Karl Mannheim

 

 

 

Karl Mannheim

 

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Karl Mannheim

 

KARL MANNHEIM (1893-1947)
Anche egli ungherese, subisce le stesse influenze di Lucaks (filosofia neokantiana, fenomenologia di Husserl, del marxismo e di Weber) e poi anche di quest’ultimo anche se non giungerà mai a conclusioni marxiste. A seguito dell’avvento del nazismo emigrò a Londra e in questo periodo londinese i suoi interessi si spostarono verso la psicologia sociale e la sociologia dell’educazione. Dopo il periodo neokantiano giovanile, Mannheim si concentrò sul problema della storicità e della socialità dei fenomeni intellettuali.
In un saggio giovanile, Il pensiero conservatore,  inizia affermando che la caratteristica del pensiero moderno è quella di tendere ad una completa razionalizzazione del mondo.  Tale razionalizzazione trova una manifestazione tipica nelle scienze esatte e si esprime in termini quantitativi, comunicabili e dimostrabili indipendentemente dal loro contesto storico-sociale: si tratta, di un atteggiamento che sorge nella società capitalistica e che tende all’astrattezza e alla generalità. In tale società anche “l’altro” è visto astrattamente: in una società basata sulla produzione di merci anche l’uomo è una merce e viene a essere trattato sempre più come una grandezza astratta e calcolabile. Mannheim distingue poi  tra pensiero conservatore non romantico e pensiero progressista  affermando che il pensiero conservatore non romantico  è legato all’immediato, al dato, e tende a negare qualsiasi possibilità di trasformazione radicale del mondo sociale; il pensiero progressista, invece, ragiona nei termini di una possibilità da realizzare e nega lo stato di cose stabilito in nome dell’attuazione di tale possibilità.
Ci rendiamo conto come anche in Mannhein, temi di diretta provenienza da Il capitale di Marx si intrecciano con le interpretazioni di esso da parte di Toennies, Simmel e Lucaks (il quale, a sua volta si rifà a Weber) e vengono affrontati problemi specifici della società capitalistico-industriale come lo scadere in essa dei rapporti tra uomini in rapporti tra cose. Però, a differenza di Lucaks, Mannheim non accetterà mai il marxismo ed arriverà nei suoi studi ad una formulazione più generale del problema del condizionamento di classe (Lucaks, invece, conclude che solo il proletariato, proprio per la sua posizione di classe sfruttata ha una coscienza di classe che gli dà la possibilità di cogliere, nella società,  quegli elementi dinamici che portano al mutamento mentre la borghesia si adatta di buon grado, in quanto gli è confacente, alla immobilità dello status quo).
Mannheim è convinto che le condizioni sociali in cui i gruppi umani vivono influenzano il loro pensare: a determinate posizioni sociali e alle conseguenti attività corrispondono specifici interessi di parte e, conseguentemente, specifici modi di pensare, specifiche posizioni teoriche. E così è per entrambe le classi sociali principali. La scienza che affronta questo problema è la “sociologia della conoscenza”.
Egli considera come antecedente teorico della sociologia della conoscenza  la teoria dell’ideologia di Marx e distingue tra una concezione parziale (secondo la quale le ideologie sono affermazioni particolari e specifiche circa argomenti determinati, distorte in seguito agli interessi di parte che i loro assertori più o meno coscientemente intendono difendere) ed una concezione totale dell’ideologia (che implica l’idea secondo cui a una determinata posizione sociale di un gruppo corrisponde un modo unitario di interpretare la realtà, una visione del mondo che rende unito questo gruppo e al tempo stesso lo distingue dagli altri). Un’epoca storica, una nazione, una classe sociale, un gruppo, hanno ognuna una concezione del mondo che la caratterizza.
Anche Mannheim come Marx poi si sofferma in particolare sulle classi sociali e concorda con lui per aver visto come  il problema ideologico della borghesia non era riducibile a fattori psicologici  ma andava compreso in rapporto con la realtà socio-economica strutturale della classe. Egli, però,  critica Marx perché di questa sua scoperta sociologica ne aveva fatto un’arma politica non l’aveva estesa a principio sociologico generale. Mannheim afferma che si passa dalla teoria dell’ideologia alla sociologia della conoscenza solo se si ha il coraggio di sottoporre all’analisi ideologica anche il proprio punto di vista e non solo quello dell’avversario.
L’unità sociale che condiziona il pensiero non è solo la classe sociale ma può essere anche la “generazione”, il gruppo di lavoro, il ceto, ecc. anche se, fra tutte, la classe è la più importante.
Siccome il problema dell’ideologia per Mannheim è un problema generale, che investe ogni corrente di pensiero in quanto legato al suo contesto storico sociale, egli è accusato di relativismo. Egli rifiuta questa accusa e parla, dal canto suo di “relazionismo” intendendo con questo affermare che il fatto che esiste una relazione tra un’idea e il suo contesto storico-sociale significa che questa idea è valida non in assoluto ma in relazione a tale suo contesto e solo la nostra mentalità abituata a concepire la verità o in termini assoluti o come inesistenti non ci lascia vedere questo carattere relazionistico della verità stessa.

  • Vale la pena si considerare, in particolare, come Mannheim cerca di risolvere il problema della razionalità delle scelte politiche che Weber aveva  lasciato aperto.

Mannheim  inizia con l’affermare che le diverse scelte non sono ne’ infinite essendo esse legate al numero finito di sezioni in lotta presenti in una determinata società  nè sono il risultato di una volontà arbitraria (quindi non sono rimesse all’irrazionale) bensì sono complementari e derivano da specifiche condizioni sociali: la consapevolezza di questi fatti rende possibile una  scienza politica. Le convinzioni divergenti sono correlate con le diverse posizioni e i diversi interessi nella società. I diversi orientamenti politici appaiono condizionati dalla posizione sociale e, in particolare dalla posizione di classe. Tali orientamenti colgono tutti un qualche aspetto della loro realtà storico-sociale ma non possono cogliere l’insieme ne è possibile ricostruire la totalità semplicemente accostando i diversi orientamenti. Allora, ci si deve domandare se possono questi diversi orientamenti di pensiero dare luogo ad una sintesi. Mannheim dice di si e parla in proposito di sintesi dinamica nel senso che tale sintesi non può in alcun modo essere assoluta e definitiva perché essa è  relativa alla realtà storico-sociale e, come tale, in continuo cambiamento: occorre cogliere, di volta in volta quegli elementi che, pur emergendo dalle parti in lotta, sono utili per una comprensione più ampia della situazione nella sua totalità.
Il problema è ora quello di individuare chi, quale categoria sociale, sia in grado di costruire questa sintesi dinamica. Mannheim identifica la categoria sociale che meglio può raggiungere la consapevolezza critica della parzialità delle singole posizioni e, conseguentemente elaborare la sintesi dinamica,  nella categoria degli “intellettuali migliori”.  Pur provenendo gli  intellettuali stessi da questa o quella classe, essi non sono direttamente coinvolti nel mondo della produzione e grazie ad un livello di istruzione superiore, acquistano maggiore imparzialità, maggiori possibilità di critica e autocritica rispetto alle altre posizioni più direttamente condizionate e quindi più parziali e dogmatiche. Proprio per queste facoltà essi possono cogliere i fattori irrazionali e inconsci che solitamente entrano nelle scelte politiche, controllare questi fattori portandoli a livello cosciente. Compito degli intellettuali è quindi quello di distogliere la politica dall’irrazionale e di fondare una politica scientifica.  E’ chiaro però che Mannheim fa un discorso di tipo deontologico in quanto prescrive quanto gli intellettuali dovrebbero fare ed è un errore pensare che secondo Mannheim l’intellettuale svolga sempre e comunque le funzioni critiche da lui prescritte più che descritte.

A questo punto, ci rendiamo conto come Mannheim, suo malgrado, assume con queste sue affermazioni, una posizione conservatrice. Infatti, egli considera le classi come una realtà data più che un problema e la questione consiste solo nel trovare una sintesi tra le diverse esigenze e le diverse posizioni teoriche che esse implicano: la realtà delle classi rimane indiscussa. Egli, in poche parole, auspica un superamento meramente culturale delle divergenze teoriche che lascia intatta la struttura (il che avviene con la mediazione degli intellettuali).
C’è da notare, però, che nella sua opera più famosa, Ideologia e utopia (1929),  Mannheim non mette borghesia e proletariato sullo stesso piano (influenza di Lucaks): secondo Mannheim la borghesia è portata dai suo interessi a pensare in termini ideologici mentre il proletariato pensa in termini utopici. L’ideologia rappresenta la posizione statica di una classe al potere, incapace di comprendere l’elemento dinamico della storia in quanto ragione in termini di ciò che è già dato e non di ciò che  può essere. L’utopia, d’altro canto, è anch’essa una visione socialmente condizionata ma rappresenta la posizione di una classe che, trovandosi subordinata al potere costituito, coglie, sulla base delle proprie esigenze, la possibilità di trasformazione della società.
Nella stessa opera, relativamente al tema della razionalità, Mannheim afferma che la presa di coscienza dei condizionamenti sociali è il requisito indispensabile di un controllo razionale dei fattori inconsci che stanno alla base delle scelte politiche e, inoltre, che il problema della razionalità è strettamente correlato con il problema della libertà: noi diventiamo padroni di noi stessi quando diventiamo consapevoli dei condizionamenti sociali cui siamo sottoposti e cerchiamo di dominarli razionalmente. C’è dunque un criterio sostanziale di discriminazione tra scelta e scelta e la ragione non deve autolimitarsi a indicare i mezzi più idonei per il raggiungimento dei fine senza poter dire nulla su di essi ma può anche indicare il punto di vista sostanzialmente più razionale.

 

Il problema della pianificazione democratica

 

(L’uomo e la società in un’età di ricostruzione, 1935)
Nel 1933, Mannheim, a seguito delle persecuzioni naziste, si trasferisce a Londra dove si dedica, con particolare interesse, al problema della pianificazione democratica con l’intento di individuare le cause della crisi che colpisce la società a lui contemporanea e di indicare le vie per un suo possibile superamento.
Egli afferma che, in una società di massa, quando gli individui sono sostituiti da grandi associazioni, quando piccole unità sono sostituite da grandi corporazioni,  non si può lasciare che le cose si sviluppino e trovino la corretta soluzione attraverso la continua contrattazione e l’assestamento occasionale: i principi del liberalismo, del laissez faire, sono superati  l’unica alternativa possibile è la pianificazione. Ma  la pianificazione è la morte di ogni libertà se, come avviene nel nazismo e nello stalinismo, non è democratica. Pianificazione democratica vuol dire organizzazione della stessa libertà nel senso di  regolare tutti i rapporti sociali in modo da assicurare la libertà collettiva del gruppo in conformità a un piano riconosciuto democraticamente.
La pianificazione democratica si può realizzare solo se gli individui raggiungano un grado più alto di consapevolezza dei fattori sociali che li condizionano e giungono a dominarli razionalmente. La pianificazione democratica, quindi, richiede una diffusione degli strumenti critici della cultura, un alto livello di istruzione nella società che renda i suoi membri consapevoli dei problemi del loro tempo e capaci di agire di conseguenza.
Mannheim prende con considerazione una molteplicità di aspetti della pianificazione democratica e la esamina anche in rapporto con il problema della razionalità nella società contemporanea in cui rileva un forte squilibrio tra sviluppo delle conoscenze tecnologiche e sviluppo delle conoscenze dell’uomo e della società. Di conseguenza, l’ordine sociale contemporaneo è destinato a crollare se il controllo razionale e il dominio individuale dei propri impulsi non tengono il passo con lo sviluppo tecnologico. Mannheim introduce il concetto di democratizzazione di fondo. In passato, considera Mannheim, i compiti di analisi razionale delle decisioni erano proprie di una ristrettissima élite e le masse potevano dunque essere lasciate in balia dei propri istinti, cioè dell’irrazionale. nella nuova società, dove un numero sempre maggiore di gruppi sociali lotta per la partecipazione al controllo politico e sociale, ciò non è più possibile perchè lasciare le masse all’irrazionale vorrebbe dire minare la stabilità della società stessa. Le alternative sono, da una parte, il sorgere dei sistemi totalitari e, dall’altra, se si vuole la democrazia, la necessità di portare le masse a un più alto livello di capacità di analisi razionale della situazione (democratizzazione di fondo).
Questi problemi inducono Mannheim a distinguere  tra due forme di razionalità: la razionalità sostanziale, che si ha quando il soggetto è pienamente cosciente dell’atto che compie in relazione ai mezzi a disposizione e ai fini che vuole raggiungere; e la razionalità funzionale, che, invece, si ha quando il soggetto compie un’azione atta a raggiungere una determinata meta la quale tuttavia gli sfugge nel suo pieno significato (è il caso, ad esempio, del soldato costretto ad eseguire gli ordini oppure il caso di chi svolga le proprie funzioni all’interno di un’attività altamente burocratizzata).
Egli aggiunge che non sempre la razionalità funzionale comporta la razionalità sostanziale, nel senso che l’attività razionale funzionale può essere compiuta nella perfetta ignoranza dei fini da perseguire e del loro valore.  Quanto più una società è industrializzata e quanto più è avanzata la divisione del lavoro e l’organizzazione di essa, tanto maggiore sarà il numero di campi dell’attività umana che saranno funzionalmente razionali ma ciò non comporta un pari sviluppo della razionalità sostanziale e cioè della capacità di connettere intelligentemente i mezzi con i fini.
Agli inizi della società liberale la pluralità di unità economiche relativamente piccole e la libera concorrenza costituivano uno stimolo per l’individuo a deliberare autonomamente sulla base della propria razionalità sostanziale,  la società industriale contemporanea , con le sue grandi organizzazioni, tende a demandare le scelte a un’èlite che rimane remota (in qualsiasi campo). La capacità di razionalità sostanziale tende così a diminuire così come tendono a diminuire le capacità introspettive e l’individuo si trova smarrito di fronte alla forza dell’organizzazione sociale che gli sfugge. La società urbana industrializzata razionalizza sempre più il comportamento dei singoli ma solo nel senso della razionalità funzionale. Secondo Mannheim, sbaglia le Bon a supporre che l’irrazionalità delle masse sia sempre uguale, indipendentemente dalle situazioni storico-sociali, perchè dietro ogni forma razionale o irrazionale nella società umana esiste un meccanismo sociale che stabilisce quando esse deve apparire e sotto quale forma.
Mannheim mette in evidenza la contraddizione propria della società  industrializzata di massa: in quanto società industriale essa realizza il massimo grado di razionalizzazione funzionale (razionalizzazione che dipende da un complesso di repressioni e rinunce alla soddisfazione degli impulsi); in quanto società di massa essa genera tutte le irrazionalità  e gli scopi emotivi caratteristici di tutti gli agglomerati umani amorfi. tale contraddizione si verifica anche nel campo della morale.
Il rimedio a questo stato di cose è indicato da Mannheim nella pianificazione democratica perchè essa implica che le facoltà di analisi razionale, in senso sostanziale, siano estese, attraverso il sistema di educazione e di istruzione, al numero più elevato possibile di membri della società. La scoperta dei condizionamenti sociali non deve portare a conclusioni deterministiche ma, al contrario, è essa stessa possibilità di liberazione in quanto rende realizzabile un controllo della coscienza su di essi.

 

Fonte: http://www.sociologia.uniroma1.it/users/studenti/Riassunti/Storia%20del%20P.Sociologico/LUKACS_E_MANNHEIM.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

Parola chiave google : Karl Mannheim tipo file : doc

 

     La consapevolezza che appartenere ad un gruppo sociale, o  ad una determinata società storicamente e culturalmente determinata, condizioni il modo di osservare il mondo e di dare giudizi di valore su questo, è un problema di vaste implicazioni per il pensiero filosofico e scientifico attuale.
     Il condizionamento sociale del pensiero è certamente un elemento che spinge ad accurate riflessioni perché ci rende conto che il nostro modo di vedere la realtà non è frutto soltanto ed esclusivamente della nostra soggettività ma che ha delle implicazioni oggettive inserite nel contesto nel quale veniamo ad esistere.
     Riflettere sulla realtà per capirne determinati aspetti piuttosto che altri, produrre un certo sapere scientifico anziché un altro, definire una certa tecnologia piuttosto che un’altra, sono fenomeni della cultura condizionati dall’evoluzione complessiva della società. Anche se riflessioni particolari sul mondo della vita, sapere e metodo scientifico, sviluppo di una certa tecnologia influenzano, di ritorno, lo sviluppo stesso della società e del suo modo di costituirsi.            Possiamo certamente dire che esiste un nesso dialettico tra società e modalità del pensiero nonché tra le forme del pensiero storicamente determinate ed il tipo di sviluppo che assume la società nel suo insieme: tuttavia ed in ultima analisi le condizioni dello sviluppo sociale, il modo con cui gli uomini trasformano la natura attraverso il loro lavoro, forma la sovrastruttura ideologica, il modo con cui il mondo viene pensato e le forme con cui viene vissuto.
      E’ nota la concezione di Karl Marx  secondo la quale le situazioni oggettive delle classi sociali, vale a dire il modo con cui gli individui organizzati socialmente trasformano con il proprio lavoro il mondo della natura o della realtà, condizionano il pensiero, così che si creano nell’ambito di una società storicamente determinata  visioni del mondo diverse relative alle classi stesse.
     Ebbene la “sociologia della conoscenza” o Wissenssoziologie è nata come consapevolezza intellettuale e ricerca teorica sulla constatazione che questo nesso tra idee e situazione del contesto storico-sociale sia un dato come problema e come fatto.
     Non è certo nuovo il problema del rapporto tra società e pensiero nel senso di un condizionamento di quest’ultimo da parte della prima. Tuttavia si può certamente affermare che la Wissenssoziologie affronta il problema della socialità e della storicità del pensiero in termini globali ed onnicomprensivi. Non si tratta dunque di denunciare che qualcuno possiede un pensiero più condizionato di un altro perché appartiene ad una diversa classe sociale ma di” prendere atto”, come dato e problema allo stesso tempo, della socialità e della storicità del pensiero e dell’insieme delle nostre prospettive sul mondo.
     Secondo la Wissenssoziologie il pensiero va inteso in stretto rapporto con la situazione storico-sociale da cui sorge tanto da non potersi pensare una modalità del pensiero, così come un linguaggio, che non abbia le proprie radici in un contesto sociale. Dal momento poi che esistono diverse società e diversificati contesti sociali che mutano nel tempo e nello spazio esistono pure diversi stili di pensiero.
Karl Mannheim è uno dei più famosi ed accreditati  studiosi della Wissenssoziologie anche perché egli ha definito in modo piuttosto preciso gli elementi fondamentali di tale disciplina.  La sua opera non è conosciuta soltanto dagli specialisti di questa disciplina perché i suoi interessi culturali si muovono in un ambito molto vasto che va dai problemi della filosofia del neocriticismo e dello storicismo a questioni di psicologia sociale.
     Possiamo distinguere nella sua vita due periodi, anche se appare opportuno non delimitarli in modo troppo schematico. Innanzi tutto nasce a Budapest nel 1893. Tuttavia anche se di origine ungherese crebbe nel clima culturale tedesco e fin dall’inizio dei suoi studi affrontò il problema dello storicismo e delle sue conseguenze epistemologiche. Nel 1922 consegue il dottorato nell’università di Berlino.  Nel 1925 si è già delineato il suo interesse per la sociologia della conoscenza; scrive e pubblica diversi scritti: Historismus, Das Problem einer Sociologie des Wissens etc. Nel 1929 a Bonn esce la sua opera più famosa: Ideologie und Utopie. Insegna all’Università di Francoforte sociologia fin quando,  nel 1933, lascia la Germania nella quale si era delineata la dittatura nazista e si reca a Londra  dove, nel 1936, pubblica la seconda edizione di Ideologia e Utopia. A Londra tenne la cattedra di pedagogia ed insegnò nella London Schhool of Economics e nell’Institute for Education. Il secondo periodo della sua vita al quale si fa riferimento è quella londinese nella quale i suoi interessi culturali si ampliano focalizzandosi soprattutto sui problemi della crisi storica che l’umanità stava attraversando, dei problemi della dittatura e della necessità di un suo superamento attraverso la programmazione e la ricostruzione di un nuovo equilibrio mondiale.
     L’edizione londinese di Ideologia e Utopia risulta ampliata rispetto alla prima edizione ed approfondita in alcuni suoi temi. Muore a Londra nel 1947.

 

 

  1. La  concezione  sociologica  del  pensiero

 

     Mannheim individua subito l’oggetto d’indagine della sua ricerca: “Questo libro ha per argomento il concreto pensiero degli uomini. Scopo di questi studi non è pertanto quello di considerare il pensiero quale appare nei testi di logica, ma di osservare in che modo esso funziona nella vita pubblica e nella politica ovverosia come uno strumento di  azione collettiva”.
L’idea di considerare il pensiero come uno” strumento di azione collettiva” e non come un presupposto teoretico od ontologico differenzia subito Mannheim e la sua ricerca da quella della filosofia tradizionale. Così come oggi si tende a qualificare il linguaggio come una vera e propria azione, come uno strumento che opera sulla realtà esistenziale, umana e sociale, perché capace di variare tali rapporti, allo stesso modo Mannheim considera il pensiero come uno strumento di azione collettiva perché il valore del  nostro pensare ha risvolti pratici collaborando alla modifica della realtà. La modifica della realtà è tanto più incidente quanto più il pensiero stesso è un fatto che coinvolge una molteplicità di individui, è un fatto collettivo.
     I nostri pensieri, come le nostre parole, incidono sulla realtà perché modificano i nostri e gli altrui comportamenti. Dunque non è suo interesse quello di studiare il pensiero come un apparato che produce schemi di conoscenza, soggettivi od oggettivi, ma come un sistema che produce risultati nello sviluppo della società e che la società, con il suo sviluppo, condiziona.
     Ma vediamo meglio la disciplina che sviluppa tale tipo di indagine.  “ La tesi principale della sociologia della conoscenza è che ci sono aspetti del pensare che non possono venire adeguatamente interpretati finché le loro origini sociali rimangono oscure. E’ senz’altro vero che l’individuo pensa. Non esiste sopra o sotto di lui un’entità metafisica, quale ad esempio la coscienza di gruppo, di cui il singolo potrebbe, al più, riprodurre le idee. Nondimeno sarebbe falso dedurre da un tale fatto che le idee ed i sentimenti di un individuo abbiano origine in lui soltanto e possano essere esaustivamente spiegati sull’unica base della sua esperienza.” Allora l’oggetto di indagine della sociologia della conoscenza è il fatto che esistono dei dubbi legittimi non sui pensieri personali di ciascun individuo ma sul fatto che tali pensieri non abbiano altra relazione che con la soggettività personale; che all’origine del nostro modo di produrre determinati pensieri ci sia soltanto la nostra soggettività.
     Infatti:  “ Così come sarebbe scorretto cercare di ricostruire un determinato linguaggio dall’osservazione di un solo individuo, che non parla affatto una lingua sua propria, bensì quella dei suoi contemporanei e di quanti lo hanno preceduto, così è  errato spiegare l’insieme di una qualsivoglia prospettiva intellettuale facendo esclusivamente ricorso alla sua origine nella coscienza del singolo. Solo in un senso del tutto circoscritto l’individuo crea da se il modo di parlare e di pensare che noi gli attribuiamo. Egli parla nella lingua del suo gruppo e, nello stesso modo, egli pensa nel modo in cui pensa il suo gruppo. Egli trova  cioè a sua disposizione certe parole e certi significati. Tali parole e tali significati veicolati dalle stesse parole  determinano, in larga misura, le vie di accesso al mondo circostante ed indicano nel contempo da quale angolo di visuale ed in quale contesto di attività la realtà sia stata fino ad ora compresa da un certo gruppo o dall’individuo.” Dunque come sarebbe impreciso ricostruire un linguaggio, con i suoi significanti ed i suoi significati, sentendo parlare un solo essere umano che ha imparato dagli altri esseri umani che lo hanno storicamente preceduto  tale linguaggio, allo stesso modo è impreciso ritenere che ciascuno di noi formuli dei pensieri, delle sensazioni, ignorando il fatto che anche noi abbiamo imparato da altri le cose che si pensano, che si possono provare e le situazioni che determinano tali pensieri. Se la società nella quale siamo venuti a nascere non conoscesse l’istituto matrimoniale nessuno di noi penserebbe di poter diventare padre o madre; ed al pari nessuno di noi penserebbe ad un periodo della vita nel quale sarebbe uno studente se la nostra attuale società non conoscesse l’istruzione di massa e la scolarizzazione conseguente. Venendo a mancare queste prospettive nei nostri pensieri, così come nel nostro linguaggio, la prospettiva o l’angolatura sotto cui osserviamo la nostra vita ed i nostri comportamenti sarebbe certamente diversa!  Nessuno si attrezzerebbe nella vita per diventare padre o madre e nessuno farebbe degli studi per essere un insegnante. Ebbene la Wissenssoziologie cerca  di cogliere le modalità del rapporto che esiste tra i nostri modi di pensare e le forme sociali presenti nella nostra cultura.
“ Il primo punto da mettere subito in evidenza è che la sociologia della conoscenza non parte di proposito dal singolo individuo per poi procedere, come fanno i filosofi, alle cime  astratte del pensiero come tale. Piuttosto la sociologia del sapere cerca di comprendere il pensiero all’interno di una situazione storico-sociale, da cui la riflessione individualmente differenziata emerge solo per gradi. Pertanto non dobbiamo credere che siano gli uomini in generale, o le persone isolate, a pensare, ma piuttosto gli uomini che, inseriti in certi gruppi, hanno poi sviluppato un particolare stile di pensiero e caratterizzato la loro posizione attraverso un progressivo adattamento a determinate situazioni tipiche.”  Mannheim sottolinea subito e con forza ciò che differenzia la sociologia della conoscenza dal rimanente e costituito pensiero filosofico: Essa non parte dall’individuo singolo per poi porsi il problema del pensiero nella sua possibilità di attingere un’astratta oggettività! Viceversa da per scontata la realtà del pensiero e delle forma operative nel quale esso si determina soggettivamente andandone a trovare la genesi nel contesto sociale ed osservandone il rapporto con i gruppi che si formano nelle società storicamente determinate.
     Dirà infatti Mannheim: “ A rigore non è corretto dire che il singolo individuo pensa. E’ molto più esatto affermare che egli contribuisce a portare avanti il pensiero dei suoi predecessori. Egli si trova ad ereditare una situazione in cui sono presenti dei modelli di pensiero ad essa  appropriati e cerca di elaborarli ulteriormente, o di sostituirli con altri, per rispondere nel modo più conveniente alle nuove esigenze nate dai mutamenti e dalle trasformazioni occorse nella realtà. Ogni individuo è dunque predestinato in duplice senso dal fatto di nascere e di crescere in una determinata società: da un lato egli trova una situazione ampiamente costituita e dall’altro egli ha a che fare con dei modelli già formati di pensiero e di comportamento.”Come il linguaggio che un individuo parla è il frutto di una sedimentazione storica di significati già pronti e già dati, nello stesso modo ciascuno di noi eredita modelli di pensiero adeguati alla società che viene ad abitare che egli elaborerà ulteriormente per rispondere in modo adeguato alle nuove condizioni che si presentano e ai mutamenti del contesto storico sociale stesso.
     Il contesto storico-sociale nel quale il soggetto si viene a trovare determina le modalità del pensiero che egli troverà; pertanto  “ La tesi che il processo storico sociale sia di grande importanza per la maggiore parte dei domini del conoscere riceve un appoggio dal fatto che noi riusciamo a capire da molte delle concrete affermazioni degli uomini quando e dove esse nacquero, quando e dove furono formulate. La storia dell’arte ha definitivamente mostrato che le varie espressioni artistiche possono essere datate a seconda del loro stile, in quanto ciascuna di esse è possibile in determinate condizioni storiche e rivela le caratteristiche di quella epoca. Ciò che è vero dell’arte vale, mutatis mutandis, anche per la conoscenza! Come per l’arte possiamo datare particolari forme di questa sulla base del loro rapporto effettivo con un particolare periodo storico, così anche nel caso del  sapere noi possiamo riconoscere con crescente esattezza la prospettiva dovuta ad un particolare ordine storico………………….  La prospettiva  significa in questo senso  la maniera in  cui si osserva un oggetto, ciò  che si  percepisce di esso e come lo si interpreta nel nostro pensiero! Così come per l’arte è possibile determinare l’appartenenza di un oggetto ad una determinata epoca storica a partire dal suo stile, allo stesso modo è possibile determinare una forma di pensiero in rapporto alla prospettiva che una data epoca storica possedeva. Infatti ogni epoca storica costruisce un sua prospettiva, vale a dire un modo con cui si osservano gli oggetti, come li si percepisce e come li si interpreta. Dunque ogni epoca storica si caratterizza per la prospettiva con cui osserva gli oggetti della realtà. E dalla prospettiva con la quale gli oggetti vengono osservati si può dedurre l’età in cui tale forma di pensiero si è determinata.
     Affermare che non si da forma di pensiero senza un contesto sociale, così come non si può pensare un linguaggio che non sia costruito per rivolgersi a qualcuno, è dire già molto ma appare opportuno specificare cosa si intende per” contesto sociale” e per  “ pensiero”.     Orbene Mannheim in Ideologie und Utopie concepisce il pensiero nel senso più vasto, in qualsiasi sua espressione; mentre il contesto sociale è concepito in termini di attività collettiva!  Tuttavia quando il discorso di Mannheim si fa più specifico e deve entrare nei particolari il contesto sociale viene definito come l’insieme di interessi che uniscono o dividono gli individui in gruppi a seconda dell’attività che essi svolgono nell’ambito della struttura  economico-politica di una società.
     Appare allora l’influsso esercitato su Mannheim dalla teoria dell’ideologia di Karl Marx. E’ nota la concezione di Karl Marx secondo cui le condizioni oggettive delle classi sociali ne condizionano il pensiero così che si creano nell’ambito di una società visioni del mondo diverse relative alle classi. La classe sociale rappresenta un’entità reale nell’ambito della società, con una sua particolare visione della vita in rapporto dialettico con i propri interessi economici. La concezione marxista appare dunque come una vera e propria interpretazione sociologica della realtà.  Però, secondo Mannheim, l’interpretazione marxista del rapporto tra classe sociale e forme del pensiero non coglie la portata generale della  sociologia della conoscenza perché usa “politicamente” tale scoperta per smascherare il condizionamento dell’avversario. Pertanto Marx, anche se è giunto alla concezione totale dell’ideologia, non è giunto alla concezione sociologica della conoscenza.
     Solo quando si esamina qualsiasi concezione del mondo in termini sociologici, cioè la si considera ipoteticamente condizionata in modo specifico dal contesto sociale, si giunge al problema della sociologia della conoscenza. Dal punto di vista sociologico non vi è motivo di considerare le concezioni particolari o la visione del mondo della classe avversaria condizionate socialmente in misura superiore alle proprie. Va comunque brevissimamente rilevato che Marx era pienamente cosciente del fatto che le espressioni della classe proletaria erano tanto condizionate socialmente quanto quelle della classe borghese. Il fatto è che per Marx il problema della sovrastruttura ideologica non è un problema “speculativo”, teoretico, ma un fatto pratico-politico. La classe borghese che nella società capitalistica detiene il potere è condizionata a pensare in termini di conservazione dello status  quo, dell’ordine costituito, che le permette di mantenere il potere; la classe proletaria, che non detiene il potere, è invece condizionata a cercare di mutare l’ordine costituito per ottenere quel potere. L’ottenimento di tale potere non è comunque una scelta di parte egoista: il cambiamento, il movimento dialettico della storia, sono secondo Marx il presupposto di un maggiore progresso.

 

 

 

     2) Pensiero ed attività collettiva

 

Il rapporto tra l’attività del pensiero e l’attività collettiva viene da Mannheim così specificata: “ Gli uomini non si limitano, come membri di un gruppo, a coesistere gli uni accanto agli altri.  Essi…………….non si comportano come esseri solitari. Al contrario agiscono e interagiscono l’uno con l’altro all’interno  di gruppi differentemente organizzati, ne diversamente procede il loro pensiero. Tali persone lottano per cambiare il circostante mondo della natura e della società o tentano di conservarlo in una determinata condizione, in conformità con il carattere e la posizione dei gruppi a cui appartengono. E’ proprio questa volontà, innovatrice o conservatrice del gruppo di appartenenza, a guidare i loro problemi, i loro concetti e le loro forme di pensiero.  A seconda del particolare  tipo di attività collettiva a cui prendono parte  gli uomini tendono sempre a vedere il mondo che li circonda in modo diverso.”    Se dunque la società, o le società storicamente determinate, hanno nel loro interno dei gruppi diversi che diversamente lottano per modificare il mondo naturale e sociale attorno a loro, chi volendolo cambiare e chi desiderando che le cose non mutino,  proprio queste differenze portano  ciascun individuo a vedere il mondo circostante in modo diverso. E così Mannheim continua: “ E’ del tutto erroneo pensare che l’individuo riesca ad elaborare una concezione del mondo procedendo dai soli  dati della sua esperienza. Non possiamo neppure credere che egli confronti  la propria con le idee degli altri, egualmente costruite in modo indipendente e che quindi, dopo una specie di discussione, venga alla luce la vera concezione del mondo e questa sia accettata da tutti. Contro una tale tesi è molto più legittimo scorgere nella conoscenza, fin dall’inizio, un processo cooperativo che nasce dalla vita del gruppo, dove ciascuno sviluppa il proprio sapere sullo sfondo di un fine e di un’attività comuni e superando le medesime difficoltà. Di conseguenza i risultati del processo cognitivo sono già, almeno in parte, differenziati, in quanto non tutti gli aspetti del mondo entrano nella prospettiva dei membri di un gruppo, ma solo quelli che pongono al gruppo delle difficoltà e dei problemi specifici.  Anche questo mondo comune appare differente ai gruppi subordinati, inseriti in una società più vasta. Esso appare diverso perché i gruppi subalterni hanno, in una società funzionalmente differenziata, una diversa esperienza della medesima realtà.”  In ultima analisi il processo di formazione del pensiero, più che fare riferimento ad un astratto confronto tra membri diversi di una determinata società, è da addebitarsi ad un processo cooperativo all’interno dei gruppi sociali che si determinano all’interno di una certa società storicamente determinata.
     Per quanto riguarda la specificità del rapporto tra struttura sociale e forme del pensiero Mannheim così sottolineerà il rapporto: “ Se si dovesse rintracciare per ogni singolo caso  L’ORIGINE ed il RAGGIO DI DIFFUSIONE di un certo modello di pensiero si potrebbe scoprire la particolare affinità che esso ha con la posizione sociale di dati gruppi e la loro maniera di interpretare il mondo. Con questi gruppi noi non intendiamo semplicemente le classi, come vorrebbe ritenere un tipo dogmatico di marxismo, ma anche le generazioni, i ceti, le sette, i gruppi di lavoro, le scuole, ecc. Se non si prestasse una scrupolosa attenzione a questi gruppi altamente differenziati e alle “diversità” corrispondenti nell’ordine dei concetti, delle categorie, dei modelli, se il problema della relazione tra sovra e sottostruttura non fosse approfondito a dovere, sarebbe impossibile dimostrare come alle molteplici forme di pensiero che sono apparse nel corso della storia corrispondono uguali differenze nella struttura della società. Beninteso noi non intendiamo negare che di tutti i raggruppamenti e di tutte le unità sociali summenzionate la “classe” sia la più importante. In ultima analisi tutti gli altri gruppi sociali  nascono e si trasformano in rapporto alle più fondamentali condizioni della produzione e del potere. Nondimeno lo studioso che davanti alla varietà dei tipi di pensiero cerchi di determinarli rigorosamente non può appagarsi di un concetto indifferente alla classe ma deve fare i conti con le unità sociali esistenti ed i fattori che comunque condizionano una posizione in società.”
     Dunque il nucleo da osservare per determinare i diversi stili di pensiero è la società nel suo insieme! Tuttavia Mannheim non può sottolineare che, in ultima analisi, è la classe sociale quella che determina i modelli più organicamente ideologici.

 

 

 

 

 

  1. Ideologia ed Utopia.

     Il titolo stesso dell’opera principale di Mannheim, Ideologie  und Utopie, esplicita il nucleo teorico della ricerca del Nostro

     Al centro della riflessione sono posti questi due concetti, queste due categorie che formano un originale paradigma interpretativo,  che esprimono la dinamica stessa a cui si può  ridurre la dialettica di ogni società storicamente determinata e di ogni successivo sviluppo od entropia.
     L’ideologia,  secondo un significato  molto estensivo, è l’insieme delle asserzioni coordinate allo schema prevalente che assume una determinata società. Sono le proposizioni, i pensieri, gli stili di pensiero ed i concreti comportamenti che rappresentano i valori egemonici di una determinata società. Sono ragionamenti di integrazione e di conformità.
     Così ad esempio nella nostra società sono valori egemonici la produzione delle merci ed il loro consumo. Da ciò derivano tutti i pensieri ed i comportamenti che rientrano, direttamente o indirettamente, coscientemente o inconsciamente, in questo paradigma.  Ad esempio: il clima della terra è sottoposto ad una rapida mutazione a causa dell’inquinamento industriale e di altre attività antropiche connesse allo sviluppo industriale! Occorre applicare al sistema un insieme di strategie atte a ridurre l’impatto dell’inquinamento sull’ambiente: l’uso di depuratori! Ma tali strategie hanno dei costi che riducono i margini del profitto e per mantenere elevato il saggio di interesse e la produzione delle merci o non si applicano i depuratori oppure si licenziano dei lavoratori; oppure si rimuove il problema e poi si vedrà. Ma se si vendono meno merci l’insieme dell’economia, e dunque il sistema stesso, entra in crisi: vi sono individui e intere classi sociali che temono più la crisi del sistema, il quale bene o male garantisce un certo benessere ed una certa gratificazione e/o sicurezza che uno sconvolgimento mondiale dei cicli naturali ed un’entropia generalizzata. Ed è per tale motivo che continuiamo a produrre e a consumare perché, al di là di tale modo di concepire l’esistenza, non riusciamo a pensare. Non riusciamo ad intravedere alternative: ed è questo il mondo del pensiero ideologico. L’ideologia è il paradigma del pensiero così legato al potere costituito da non riuscire a scorgere alternative alla situazione del momento.  Dirà Mannheim: “ Il concetto di ideologia riflette una scoperta che è venuta emergendo dalla lotta politica; vogliamo alludere alle convinzioni e alle idee dei gruppi dominanti, le quali sembrano congiungersi così strettamente agli interessi di una data situazione da escludere qualunque comprensione dei fatti che potrebbero minacciare il loro potere. Con il termine  ideologia  noi intendiamo affermare che, in talune condizioni, i fattori inconsci di certi gruppi  nascondono lo stato reale della società a sé e agli altri e pertanto esercitano su di esso una funzione conservatrice”.  Mannheim insiste sull’elemento inconscio e comunque non consapevole del meccanismo della costruzione ideologica.  Ma specifica in modo altrettanto preciso la “funzione conservatrice” dell’ideologia!  L’ideologia infatti tende a conservare, nel momento in cui l’esprime, l’assetto della società di cui essa è espressione e prodotto.
     Contrapposta all’ideologia è  l’utopia!
Il concetto di utopia nasce nella cultura moderna da un testo di Thomas More così titolato nel quale si raccontano le condizioni di vita di un’isola sconosciuta, chiamata appunto Utopia, che possiede istituzioni diverse e migliori di quelle esistenti nelle altre società reali.  Tuttavia il significato di tale isola felice e diversa dalle rimanenti società è quello di “luogo che non c’è!” ovverosia “ciò che non si trova in nessun luogo” (ou topos: non-luogo).  Con tale termine si è indicata successivamente La Repubblica di Platone o La Città del Sole di Campanella! Questo perché tanto La repubblica di Platone quanto La città del sole di Campanella rappresentavano condizioni sociali non realizzate storicamente da alcuna società. Erano paradigmi teorici di strutture sociali-economiche nelle quali si realizzavano principi sociali e politici diversi dalla normalità perché finalizzati alla prospettiva di una società migliore per la realizzazione dell’umanità. Platone stesso afferma che la sua Repubblica non è mai stata realizzata e che forse è irrealizzabile: ma che tuttavia rappresenta una idea limite, un modello teorico, che indica un possibile sbocco alla crisi della democrazia ateniese e ad una migliore realizzazione dell’umanità intera.
      Pertanto il termine utopia ha assunto una valenza piuttosto negativa ad indicare ogni ideale politico, sociale o religioso di difficile o impossibile attuazione. Tuttavia, grazie soprattutto a Mannheim e ad altri sociologi, il termine ha assunto anche il significato di aspirazione al rinnovamento di una realtà insoddisfacente, proponendosi come spinta ideale che sostiene un’autentica volontà innovatrice.
     Mannheim infatti usa questo concetto di utopia nel senso dell’insieme dei ragionamenti di negazione che caratterizzano una parte della società stessa. Infatti dato il fatto che nelle società storicamente determinate convivono più classi sociali, quelle non egemoni, non partecipi ai processi di integrazione e di stabilizzazione, tendono a negare alcune, o l’insieme, delle concezioni del mondo predominanti nell’interesse della classe egemone.
     Dirà infatti Mannheim: “Il concetto di utopia pone in luce una seconda e del tutto opposta scoperta: esistono dei gruppi subordinati, così fortemente impegnati nella  distruzione e nella trasformazione di una determinata condizione sociale, da non riuscire a scorgere nella realtà se non quegli elementi che essi tendono a negare. Il loro pensiero è incapace di una diagnosi corretta della società presente. Tali gruppi non si occupano affatto di ciò che realmente esiste, bensì cercano con ogni mezzo di mutarlo. Il loro pensiero non è mai un quadro obiettivo della situazione ma può essere usato soltanto come una direzione per l’azione. Nella mentalità utopica l’inconscio collettivo che è mosso essenzialmente dai progetti per il futuro e da una decisa mentalità pragmatica, finisce con il trascurare certi aspetti della realtà. Esso volge le spalle a quanto potrebbe minacciare la sua convinzione profonda o paralizzare il suo desiderio di rivoluzione.”
     Ideologia e utopia appaiono dunque come una condizione dell’equilibrio sociale che permette ad ogni società di oscillare tra  mantenimento degli equilibri costituiti e spinte verso il cambiamento. Tuttavia se nelle società storicamente determinate prevalessero soltanto le forze della conservazione, ideologiche, si andrebbe irrimediabilmente verso l’entropia, la stagnazione e la crisi: fatto che storicamente si è spesso verificato con le grandi civiltà del passato. Quando una civiltà non riesce a rinnovarsi finisce con l’esaurire la propria spinta al mantenimento e per estinguersi.
    Se immaginiamo una società come una struttura fisica nella quale agiscano forze dinamiche che ne mantengono la coesione possiamo pensare la stessa come un sistema fisico che per mantenersi impiega una certa quantità di energia; ma tale energia, se non è rinnovata, si disperde nell’ambiente circostante determinando uno stato di entropia sociale: la società non è più in grado di rispondere all’insieme delle richieste degli individui o dei gruppi. La complessità dei vari sistemi sociali storicamente determinati non trova risposte adeguate. L’ideologia, come sistema di integrazione nel sistema costituito, non è più capace di creare rinnovamenti: si ha una stagnazione economica frutto a sua volta di una stagnazione teorica o progettuale che dire si voglia. Se non intervengono “utopie”, ragionamenti di negazione al sistema costituito, nuovi progetti per rendere disponibili svolte rinnovatrici, cancellare ordini costituiti e proporre alternative, il sistema nel suo insieme finisce per collassate su se stesso: entra nella sfera dell’entropia, del disordine e del conseguente caos sociale.
     E’ proprio la funzione della negazione, dell’utopia, quella di correggere un sistema ed all’occorrenza negarlo per costruirne uno nuovo!
     Proprio in questa prospettiva di rinnovamento sociale-strutturale va letto il senso progressista che Mannheim attribuisce all’utopia. Le società storicamente determinate ad un certo punto del loro sviluppo evocano al loro interno processi mentali di critica cosciente, consapevole, che tendono a negare l’esistente costituito a favore di alternative nuove che permettono di rinnovare il sistema e di dare eventuali risposte ai nuovi bisogni, ai nuovi interessi che si vanno determinando. L’utopia appare pertanto la molla del cambiamento e delle trasformazioni che impediscono ad una società l’entropia attraverso il rinnovamento. Il senso mannheiano dell’utopia è il significato “progressista”  di ogni rinnovamento fondato storicamente e razionalmente. Pertanto il termine utopia assume una connotazione positiva che non significa programma privo di concretezza ed impossibile ma piuttosto spinta ai cambiamenti che rendono possibile un nuovo sviluppo della società. Se l’ideologia tende a mantenere le forme costituite l’utopia tende alla variazione ed al cambiamento.





 

  1. I fattori storici della nascita della Wissenssoziologie

 

     A Karl Mannheim non sfuggì il fatto che la disciplina con la quale egli si misurava intellettualmente era anche essa il prodotto sociale di un processo di sviluppo storico che richiedeva una analisi delle condizioni del condizionamento del pensiero. In altri termini come mai degli studiosi si erano posti il problema del condizionamento sociale del pensiero in una certa e determinata epoca  storica; quali processi sociali avevano indirizzato verso lo studio e l’analisi dei fenomeni sociali che condizionano i modi del pensiero.
     Egli così esprimerà la sua consapevolezza: “ Non è affatto un caso che il problema delle origini sociali e pratiche del pensiero sia emerso con la nostra generazione. Né è un caso che i fattori inconsci che hanno fino ad ora condizionato il nostro pensiero e la nostra attività siano stati portati, un poco alla volta, ad un livello di consapevolezza  e resi quindi accessibili al controllo razionale.  Mancheremmo al nostro scopo se non ci rendessimo conto che  la riflessione sulle radici sociali del nostro sapere deriva da una particolare condizione della società. E’ una delle fondamentali tesi della  Sociologia della conoscenza che il processo per cui i motivi collettivi  inconsapevoli divengono espliciti avviene solo in  una particolare situazione e non in qualsiasi epoca e condizione storica-culturale. Questa situazione è sociologica mente  determinabile.  Possiamo infatti individuare, con relativa precisione, le condizioni che spingono le persone a riflettere più sul pensiero che sulle cose del mondo e mostrare come, in questo caso, non tutto si faccia questione di una verità assoluta, quanto del fatto, in se allarmante, di una stessa realtà che appare diversa a differenti osservatori”.
Abbiamo riportato per intero questo brano di Ideologia ed utopia perché esprime una problematica storico-culturale rilevantissima per la Sociologia della conoscenza. Infatti uno dei presupposti metodologici di tale disciplina è che le forme e gli stili di  pensiero  nascono come risposta a ben determinate condizioni storiche e sociali: non si da pensiero senza contesto sociale! Anche l’attività “critica” che si sviluppa riflettendo coscientemente sulle condizioni della realtà e sui modi con cui questa viene costruita è socialmente indotta e determinata. In particolare, afferma Mannheim, l’attività dell’analisi concettuale emerge quando si ha coscienza che fatti uguali possono essere  interpretati in modo diverso. Quando il contesto sociale assume consapevolezza di ciò scatta il metodo della riflessione sulle cose piuttosto che sull’accettazione passiva delle stesse. Quando cominciamo ad avere consapevolezza che esistono una pluralità di interpretazione sulla realtà cominciamo ad non accettare più le cose come sono date dalla nostra sociocultura e cominciamo a riflettere sul come tutto ciò sia possibile. La sociologia della conoscenza è il prodotto culturale della consapevolezza che esistono modi diversi di leggere e di commentare la realtà. Wittgenstein afferma che la filosofia comincia con la frase: “non mi ci raccapezzo!”, vale a dire mi accorgo che esiste un problema a cui non riesco a dare immediata soluzione e risposta. Proprio in quel momento nasce un processo mentale con il quale cerco di rendermi conto di come stanno le cose. In modo quasi analogo Mannheim afferma che il pensiero riflessivo comincia quando ci rendiamo conto che esistono modi diversi di interpretare gli stessi fatti. Ebbene, da un punto di vista sociologico, quando avviene questa consapevolezza? Secondo Mannheim in primo luogo quando all’interno di una società prevalgono  elementi di disaccordo: se siamo in accordo sui fatti e sulla disposizione delle cose, se accettiamo l’ordine esistente, non abbiamo motivo per cominciare ad accorgerci che alcune cose non funzionano. Dirà Mannheim: “ Finché i significati delle parole e i modi del ragionamento permangono gli stessi per ogni membro del gruppo una divergenza del pensiero non può esistere in quella società”.
     Fino a quando le forze di condivisione rimangono forti non ci si accorge delle diverse prospettive e l’individuo si trova perfettamente integrato nel gruppo e nella Weltanschauung che questo esprime.
     Affinché la molteplicità dei modi del pensiero riesca ad essere percettibile e diventi un argomento di riflessione occorre  che  si sviluppi la mobilità sociale in verticale oltre a quella orizzontale.

“E’ anzitutto l’intensificarsi della mobilità sociale a distruggere l’illusione, dominante nelle società statiche, secondo cui ogni cosa può mutare ma il pensiero rimane eternamente lo stesso. Comunque le due forme della mobilità sociale, l’orizzontale e la verticale, contribuiscono in differente maniera a rivelare  questa molteplicità dei modi del pensiero. La mobilità orizzontale ci mostra che i vari popoli o gruppi pensano in maniera diversa…………………………Solo quando la mobilità orizzontale è accompagnata da un’intensa mobilità verticale, cioè da un rapido movimento tra i diversi strati nel senso di un’ascesa o di un declino sociale, la fiducia in una eterna e generale validità delle proprie forme di pensiero viene spezzata. La mobilità verticale contribuisce in modo decisivo a rendere le persone incerte e scettiche nei confronti della loro tradizionale concezione del mondo.”
Dunque alla radice della nascita della  Sociologia della conoscenza vi è un’epoca storica caratterizzata dalle forze della disgregazione dovute alla rapidità della mobilità sociale, soprattutto verticale, che permette agli individui di accorgersi dell’esistenza di diverse prospettive con cui è possibile osservare le cose e la realtà e che li obbliga ad una riflessione su questa consapevolezza. In una società statica e con scarsa mobilità sociale è difficile che ci si accorga delle differenze relativa all’osservazione delle cose.
     Se provengo da una famiglia contadina e trascorro tutta la vita a contatto con la natura, con i ritmi ripetitivi e ciclici del mio lavoro di coltivatore, finirò inconsapevolmente con il ritenere che tutte le cose del mondo abbiano una loro ciclicità e che i problemi del mondo intero sono quelli delle poche persone che frequento saltuariamente nel mio piccolo paese. Ma se mando mio figlio a scuola nel paese viciniori; se questo si accultura e viene in contatto con problematiche diverse, magari apprese sui libri o dai suoi insegnanti o dai compagni che non provengono solo da famiglie contadine; se infine mio figlio decide di dedicarsi agli studi universitari di agraria nell’università della vicina città, alla fine egli si troverà a capire che le verità, i ritmi della natura o il senso del piacere, del tempo libero, delle stesse tecniche e dei problemi della vita non si risolvono in una unica prospettiva già data e costituita una volta per tutte in un orizzonte limitato. Acquisterà piuttosto una visione allargata e molteplice dei problemi della vita e si renderà conto che esistono molte soluzioni possibili e differenziate: dopo di che assumerà coscienza e consapevolezza della molteplicità dei punti di vista e delle soluzioni possibili. Diventerà scettico ed insicuro rispetto alle soluzioni di cui prima disponeva in modo quasi acritico. Si porrà interrogativi e finirà di immaginare il mondo come un continuum scontato e rassicurante.

 

 

 

  1. Il condizionamento sociale del pensiero ed il problema della libertà

Una delle parti dell’opera di Mannheim che contiene più implicazioni filosofiche è certamente quella che fa riferimento alla problematica emersa da tutto l’ambito di studio della Wissenssoziologie. Infatti se il pensiero è comunque condizionato dai modi di essere storico-sociale  quale spazio resta alla libera scelta dell’individuo? Ed ancora: in una società che determina ideologicamente i modi di pensare e di interpretare il mondo fino a quale punto l’individuo può sentirsi autonomo nella sua soggettività di scelta; oppure nelle sue responsabilità etiche e morali?
     Insomma il problema del condizionamento sociale del pensiero attraverso l’ideologia che ci integra, in modo spesso per noi inconsapevole, all’interno dei valori sociali costituiti, si riversa all’interno della condizione umana mostrando non pochi interrogativi consequenziari e fortemente problematici.
    In questa sede non possiamo dilungarci approfondendo in pieno la portata del problema. Tuttavia la risposta dello stesso Mannheim può già considerarsi uno spunto di riflessione, o di soluzione, non indifferente. Egli così si esprime sul problema: “ Noi diventiamo padroni di noi stessi quando le cause inconsapevoli che, prima di saperle, ci erano nascoste,irrompono improvvisamente nel dominio della conoscenza e si prestano ad una direzione razionale. L’individuo raggiunge un sapere obiettivo……………………….. attraverso l’esame ed il confronto di se medesimo. Criterio di tale presa di coscienza è che non solo la realtà ma  noi stessi diventiamo oggetto di una possibile conoscenza. In alti termini scopriamo noi stessi non già come astratti soggetti pensanti ma come uomini direttamente impegnati e coinvolti in una situazione fino a qui sconosciuta e premuti da condizioni di cui prima non eravamo consapevoli………………….Di qui il paradosso che sta alla base di queste esperienze secondo cui la possibilità di emanciparci, seppure in modo relativo, dalle determinazioni della società cresce in proporzione alla conoscenza che ne abbiamo.”
      E’ certamente vero che attraverso le indagini della sociologia della conoscenza noi perveniamo alla conoscenza che il nostro modo di pensare la realtà subisce dei condizionamenti! Ma è altrettanto vero che questa consapevolezza ci permette di stare attenti, e di operarne un controllo critico, a quegli stessi condizionamenti e di tenerli sotto controllo in modo tale che questi non ci sopraffacciano a nostra insaputa e non possano agire operando in modo per noi incontrollabile. Dunque non si può non giungere all’affermazione secondo cui prendere coscienza dei fattori che “determinano” il pensiero conduce certamente ad un maggiore grado di libertà in quanto tali fattori agiscono come forze incontrollate fin quando non vengono portate al livello della coscienza ed a tale livello è possibile un certo margine di controllo su di essi, una certa libertà da essi. Solo la consapevolezza che alle nostre spalle si muovono forze che costringono l’orizzonte delle nostre scelte ci rende più autonomi perché capaci di eseguire un controllo su tali stesse forze.
     Dirà a tale proposito Mannheim che:  “ Le persone che più discorrono dell’umana libertà sono poi quelle che finiscono con l’essere più soggette alla determinazione sociale:  esse sono infatti lungi dl sospettare in quale elevata misura la loro condotta sia condizionata da specifici interessi. Diversamente da costoro sono proprio coloro che insistono sull’influenza, spesso non percettibile, esercitata dai fattori sociali sul comportamento,  a cercare di superarli. Essi intendono scoprire i motivi inconsci della condotta per trasmutare queste forze in oggetti di consapevole decisione razionale.”
Connesso al problema della  “libertà” è il tema  “dell’intellighentsia”, vale a dire il ruolo e la funzione che hanno gli intellettuali all’interno delle società contemporanee. Ruolo tanto nella creazione del livello ideologico quanto nella  produzione dell’utopia.
     Mannheim ritiene che la persona culturalizzata partecipa alle varie tendenze ed alle diverse pressioni sociali non limitandosi soltanto ad integrarsi, ad assorbire la Weltanshauung di un gruppo particolare al quale egli appartiene. Questo perché gli intellettuali, in epoca soprattutto contemporanea, vengono reclutati da settori molto ampi della vita sociale. Soprattutto con l’ascesa della borghesia questo processo si viene ad accentuare e la classe degli intellettuali, di coloro cioè che lavorano producendo apparati concettuali sia scientifico-tecnici che umanistici, viene captata da classi diverse. La collocazione sociologica di tale classe è piuttosto particolare. Infatti: “ Sebbene sia situato tra le classi  tale ceto non costituisce una formazione di centro. Non che codesto gruppo sia sospeso in un vuoto sociale dove non penetrano degli interessi sociali; al contrario esso accoglie in se tutti quei fermenti di cui la vita della società è permeata”.
     Questo significa che in questo ceto vi è una grande ricchezza ed un pieno riconoscimento della diversità delle prospettive esistenti in un contesto sociale storicamente determinato. La classe degli intellettuali dunque ha una conoscenza delle diverse prospettive che esistono nella società e non è aprioristicamente legata a nessuna prospettiva rigidamente ideologica. In questo senso essi hanno maggiore consapevolezza delle prospettive relative degli altri ed anche  della loro particolare prospettiva di sapere vedere  un insieme diversificato di prospettive.   Pertanto subiscono meno il condizionamento, perché ne sono consapevoli, ed ottengono margini di maggiore liberta ed autonomia dagli stessi condizionamenti.
      La concezione mannheiana per la quale la consapevolezza di fattori che condizionano il nostro pensiero ed il nostro agire ci permette di esplicare una maggiore autonomia rispetto al fatto di non saperlo, e di ottenere così un maggiore grado  di autonomia e libertà, è certamente vicina a quello di un altro grande intellettuale dell’epoca contemporanea:  Sigmund Freud.
      Anche la concezione di Freud si fonda sull’idea che esiste un livello inconscio della nostra personalità, formato dalle pulsioni primarie, che costituisce una serie  di idee,  di comportamenti che spesso sfuggono alla nostra comprensione. Ciò perché non ci rendiamo conto da dove provengano quelle idee, quelle sensazioni, quelle immagini e quei comportamenti che tanto spesso ci lasciano interdetti e magari sconcertati ed impauriti. Il fatto è che il livello del “ logico” e del ” razionale” non è che una punta di quel continente sommerso formato dall’insieme delle nostre pulsioni primarie, biologiche e dovute al nostro vissuto infantile. Il continente dell’inconsapevolezza emerge di tanto in tanto proponendoci idee, sensazioni e desideri che mai sospetteremmo che albergassero in noi. Dunque fin tanto che tali pulsioni vengono represse nell’inconscio noi non possiamo controllarle: ma  quando ne otteniamo conoscenza analizzando noi stessi o conoscendo le nostre sofferenze coscienti, possiamo meglio controllarle, magari non soffocandole con la censura e con la pressione del superio.
     Dunque, sia pur partendo da due ambiti disciplinari differenti, tanto Freud quanto Mannheim convergono nel fatto che una cosa conosciuta permette un controllo maggiore che ci rende certamente più liberi ed indipendenti.

 

 

 

  1. L’epistemologia: la verità, il relazioniamo ed il relativismo

L’ultimo tema rilevante, soprattutto all’interno dell’ orizzonte filosofico,  appare certamente quello legato ai problemi dell’epistemologia mannheiana.
     Se infatti appartenere ad un gruppo, ad un contesto sociale, significa essere condizionato in talune forme del proprio pensiero, ciò comporta il correlato di una libertà limitata nell’orizzonte delle possibilità storicamente realizzate. L’unica possibilità che permette un certo controllo sui condizionamenti operanti a nostra insaputa è di avere consapevolezza di questi condizionamenti e di poterli, così, in qualche modo controllarli e tenerli a bada. Questo avviene con una certa frequenza nell’ambito dell’intellighentsia, della classe cioè degli intellettuali, i quali provenendo da classi diverse, percepiscono meglio degli altri la pressione sociale e cercano di restarne all’esterno preservando così una sfera  più ampia di libertà. Tuttavia se si individua un condizionamento sociale del pensiero il corollario più evidente è che non si possa parlare di una libertà assoluta, vale a dire etimologicamente “sciolta” dalle coordinate storico-sociali, ma che si debba parlare di una libertà relativa ai contesti sociali e culturali nella misura in cui siamo vigili e consapevoli che questi condizionamenti esistono e che dobbiamo tenerli a bada con il nostro pensiero critico.
     Ma accanto al problema della “libertà”  si affianca quello della “verità”. Dal momento che i contesti sociali sono molti e diversificati sono i conseguenti “stili di pensiero” come si può stabilire chi  ha ragione e chi non ha ragione, chi vede le cose nel giusto modo e chi li vede in modo sbagliato o comunque parziale? Mannheim avverte il bisogno di fare chiarezza su questo problema cruciale della Wissenssoziologie, di definire il problema della possibile verità.
     Egli segue un discorso estremamente lucido e coerente sotto il profilo della logica della sociologia della conoscenza.  Infatti: “…..il fatto che ogni misura nello spazio dipende dalla natura della luce e dalla sua velocità non significa che le nostre misure siano arbitrarie quanto piuttosto che esse sono valide in relazione alla luce; allo stesso modo è il “relazionismo”, e non già il relativismo e l’arbitrarietà in esso implicita, che si applica alle nostre discussioni. Il relazionismo non significa che manchino criteri di verità nella discussione. Secondo esso  è proprio della natura di certe affermazioni il non potere venire formulate in assoluto, ma solo nei termini della prospettiva posta da una determinata situazione.”
     Secondo il “relazionismo” il significato di una proposizione, di un discorso o di una azione, è correlato alla situazione nella quale si determina il significato della proposizione, dell’azione o del discorso. Se i tempi storici e le condizioni dell’evoluzione sociale non permettono a due persone di divorziare, e dunque debbono scegliere altre strategie di comportamento, ciò non significa che il problema dell’impossibilità del divorzio sia un errore rispetto ad un’altra fase storico-sociale. Significa solo che le condizioni relazionali non permettono di operare una separazione giudiziale tra due coniugi.   Dunque ogni verità è in rapporto alle situazioni ed alle prospettive all’interno della quale ciascuno si trova. Ed all’interno di quelle prospettive che ciascuna cosa può essere giusta o sbagliata. Quindi all’interno della prospettiva nella quale ciascuno si trova le sue verità avranno un senso o meno.
     Tuttavia affermare che ogni visione del mondo è sempre necessariamente in relazione ad un certo contesto sociale e la sua validità e limitata a tale contesto non significa superare l’istanza scettica e relativistica. Significa piuttosto affermare che la verità non è mai data tutta in una volta, non è mai radicata, una volta e per sempre, in  qualche parte conosciuta.  Ma piuttosto che questa si costituisce all’interno dei diversi ambiti storico-sociali e che rappresenta un’approssimazione a quell’insieme di verità che costituiscono il patrimonio scientifico tecnico e quello delle istituzioni civili.
     Il fatto che il punto di vista da cui osservo il mondo sia all’interno di una prospettiva condizionata non significa che tale punto di vista sia falso o non vero! Significa solo che il mio punto di vista, i giudizi di valore che questo contengono, le azioni che ne derivano, può  essere vero all’interno di quella prospettiva. Fuori da tale prospettiva potrebbe essere condizionato, distorto o non vero.
     E tuttavia nella misura in cui mi rendo conto di non avere una verità certa, che dietro al mio pensare ed agire si nascondono forze che operano fuori la portata della mia consapevolezza, posso anche stare in guardia dalle certezze presuntuose, dogmatiche ed irrazionali che ogni tanto mi fanno pensare che ho più ragione degli altri. Se ho la certezza di questo “ dubbio”  la verità si può anche pensare di trovarla, sia pure parzialmente, in compagnia degli altri.

 

 

 

 

 

LA  PEDAGOGIA  DI  KARL  MANNHEIM

 

 

 

     La fama di Karl Mannheim è sostanzialmente legata all’analisi della sua opera più famosa, Ideologia e Utopia. In tale opera il sociologo di Budapest tende allo smascheramento del contenuto del pensiero ideologico, cioè legato alla struttura storica ed economica di una determinata società. L’ideologia rappresenta la modalità del pensiero integrato nei valori di una determinata società: essa è praticamente inconscia, non propone nessuna trasformazione delle strutture economiche e sociali con le quali è in rapporto; ha dunque una funzione integratrice e conservatrice!
L’utopia si configura al contrario come l’insieme dei ragionamenti di negazione allo stato di fatto esistente; crea nuove forme di pensiero e nuove visioni del mondo e, in una parola, propone progetti di cambiamento sociale.
Il pensiero di Mannheim e la sua attualità riflettono il desiderio della cultura contemporanea per nuove e più concrete forme del sapere dopo la crisi della metafisica ottocentesca ed il relativismo dell’epistemologia novecentesca. Tale pensiero appare ulteriormente attuale per la crisi delle grandi sintesi ideologico e politiche e l’apparire del “pensiero debole” sostenuto anche dalla psicoanalisi.
Come molti intellettuali del periodo nazifascista viene espulso dall’università di Francoforte nel 1933 e ripara in Inghilterra. In tale nazione tiene la cattedra di Pedagogia all’università di Londra ed insegna anche nell’Istitute for Education. Proprio in tale periodo elabora un insieme di riflessioni sul problema dell’educazione. Il suo modo di affrontare tale problematica appare nuovo rispetto al passato e si indirizza prevalentemente ad analizzare il rapporto tra elementi dell’educazione e sviluppo socio-economico delle varie società. Si tratta di un’educazione non più considerata come forma astratta di un’egualmente astratta società: ma piuttosto come una modalità dello sviluppo sociale e dei fattori  che la società, nel suo insieme, richiede all’educazione nel forgiare l’essere umano.
Il punto di partenza di Mannheim è centrato sul rapporto tra famiglia ed integrazione sociale. Egli tende a vedere nell’educazione un fattore di profondo rinnovamento al fine di creare un consenso su alcune nuove strutture sociali della società occidentale postbellica. Dobbiamo infatti ricordare che l’esperienza della dittatura nazifascista, l’obbligo di esilio  per gli intellettuali dissidenti e di origine non ariana, nonché le  atrocità del secondo conflitto mondiale, lo avevano spinto ad accettare positivamente l’avvento delle democrazie liberali che caratterizzavano l’occidente anglo americano. Tali forme di democrazia apparivano a Mannheim come il nuovo, l’utopico rispetto alle dittature del Novecento. Pertanto i processi di scolarizzazione dovevano essere diretti a stimolare un consenso verso  tale forma sociale che aveva assunto la società occidentale postbellica: la forma della democrazia parlamentare.
La funzione dell’educazione a proporre e supportare tale rinnovamento verso una società democratica non può essere effettiva, reale e concreta, secondo Mannheim, se l’educazione viene considerata solamente  un momento transitorio dell’esistenza.
Egli infatti dirà:  “ La scuola può adempiere alla funzione di creare un consenso attorno alla scelta della democrazia se non viene considerata come una istituzione all’interno della quale passiamo soltanto i nostri anni giovanili! Ma piuttosto come qualche cosa che è al servizio, in un modo o in un altro, dell’intero sistema sociale e della vita adulta. In altre parole noi concepiamo l’uomo come un essere che impara eternamente”.
Allora l’educazione può avere la funzione di esprimere un consenso ed una vera e propria adesione al modello della democrazia  se non si limita ad essere il presupposto di un periodo limitato dell’esistenza: quello degli anni giovanili e della scolarizzazione in senso stretto. Ma piuttosto, dal momento che  l’essere umano impara per tutto l’arco dell’esistenza, l’educazione deve essere intesa come una modalità costante che partecipa a fortificare il consenso verso la democrazia. Se la consideriamo come un periodo della vita essa rischia di rimanere un contenuto appartenente al periodo giovanile e scollato dallo sviluppo dell’individualità adulta. Aderire ad un sistema complesso come la democrazia implica un costante aggiornamento del sapere, un partecipare al rinnovamento del sapere attivamente e con impegno.
Comunque Mannheim si spinge più lontano nella definizione dell’educazione e della sua funzione. Egli  parla infatti di una educazione che sia “ un’educazione al mutamento”. Egli affermerà infatti che negli Stati Uniti i corsi di aggiornamento post universitari sono della massima importanza perché: “ essi fanno sì che anche colui che è molto ben preparato si renda conto che in un’età di rapido mutamento sociale e tecnologico nessuno può essere certo che ciò che egli ha imparato in gioventù lo accompagnerà tutta la vita”.
Oggi stiamo sempre più verificando la precisione di tale osservazione mannheiana. In una società statica e ripetitiva, a basso sviluppo tecnologico, le conoscenze acquisite sono sufficienti per tutto l’arco dell’esistenza. Ma quando i ritmi di evoluzione sociale e tecnologico si fanno rapidi il patrimonio cognitivo deve essere costantemente aggiornato e riveduto.

 

Fonte: estratto da http://www.lombardoradicect.it/rinoparlante/KARL-MANNHEIM.doc

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Autore del testo: Serafino  Busacca
Docente di Filosofia, Pedagogia, psicologia
Istituto Lombardo Radice di Catania

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