva esige una coerenza logica dell’imposta nel senso che oggetto di essa devono essere solo i fatti ma tutti i fatti riconducibili ad una determinata manifestazione di capacità contributiva.

Col metodo casistico l’interpretazione non viene eliminata.

Concludendo, per deliberata scelta del legislatore nel T.U. delle imposte sui redditi manca una nozione generale di reddito.

Sono quindi redditi tassabili solo quelli previsti dal 6: a) redditi fondiari; b) redditi di capitale; c) redditi di lavoro dipendente; d) redditi di lavoro autonomo; e) redditi d’impresa; f) redditi diversi.

La distinzione fra presupposto e base imponibile, che è molto netta per altri fatti tassabili, è meno percepibile rispetto a quel fatto che è il reddito tassabile.

Questo si identifica grosso modo con la sua entità.

Possiamo dire che ad ogni tipo di reddito corrispondono propri criteri di determinazione, quando non avvenga che all’interno della stessa categoria vi siano più criteri a seconda dei singoli redditi.

Le singole categorie di reddito sono le seguenti: a) redditi fondiari; b) redditi di capitale; c) redditi di lavoro dipendente; d) redditi di lavoro autonomo; e) redditi d’impresa; f) redditi diversi.

I proventi conseguiti in sostituzione di redditi e le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi costituiscono redditi della stessa categoria di quelli da cui derivano i redditi su cui tali interessi sono maturati.

L’illiceità del reddito non esclude che esso debba essere determinato secondo le disposizioni riguardanti le categorie di appartenenza.

Un reddito, un arricchimento, può essere determinato o con criteri di effettività o con criteri convenzionali che si allontanano in qualche modo dalla realtà (erosione legale).

Inoltre un reddito può essere netto o lordo a seconda che si tenga conto o meno delle spese strumentali inerenti la sua produzione.

Se non è diversamente stabilito, il principio generale è che un reddito, in quanto arricchimento, è netto.

Abbiamo redditi determinati con criteri di media: il reddito dei fondi (terreni e fabbricati), il reddito catastale, è un reddito medio ordinario, che non corrisponde all’arricchimento effettivo.

Mentre sono redditi effettivi, determinati in base alle regole della contabilità ordinaria, il reddito di impresa e quello di lavoro autonomo.

Per quanto concerne le spese inerenti, il reddito d’impresa e quello di lavoro autonomo sono redditi netti, mentre sono redditi lordi quello di capitale e quello di lavoro dipendente.

Oltre la disciplina propria delle categorie di reddito, abbiamo criteri di determinazione previsti per singoli redditi.

Reddito complessivo è sempre la risultante di più redditi.

Ma tale risultante è di più tipi:

  • per le persone fisiche e le persone giuridiche che non siano enti commerciali, essa è mera somma algebrica di redditi di tipo diverso, già determinati autonomamente, compreso il reddito d’impresa;
  • per le persone giuridiche che siano enti commerciali, il reddito complessivo coincide con una delle categorie di reddito, quello d’impresa, in quanto i singoli redditi, come quello di capitale o fondiario, concorrono, con altri componenti attivi, alla formazione di quel reddito.

Quando un reddito è strumentale rispetto alla produzione di un altro reddito, perde la sua autonoma determinazione e regredisce a componente di quell’altro reddito.

La tassazione dei redditi può essere di due tipi, reale e personale.

È reale quando ad ogni singolo reddito corrisponde una imposta autonoma, un debito tributario autonomo, la cui entità è determinata facendo esclusivo riferimento a quel singolo reddito ed alle sue componenti: in particolare le spese di cui si tiene conto sono solo quelle strumentali, le spese cioè inerenti la sua produzione.

Presupposto di tali imposte è la produzione di singoli redditi nel territorio dello Stato, anche da parte di soggetti non residenti.

La tassazione è personale quando l’imposta è commisurata al complesso dei redditi, ovunque siano prodotti, anche all’estero, da parte di soggetti residenti nello Stato.

La sua entità è determinata tenendo conto anche delle spese personali, di quelle cioè che sono destinate alla soddisfazione di bisogni personali.

Gli elementi della tassazione personale sono pertanto i seguenti:

  • residenza nel territorio dello Stato di una persona sia fisica che giuridica (intendendosi per persona giuridica ogni soggetto produttore di reddito che non sia una persona fisica);
  • concorso di tutti i redditi alla formazione della base imponibile, ovunque siano stati prodotti;
  • considerazione di spese personali, sia nella forma tecnica della deduzione che della detrazione: deduzione dalla base imponibile, detrazione dall’imposta;
  • aliquote progressive per la tassazione delle persone fisiche.

Secondo una parte della dottrina basterebbero solo i primi due perché l’imposta venga considerata come personale.

La riforma tributaria ha avuto l’obiettivo di esaurire la tassazione dei redditi nello schema delle imposte personali: un’imposta sul reddito complessivo delle persone fisiche (IRPEF) ed un’imposta sul reddito complessivo delle persone giuridiche (IRPEG), che a partire dal 1-1-2004 è stata soppressa a seguito dell’introduzione dell’imposta sul reddito delle società (IRES).

Ma solo l’IRPEF realizza pienamente lo schema della tassazione personale.

Solo per gli enti non commerciali esiste una sorta di analogia con le persone fisiche.

Ma con le due imposte personali era stata introdotta un’imposta reale, l’ILOR (imposta locale sui redditi) che è stata detta “locale” perché si era ipotizzato di attribuire il suo gettito agli enti locali (Regione, Provincia, Comune, etc.), che avevano anche il potere di fissare l’aliquota prevista dalla legge fra un minimo ed un massimo.

Di “locale” all’ILOR non era rimasto che il nome: l’aliquota era unica ed il suo gettito non era neanche formalmente destinato agli enti locali.

Ma la destinazione del gettito di questo tributo è stata sempre distinta dalla sua funzione fiscale, dalla sua giustificazione dal punto di vista della capacità contributiva che viene in considerazione, il reddito derivante da patrimonio.

Ritenendo che ha senso tassare un patrimonio solo se questo produce reddito, altrimenti la tassazione si risolve in una lenta espropriazione del bene, la proposta di introdurre un’imposta sul patrimonio si risolse in quella di istituire un’imposta sul reddito derivante da patrimonio.

L’ILOR è stata abolita a seguito dell’introduzione nell’ordinamento dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP).

La legge non dà la nozione di reddito complessivo come categoria di reddito autonoma: reddito complessivo è la risultante, diversamente determinata a seconda dei soggetti, di una serie possibile di redditi.

La legge definisce dunque i singoli redditi che si individuano in base a categorie riconducibili a determinate fonti produttive (fondo, lavoro, capitale, impresa).

Naturalmente il reddito complessivo può esser dato anche da un solo reddito.

La definizione dei singoli redditi è comune a tutte le imposte, cioè di regola la nozione di un singolo reddito non varia col variare dell’imposta di cui concorre a formare la base imponibile.

L’accertamento di un reddito è dunque unico per tutte le imposte che lo colpiscono.

Le imposte singole sui redditi danno luogo a rapporti giuridici autonomi che hanno proprie vicende costitutive, modificative ed estintive: può avvenire ad esempio che solo un’imposta goda di una esenzione.

Solo la nozione di reddito d’impresa, o meglio la previsione e la determinazione di alcuni suoi componenti, subiscono una modificazione quando si tratti di un’impresa individuale: in tal caso al nucleo di disciplina applicabile al reddito d’impresa delle persone giuridiche si aggiungono altre disposizioni previste esclusivamente per le persone fisiche.

La nozione di reddito d’impresa è di grande rilievo sistematico nella tassazione dei redditi:

  • alcuni soggetti, sol che rivestano una determinata forma giuridica, sono considerati impresa dalla legge tributaria (ad es. i redditi delle s.n.c. e delle s.a.s. sono considerati redditi d’impresa);
  • gli altri redditi (immobiliare e di capitale) perdono la loro autonomia e diventano componenti del reddito d’impresa quando sono strumentali rispetto ad esso;
  • il reddito di lavoro autonomo è definito residualmente rispetto al reddito d’impresa, nel senso che è reddito di lavoro autonomo tutto ciò che non è reddito d’impresa;
  • non si applica la tassazione separata di un reddito quando è componente del reddito d’impresa.

IRPEF, IRES ed IRAP sono imposte periodiche.

Un’imposta è detta periodica quando il suo presupposto è un’attività o situazione a carattere continuativo, come la produzione del reddito od il possesso del patrimonio.

Un prelievo fiscale che non operasse periodicamente non soddisferebbe le esigenze che sono alla base dell’imposizione.

L’ente pubblico sostiene e misura periodicamente le sue spese alle quali devono corrispondere entrate periodicamente percepite.

Il periodo d’imposta si può definire con la migliore dottrina (Antonini) “segmento temporale in cui isolare, ai fini della imposizione periodica, il continuo dell’attività produttiva di reddito imponibile”.

Ad ogni periodo corrisponde di regola un’obbligazione tributaria autonoma, il cui oggetto deve essere determinato con riguardo ai fatti ed alle situazioni che si verificano in ogni periodo.

Il periodo d’imposta è l’anno sociale per i soggetti tassabili ai fini dell’IRES e l’anno solare per quelli tassabili ai fini dell’IRPEF.

Per ogni reddito la legge tributaria detta un criterio di imputazione al periodo d’imposta previsto.

Il principio generale per l’imputazione di un reddito ad un determinato periodo d’imposta è quello dell’effettiva percezione (criterio di cassa): si prescinde cioè dalla collocazione nel tempo dell’attività produttiva.

Solo per il reddito d’impresa (ed eccezionalmente per il reddito di lavoro autonomo) rileva il periodo di competenza, il periodo cioè nel quale sono svolte le attività produttive: cessione di beni o prestazione di servizi.

Rispetto alle imposte sui redditi può acquistare rilevanza il luogo di produzione del reddito.

Per le imposte personali i soggetti residenti vengono tassati per tutti i redditi, ovunque prodotti: quindi è irrilevante il luogo di produzione.

Per i soggetti non residenti concorrono a formare la base imponibile dell’imposta personale solo i redditi prodotti nel territorio dello Stato italiano.

Per le imposte reali sono tassabili solo i redditi prodotti nel territorio dello Stato.

Il reddito è prodotto in Italia quando qui è la fonte produttiva, quando cioè esso derivi da attività svolta in Italia o sia relativo a beni siti nel territorio dello Stato.

Applicando questo principio si hanno le regole specifiche proprie delle singole categorie di reddito:

  • redditi fondiari: redditi fondiari (redditi cioè accertati col sistema catastale) possono essere solo quelli relativi a beni siti nel territorio dello Stato;
  • redditi di capitale: la fonte è in Italia quando il reddito è corrisposto da soggetti residenti in Italia, compreso lo Stato, e da stabili organizzazioni in Italia di soggetti non residenti;
  • redditi di lavoro dipendente: la fonte è in Italia quando qui è svolta l’attività;
  • redditi di lavoro autonomo: la fonte è in Italia quando qui è svolta l’attività;
  • redditi d’impresa: attività svolta nel territorio dello Stato (almeno) mediante una stabile organizzazione;
  • redditi diversi: qui troviamo ripetuta la regola generale: quando il reddito deriva da attività o da beni esistenti nel territorio dello Stato.

Abbiamo trovato la nozione di “stabile organizzazione” d’un soggetto non residente: le convenzioni internazionali prevedono che le imprese debbano essere tassate per tutti i redditi propri solo nello Stato di residenza, mentre per quei redditi che provengono da una “stabile organizzazione” di cui l’impresa disponga in altro Stato la tassazione è effettuata da quest’ultimo.

Il TUIR definisce stabile organizzazione una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto od in parte la sua attività sul territorio dello Stato.

Si richiede dunque una installazione permanente che svolga un’attività commerciale od industriale da cui scaturiscono redditi, purché tale attività sia connessa all’esercizio normale dell’impresa e costituisca in ogni caso un centro autonomo di imputazione di situazioni giuridiche, dotato di autonomia rispetto alla sede centrale.

I caratteri che contraddistinguono la stabile organizzazione sono dunque i seguenti;

  • l’installazione, ossia un centro di imputazione di situazioni giuridiche;
  • la stabilità dell’installazione, ossia l’utilizzazione di quest’ultima in maniera durevole da parte dell’imprenditore;
  • la sua connessione all’esercizio normale dell’impresa, ossia la destinazione dell’installazione allo svolgimento di un’attività rientrante nel quadro normale degli affari realizzati dall’imprenditore;
  • l’idoneità dell’installazione a produrre reddito.

Pertanto la stabile organizzazione è da qualificarsi come entità autonoma, nella propria struttura organizzativa patrimoniale, che svolge con continuità nel tempo un’attività produttiva o commerciale.

Il T.U. elenca una serie di esempi in cui si abbia o meno stabile organizzazione: è una delle solite casistiche della legge tributaria italiana.

I principi relativi alla territorialità sono derogati in alcune ipotesi nelle quali, con riguardo a redditi d’impresa e di lavoro, si prescinde dal luogo di produzione e si dà rilievo al luogo in cui risiede il soggetto che eroga il reddito (per es. in tema di pensioni, compensi per l’utilizzazione delle opere dell’ingegno, etc.).

I redditi non sono sottoposti tutti alla disciplina generale, alla tassazione detta ordinaria.

Tutti i fatti tassabili, quindi anche i redditi, possono, per ragioni politiche, economiche e sociali, godere di diverse forme di agevolazione: la forma piena dell’agevolazione è l’esenzione, che consiste nell’intassabilità di un certo tipo di reddito ai fini di una o tutte le imposte sui redditi.

Le stesse ragioni possono indurre il legislatore a tassare un reddito con una tassazione sostitutiva, la cui applicazione esclude l’applicazione della tassazione ordinaria.

La più diffusa forma di tassazione sostitutiva è la ritenuta a titolo d’imposta, dove, quando un reddito è corrisposto da un soggetto ad un altro, una disciplina di carattere strumentale, la ritenuta, si combina con una disciplina di carattere sostanziale: l’aliquota della ritenuta diventa anche aliquota sostanziale, sicché subita la ritenuta il reddito non verrà sottoposto ad alcuna altra tassazione.

I redditi fondiari. La fonte di tali redditi sono i beni immobili, i terreni ed i fabbricati.

I redditi fondiari sono tre: il reddito dominicale, il reddito agrario ed il reddito dei fabbricati.

I primi due sono inerenti ai terreni, il terzo ai fabbricati.

Sui terreni può intervenire l’esercizio dell’attività agricola, sicché l’intero reddito che un fondo agricolo può dare viene distinto in due parti, il reddito del possessore (del dominus, detto pertanto dominicale), ed il reddito del coltivatore (reddito agrario), che può essere un soggetto diverso dal possessore.

Il reddito fondiario è autonomamente determinabile quando non è strumentale rispetto alla formazione di altro reddito, come può essere quello d’impresa.

Caratteristica dei redditi fondiari è di essere determinati con un sistema detto catasto, che è l’inventario di tutti i beni immobili situati nel territorio dello Stato.

Ecco perché la legge definisce i redditi fondiari come i redditi interenti ai terreni ed ai fabbricati situati nel territorio dello Stato, che sono iscritti o che devono essere iscritti nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano con attribuzione di rendita.

Il catasto è un sistema di determinazione del reddito dei fondi: il reddito medio ordinario.

Il reddito medio ordinario è il reddito che un fondo mediamente può dare attesa la sua destinazione e la sua intensità produttiva.

Un tale sistema presenta pregi e difetti:

  • da una parte è incentivo all’attività agricola, in quanto il reddito eccedente quello medio ordinario risulta intassabile; il coltivatore inoltre è liberato dall’obbligo della contabilità; viene ridotta di molto la litigiosità;
  • dall’altra parte, viene lamentata quella che gli economisti chiamano “erosione legale”, uno scarto cioè fra realtà e previsione di legge.

Con il termine catasto (dal greco catastikon, che vuol dire registro) si designa generalmente l’inventario generale di tutti i beni immobili situati in uno Stato, redatto al fine di individuare la proprietà dei beni e le mutazioni di tale diritto e di determinare la base imponibile per l’applicazione delle imposte fondiarie.

I catasti attuali sono formati da un insieme di mappe, tavole topografiche, registri in cui sono indicati tutti gli immobili esistenti nel territorio dello Stato, divisi per comuni e per unità, e le indicazioni concernenti i singoli possessori.

Il catasto dei terreni è quello che esprime meglio il fondamento della determinazione del reddito medio ordinario: medio in relazione ad un determinato numero di anni, ordinario con riferimento alla normale coltivazione che non tenga conto di congiunture eccezionali.

Le operazioni catastali dei terreni sono la misura e la stima.

La misura presuppone la delimitazione del fondo e, ove sia necessario, la terminazione, vale a dire l’apposizione di termini.

Essa consiste nel rilevare la figura e l’estensione delle singole proprietà e delle diverse particelle catastali.

La particella catastale è l’unità elementare del catasto dei terreni e consiste in una porzione continua di terreno situata in uno stesso comune, appartenente allo stesso possessore e rientrante nella medesima qualità e classe ovvero avente la medesima destinazione.

La stima consiste a sua volta in quattro operazioni:

  • la qualificazione, volta a stabilire la destinazione colturale del fondo (frutteto, pascolo, bosco, etc.);
  • la classificazione, consistente nella suddivisione in classi delle categorie sopra dette in relazione alle diverse capacità di reddito delle singole qualità di terreni;
  • la formazione delle tariffe d’estimo, cioè la determinazione del reddito attribuibile a ciascuna categoria o qualità e classe di terreno;
  • il classamento, che consiste nel verificare le caratteristiche della singola particella, al fine di collocarla nella qualità e classe che le competono, attribuendole il relativo reddito.

In quanto atto attributivo concretamente di reddito, il classamento è un atto di accertamento impugnabile davanti al giudice tributario.

Il catasto edilizio urbano è sostanzialmente analogo a quello dei terreni: il sistema catastale dei fabbricati determina la rendita media ordinaria ritraibile da tutti i fabbricati che appartengono alla medesima categoria ed alla medesima classe.

L’unità elementare di tale catasto è l’unità immobiliare, vale a dire ogni parte di immobile che, nello stato in cui si trova, è di per sé stessa utile a produrre un reddito proprio.

Le operazioni per la formazione del catasto sono analoghe a quelle descritte per il catasto dei terreni: qualificazione, classificazione, tariffa e classamento.

Contro l’atto di classamento il contribuente può ricorrere al giudice tributario.

La legge prevede rimedi giuridici di adeguamento del sistema catastale alla realtà, alcuni di carattere particolare che riguardano i singoli fondi, altri di carattere generale che riguardano il sistema.

Di carattere particolare sono le variazioni in aumento o diminuzione del reddito dominicale ed agrario di singoli fondi su domanda del contribuente o su iniziativa del Ministero, e la verifica del classamento del reddito dei fabbricati, su iniziativa del contribuente o dell’ufficio delle imposte o del comune.

Di carattere generale è l’aggiornamento dei dati catastali predisposto periodicamente dal Ministro delle Finanze.

Adeguamento radicale del catasto alla mutata realtà è la revisione di esso.

Per quanto concerne l’imputazione dei redditi fondiari, tutti i redditi fondiari sono imputati al possessore del fondo o del fabbricato, cioè a colui che ha la disponibilità in forza di un diritto di proprietà, di enfiteusi, di usufrutto e, anche se non espressamente previsto, di semplice uso.

I redditi fondiari concorrono alla formazione del reddito complessivo indipendentemente dalla percezione.

Nei casi di contitolarità della proprietà o di altro diritto reale sull’immobile e di coesistenza di più diritti reali su di esso, il reddito fondiario concorre a formare il reddito complessivo di ciascun soggetto per la parte corrispondente al suo diritto.

Il possesso assume rilevanza anche nell’ipotesi di trasferimento dell’immobile nel corso del periodo d’imposta; in tal caso il reddito fondiario concorre a formare il reddito complessivo di ciascun soggetto proporzionalmente alla durata del suo possesso.

Il periodo cui vanno imputati i redditi fondiari è quello in cui l’immobile è posseduto.

Se il terreno è dato in affitto per uso agricolo il reddito agrario concorre a formare il reddito complessivo dell’affittuario, anziché del possessore, a partire dalla data in cui ha effetto il contratto.

I redditi fondiari sono per definizione redditi prodotti nel territorio dello Stato, in quanto essi sono relativi solo a beni siti nel territorio stesso.

Il reddito dominicale è costituito dalla parte dominicale del reddito medio ordinario ritraibile dal terreno attraverso l’esercizio delle attività agricole.

Due sono i requisiti che contraddistinguono il reddito dominicale, uno soggettivo e l’altro oggettivo:

  • il requisito soggettivo è dato dal fatto che il reddito dominicale è il reddito del dominus, cioè di colui che ha la disponibilità del fondo;
  • il requisito oggettivo è dato dal fatto che i terreni devono essere atti alla produzione agricola.

Il reddito dominicale è determinato mediante l’applicazione delle tariffe d’estimo stabilite dalla legge catastale per ciascuna qualità e classe di terreno.

Il reddito agrario è quello dell’agricoltore, cioè di colui che coltiva il fondo, direttamente od anche mediante l’opera di terzi, al fine di ricavarne il maggior profitto possibile.

Mentre quindi il reddito dominicale è costituito dalla rendita attribuibile al fondo, il reddito agrario deriva invece dallo sfruttamento del fondo.

Il reddito agrario è costituito dalla parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabile al capitale d’esercizio ed al lavoro di organizzazione della produzione impiegati, nei limiti della potenzialità del terreno, nell’esercizio di attività agricole su di esso.

Gli elementi fondamentali che contraddistinguono il reddito agrario sono rappresentati:

  • dai limiti della potenzialità del fondo;
  • dall’esercizio normale dell’agricoltura.

Questi due elementi sono finalizzati a differenziare il reddito agrario dal reddito d’impresa.

Se il terreno è dato in affitto per uso agricolo, il reddito agrario concorre a formare il reddito complessivo dell’affittuario anziché quello del possessore, con decorrenza dalla data in cui ha effetto il contratto.

Il reddito è determinato mediante l’applicazione delle tariffe d’estimo stabilite per ciascuna qualità e classe secondo le norme della legge catastale.

Il reddito dei fabbricati è costituito dal reddito medio ordinario ritraibile da ciascuna unità immobiliare urbana.

Fanno parte integrante dei fabbricati le aree sulle quali sorge la costruzione e quelle che ne costituiscono pertinenze, quali il giardino, il parco, il piazzale, etc.

Non costituiscono fabbricati suscettibili di imposizione fiscale quelli che non hanno un vincolo di stabilità con la terra ferma, come i capannoni stagionali, gli stands delle fiere, etc.

L’attribuzione del reddito dei fabbricati è sganciata dall’effettiva produzione di un reddito, in quanto è sufficiente la sola suscettibilità del fabbricato a produrlo.

Il reddito dei fabbricati è un reddito medio ordinario determinato mediante l’applicazione delle tariffe d’estimo stabilite per ogni categoria o classe di immobili, mentre per i fabbricati a destinazione speciale (che non possono esser destinati ad usi diversi da quelli commerciali) o particolari (es.: le stazioni, i fari, etc.) il reddito è determinato mediante stima diretta.

Per le unità immobiliari adibite ad abitazione principale delle persone fisiche è ammessa una deduzione pari all’ammontare del reddito da fabbricati, cosicché viene meno l’imposizione del reddito dell’abitazione di residenza.

Sono immobili non produttivi di reddito fondiario gli immobili relativi alle imprese commerciali e quelli che costituiscono beni strumentali per l’esercizio di arti e professioni.

Gli immobili strumentali non sono produttivi di reddito fondiario e partecipano alla formazione del reddito di lavoro autonomo o del reddito d’impresa.

I redditi di capitale. I redditi di capitale sono previsti con una formula tipica della legislazione tributaria: un elenco di casi ed una norma residuale che è una tautologia (sono redditi di capitale quelli derivanti da capitale).

I redditi di capitale espressamente previsti dalla legge sono questi:

  • gli interessi e gli altri proventi da mutui, depositi, conti correnti, obbligazioni, titoli similari alle obbligazioni e dagli altri titoli diversi dalle azioni e titoli similari.

     Il legislatore con questa norma abbandona il criterio civilistico della classificazione degli interessi in moratori (che risarciscono il danno subito dal creditore per il ritardo nell’adempimento da parte del debitore, 1224), corrispettivi (che rappresentano il corrispettivo a favore del creditore nel caso di obbligazioni pecuniarie per effetto della disponibilità della somma di denaro da parte del debitore, 1282) e compensativi (che reintegrano il patrimonio di un soggetto in conseguenza del mancato godimento dei frutti e degli altri proventi prodotti dalla cosa venduta e consegnata al compratore, 1499) ed esclude la tassazione delle varie forme di interessi;

  • le rendite perpetue e le prestazioni annue perpetue.

     Le rendite perpetue sono costituite da una somma di denaro o da una certa quantità di altre cose fungibili quale corrispettivo dell’alienazione di un immobile o della cessione gratuita di capitale, mentre le prestazioni perpetue annue sono disposte per atto di ultima volontà;

  • i compensi per prestazioni di fideiussione o di altra garanzia;
  • gli utili derivanti dalla partecipazione in società ed enti soggetti ad IRES;
  • gli utili derivanti dai contratti di associazione in partecipazione e dai contratti di cointeressenza per la partecipazione agli utili ed alle perdite, tranne quando l’apporto sia costituito solo da prestazione di lavoro (nel qual caso gli utili ricevuti sono qualificati redditi di lavoro autonomo);
  • i proventi derivanti dalla gestione, nell’interesse collettivo di una pluralità di soggetti, di masse patrimoniali costituite con somme di denaro e beni affidati da terzi o provenienti dai relativi investimenti (es.: i fondi comuni di investimento mobiliare);
  • i proventi derivanti da contratti di riporto o di pronti contro termine su titoli e valute, da contratti di mutuo di titoli garantiti, da contratti di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione e i redditi derivanti dalle prestazioni pensionistiche e dalle rendite vitalizie aventi funzione previdenziale.

La norma residuale è così formulata: qualsiasi altro provento in misura definita derivante dall’impiego di capitale, esclusi i rapporti attraverso cui possono essere realizzate plusvalenze o minusvalenze in dipendenza di eventi incerti.

Il legislatore del T.U. ha escluso dalla categoria di reddito in esame i premi, diversi da quelli su titoli, e le vincite delle lotterie, dei concorsi a premio, dei giuochi e delle scommesse: questi proventi sono stati inclusi nella categoria dei redditi diversi.

Il reddito di capitale è costituito dall’ammontare degli interessi, utili o altri proventi percepiti nel periodo d’imposta, senza alcuna deduzione.

Trattasi quindi di un reddito lordo, in quanto a differenza degli altri tipi di reddito non è ammessa la deducibilità degli eventuali costi ed oneri sostenuti dal soggetto passivo per la sua produzione.

Per quanto riguarda l’imputazione del reddito in esame vale il principio generale di cassa: il reddito di capitale deve essere imputato al periodo d’imposta nel quale è percepito.

La “percezione” coincide con l’effettiva riscossione del reddito, non col “diritto alla percezione”.

Il reddito di capitale si considera prodotto in Italia quando è corrisposto dallo Stato, da soggetti residenti nello Stato o da stabili organizzazioni nel territorio stesso di soggetti non residenti.

Il reddito di lavoro dipendente. Il reddito di lavoro dipendente è quel reddito derivante dal rapporto avente ad oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri.

Costituiscono inoltre reddito di lavoro dipendente anche le pensioni e gli assegni ad esse equiparati.

Il fulcro della definizione del reddito in questione è da ricercarsi nel requisito della subordinazione, il quale implica:

  • la soggezione del lavoro del singolo all’altrui iniziativa al fine della sua esplicazione;
  • la completa assenza di una componente patrimoniale, cioè di una qualsiasi preordinazione di mezzi, per lo svolgimento dell’attività di lavoro.

Non si fa più riferimento al “reddito derivante dal lavoro prestato”, ma al reddito derivante dal rapporto avente per oggetto la prestazione di lavoro.

Sono esclusi da tassazione gli indennizzi destinati a risarcire un danno emergente subito dal lavoratore, visto che questo tipo di risarcimento non costituisce reddito ma semplice reintegrazione patrimoniale.

Il legislatore tributario ha ricompreso tra i redditi da lavoro dipendente delle fattispecie che non presentano alcuna delle caratteristiche proprie di tale categoria: si tratta di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, redditi cioè che pur non derivando da un rapporto di lavoro vengono assoggettati alla medesima disciplina giuridica sia sostanziale che formale.

Le fattispecie assimilate sono state raggruppate in tre gruppi:

  • fattispecie nelle quali si riscontra la sussistenza di una prestazione lavorativa che trova la propria fonte in un rapporto di lavoro, ma il compenso che da essa deriva non è una vera e propria retribuzione (ad es. i compensi percepiti dai lavoratori soci delle cooperative);
  • ipotesi caratterizzate dal fatto che il compenso al lavoratore è attribuitogli a fronte di una certa prestazione, pur mancando un rapporto di lavoro (ad es. le indennità percepite dai membri del Parlamento, le remunerazioni dei sacerdoti);
  • fattispecie che non presentano alcun collegamento con lo svolgimento di un’attività lavorativa, ma che sono caratterizzate da un’obbligazione di dare scaturente o da un negozio giuridico o dalla legge.

Inoltre sono assimilati ai redditi di lavoro dipendente i redditi derivanti da rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.

Il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutti gli emolumenti sia in denaro che in natura che sono stati percepiti, anche sotto forma di partecipazione agli utili, nel periodo d’imposta.

Per la determinazione di tale reddito si applica il principio di cassa, in quanto il reddito è dato solo dai compensi percepiti nel periodo d’imposta.

I rimborsi spese costituiscono reddito.

Il periodo d’imposta cui va imputato il reddito di lavoro dipendente è quello della percezione (principio di cassa).

Il reddito è prodotto nel territorio dello Stato quando il lavoro è prestato in Italia.

Il reddito di lavoro autonomo. Reddito di lavoro autonomo, secondo la legge, è quello che deriva dall’esercizio di arti e professioni, intendendosi per arte e professione ogni attività di lavoro autonomo diversa da quella imprenditoriale.

Insomma quando manca la subordinazione, che caratterizza il reddito di lavoro dipendente, se il reddito non è d’impresa è di lavoro autonomo.

La legge richiede che l’esercizio dell’arte o professione, per dar luogo al reddito di lavoro autonomo, debba essere svolto per professione abituale.

Non ci troviamo di fronte a due requisiti, ma ad uno solo, espresso con un’endiadi.

L’abitualità serve a distinguere il reddito di lavoro autonomo dai redditi diversi, che sono quelli prodotti occasionalmente.

Al reddito di lavoro autonomo sono assimilati alcuni redditi.

Assimilazione vuol dire estensione della disciplina sia sostanziale che formale prevista per i redditi di lavoro autonomo ad altri redditi atipici, tassativamente previsti (ad es., le indennità spettanti per la cessazione di rapporti di agenzia).

Il T.U. nel disciplinare la determinazione dei redditi di lavoro autonomo prevede dei criteri diversi a seconda che si tratti dei redditi derivanti dall’esercizio di arti e professioni o dei redditi assimilati.

Per quanto riguarda i redditi derivanti dall’esercizio di arti e professioni, sono previste due modalità di determinazione: una può essere definita analitica, l’altra forfetaria.

La modalità analitica si basa sulla differenza tra i compensi percepiti e le spese sostenute nell’esercizio dell’attività professionale od artistica.

La spesa deve essere considerata deducibile in quanto sia funzionale all’attività e rappresenti comunque un costo e non un investimento per il lavoratore autonomo.

Il regime forfetario può applicarsi in via opzionale ai soli “contribuenti minimi”.

Nel regime forfetario è escluso l’obbligo di tenuta delle scritture contabili ordinarie e l’imponibile è determinato applicando all’ammontare complessivo dei compensi percepiti una percentuale del 78%.

Ai fini delle imposte sui redditi le associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni sono equiparate alle società semplici.

I redditi di tale tipo di società sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.

Se l’associazione avesse personalità giuridica, si avrebbe reddito d’impresa, con conseguente assoggettamento ad IRES.

Se in un’associazione i soci non sono tutti liberi professionisti, non può parlarsi di associazione tra professionisti, ma di prestazione di servizi organizzata in forma d’impresa, perciò il reddito che ne deriva è reddito d’impresa e non di lavoro autonomo.

Le quote di utili si presumono uguali se da atto pubblico o scrittura privata autenticata non risultano determinate diversamente.

Per il reddito derivante dall’associazione professionale vale, come per tutti i redditi di lavoro autonomo, il principio di cassa.

Il reddito è prodotto in Italia quando deriva da attività esercitata nel territorio stesso.

Reddito d’impresa. Il reddito d’impresa è determinato apportando all’utile od alla perdita risultante dal conto economico, relativo all’esercizio chiuso nel periodo d’imposta, le variazioni in aumento o in diminuzione conseguenti all’applicazione dei criteri stabiliti dalla legge tributaria.

La determinazione dei redditi derivanti dall’esercizio di imprese commerciali deve avvenire secondo criteri di adeguamento del reddito imponibile a quello calcolato secondo principi di competenza economica, tenuto conto delle esigenze di efficienza, rafforzamento e razionalizzazione dell’apparato produttivo.

Le deroghe a tali principi devono essere giustificate.

Corollario del principio di effettività è l’estensione a tutti i redditi derivanti dall’esercizio di imprese commerciali del principio della determinazione del reddito in base alle scritture contabili regolarmente istituite e tenute.

Gli obblighi contabili incombono dunque su tutti i soggetti che producono redditi d’impresa, indipendentemente dalla loro forma giuridica e dall’obbligo civilistico di redazione del bilancio.

La corretta tenuta delle scritture contabili impone all’amministrazione finanziaria di effettuare l’accertamento del reddito in forma analitica, cioè mediante il riscontro dei singoli componenti positivi e negativi di reddito.

Solo qualora l’ufficio provi l’inattendibilità delle scritture contabili, potrà procedere all’accertamento induttivo o sintetico.

Reddito d’impresa è quello derivante dalle attività commerciali così come definite dal T.U.

La legge tributaria definisce l’attività commerciale ai propri fini, estendendo ed ampliando la nozione di impresa nella sua accezione civilistica.

La legge tributaria prima di tutto fa proprio il concetto civilistico di impresa commerciale, che risulta da due ordini di elementi:

  • l’esercizio per professione abituale delle attività indicate nel 2195 (attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; attività intermediaria nella circolazione dei beni; attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; attività bancaria o assicurativa; altre attività ausiliarie delle precedenti);
  • l’organizzazione in forma di impresa.

Questi due ordini di elementi nel diritto civile devono concorrere perché si abbia impresa commerciale, invece nel diritto tributario sono singolarmente idonei a concretizzare l’impresa ai fini della qualificazione del reddito.

L’organizzazione è coordinamento dei fattori della produzione (beni e lavoro altrui).

Ciò che conta è la finalizzazione della combinazione dei fattori produttivi: essi sono combinati in modo tale che i ricavi superino i costi, sicché l’organizzazione diventa fattore di produzione.

Producono reddito d’impresa le s.n.c. e le s.a.s. qualunque sia l’attività da esse svolta.

Tutte le attività commerciali devono essere esercitate abitualmente o per professione abituale, altrimenti i redditi da esse prodotti vanno ricondotti alla categoria dei redditi diversi.

Sono infine considerati comunque redditi d’impresa:

  • i redditi derivanti dall’allevamento di animali e dalle attività dirette alla manipolazione, trasformazione ed alienazione di prodotti agricoli o zootecnici quando eccedono i limiti stabiliti dal 32 (reddito agrario);
  • i redditi derivanti dallo sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne.

Il T.U. prevede per la determinazione del reddito d’impresa conseguito dalle persone fisiche e dalle società di persone un generale rinvio alla disciplina prevista in materia di IRES per le società di capitali e gli enti commerciali.

Fra le principali regole riguardanti esclusivamente le persone fisiche e le società personali vi sono;

  • la tassazione dei fenomeni di autoconsumo, cioè di destinazione dei beni d’impresa al consumo personale dell’imprenditore, dei suoi familiari o dei soci della società;
  • l’impossibilità di dedurre i compensi del lavoro prestato o dell’opera svolta dall’imprenditore, dal coniuge, dai figli, affidati od affiliati minori di età o permanentemente inabili al lavoro e dagli ascendenti;
  • la deduzione parziale delle spese relative all’acquisto ed all’utilizzo di beni mobili adibiti promiscuamente all’esercizio dell’impresa ed all’uso personale o familiare dell’imprenditore;
  • le regole per la determinazione del reddito delle imprese minori.

Fatti straordinari produttivi del reddito d’impresa: le vicende societarie. Le operazioni di riorganizzazione aziendale e delle attività produttive possono esser definite come tutti quegli atti e negozi giuridici tesi a conferire all’impresa la struttura aziendale e giuridica più soddisfacente in relazione agli obiettivi imprenditoriali da conseguire.

Il regime di neutralità consiste nella c.d. continuazione di valori fra soggetto cedente e cessionario o conferitario (così come fra i soggetti partecipanti a fusioni e scissioni): il soggetto conferente deve assumere quale valore delle partecipazioni ricevute l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita ed il soggetto conferitario subentra nella posizione di quello conferente in ordine agli elementi dell’attivo e del passivo dell’azienda stessa.

La trasformazione di società non costituisce di per sé un fatto generatore di reddito o di perdite.

La trasformazione è quindi un’operazione fiscalmente neutra.

 

Fonte: http://www.diduzzolo.altervista.org/Diritto%20tributario%20-%20Riassunto%20del%20manuale.doc

Sito wev: http://www.diduzzolo.altervista.org/Scripta.html

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