I primi filosofi e la ricerca dell'archè
I primi filosofi e la ricerca dell'archè
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I primi filosofi e la ricerca dell'archè
    I  PRIMI  FILOSOFI   E  LA
      RICERCA  DELL’ ARCHÉ
1 – La sostanza primordiale
Come abbiamo visto nel capitolo precedente  (“Dal mito al logos”), la convinzione che l’universo sia dotato di senso perché intriso di  razionalità (= ordine = kòsmos = intelligibilità, e non caos…) porta i primi  filosofi alla ricerca di un principio (archè) costitutivo di tutte le cose.
  Probabilmente  condizionati dalla precedente tradizione poetica, e dalla fondamentale  esperienza socio-politica che si stava svolgendo sotto i loro occhi (la funzione unificatrice della legge nella polis democratica), i primi filosofi  avevano sviluppato una visione “monistica” della realtà; ovvero erano convinti che alla base della multiforme e mutevole  realtà naturale, empiricamente constatabile, vi fosse un unico sostrato  materiale che, in qualche modo, costituisse la sostanza di ogni cosa.
  Infatti,  come ci fa notare Nicola Abbagnano:  “In  Omero si trova per la prima volta il concetto di una legge che dà unità al mondo umano: l’Odissea è tutta dominata dalla fede in una legge di  giustizia, di cui gli dei sono custodi e garanti, che determina nelle vicende  umane un ordine provvidenziale per il quale il giusto trionfa e l’ingiusto  viene punito. Esiodo personifica tale legge nella dea Dìke (Giustizia), figlia di Zeus, che siede accanto al  padre e vigila affinché siano puniti gli uomini che commettono ingiustizia.  L’infrazione di questa legge appare nello stesso Esiodo come tracotanza (hybris), dovuta alla sfrenatezza delle passioni e in  generale a forze irrazionali… Il poeta tragico Eschilo (VI-V secolo a.C.) è,  infine, il profeta religioso di questa legge universale di giustizia, della  quale la sua tragedia vuole esprimere il trionfo”.  
  Così, come la poesia greca aveva giustificato “l’unità della legge al di sotto delle  vicende apparentemente disordinate e mutevoli della vita umana associata” , la riflessione  dei primi filosofi ha cercato di individuare nella natura quel principio  unitario di ordine che i poeti avevano scoperto nel mondo umano. Ma come è  possibile spiegare la molteplicità e il divenire delle cose se (dato il “monismo”) la materia di cui esse sono  costituite è unica? La soluzione sta nell’ilozoismo comune ai primi filosofi greci, consistente nell’ipotizzare all’interno della materia primordiale una forza che, agendo secondo una legge, presiede a tutte le  trasformazioni della materia stessa, spiegandone così il divenire e l’apparente  molteplicità. La caratteristica fondamentale della forza è di essere “immanente”, intinseca alla materia, in  modo tale da non dover ricorrere a spiegazioni “trascendenti” (di carattere mitico-teologico), tali da  compromettere la razionalità della spiegazione naturalistica. La Natura è  spiegata solo attraverso la Natura, individuando in essa un principio unitario  di ordine e razionalità, senza ricorrere ad interventi esterni di natura divina  o, in qualche modo, soprannaturale. 
PRINCIPIO
    TRASCENDENTE
La Creazione di Adamo, di Michelangelo Bunarroti, rappresenta il tipico esempio di un principio (Dio) che agisce dall’esterno, e in modo “arbitrario” (creazione dal nulla), rispetto al mondo e all’uomo di cui è la causa e l’essenza.
In sintesi, possiamo dire che il principio (arché) cercato dai primi filosofi è, al tempo stesso, materia, forza che la anima e legge che la governa.
2 – I  “presofisti”
  
  La  ricerca dell’arché coinvolgerà un gruppo di pensatori che, se pur con  sfumature diverse, possiamo definire “filosofi  della natura” o “fisiologi” (da physis = natura).
  Questi  filosofi sono chiamati anche “presofisti”,  poiché precedono cronologicamente quei filosofi, i Sofisti, che (con Socrate)  si occuperanno principalmente dell’uomo e della polis, ovvero dei problemi derivanti dalla convivenza  umana, con particolare riguardo alla problematica dei valori.
  Per  la particolare prospettiva con cui affrontano il problema della natura,  possiamo suddividere nel seguente modo i filosofi “presofisti”:
- I filosofi ionici di Mileto: Talete, Anassimandro, Anassimene.
- Eraclito
- Pitagora e i pitagorici.
- I filosofi eleatici: Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso.
- I “fisici” pluralisti: Empedocle, Anassagora, Democrito.
3 – I filosofi ionici di Mileto
Nel precedente capitolo (“Dal mito al logos”) si è visto come il tipo di  organizzazione socio-economica e politica affermatasi inizialmente nelle città  costiere della Ionia (Mileto, Efeso,  Colofone, Clazomene, Samo) abbia trasformato e plasmato, al tempo stesso, un  nuovo modo di pensare e di affrontare i problemi, non solo quelli pratici, ma  anche quelli di natura teoretica.
  Questo nuovo modo di  pensare è stato sinteticamente definito con il termine logos che, derivato etimologicamente da légo = raccogliere, implicava quasi  sempre un duplice significato. Da un lato significava mettere insieme  (raccogliere) le parole in modo da costruire un discorso dotato di senso,  quindi razionale, coerente, non contraddittorio. Dall’altro lato logos è anche la legge universale che lega insieme tutto ciò che accade,  legge razionale che governa l’universo, al di là dell’apparente disordine e  accidentalità dei fenomeni che ci circondano. 
  Le prime testimonianze scritte di questo  nuovo modo di pensare il mondo si riferiscono ad un gruppo di filosofi nati e  attivi a Mileto, colonia greca  dell’Asia Minore, all’inizio del VI secolo a. C.
Il primo pensatore di questa scuola  filosofica, secondo le testimonianze, fu Talete, “ingegnoso nelle tecniche” (secondo la definizione di Platone). Nato a Mileto, probabilmente intorno  al 624 a.C., oltre a essere considerato uno dei Sette Savi dell’antichità, la tradizione gli attribuisce gesta  leggendarie: 
  l’esatta predizione di un’eclissi totale di  sole (probabilmente quella del 28 maggio del 585 che interruppe una battaglia  tra Lidi e Medi); il calcolo della distanza delle navi in mare con un metodo  che anticipava il teorema di Pitagora; il calcolo dell’altezza delle piramidi  egiziane attraverso la misura dell’ombra. Ingegnose furono anche alcune  applicazioni tecniche che egli fece del suo sapere teorico: avrebbe deviato il  corso di un fiume per permettere il passaggio dell’esercito di Creso e, in base  a previsioni meteorologiche di un’annata favorevole al raccolto di olive, si  sarebbe arricchito facendo incetta di frantoi per poi rivenderli a prezzi di  monopolio.
  Questi episodi leggendari sono sintomatici di  un atteggiamento completamente nuovo, improntato a “razionalità” e “dominio”,  nei confronti della natura, un atteggiamento che non ha uguali nel mondo  contemporaneo a Talete. Egli rappresenta una svolta nella storia del pensiero,  incarnando in modo emblematico l’origine di tutta la successiva cultura  filosofica e scientifica occidentale.
  Di ciò parve consapevole lo stesso Aristotele  quando, nella Metafisica, ricostruisce  la ricerca che i primi “fisici” fecero del principio di tutte le cose o arché:
<<Ci dev’essere una qualche sostanza, o una più di una, da cui le altre cose vengono all’esistenza, mentre essa permane. Ma riguardo al numero e alla forma di tale principio non dicono tutti lo stesso: Talete, il fondatore di tale forma di filosofia, dice che è l’acqua (e perciò sosteneva che anche la terra è sull’acqua): egli ha tratto forse tale supposizione vedendo che il nutrimento di tutte le cose è umido, che il caldo stesso deriva da questa e di questa vive (e ciò da cui le cose derivano è il loro principio): di qui, dunque egli ha tratto tale supposizione e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno natura umida – e l’acqua è il principio naturale delle cose umide. Ci sono alcuni secondo i quali anche gli antichissimi, molto anteriori all’attuale generazione e che per primi teologizzarono, ebbero le stesse idee sulla natura: infatti cantarono che Oceano e Tetide sono gli autori della generazione [delle cose]… Se dunque questa visione della natura sia in verità antica e primitiva potrebbe essere dubbio, ma Talete senz’altro si dice che abbia descritto la prima causa in questo modo>> .
In questo brano della Metafisica Aristotele coglie l’essenza del mutamento di paradigma operato da Talete nel pensiero occidentale: dalla divinizzazione antropomorfica dei grandi fenomeni della natura, alla razionalizzazione (anche se ancora “ingenua”) dell’osservazione della natura.
Infatti, anche Omero, nell’Iliade, aveva in 
  qualche modo posto l’acqua a principio di 
  tutto, ma essa ci appariva nelle sembianze 
  divine e antropomorfe di Oceano e Teti, 
  progenitori degli dèi:
<<Vado  a vedere i confini della terra feconda,
  l’Oceano,  principio dei numi, e la madre Teti,
  che  nelle case loro mi nutrirono e crebbero>> 
Talete, chiamando semplicemente acqua 
  il   principio  di tutte le cose,  designa   una 
  sostanza empiricamente constatabile da 
  tutti e si impegna anche nella ricerca delle 
  argomentazioni più adatte per sostenere
  la sua tesi (come abbiamo potuto vedere   
  nel brano di Aristotele sopra riportato:
  “…egli ha tratto forse tale supposizione 
  vedendo che il nutrimento di tutte le cose
  è  umido…”, ecc.).
Dalla testimonianza di Aristotele non si  evidenzia la forza immanente all’acqua che dovrebbe presiedere alle sue  trasformazioni, mentre la troviamo in un altro filosofo di Mileto, più giovane  di Talete, Anassimandro. Nato probabilmente  nel 610 a.C., fu il primo autore di scritti filosofici in Grecia, prese parte  attivamente alla vita politica della città, occupandosi sia di problemi teorici  (studiò l’intera gamma delle scienze naturali allora esistenti), sia di  problemi pratici (la fondazione di una colonia). E’ significativo il fatto che,  essendo Mileto una polis marinara,  aperta agli scambi commerciali e alla creazione di colonie, Anassimandro  elaborò la prima carta geografica del mondo che si conosca.
  Per quanto riguarda l’arché, questo filosofo non individua il principio in una sostanza  empirica come l’acqua (di Talete) o l’aria (del successore Anassimene), bensì  in un concetto astratto, l’apeiron, che, etimologicamente,  corrisponde ad una materia indeterminata, indefinita e infinita. Da questa massa indifferenziata primordiale, attraverso  un processo di determinazioni successive si sono formati gli elementi (acqua,  aria, terra , fuoco) e le cose di cui è costituito il mondo della nostra  esperienza quotidiana.
  Secondo la testimonianza di Simplicio  (l’antico commentatore di Aristotele):
<<Tra  quanti affermano che [il principio] è  uno, in movimento e infinito, Anassimandro, figlio di Prassiade, milesio,  successore e discepolo di Talete, ha detto che principio ed elemento degli  esseri è l’infinito, avendo introdotto per primo questo nome del principio. E  dice che il principio non è né l’acqua né un altro dei cosiddetti elementi, ma  un’altra natura infinita, dalla quale tutti i cieli provengono e i mondi che in  essi esistono: “da dove infatti gli  esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità:  poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia  secondo l’ordine del tempo”…..
  E’  chiaro che, avendo osservato il reciproco mutamento dei quattro elementi,  ritenne giusto di non porre nessuno come sostrato, ma qualcos’altro oltre  questi.  Secondo lui, quindi, la nascita  delle cose avviene non in seguito ad alterazione dell’elemento, ma per distacco  dei contrari [dall’infinito] a causa  dell’eterno movimento>> .
  Dal brano di Simplicio ricaviamo, in primo  luogo, l’informazione che Anassimandro fu il primo ad usare il termine arché (principio) per indicare la  sostanza primordiale.
  In secondo luogo, dall’oscura citazione  letterale della celebre frase di Anassimandro (che è quanto ci resta della sua  opera), intuiamo una visione ciclica del  divenire cosmico: tutti gli esseri hanno origine dall’apeiron e tutti, “secondo l’ordine del tempo”, si dissolveranno  nell’apeiron, per poi rigenerarsi in  un nuovo ciclo cosmico.
  In terzo luogo si fa accenno a quella che  potrebbe essere la legge immanente all’apeiron che presiede alla formazione di tutte le cose: il processo di separazione dei contrari. La sostanza infinita è  animata da un eterno movimento, in virtù del quale si staccano da essa i  contrari (caldo/freddo, asciutto/umido, ecc.) dai quali si formano infiniti  mondi che si succedono secondo un ciclo eterno.
  Infine, troviamo la spiegazione della scelta  del filosofo di non utilizzare come arché nessuno dei quattro elementi sensibili (aria, acqua, terra, fuoco), ma di far  ricorso al concetto di apeiron (dal greco: a-,  “non”, e péras, “limite”). Infatti, i quattro elementi sono palesemente  soggetti alla reciproca trasformazione, ovvero ai passaggi di stato fisico, per  cui risultano poco adatti a fungere da principio eterno di tutte le cose. Come  ci testimonia l’esperienza quotidiana, e come teorizzerà più tardi il filosofo  Eraclito, la vita è un continuo susseguirsi di fenomeni contrari e diversi: se  uno di essi si affermasse definitivamente rispetto agli altri, cesserebbe la  vita stessa, che è appunto divenire e trasformazione; ma ciò è assurdo, quindi  bisogna ammettere che nessun elemento particolare può essere principio di tutti  gli altri.
  Invece il concetto di apeiron, nella sua ambiguità semantica, o meglio, nella sua  duplicità di significato (infinito, illimitato, ma anche indefinito,  indeterminato) può assurgere a fondamento di tutte le cose determinate.  Infatti, così come il triangolo rettangolo è una determinazione del concetto di  triangolo, solo da ciò che è massimamente indeterminato (indistinto, totalmente  privo di attributi) possono nascere tutte le determinazioni e le  specificazioni; mentre ciò che è già determinato (come l’acqua, per esempio)  presuppone sempre qualcos’altro a partire da cui si determina, e solo questo  qualcos’altro potrà fungere da principio!   E’ per questo motivo che l’apeiron non va concepito come una miscela dei quattro elementi, ciascuno dei quali  conservi le proprie specifiche qualità, ma come una materia eterna e indistruttibile, in cui gli elementi non sono  ancora distinti, e che si distingueranno solo grazie alla legge della  separazione dei contrari.
IMMANENTISMO  E RAZIONALISMO
  Anassimandro è anche l’ideatore di un’ipotesi  generale sull’origine della vita sulla terra e, quindi, dell’uomo. Dal fango  riscaldato dal sole sarebbero sorte le primissime forme di vita, sviluppatesi  successivamente in un ambiente acquatico. Dalla trasformazione dei pesci,  adattatisi a vivere sulla terra, sarebbero infine derivati gli uomini. Questi,  infatti, non potendo nutrirsi da sé, se fossero nati la prima volta come  nascono ora, sarebbero nati originariamente dentro i pesci e, solo dopo aver  imparato a sopravvivere da soli, furono gettati sulla terra, dove presero  stabile dimora.
  Il valore filosofico-scientifico di questa  ingenua e fantasiosa ipotesi pre-darwiniana sta nell’atteggiamento razionalistico per cui la natura viene  spiegata solo attraverso la natura, quindi da un punto di vista immanentistico, ovvero senza ricorrere  all’intervento di divinità trascendenti soprannaturali.
Questo atteggiamento prosegue anche  nell’ultimo dei grandi filosofi “fisici” di Mileto: Anassimene,  vissuto tra il 586 e il 525 a.C.
  Di circa una generazione più giovane di  Anassimandro, si occupò di meteorologia e astronomia e scrisse, come il suo  predecessore, un’opera in prosa, cui fu successivamente apposto il titolo Sulla natura, di cui ci è rimasto un  solo frammento. Da questo frammento, e da altre testimonianze (Plutarco,  Ippolito), sappiamo che per Anassimene l’arché è l’aria, chiamato anche soffio  vitale (o pneuma):
<<Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, fu amico di Anassimandro. Anch’egli dice che una è la sostanza che fa da sostrato e infinita, come l’altro, ma non indeterminata come quello, bensì determinata – la chiama aria. L’aria differisce nelle sostanze per rarefazione e condensazione. Attenuandosi diventa fuoco, condensandosi vento, e poi nuvola, e, crescendo la condensazione, acqua e poi terra e poi pietre e il resto, poi, da queste. Anch’egli suppose eterno il movimento mediante il quale si ha la trasformazione>> .
Come si può notare da questa testimonianza, e  da altre simili, il processo di razionalizzazione e l’osservazione della  natura, nella scuola di Mileto, avevano raggiunto un alto grado di sviluppo:  per spiegare il modo di agire della materia prima (aria) si adducono cause  puramente “fisiche”, osservabili e immanenti, come la condensazione e la rarefazione,  evidentemente ricavate dai fondamentali passaggi di stato dell’acqua.
  L’aria o pneuma è anche il principio dell’anima nell’organismo umano che, paragonato  all’organismo dell’intero universo, fa interpretare anche quest’ultimo come un  immenso animale che respira; tesi che avrà una certa fortuna nella storia del  pensiero, a partire da Platone.
  L’aria, anche se può apparire come un ritorno  ad un elemento determinato, probabilmente, nelle intenzioni di Anassimene,  doveva costituire un perfezionamento della teoria di Anassimandro che  ipotizzava un eterno movimento nell’arché,  da cui si originavano tutte le cose per differenziazione. Ora l’aria, pur  essendo una sostanza determinata, è percettivamente indeterminata e possiede in  sé un movimento (di rarefazione/condensazione) cui corrispondono proprio i  primi due opposti di Anassimandro, il caldo e il freddo. Se ha lo svantaggio  teoretico di essere già determinata, l’aria, ha però il vantaggio scientifico  di essere “fisicamente” osservabile, eliminando ulteriormente dalla natura  qualsiasi ipotesi immaginaria o di carattere mitico.
Questo processo di razionalizzazione delle spiegazioni naturalistiche lo troviamo, infine, anche nella rielaborazione della carta della Terra di Anassimandro, ad opera di Ecateo di Mileto (550-480 a.C.) che migliora e completa, con l’impiego di schemi geometrici, la carta del maestro. Nella mappa terrestre circolare di Ecateo, con al centro proprio la città di Mileto in Asia minore, possiamo notare che il mitico titano Oceano (“principio dei numi” in Omero) è diventato semplicemente l’anello d’acqua che circonda e chiude le terre emerse.
4 – Eraclito
Due caratteristiche ricorrenti nell’idea di arché dei filosofi ionici erano l’eterno  movimento della materia e la generazione delle cose tramite opposizione: si  pensi al processo di separazione dei contrari dall’apeiron, secondo Anassimandro, e alla legge di condensazione/rarefazione  dell’aria di Anassimene.
  Eraclito di Efeso raccoglie e  rielabora questi temi, legati alla problematica dell’arché, ad un maggior livello di consapevolezza filosofica e da un  punto di vista di aristocratica superiorità nei confronti della moltitudine dei  suoi contemporanei.
  Infatti Eraclito, nato attorno al 540 a.C.,  da famiglia che, secondo tradizione, discendeva da antichi re, avversò  l’avvento della democrazia in Efeso, vivendo appartato e sdegnoso, fino a  conquistarsi l’appellativo di “solitario”.  Egli espresse il suo pensiero con oracoli  profondi, ma enigmatici, ispirati a quelli dell’Apollo di Delfi, e per questo i  contemporanei lo definirono anche “l’oscuro”.
  La tradizione narra che, malato, si rifiutò  di lasciarsi curare da medici profani; scese nell’agorà di Efeso, si coprì di sterco e morì divorato dai cani.
  Significativo del modo di pensare di Eraclito  è un oscuro frammento, riferito ad un enigma subito da Omero, riportato da  Giorgio Colli in La nascita della  filosofia:
<<Rispetto alla conoscenza delle cose manifeste gli uomini vengono ingannati similmente a Omero, che fu il più sapiente tra tutti quanti i Greci. Lo ingannarono infatti quei giovani che avevano schiacciato pidocchi, quando gli dissero: “quello che abbiamo visto e preso, lo lasciamo; quello che non abbiamo visto né preso, lo portiamo”>> .
Secondo la tradizione, l’enigma che Omero non  riuscì a risolvere (e che, per lo scoramento, sarebbe stato addirittura causa  della sua morte) venne formulato da giovani pescatori che, non avendo pescato  nulla, si stavano spidocchiando. 
  E’ chiaro che la soluzione superficiale  dell’enigma sta nei pidocchi che, “visti e presi” vengono lasciati, mentre “non  visti né presi” vengono portati con sé; ma Eraclito intravede nel celebre  enigma uno strato più profondo, un enigma nell’enigma, che richiede un’altra  soluzione, diversa dai pidocchi.
4.1 – Apparenza e realtà: il pathos del nascosto
Scomponendo e riformulando l’enigma in due  parti, la prima parte suonerebbe così: <<le cose manifeste che abbiamo preso, le  lasciamo>>. Che significato può avere una simile espressione?
  Se, come suggerisce Grigio Colli, la  colleghiamo a frammenti come <<morte è tutto ciò che vediamo da  svegli>>, oppure <<il sole ha la larghezza di un piede  umano>>, si comprende come il Filosofo stia alludendo alla illusorietà  della semplice apprensione sensibile: tutte le cose che appaiono fuori di noi (<<le cose manifeste che abbiamo  preso>>) ci traggono in inganno e suscitano l’illusione di essere  reali, soprattutto perché noi le immaginiamo come permanenti. Eraclito non  critica tanto le sensazioni (che, di per sé, sono incolpevoli), bensì il fatto  che la maggioranza degli uomini (“i più” o “dormienti”) tendono a trasformare  l’apprensione sensibile in qualcosa di stabile, di esistente fuori di noi.  L’esperienza dei sensi noi l’afferriamo istantaneamente e poi la lasciamo  cadere, se vogliamo fissarla, inchiodarla, la falsifichiamo .
  La seconda parte dell’enigma invece, nella  trasposizione eraclitea, potrebbe essere riformulata nel seguente modo: <<le cose  nascoste che non abbiamo visto né preso, le portiamo>>.
  
  Lo scioglimento di questa  seconda parte   dell’enigma passa 
  attraverso l’esplicitazione di due  temi essenziali del pensiero 
  di Eraclito:
  1) il  pathos del nascosto,   ovvero la tendenza a considerare
  il fondamento ultimo del mondo come qualcosa  di celato, di 
  accessibile solo ai pochi “svegli”,  ossia ai filosofi, che non 
  si accontentano di uno  sguardo superficiale sulle cose,  ma 
  ne cercano il nocciolo segreto:  <<la natura primordiale ama 
  nascondersi>>….  <<l’armonia nascosta è più forte di quella  
  manifesta>>.
  2) La   preminenza  dell’interiorità   rispetto   all’illusione  del 
  mondo   esterno.  “In  parecchi   frammenti  Eraclito  sembra 
  addirittura   porre    l’anima   come    principio supremo   del 
  mondo,   e   Aristotele   conferma   questa    interpretazione.
  Tale   sembra  essere   l’allusione   del  celebre   frammento 
  << ho  indagato  me   stesso >>,  più  esplicitamente  dice 
  Eraclito:  << i confini  dell’anima,  camminando,   non  potrai 
  trovarli, pur percorrendo ogni strada:  così profonda è la sua 
  espressione  >>,     e    inoltre:    <<     all’anima    appartiene 
  un’espressione che accresce se stessa >> .
Fondendo i due temi in  un’unica visione fondamentale  (ciò 
  che è profondo,  nascosto ai sensi,  può essere   accessibile 
Eraclito (“il      solitario”),  particolare  di 
    La scuola di Atene (1510), Raffaello      - Musei Vaticani  -  Roma.
<<Uno      val per me diecimila, se è il migliore>> [frammento 49].
    <<…agli      altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che      non sono coscienti di ciò che fanno dormendo>>
    [I      Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit. p. 194]
formulazione dell’enigma omerico: l’anima, il nascosto, la
sapienza, sono ciò che non vediamo né prendiamo, ma
portiamo dentro di noi; solo la nascosta interiorità permane,
mentre tutte le apprensioni sensibili sono transeunti.
In prima sintesi possiamo dire che Eraclito contrappone la
filosofia al senso comune della maggioranza degli uomini;
questi ultimi, credendo alla realtà e alla stabilità delle loro
opinioni, è come se vivessero continuamente in un sogno
illusorio, incapaci di comprendere il funzionamento del
mondo che li circonda:
<<…agli  altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non  sono coscienti di ciò che fanno dormendo….. 
  Assomigliano  a sordi coloro che, anche dopo aver ascoltato, non comprendono; di loro il  proverbio testimonia: “Presenti, essi  sono assenti” >> .
Invece i filosofi non si fermano alle apparenze immediate, ma riflettono, pensano sia in profondità che in ampiezza, cercando di cogliere i nessi non immediatamente visibili che legano le cose tra loro, riconducendole ad una superiore unità e verità:
<<Un’unica  cosa è la saggezza, comprendere la ragione per la quale tutto è governato  attraverso tutto…..
  …..unico  e comune è il mondo per coloro che son desti, mentre nel sonno ciascuno si  rinchiude in un mondo suo proprio e particolare>> .
Ma, finalmente, cosa scopre il filosofo Eraclito (lo “sveglio”), l’indagatore di se stesso? Che cosa ci rivela la sua visione profonda e, al tempo stesso, complessiva dell’essere?
4.2 – Il “divenire” nell’unità dei contrari
Innanzitutto, se non ci fermiamo alle apparenze immediate dei sensi, ma collochiamo i fenomeni in un contesto temporale più ampio e ne cogliamo le reciproche relazioni, ci accorgiamo che “tutto scorre” (pànta réi), ovvero che ogni cosa “è”, in quanto “diviene”, ogni fenomeno è soggetto al “divenire”, sia nel senso del movimento che del continuo mutamento:
<<Negli  stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo…
  Nello  stesso fiume non è possibile scendere due volte>> .
Il divenire inesauribile delle cose (come lo  scorrere dei fiumi) impedisce che sia possibile ripetere più di una volta la  medesima esperienza; non solo, ma se anche fosse ferma l’acqua, saremmo, di  volta in volta, diversi noi che, come ogni altra sostanza mortale, non ci  presentiamo mai due volte nello stesso stato.
  Mentre “i più” credono che alcune cose siano  ferme e immutabili (per esempio questo sasso vedo davanti ai miei occhi) il  filosofo comprende che anche ciò che appare statico in realtà è dinamico  (questo sasso levigato dal fiume prima era un pezzo di roccia, staccatosi dalla  montagna, caduto nel torrente, e poi sarà un granello di sabbia in riva al  mare).
  Eraclito però non si limita ad enunciare una  teoria ricavabile dall’esperienza quotidiana, anche se la maggioranza degli  uomini non compie neppure questo semplice distacco dal “qui ed ora”, ma ne  enuncia la legge immanente che la sottende: la legge dell’opposizione di tutte  le cose, nella loro inscindibile unità, ovvero la legge dell’unità dei contrari.
  Anche Anassimandro aveva individuato nel  processo di separazione dei contrari dall’apeiron la legge dell’eterno divenire delle cose; ma nel filosofo di Mileto  l’opposizione dei contrari (caldo/freddo, secco/umido…) comportava, anche se in  modo oscuro ed enigmatico, un’ingiustizia nei confronti dell’arché, dovendone infatti pagare  “l’uno all’altro la pena e  l’espiazione…secondo l’ordine del tempo”,   avendo infatti nell’apeiron  “distruzione secondo necessità”  al termine del ciclo cosmico.
  Eraclito invece concepisce la lotta dei contrari come l’essenza  stessa della vita:
<<Polemos [la  guerra] è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e  gli altri come uomini, gli uni fa schiavi e gli altri liberi.
  Una  e la stessa è la via all’in su e la via all’in giù.
  Immortali  mortali, mortali immortali, viventi la loro morte e morienti la loro vita…
  La  stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e  il vecchio: questi infatti mutando son quelli e quelli di nuovo mutando son  questi>> .
L’ultimo frammento è particolarmente  importante poiché ben evidenzia il legame  tra la dialettica degli opposti e il divenire: <<la pace nasce dalla  guerra, la guerra dalla pace, si riscaldano le cose fredde e si raffreddano  quelle calde. Anzi, nel divenire, tanto il contrasto e l’opposizione delle  cose, quanto l’unità degli opposti si presentano nel modo più manifesto: basta  che qualcosa si realizzi, ad esempio la gioventù, che subito il suo contrario  la raggiunge e la gioventù precipita nella vecchiaia e vi si identifica. Nel  divenire ogni cosa diventa il suo contrario, e in ciò è l’espressione visibile  di quell’”armonia nascosta” in cui consiste il Dio come unità degli  opposti>> .
  Eraclito, infatti, identifica  panteisticamente Dio con l’Universo, un Dio-Tutto,  concepito come l’unità di tutti i  contrari:
  <<Il  dio è giorno-notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come <  il  fuoco >, quando si mescola ai  profumi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi…
  Per  la divinità tutte le cose sono belle, buone e giuste; gli uomini invece alcune  cose ritengono ingiuste ed altre giuste…
  Non  comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia  contrastante, come quella dell’arco e della lira>> .
Ancora una volta ci rendiamo conto di come lo  sguardo profondo del filosofo si discosti dal senso comune. Infatti, mentre la  moltitudine degli uomini ritengono ed auspicano che un opposto possa vivere  senza l’altro (ad esempio, il bene senza il male, la salute senza la malattia,  la vita senza la morte...), la teoria del divenire e la legge dell’unità dei  contrari che la sottende, ci dimostrano quanto sia illusoria tale credenza.  Metaforicamente parlando, è come se gli uomini, per avere solo strade in  discesa, eliminassero tutte le salite, ottenendo come risultato un mondo  piatto, immagine della quieta morte dell’universo.
  È necessario quindi che gli uomini non si  fermino a considerare i singoli aspetti della realtà, approvandoli o respingendoli  secondo il loro particolare tornaconto, ma che, elevandosi così una visione  complessiva, comprendano la complementarità di tutti i contrari.
4.3 – Il Fuoco o Logos
La visione complessiva della realtà, come  incessante divenire di tutti i contrari, è resa possibile dal Logos,  un termine che in Eraclito ha un valore polisemico. Esso significa sia la legge del pensiero o discorso razionale (derivando  etimologicamente da légo: legare  insieme le parole in modo da formare un discorso dotato di senso); sia la legge universale che governa il mondo attraverso la complementarità dei contrari; sia il principio fisico che costituisce tutte le cose, denominato  indifferentemente Fuoco o Logos.
  Probabilmente la scelta del fuoco come arché ha più un valore 
  simbolico che sostanziale.   Anche se   Eraclito  si sofferma ad 
  indicare il processo fisico della  trasformazione di tutte le cose 
  dal fuoco, secondo un processo di  condensazione (la “via all’in 
  giù”) e di rarefazione (la “via all’in su”),  simile a quello dell’aria 
  di    Anassimene,   è  evidente   che  il  fuoco,    rappresentando 
  l’elemento      distruttore      per       eccellenza,     simboleggia 
  perfettamente la continua metamorfosi delle  cose, costituendo
  l’essere come divenire.
  L’aspetto filosoficamente più importante del  principio, quindi, 
  non è tanto il suo essere Fuoco, quanto il  suo essere Logos:
<<Di  questo  logos  che è sempre   gli uomini non hanno intelligenza, 
  sia  prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché
  infatti tutte le cose accadono secondo questo  logos, essi assomigliano
  a  persone inesperte, pur provandosi in parole e in opere tali quali sono
  quelle  che io spiego,  distinguendo  secondo   natura  ciascuna  cosa  e 
  dicendo  com’è…
  Quest’ordine  universale,  che è lo stesso per  tutti,  non lo fece alcuno 
  tra  gli dèi  o  tra gli uomini,  ma sempre   era  è  e   sarà  fuoco  sempre 
  vivente,  che si accende e si spegne secondo giusta misura…
  Un’unica  cosa è la saggezza,  comprendere la  ragione  [logos]  per la 
  quale  tutto è governato attraverso tutto.
  Per  quanto tu  possa camminare,  e neppure percorrendo  intera la via, 
Pallade e il Centauro (1485), Botticelli – Firenze – Uffizi
Nel quadro di Botticelli Minerva rappresenta la sapienza che prevale sull’ignoranza, simboleggiata dal Centauro, ma anche la ragione (o logos) che prevale sulla sfera “animale” dell’uomo: sensibilità e istinti.
Ascoltando non me, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno>>
Con “tutto  è uno” Eraclito sostiene con forza il principio che ha 
  guidato la filosofia ionica fin  dall’inizio,  ovvero  l’identità  della
  diversità, in una nuova  prospettiva.
  Tutte le cose sono uno, non solo perché  costituite e trasformate 
  dalla stessa sostanza (il “fuoco”),  ma soprattutto perché in ogni
  cosa è identica la legge immanente della  “contesa” che presiede
  tutte le generazioni o mutamenti dei  fenomeni.
  In ogni manifestazione fenomenica, anche se  apparentemente irrazionale, è sempre presente lo stesso Logos, comprendendo il quale si comprende l’essere, ovvero il  divenire.
  5 – Pitagora  e  il   “pitagorismo”
Nato a Samo, un’isola della Ionia vicino alla  costa tra Mileto ed Efeso, attorno al 570 a.C., Pitagora è un filosofo per gran parte avvolto nel mistero. Legato,  come Eraclito, alla tradizione aristocratico-sacerdotale, nel 530 si trasferì a  Crotone (nella Magna Grecia) per ostilità al governo del tiranno Policrate che  conduceva una politica avversa all’aristocrazia terriera. 
  A      Crotone     fondò     una      setta     iniziatica   di   
  Ispirazione    mistico-religiosa    che   era,     al   tempo  
  stesso     un    centro    di     studi    matematici    (una 
  numerologia   con valore metafisico  e  morale)   e   un   
  centro di potere politico ad indirizzo  ultraconservatore
  (ne è testimonianza  la distruzione  della   democratica   
  Sibari, nel 510, voluta da Pitagora e  giustificata come
  Una sorta   di   “guerra santa”  contro   l’immoralità  dei 
  sibariti).     Attorno  al  500   una   rivolta   democratica  
  cacciò   i   pitagorici  da    Crotone e   Pitagora   fuggì,   
  forse, a   Metaponto  dove,   si narra, si lasciò morire 
  di fame nel tempio delle Muse.
  Altri    pitagorici  fondarono  nuove   comunità,   come 
  quelle   di  Archita   a  Taranto   e  di  Filolao  a   Tebe,  
  dando   vita  al  cosiddetto  “secondo pitagorismo”; 
  ma, dai frammenti rimastici  noi,   come accadeva già 
  ad   Aristotele  (che nella  Metafisica  parla in generale 
  dei    “cosiddetti pitagorici”)  non  siamo   in  grado  di 
  distinguere   nettamente  i  due   periodi  della  scuola,  
  così   come  non sappiamo  quasi nulla   della dottrina
  direttamente insegnata da Pitagora.  Incertezze e mistero dovute a diverse ragioni: al fatto che probabilmente  Pitagora non scrisse nulla; alla religiosa segretezza che circondava la sua  dottrine, che venivano tramandate oralmente e non dovevano essere note  all’esterno della setta; all’aura sacrale che ben presto, ancor vivo, circondò  la sua persona, attorno alla quale fiorirono numerose leggende.
  La tesi che unanimemente gli viene attribuita  (ma che, per la verità, è tipica anche dell’orfismo) è quella della metempsicosi, ovvero della  trasmigrazione delle anime dopo la morte e della loro reincarnazione, fino alla  completa liberazione dai corpi ottenuta grazie alle pratiche purificatrici  trasmesse da Pitagora. Egli stesso si diceva discendente dal dio Apollo,  attraverso successive reincarnazioni della sua anima!
  La purificazione comportava diversi gradi  spirituali dei quali faceva parte la “scienza” pitagorica del numero, chiamata,  secondo varie testimonianze, per la prima volta da Pitagora “filosofia”.
5.1 – Il numero come arché
La tesi centrale di tutto il pitagorismo è che il numero sia la sostanza delle cose. Così Aristotele, nella Metafisica, ci spiega la teoria dei “cosiddetti pitagorici”:
<<Essi per primi si applicarono alle matematiche e le fecero progredire e, nutriti delle medesime, credettero che i principi di queste fossero principi di tutti gli esseri. E, poiché nelle matematiche i numeri sono per loro natura i principi primi, e appunto nei numeri essi ritenevano di vedere, più che nel fuoco, nella terra e nell’acqua, molte somiglianze con le cose che sono e che si generano… e inoltre, poiché vedevano che le note e gli accordi musicali consistevano nei numeri; e, infine, poiché tutte le altre cose, in tutta la realtà, pareva a loro che fossero fatte a immagine dei numeri e che i numeri fossero ciò che è primo in tutta quanta la realtà, pensarono che gli elementi dei numeri fossero gli elementi di tutte le cose, e che tutto quanto il cielo fosse armonia e numero. E tutte le concordanze che riuscivano a mostrare fra i numeri e gli accordi musicali e i fenomeni e le parti del cielo e l’intero ordinamento dell’universo, essi le raccoglievano e le sistemavano. E se qualche cosa mancava, essi si ingegnavano a introdurla, in modo da rendere la loro trattazione in tutto coerente>> .
Dal testo aristotelico si evince,  innanzitutto, uno strettissimo rapporto tra i numeri, l’ordine e l’armonia. Come abbiamo già visto in  Eraclito, per il quale l’arché, prima  di essere materia (fuoco) era la forma contraddittoria della realtà (lotta dei  contrari), anche nel pitagorismo il numero non è primariamente “sostanza” in  quanto “materia” delle cose, ma fondamentalmente in quanto ordine aritmeticamente e geometricamente misurabile dei fenomeni e  della realtà in generale. 
  Aristotele ci suggerisce anche quali tipi di  esperienze hanno probabilmente portato i pitagorici ad elaborare la loro teoria  del “matematismo” universale: 
  -  le  osservazioni e le conoscenze  astronomiche (ereditate soprattutto dall’astronomia babilonese) che  offrivano lo spettacolo dei moti regolari, ordinati e immutabili dei corpi  celesti che, in quanto tali, risultavano perfettamente misurabili e quindi  traducibili in numeri, i quali finivano per rappresentare l’intelligibilità dei  fenomeni presi in considerazione (1 giorno per l’alternarsi del dì e della  notte, 365 giorni per l’anno solare, 3 mesi per ogni cambio di stagione, 28  giorni per le fasi lunari, ecc.);
  -  gli  studi sull’armonia musicale (arte  apollinea per eccellenza) che portarono i pitagorici a scoprire una relazione  costante (e quindi misurabile) tra la lunghezza delle corde della lira e gli  accordi fondamentali: 1:2 per l’ottava,   3:2 per la quinta,  4:3 per la  quarta.
  La   coincidenza,   affascinante  in  sé,    ma  che   colpì soprattutto   i   pitagorici,      è    che      quelle   relazioni 
  armoniche comprendevano tutti e solo i primi  quattro numeri naturali  (1,  2,  3,  4)  la  cui  somma  dava  il numero 10,  considerato  sacro  presso  il  tempio  di Apollo a Delfi  e  rappresentato dalla seguente figura “perfetta”  (la sacra tetraktýs):   
Questo   modo   di    rappresentare   il  numero  10   (un  triangolo  fatto  di  punti,  che  ha quattro unità per ogni lato)  è  rivelativo del principio pitagorico per cui  “tutte  le  cose  sono  numeri”   anche   in   un  altro   senso, rispetto  all’idea  generale  per  cui  tutto  è   misurabile.
  Infatti    i    pitagorici,     non   distinguendo    ancora   tra aritmetica   e   geometria,    concepivano  l’unità  come 
  un    punto  geometrico    che,   a   sua   volta,   veniva
  concepito    in    termini     reali   e,   quindi,     come   un      
  punto    materiale,       che     essi      rappresentavano 
  simbolicamente   con  un  sassolino,   in  modo  tale  da
  formare  la  serie   dei numeri   in  modo   “geometrico”,
  attraverso   la   combinazione    di   unità   concrete. 
  In  questa  aritmo-geometria  pitagorica,  il  numero  1 
  rappresenta  il punto  (e viceversa);   il  numero 2   due 
  punti   e  quindi la linea;  il numero 3  il triangolo,  quindi 
  la superficie; infine il numero 4 la piramide  che, a sua volta, rappresenta la genesi di tutti i corpi solidi:
Fu Filolao (originario della  Magna Grecia, fuggito in Grecia dopo la rivolta democratica del 454 a.C.,  attivo in Tebe fino alla fine del V secolo, tra i primi pitagorici a mettere  per iscritto le dottrine della setta) ad elaborare in modo definitivo la  suddetta teoria dei numeri - punti -  figure geometriche, costruendo quello che Mari Vegetti chiama il modello “cristallografico” della  generazione dei corpi fisici a partire dall’unità .
  Filolao giunse anche, coerentemente, a  spiegare la differenza fra gli elementi naturali (aria, acqua, terra, fuoco)  con la diversa forma geometrica delle particelle di materia di cui sarebbero  composti, una concezione che ritroveremo ancora nella storia del pensiero  filosofico e scientifico, a partire da Democrito, lo “scopritore” degli atomi.
  Si noti inoltre che, come era già accaduto  per gli accordi musicali, ancora una volta vengono impiegati i primi quattro  numeri naturali, la cui somma dà il  “sacro”   numero dieci:
<<Il  dieci è <numero> perfetto;  ed è  conforme a ragione e a natura il fatto che noi Greci e gli altri uomini tutti,  sempre, nel  trattare  i   numeri,  ci  incontriamo   spontaneamente  in  esso.   Perché  esclusivamente  sue   sono molte proprietà del 
  numero  perfetto; e molte altre proprietà esso possiede che, se non sono esclusivamente  sue, tuttavia il numero perfetto deve possedere… nel dieci sono compresi tutti  i rapporti… ci sono inoltre i  numeri  lineari e quelli piani e quelli solidi, perché l’uno è punto, il due è linea,  il tre è triangolo, il quattro piramide: e questi son tutti primi, e principi  di ciascun numero dello stesso genere>> .
Questa  visione matematica delle 
  cose  e  della  realtà  in  generale 
  entrerà  a  costituire   un   aspetto 
  importante della grande filosofia 
  di   Platone   e   del    successivo 
  neoplatonismo,   fino a costituire 
  il   fondamento  metafisico   della 
  moderna concezione della natura, 
  in particolare della fisica di Galileo, 
  sia per quanto riguarda il modo di
  indagare i fenomeni (il cosiddetto 
  “metodo sperimentale”), sia per la 
  concezione della stessa struttura
  geometrica della realtà.
«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto» [Galileo Galilei, Il Saggiatore, Cap. VI].
Lo stesso Kandinsky, nel      descrivere i rapporti di forza e movimento che si stabiliscono tra figure      geometriche elementari (linee rette e curve, cerchi e semicerchi, angoli e      triangoli, reticoli e scacchiere) e alcuni colori puri, sembra alludere ad      un possibile significato cosmico-teologico:
    “il contatto dell'angolo acuto di un      triangolo con un cerchio non ha minore effetto di quello del dito di Dio      con le dita di Adamo in Michelangelo”  [Kandinsky, Spirituale nell'arte]. 
5.2 – La cosmologia pitagorica
La mistica del numero dieci ritorna anche nell’originalissima cosmologia pitagorica, anch’essa attribuibile quasi certamente a Filolao. Infatti, se riprendiamo un precedente passaggio della Metafisica di Aristotele, leggiamo che:
<<…se qualche cosa mancava, essi si ingegnavano a introdurla, in modo da rendere la loro trattazione in tutto coerente. Per esempio: siccome il numero dieci sembra essere perfetto e sembra comprendere in sé tutta la realtà dei numeri, essi affermavano che anche i corpi che si muovono nel cielo dovevano essere dieci; ma, dal momento che se ne vedono soltanto nove, , allora essi ne introducevano di conseguenza un decimo: l’Antiterra>> .
Secondo Filolao l’Antiterra non sarebbe  osservabile perché antipode della Terra e di moto contrario ad essa, ma  spiegherebbe le eclissi. L’aspetto comunque più importante di questa astronomia  è certamente il fatto che i corpi celesti, compresa la Terra, ruotano attorno a  un grande fuoco centrale (<<focolare del tutto e casa di Zeus>>) generatore e ordinatore del  mondo sferico circostante.
  Anche la Terra è sferica (e non più  cilindrica, come sosteneva per esempio Anassimandro), assieme a tutti gli altri  corpi celesti, poiché i pitagorici vedevano nella sfera la figura solida  perfetta e armonica, essendo tutti suoi punti equidistanti dal centro. 
  Filolao è stato quindi il  primo pensatore che, oltre ad aver teorizzato la sfericità terrestre, non ha  posto la Terra al centro dell’universo, contrastando lo spontaneo geocentrismo  dei suoi contemporanei e del senso comune.
Attorno al fuoco centrale ruotavano      quindi, da ovest a est, dieci corpi celesti: l’Antiterra (il più vicino al      “focolare”), la Terra, la Luna, il Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove,      Saturno e il cielo delle stelle fisse.
    Oltre al moto di rivoluzione attorno al      fuoco, un altro membro della scuola pitagorica, Ecfanto di Siracusa, riconobbe anche il moto di rotazione della      Terra intorno al proprio asse.
    Nel III secolo a.C. l’aristotelico Aristarco di Samo, collocando il      Sole al posto del fuoco centrale, trasformerà l’ipotesi pitagorica del      movimento della Terra in una vera e propria ipotesi eliocentrica; ma nel contesto della dominante teoria      geocentrica (che dal II sec. d.C. prenderà il nome di teoria      aristotelico-tolemaica) la sua idea rivoluzionaria non avrà seguito.      Dovranno passare quasi due millenni perché l’eliocentrismo venga ripreso      dalla scienza europea, a partire dalla  “rivoluzione copernicana”.
Ricordandoci dell’importanza che ha avuto la musica nell’elaborazione della teoria pitagorica del numero come arché, è interessante notare anche che gli astri, nel loro moto rotatorio, produrrebbero un suono accordato secondo proporzioni perfette, generando un’armonia delle sfere celesti, non udibile dall’orecchio umano poiché il suono è ininterrotto.
5.3 – Limite (peras) e illimitato
Se   “tutte le cose sono numeri”, ovvero se i numeri sono l’essenza della  realtà, allora le proprietà dei numeri sono anche le proprietà delle cose. Ora  i numeri si dividono in pari e dispari, un’opposizione fondamentale da  cui dipendono tutte le opposizioni della realtà. Infatti ai numeri dispari  viene attribuita la caratteristica positiva della finitezza, poiché l’unità che  rimane dopo la divisione ne impedisce l’ulteriore divisione all’infinito. Ma  ciò che è “finito” è bene e  perfezione, poiché limitato,  misurabile, calcolabile e, quindi, dotato di un principio d’ordine, commisurato  alla mente umana; per contro il pari è “infinito”, illimitato, incommensurabile, quindi  male e imperfezione. 
  Inoltre la vita del saggio è tutta dedita a  far prevalere l’ordine e la misura nei confronti delle passioni e degli istinti  corporei, sia nella vita individuale che in ambito politico, persuadendo con  tutti mezzi i governati a rispettare i criteri d’ordine stabiliti dai  governanti.
  Come si vede, su questo punto il pitagorismo  affronta, dalla sua particolare prospettiva matematizzante, la grande tematica  dell’opposizione dei contrari già incontrata in Anassimandro e in Eraclito.
  A questo proposito, sempre dalla Metafisica di Aristotele, leggiamo:
<<…  costoro [i pitagorici] sembrano  ritenere che il numero sia principio non solo come costitutivo materiale degli esseri, ma anche come costitutivo delle proprietà e degli stati  dei medesimi. Essi pongono, poi, come elementi costitutivi del numero il pari e il dispari; di questi, il primo è illimitato, il secondo limitato.  L’Uno deriva da entrambi questi elementi, perché è, insieme, e pari e dispari.  Dall’Uno, poi, procede il numero; e i numeri, come s’è detto, costituirebbero  tutto l’universo.
  Altri  pitagorici affermarono che i principi sono dieci, distinti in serie <di  contrari>:
  (1)    limite-illimite,
  (2)    dispari-pari,
  (3)   uno-molteplice,
  (4)    destro-sinistro,
  (5)   maschio-femmina,
  (6)   fermo-mosso,
  (7)   retto-curvo,
  (8)   luce-tenebra,
  (9)   buono-cattivo,
  (10)  quadrato-rettangolo>> .
Come si può notare dal brano aristotelico, la  coppia originaria degli opposti  fondamentali (dispari = limite e pari = illimitato) costituisce l’essenza e  il criterio di interpretazione di tutte le opposizioni della realtà.
  Interpretazione che, se in alcuni casi ha una  certa coerenza logica (ciò che è fermo e stabile è controllabile rispetto a ciò  che è mosso e instabile; la luce è un bene per la vista, mentre la tenebra non  lo è, ecc.), in altri casi funge solo da legittimazione ideologica di  stereotipi sociali o convinzioni politiche: al maschio (culturalmente  dominante) viene attribuita perfezione, mentre alla femmina imperfezione; la destra, parte più attiva del corpo per la  maggioranza degli uomini, sarebbe un bene, mentre la sinistra un male; l’uno  (l’unico legislatore o i pochi aristocratici) costituirebbe un principio  d’ordine, mentre il molteplice (come la moltitudine del demos) sarebbe foriero di disordine e caos.
LA CRISI DEL  PITAGORISMO 
  La metafisica dei pitagorici, ovvero la loro aritmo-geometria come criterio di  interpretazione di tutta la realtà, entrò  in crisi con la scoperta, dovuta agli stessi pitagorici, delle grandezze incommensurabili tra loro,  come, per esempio, la diagonale e il lato del quadrato.
   
 
                                                         Se   AB = 1   e   BC = 1,  per lo stesso teorema di Pitagora,
   la diagonale AC (che è anche ipotenusa del triangolo  ABC)
                                                         la diagonale AC (che è anche ipotenusa del triangolo  ABC) 
  sarà      2  = 1,414213562…... all’infinito.
  Questo   significa   che   alcune     grandezze   geometriche, 
  rapportate tra loro danno come risultato un numero irrazionale
A
B
La scoperta dei numeri irrazionali (che vanno  all’infinito dopo la virgola), ovvero di numeri che esprimono grandezze tra  loro non commensurabili, per un sistema filosofico-teologico che si fondava  sulla misurabilità di tutta la realtà e, quindi, sulla finitudine e sull’ordine  delle cose, rappresentava una sconfitta insanabile poiché la contraddizione  dimorava nelle stesse fondamenta del sistema.
  Infatti la scoperta fu ritenuta così  pericolosa da essere tenuta nascosta per parecchio tempo, finché non fu svelata  al di fuori della setta dal pitagorico Ippaso  di Metaponto, che di conseguenza fu cacciato dalla scuola. Sull’episodio  fiorirono leggende, alcune delle quali narrano che i pitagorici eressero una  tomba a Ippaso, ancora in vita, come se fosse morto, e che Zeus stesso gli  dette la morte, facendolo naufragare in mezzo al mare. 
I   PRIMI  FILOSOFI  E  LA
  RICERCA  DELL’ARCHÉ
PAROLE CHIAVE
Ápeiron: etimologicamente “senza limiti”, ovvero indefinito, infinito, indeterminato. È il nome del principio da cui tutte le cose derivano, per separazione dei contrari, secondo il filosofo Anassimandro.
Archè: “principio” costitutivo di tutte le cose che contiene in sé una “forza”, la quale, agendo secondo una “legge” necessaria, presiede a tutte le trasformazioni nell’incessante divenire del mondo.
Aritmo-geometria: matematica pitagorica che non distingueva tra aritmetica e geometria, attribuendo ad ogni unità numerica un punto geometrico che, a sua volta, veniva concepito come un punto materiale in modo tale da formare la serie dei numeri in modo “geometrico”, attraverso la combinazione di unità concrete.
Dio-Tutto: unità di tutti i contrari: <<giorno-notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame…>>.
Divenire: incessante movimento e mutamento delle cose nel tempo (pànta réi = “tutto scorre”).
Fisiologi: “filosofi della natura” (dal greco physis = natura), come vengono chiamati i primi filosofi ionici, per il particolare tipo di interessi mostrati e di ricerche da essi condotte.
Ilozoismo: dal greco hýle (materia) e zóon (vivente): concezione della materia come dotata di una forza intrinseca che, agendo secondo una legge, presiede a tutte le trasformazioni della materia stessa, spiegandone così il divenire e la molteplicità.
Immanente:  si dice di un principio interno, intrinseco, connaturato a ciò di cui si  parla. 
  Nel caso dei primi  filosofi ionici, per esempio,  la Natura veniva spiegata  solo attraverso la Natura, individuando in essa un principio unitario di ordine  e razionalità, senza ricorrere ad interventi esterni di natura divina o, in  qualche modo, soprannaturale. 
Metempsicosi: nell’orfismo e nel pitagorismo, significa la trasmigrazione delle anime dopo la morte e la loro reincarnazione, fino alla completa liberazione dai corpi ottenuta grazie a pratiche purificatrici.
Monismo: dal greco mónos (unico): concezione del mondo per la quale alla base della multiforme e mutevole realtà naturale, vi è un unico principio che, in qualche modo, costituisce la sostanza di ogni cosa.
Numeri irrazionali: numeri che esprimono il rapporto tra grandezze che tra loro non sono commensurabili; ovvero grandezze per cui non è possibile trovare un numero finito di volte in cui l’una è compresa nell’altra, dando come risultato un numero che, dopo la virgola, va avanti all’infinito.
Trascendente:  si dice di un principio “esterno” a ciò di cui si parla, ma da cui la  cosa stessa dipende. 
  Tipico esempio di un principio trascendente è il Dio della Bibbia che agisce dall’esterno, e in modo “arbitrario” (creazione dal nulla), rispetto  al mondo e all’uomo di cui è la causa e l’essenza. 
I   PRIMI  FILOSOFI  E  LA
  RICERCA  DELL’ARCHÉ
BIBLIOGRAFIA UTILIZZATA
- Abbagnano-Fornero, La filosofia. Dalle origini ad Aristotele, Pearson Paravia Bruno Mondatori spa, 2009
- I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni e altri, Laterza, Bari, 1981
- I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Tr. Di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari, 1986
- Omero, Iliade, XIV, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1977
- Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, MI, 1985
- Emanuele Severino, Filosofia. Lo sviluppo storico e le fonti, Vol. 1, Sansoni, Firenze, 1991
- Aristotele, Metafisica, 985b-986a. Tr. it. di G. Reale, Rusconi, Milano, 1978
- Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Parte prima, Zanichelli, BO, 1981
Abbagnano-Fornero, La filosofia. Dalle origini ad Aristotele, Pearson Paravia Bruno Mondatori spa, 2009, pp. 18-19
I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni e altri, Laterza, Bari, 1981, p. 90
I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Tr. Di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari, 1986, vol. I, p. 109
Fonte: http://www.acairoli.it/download_dispense/filosofia/2%20PRIMI%20FILOSOFI%20arche.doc
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