Lukacs vita e opere

 

 

 

Lukacs vita e opere

 

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Lukacs vita e opere

 

LUCAKS GYORGY (1885-1972)
Lukacs, ungherese di Budapest, diventò, in Germania, allievo di Simmel e frequentò il circolo che si riuniva attorno a Weber, approfondendo nello stesso periodo la conoscenza di Hegel e della concezione materialistica della storia.
In un primo momento egli faceva parte di un circolo culturale di orientamento prevalentemente umanista ed idealista che sosteneva che occorreva difendere l’essenzza dell’uomo, lo spirito, dal materialismo, dal positivismo e dalle briglie delle scienze. Di conseguenza, destò grande stupore la successiva scelta di Lucaks, alla fine della prima guerra mondiale, di convertirsi al marxismo e di partecipare attivamente, seppure con alterne vicende, alla vita politica del suo Paese. E’ vero, però, che egli continuò sempre a risentire dell’influenza dei suoi maestri ed il suo pensiero rimase costantemente in rapporto, seppur polemico, con loro. Tale polemica, d’altra parte, era diretta anche nei confronti del marxismo revisionista e della socialdemocrazia così come anche nei confronti di coloro che volevano ridurre il marxismo stesso allo studio del rapporto tra strutture economiche e sovrastrutture ideologiche.
Storia e coscienza di classe, pubblicato nel 1923, è una raccolta di saggi nei quali Lucaks si rifà apertamente al marxismo ma che è anche imbevuta di temi weberiani ed in essa è anche fortemente presente la dialettica di Hegel e tutto ciò gli ha procurato aspre critiche anche da parte del marxismo ortodosso.
La storia, egli afferma, non è riducibile a natura e non è retta da leggi umanamente immodificabili essendo essa il risultato dell’attività umana. Contrariamente a quanto sostenuto dalla “scienza borghese” che considera i fatti come isolati dal loro contesto storico-sociale, intendendoli nella loro esistenza “oggettiva”; i fatti che la scienza studia vanno intesi nel loro contesto specifico, come prodotto dell’attività umana in una determinata epoca.
La storia va compresa come un processo totale, in cui tutto è inglobato, così che non si può comprendere il particolare se non collegandolo con questa totalità dialettica: solo in quest’ottica è possibile conoscere la realtà.  La scienza borghese, invece, fa apparire immediato e naturale ciò che invece è mediato storicamente.
In particolare, nei saggi Coscienza di classe e Che cos’è il marxismo ortodosso?, Lucaks riprende ed approfondisce questo tema.  Il marxismo scientifico riconosce l’indipendenza delle forze motrici della storia dalla psicologia degli uomini: esso deve registrare le distorsioni del pensiero umano, scoprire i fattori ai quali esse sono dovute e quali sono le possibilità per superarle.
La società e la storia sono il risultato dell’opera dell’uomo e non possono essere spiegate attraverso leggi naturalistiche (come invece fa la sociologia borghese) o leggi che si ispirano allo “spirito del popolo” (inteso come entità inspiegabile) o alle grandi personalità perchè così facendo si innalzano a legge generale ed immutabile i principi dell’ordinamento in atto e si scambia lo status quo per natura immutabile. E’ questo il medesimo errore che Marx contesta all’economia politica.
Lucaks, come Toennies, Simmel e Weber, si rifà alle pagine del Capitale dove si tratta della mercificazione dei rapporti tra uomini (tali rapporti, storicamente, attraverso il valore di scambio, diventano rapporti tra cose, permettendo l’errore dell’economia politica che chiude questi rapporti umani, storici, entro leggi necessitanti e naturali) ma mentre questi ultimi giungono a sostenere l’inevitabilità dell’oggettivazione dei rapporti nella società industriale, Lucaks, come Marx, cerca di superare tale barriera.
Lucaks afferma che l’oggettivazione dei rapporti (la reificazione = identificazione con la realtà, estraniazione da sé stessi)coinvolge tanto la borghesia quanto il proletariato ma mentre per la borghesia è impossibile andare oltre la reificazione perchè i suoi interessi di classe la portano “all’apologia dell’ordinamento esistente delle cose o almeno alla dimostrazione della sua immodificabilità”, per il proletariato il discorso è diverso perchè la sua posizione di classe sfruttata e subalterna lo porta a ricercare la possibilità di trasformazione e di superamento di ciò che è dato (= ricerca della possibilità oggettiva). 
Ma che cos’è che spinge il proletariato a ricercare il cambiamento? E’ la coscienza di classe che non è data ne’ dalla somma ne’ dalla media della coscienza dei singoli appartenenti alla classe ma altro non è che l’effettiva capacità di agire di una classe in una determinata situazione storica. In queste affermazioni di Lucaks vediamo come vicine siano le sue idee al concetto di soggetto universale di Hegel che agiva attraverso l’”astuzia della ragione” al di sopra dei singoli e servendosene come strumento: ecco che le critiche a Lucaks di idealismo e di hegelismo appaiono non del tutto infondate.
Nel famosissmo saggio La reificazione e la coscienza del proletariato, Lucaks distingue tra un aspetto oggettivo della reificazione (che consiste nel fatto che il mondo dell’economia è regolato da leggi le quali, pur essendo storiche, si pongono ormai come realtà oggettiva, naturale, estranea all’uomo) da un aspetto soggettivo (che consiste nelle conseguenze che la reificazione oggettiva comporta all’uomo inserito in un simile contesto). Ancora una volta Lucaks si riporta alle pagine del Capitale     ma fortissima è anche l’influenza di Weber.
Con la mercificazione, i rapporti tra persone scadono a rapporti tra cose; la reificazione entra nell’anima stessa del lavoratore e ne condiziona l’intera esistenza: il sua lavoro e tutta la sua vita appaiono regolati dal principio della calcolabilità e tutto è quantificato, misurabile, regolato burocraticamente. Di fronte al meccanismo produttivo, che segue una sua razionalità formalistica (termine weberiano), l’intervento umano appare solo come fonte di errore. Questo processo coinvolge tutti: il lavoratore, il datore di lavoro ma anche il giornalista  e lo scienziato (che si prostituisce agli interessi capitalistici) che non è capace di superare il dato immediato e cogliere la totalità. Ciò che in Weber era il compito specifico della scienza è considerato da Lucaks una distorsione (storicamente superabile) della scienza nella società borghese.
Ora, se anche il proletariato è invischiato, assieme alla borghesia, nella reificazione di tutte le manifestazioni di vita, come può, a differenza di questa, riuscire ad uscire dalla reificazione, dalla falsa coscienza e costruire la base del mutamento?
Lucaks, ancora una volta si riporta a Marx ed afferma che mentre la borghesia in questa estraniazione si trova a suo agio, anzi, in essa realizza la sua potenza, il proletariato nell’estraniazioni si annienta e vede in essa la sua impotenza. Ecco perché la borghesia resta teoricamente prigioniera dell’immediatezza mentre il proletariato è in grado di oltrepassarla.
In questo modo Lucaks risolve anche il problema lasciato aperto da Weber: il punto di vista del proletariato rappresenta quello attraverso cui si può giungere a una verità scientifica superiore e serve di guida alla trasformazione radicale della società.  Occorre quindi assumere il punto di vista del proletariato e come via da seguire la trasformazione rivoluzionaria dell’ordinamento socio-economico borghese. Lucaks, naturalmente, si riferisce a quella coscienza di classe che non è  la coscienza del singolo proletario (in quanto essa è deificata e alienata è, cioè, una falsa coscienza) ma quella di una entità superindividuale che si incorpora nella classe del proletariato.
Ecco perchè a Lucaks arrivano le critiche da parte dei marxisti ufficiali che lo accusano di idealismo e da parte dei non marxisti che lo accusano di fideismo per aver risolto il problema con un atto di fede.
L’idea di Lucaks sulla diversità dei punti di vista delle due classi sociali come una diversità radicata nella realtà sociale e non riconducibile a scelta psicologica rimane importantissima nella storia del pensiero sociologico  e segnerà anche il pensiero di autori anche non marxisti quali

 

Lucaks - Mannheim

Sia Lucaks che Mannheim avevano preso le mosse dalla medesima esigenza, cioè quella di dare una risposta al problema lasciato irrisolto da Weber però mentre Lucaks  propone come soluzione la superiorità del punto di vista del proletariato Mannheim propone dapprima la superiorità del punto di vista degli intellettuali e poi la pianificazione democratica.

  • Lucaks critica aspramente Mannheim per aver posto sul medesimo piano stalinismo e nazismo  per non aver dato, nel sostenere la pianificazione democratica come via di uscita dal totalitarismo, alcuna indicazione circa il carattere economico-sociale che una tale organizzazione superiore potrebbe avere e circa le differenze che si determinerebbero in conseguenza di un diverso carattere economico-sociale di queste organizzazioni. In realtà, Mannheim una serie di indicazioni pratiche le aveva date, come, ad esempio, affermando la necessità del controllo dei prezzi dei beni necessari e lasciando libertà relativamente ai prezzi dei beni superflui.
  • Lucaks critica Mannheim  perchè, egli afferma, nel suo tentativo di rendere, attraverso la sociologia della conoscenza, più scientifica la politica, egli, in realtà la rende ancora più irrazionale e relativa.  Mannheim, infatti, aveva sostenuto che la coscienza è condizionata non solo da fattori economici ma anche da tutti gli altri fattori sociali e che il punto di vista del proletariato non è meno ideologico di quello della borghesia. Lucaks replica affermando che se non si considerano i fattori economici e si rende irrazionale il processo sociale, non è più possibile distinguere tra falsa coscienza e coscienza vera perchè  il rapporto sempre concreto tra base economica e ideologia si risolve in un “generico legame alla situazione”.

 

L’importanza del pensiero di Mannheim lo troviamo:

  • nella critica alle ideologie, a qualsiasi posizione dogmatica che non si accorga del proprio carattere socialmente condizionato e storicamente relativo, che si creda valida astoricamente e al di fuori di ogni determinazione sociale;
  • nel suo richiamo all’ineluttabile storicità del pensiero, alla necessità di svelare “l’inconscio collettivo”, i fattori irrazionali che operano nella società e di renderli coscienti e controllabili.

 

Fonte: http://www.sociologia.uniroma1.it/users/studenti/Riassunti/Storia%20del%20P.Sociologico/LUKACS_E_MANNHEIM.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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Lukacs vita e opere

 György Lukács è un noto esponente della filosofia marxista del Novecento, molto attento all’estetica. Riesce a offrire un’elaborazione originale del pensiero marxista evitando i forti condizionamenti politici che più volte, nel corso della sua lunga esistenza, si sono fatti sentire .
Prima di occuparsi delle sue teorie estetiche può essere utile ricapitolare rapidamente le posizioni di Marx sull’arte. Ne L’ideologia tedesca del 1845 il filosofo tedesco aveva inquadrato il tema nel rapporto tra struttura economico-sociale e sovrastruttura giuridico-politico-culturale, pur tuttavia negando una dipendenza rigida e diretta. In seguito, nell’Introduzione a Per la critica dell’economia politica del 1859, Marx ritorna sull’argomento, rilevando che l’arte non è strettamente legata alla base materiale. Inoltre viene rilevato che le opere d’arte continuano ad esercitare un forte fascino, al di là del tempo che passa. Questo avviene perché l’umanità sente nostalgia per il suo passato, e tramite l’arte ha uno strumento per riviverlo.
Successivamente anche Engels si occupa di questi argomenti, introducendo i concetti di “realismo” e di “tipico”: l’arte nel materialismo storico va intesa come riproduzione fedele di caratteri tipici in circostanze tipiche.
La tesi centrale di György Lukács, espressa nei Prolegomeni a un’estetica marxista del 1957, e successivamente ripresa nella grande Estetica del 1963, è la teoria del rispecchiamento. Esiste un’unica realtà  e noi la “rispecchiamo” in tre modi: quello della vita quotidiana, quello delle scienze e della filosofia, quello dell’arte (o estetico). Il rispecchiamento consiste in un atteggiamento dialettico – non meccanico, fotografico – che riguarda il soggetto nel rapporto con la comune realtà oggettiva. Rapporto a sua volta condizionato dal modo di essere del soggetto inserito in quella realtà.
Il rispecchiamento si esplica secondo tre principali categorie: l’individualità, la particolarità e l’universalità. La prima è utilizzata solitamente nella vita quotidiana (ci si relaziona con individui), l’ultima nelle scienze e nell’attività teoretica (ci si occupa di leggi, universali…) e la particolarità è quella propria dell’arte. Come quello scientifico, “il rispecchiamento estetico vuole comprendere, scoprire e riprodurre con i suoi mezzi specifici la totalità della realtà nella sua ricchezza dispiegata di contenuti e forme” . La particolarità supera l’individualità e l’universalità fissandosi in una forma non più superabile: il personaggio di un’opera d’arte non è un individuo esistente nella quotidianità, né il concetto generale che rappresenta, ma qualcosa di emblematico che unisce entrambe le categorie nel particolare.
Mentre il rispecchiamento scientifico si trova in una linea di sviluppo continuo, sempre proseguibile, quello estetico fissa di volta in volta ciascun grado dello sviluppo della coscienza umana. Per questo – riprendendo quanto osservato da Marx – una creazione realmente artistica conserva la sua validità nel tempo, anche se la sua forma può apparire obsoleta.
Lukács si occupa degli artisti, rifiutando sia le concezioni che ne esaltano l’assoluta libertà creativa, sia le visioni che ne fanno un semplice riproduttore della realtà. Così vengono contestati sia l’estremo soggettivismo (propri del surrealismo, ad esempio), sia l’estremo oggettivismo (del naturalismo). Secondo il filosofo è necessario che l’artista prenda posizione, con i mezzi e le tecniche di cui può disporre, sulla realtà che lo circonda. Proprio questa partiticità indica la differenza essenziale rispetto all’attività teoretico-scientifica: lo scienziato non prende posizione su teoremi o scoperte. L’artista fa perciò una scelta, esclude, universalizza le singolarità immediate realizzando la particolarità (o il “tipico”).
Il filosofo giunge così su posizioni in parte analoghe a quelle di Croce, contestando le diverse forme di avanguardia e di irrazionalismo. L’eredità classica è importante perché ritrae l’uomo nella totalità del mondo sociale. Lukács mostra le sue simpatie verso autori come Balzac e Thomas Mann, legati al realismo critico: in esso si realizza la sintesi più felice di generico e individuale. Il realismo rappresenta le tendenze profonde di un’epoca, i tratti salienti di una certa società; così la grande arte, in quanto realistica e partitica, finisce per legarsi in qualche modo nella corrente del progresso sociale – anche se prodotta da autori soggettivamente reazionari come Balzac.
L’opera d’arte ha in sé un valore evocativo immediato, che porta il fruitore a identificarsi col soggetto rappresentato. Questo avviene grazie a un sostrato che accomuna autore, opera e fruitore, e che è costituito dalla continuità dello sviluppo dell’umanità. Oltre a questo è presente un godimento, vale a dire il piacere estetico che nasce dal sentimento di un innalzamento della nostra esistenza quotidiana in seguito al contatto con un’opera d’arte.
Lukács parla di rispecchiamento mimetico e di antropomorfizzazione a proposito dell’arte, della magia e della religione. Per l’attività scientifico-teoretica invece utilizza il termine di disantropomorfizzazione e parla di un rispecchiamento oggettivante. Queste distinzioni hanno la loro origine nella storia dell’umanità, in un processo di progressiva differenziazione delle attività umane. L’arte può nascere solo quando nelle società si affermano ceti sociali liberi dal bisogno del lavoro.
Secondo il filosofo anche tra le attività antropomorfizzanti – magia, religione, arte – si sviluppa lentamente una distinzione interna. Queste attività propongono mondi fittizi, ma mentre le prime due hanno un carattere trascendente, l’arte ha un carattere immanente; inoltre quest’ultima rimane terrena, umana, senza la pretesa di proporre una realtà “più vera”. Questa distinzione caratterizza l’autonomia dell’arte dalle altre forme di rispecchiamento antropomorfizzante; la sua origine si può rintracciare nelle pitture rupestri paleolitiche delle caverne.

 

Bibliografia

N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, vol. 3, Torino, Paravia, 1993.
G. Mancini, S. Marzocchi, G. Picinali, Corso di filosofia, diretto da S. Veca, Milano, Bompiani, 1993.

F. Restaino, Storia dell’estetica moderna, Torino, UTET, 1991.
S. Givone, Storia dell’estetica, Roma-Bari, Laterza, 2003.

B. Croce, Filosofia, Storia, Poesia, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955.
P. Bonetti, Introduzione a Croce, Roma-Bari, Laterza, 1995.

G. Lukács, Prolegomeni a un’estetica marxista, Roma, Editori Riuniti, 1971.
G. Bedeschi, Introduzione a Lukács, Roma-Bari, Laterza, 1995.

Tra i siti internet si possono segnalare, a titolo indicativo:
http://www.ilgiardinodeipensieri.com/ con suggerimenti per la didattica, schede e approfondimenti.
http://www.swif.it/  ricco “sito web italiano per la filosofia”, con numerose pagine utili per ogni genere di ricerca.


In particolare la sua più importante opera, Storia e coscienza di classe, del 1923, venne condannata ufficialmente dalla Terza Internazionale.

G. Lukács, Prolegomeni a un’estetica marxista, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 146.

 

Fonte: http://utenti.multimania.it/bellodie/BenassiBellodi.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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La disciplina di un comunista

Gyorgy Lukàcs, ungherese (era nato a Budapest nel 1885) ma di cultura tedesca, fu folgorato dalla rivoluzione russa con la quale “- finalmente! – si era aperta per l’umanità una via che conduceva al di là della guerra e del capitalismo”; nel 1918 si iscrisse così al partito comunista ungherese ed ebbe anche un incarico governativo nella effimera (e violenta) Repubblica Sovietica Ungherese di Béla Kun nel 1919.
Dopo il suo fallimento dovette darsi alla fuga e dal 1919 al 1922 si dedicò alla stesura dei saggi che  pubblicherà l’anno seguente col titolo di “Storia e coscienza di classe”, il suo capolavoro.
Pubblicato nel 1923, già l’anno seguente per bocca dello stesso Zinoviev l’opera venne però censurata in quanto “idealista” dalla Terza Internazionale - e Lukàcs accettò la scomunica.
Nè la questione finì così perchè, soprattutto in seguito alla lettura dei “Manoscritti economico-filosofici” di Marx (allora di recente riscoperti), fu lo stesso Lukàcs a ripudiare poi la sua opera: “Questo libro mi divenne completamente estraneo” ebbe a scrivere.
Eppure mancava ancora la parola definitiva: nel 1933 Lukàcs giunse a Mosca, ambitissimo culmine dell’impegno di qualsiasi comunista, ma, data la lotta senza quartiere all’interno della dirigenza culturale e politica del P.C.U.S., capì subito che “era per me una necessità tattica prendere pubblicamente distanza da “Storia e coscienza di classe” ... Naturalmente, per poter pubblicare un’autocritica, dovetti sottomettermi alle regole di linguaggio allora dominanti” e fu così che, sempre più convintamente, Lukàcs procedette all’ulteriore disconoscimento e rifiuto dell’opera.
Tuttavia il seme era stato gettato e nel mondo libero (o borghese) esso aveva germogliato così che “Storia e coscienza di classe” nei Paesi capitalistici  trovava editori che la pubblicavano nella sua stesura originale e senza nemmeno consultare l’autore: insomma, il testo era un successo presso coloro che voleva combattere ed era rifiutato e condannato da coloro che intendeva sostenere! Finiva per essere un’apprezzato strumento intellettuale nelle mani del nemico (di classe) stesso!
Fu così giocoforza che, ad oltre quarant’anni dalla sua prima edizione, Lukàcs dovette acconciarsi a curarne un’altra per limitare e contrastare quelle non autorizzate e per fornire al lettore la ‘giusta’ prospettiva nella quale collocare l’opera – costretto ad ammettere quasi a malincuore (!) nella Prefazione del 1967 che l’opera “ha suscitato e suscita ancora oggi una forte impressione su molti lettori”,.
Le spiegazioni della censura subita, della sua accettazione convinta e delle rettifiche contenute nell’edizione del 1967 potranno ovviamente essere offerte solo nei  prossimi paragrafi che tratteranno del contenuto filosofico dell’opera, ma fin da subito alcune caratteristiche tipiche del mondo comunista emergono con nettezza.
Innanzitutto, Lukàcs non protestò e non reagì alla censura non perchè fosse un pavido, ma perchè nella psicologia comunista non esisteva verità fuori del Partito – che non sbagliava mai; per un comunista  impellente era l’azione politica (di cui l’attività culturale era un aspetto) e fuori del Partito questa non era possibile, per cui portare avanti le proprie idee fuori o addirittura contro il Partito non aveva semplicemente senso.
In secondo luogo, anche Lukàcs fu sempre convinto che le opere di Marx e dei grandi del comunismo (Lenin) erano verità assoluta ed indiscutibile e che la loro retta interpretazione ad opera del Partito apriva gli occhi sulla realtà in modo incontrovertibile: così nei confronti di questo corpus di certezze assolute il pensiero doveva e poteva limitarsi solo alla comprensione ed all’illustrazione.
E’ lampante come tutto ciò sia tipico delle Chiese e delle religioni e che il comunismo senza dubbio fu una religione di cui ebbe tutte le caratteristiche e tutte le modalità: l’autonomia del pensiero, l’indipendenza dei propri giudizi, il valore dell’unicità ed irripetibilità della propria mente per un comunista come Lukàcs era semplice ideologia borghese.
Lukàcs è uno dei tantissimi esempi di questa disciplina autoimposta ed accettata con convinzione ed entusiasmo e fu da essa che derivò tanta cecità (o, peggio, giustificazione) nei confronti dell’orrore – esattamente la stessa dei fedeli di una religione nei confronti di quel che fa o ha fatto la loro Chiesa.

E’ tempo tuttavia di passare all’esame del contenuto filosofico dell’opera.

La resa preventiva del Positivismo ...

Il Positivismo (borghese) parte precisamente dalla separazione di pensiero ed essere, di soggetto ed oggetto, ponendo da una parte società e natura (l’essere, l’oggetto) e dall’altra l’uomo (il soggetto) che le conosce e  le pensa.
Per un positivista il pensiero si deve dunque preoccupare unicamente di riflettere (proprio come uno specchio) nel modo più completo possibile l’essere che, essendo quel che è indipendentemente dal pensiero stesso, non va mai posto in discussione.
E’ questo l’approccio ‘scientifico’ nei confronti della realtà il cui sforzo è teso a mettere in luce le leggi che la regolano - leggi che naturalmente sono tali perchè immodificabili e che esistono (ripetiamolo pure) in modo del tutto indipendente dal pensiero.
E non basta ancora: per un positivista l’operazione della conoscenza della società (come della natura) sarà tanto più proficua quanto più sarà stata in grado di separarne i vari settori, ognuno dei quali va preso per suo conto: economia, diritto, cultura, ecc., vanno studiati ognuno per sè nelle varie branche in cui si articola l’enciclopedia del sapere borghese.
Ecco allora che, per esempio, l’economia per il borghese positivista consta di una serie di leggi contro le quali non si può andare, di leggi immodificabili, esterne e preesistenti alla loro conoscenza da parte dell’uomo: scoprire tali leggi, seguirle e/o saperle volgere a proprio favore  per un positivista significa dunque aver raggiunto il maggior grado possibile di verità e di concretezza.
Il positivista è dunque per sua stessa natura un conservatore perchè ritiene che il pensiero non possa far altro che riflettere la realtà ed adeguarsi ad essa meglio che può e questa è una vera e propria – inevitabile, date le premesse – resa preventiva del pensiero alla realtà.

... e la rivoluzione della dialettica

Secondo il vecchio Hegel il bisogno di filosofia sorgeva quando la realtà appariva divisa e frantumata dalle opposizioni e dalle separazioni che si presentavano insuperabili e permanenti; l’intelletto concepiva infatti la realtà come una serie di parti autonome ed indipendenti l’una dall’altra mentre era la ragione a mostrarne – ad un livello superiore di coscienza – l’intrinseco collegamento nella realtà unica ed onnicomprensiva della Ragione.
Secondo Hegel l’intelletto concepiva inoltre le cose in modo statico ed immutabile cosicchè per esso la realtà era quel che era in quel momento e tale sarebbe restata, mentre la ragione ne esprimeva il movimento e lo sviluppo nel processo dialettico in cui tutto diveniva secondo un disegno unitario.
E’ questa la posizione fondamentale che il Marxismo – e Lukàcs con lui – eredita da Hegel.
Se il Positivismo ha dunque una visione della realtà ferma alla sua concezione da parte dell’intelletto (per usare le distinzioni hegeliane), non così il Marxismo che, ad un livello superiore di coscienza (quello offerto dalla ragione), riesce a cogliere l’unità dell’intero processo della realtà stessa, unità che è anche di pensiero ed essere: la ragione mostra come il processo del divenire della realtà è dialettico, cioè basato su contraddizioni e sul loro superamento ad un livello sempre superiore e come la contraddizione della società capitalistica è data dal proletariato sfruttato in un’economia alienatrice.
Il dato decisivo è insomma che il proletariato,  contraddizione interna del capitalismo e sua negazione, col Marxismo è arrivato ad un pensiero completamente alternativo a quello borghese: se infatti la difesa del capitalismo è affidata al Positivismo che afferma che la realtà è così com’è nè può essere modificata, il materialismo storico (la risposta del proletariato) sostiene invece che, tutto la contrario, la realtà è un processo dialettico in cui (di rivoluzione in rivoluzione) tutto cambia necessariamente.
Lukàcs scrisse “Storia e coscienza di classe” proprio per far emergere pienamente il metodo dialettico (piuttosto trascurato nella Seconda Internazionale) nel Marxismo: a quel tempo per lui l’ortodossia non significava venerazione per Marx o per Lenin, ma fedeltà al sistema dialettico.
 “Il proletariato trasforma la realtà mentre e perchè la conosce” afferma Lukàcs, volendo significare che il materialismo storico era l’arma principale del proletariato contro la borghesia: la sua dialettica era lo strumento metodologico col quale esso sviluppava la sua coscienza di classe, cioè la contraddizione nel capitalismo.
Il proletariato conoscendo la società capitalistica conosce anche se stesso e  conoscendo se stesso approfondisce sempre di più la sua coscienza di classe e, rendendosi sempre più conto della sua situazione di alienazione e di sfruttamento, sviluppa inevitabilmente il suo rifiuto rivoluzionario della società capitalistica stessa.
Insomma: più il proletariato conosce la società intorno a sè, più la dissolve grazie a questa conoscenza stessa.
Pensiero ed azione sono la stessa cosa nella ‘filosofia della prassi’: per il proletariato conoscere la sua condizione è agire.
Il proletariato nella sua progressiva presa di coscienza (di classe) si libera dalla reificazione positivistica secondo cui società ed economia hanno leggi proprie al di sopra ed al di fuori dell’uomo: questo è il modo di pensare di chi vuol preservare la società così com’è e di chi vuole che essa si riproduca sempre uguale a se stessa.
Il materialismo storico parte invece dal riconoscimento che la società costituisce un tutto inscindibile e che essa è il prodotto dell’azione umana: le sue leggi e tutti i suoi aspetti sono azioni umane ed ognuno dei suoi fatti va inevitabilmente riferito al tutto.
Lukàcs chiama questa regola del pensiero categoria della totalità e la usa continuamente.
La borghesia non accetta la categoria della totalità e per essa la società non è un intero: essa quindi non può comprendere che la società capitalisitica è il predominio di una classe (la borghesia, appunto) su un’altra (il proletariato) e che ogni cosa va riferita a questa verità.
La borghesia non potrebbe arrivare a questo riconoscimento senza contraddirsi ed annullarsi e così blocca il processo della realtà e, avendola così paralizzata, cerca di rifletterla (a modo suo) passivamente.
Mentre il pensiero positivistico (borghese) tenta allora di far accettare al proletariato il mondo in cui vive come qualcosa di ineluttabile e dotato di leggi autonome e superiori all’uomo stesso, mano a mano invece che il proletariato col materialismo storico conosce e riconosce la realtà effettiva della società capitalistica contemporaneamente e necessariamente prende coscienza della propria condizione alienata, sfruttata e subordinata: così, più la sua conoscenza della società capitalistica si approfondisce, più si sviluppa la coscienza di classe del proletariato e questo non è solo pensiero, ma, contemporaneamente, azione (la famosa praxis).
Più conosce il capitalismo, più il proletariato si rende conto di esserne la negazione storica: il proletariato che prende coscienza di sè non è più quello di prima e quindi nemmeno la società lo è più.
Ecco come azione e pensiero coincidono.

La mitica coscienza di classe

Data la sua centralità nella filosofia di Lukàcs (e nell’intero pensiero marxista), la nozione di coscienza di classe va ben chiarita e definita: essa non è qualcosa di psicologico (quel che i proletari pensano) o la somma delle loro idee.
Come la storia va ben al di là di quel che vorrebbero le singole volontà di quelli che vi agiscono, così anche la coscienza di classe va oltre quel che i proletari pensano concretamente: essa è verità oggettiva, quella che esprime perfettamente e compiutamente la struttura profonda della società capitalistica.
Ora, il proletariato questa coscienza non può possederla completamente  perchè non è una mente assoluta fuori della storia, ma, al contrario, è interamente immerso in essa e quindi anche lui in qualche misura accetta l’ordinamento borghese nel quale è nato e vive e soffre (come la borghesia!) della reificazione del capitalismo.
Certamente la sua coscienza di classe cresce, tuttavia finchè  si trova all’interno della società capitalistica il proletariato non può evidentemente porsi spiritualmente interamente fuori dai limiti di essa e quindi la coscienza che ha di sè (il suo rapporto con l’intero) rimane ancora inevitabilmente incompleta.
Tuttavia questi  limiti sono storici, e, come tali possono e debbono essere superati.
Fermare lo sviluppo della coscienza di classe del proletariato considerandola solo allo stadio cui è concretamente pervenuta - conseguenza del mancato riconoscimento della categoria della totalità - significherebbe consegnarlo legato mani e piedi alla borghesia, farlo restar prigioniero della reificazione borghese ed assolutizzarne la sudditanza spirituale nei confronti dei suoi sfruttatori: si finirebbe col cacciarsi nel vicolo cieco in cui erano finiti menscevichi e socialdemocratici che  - prima dell’Ottobre - stavano portando il proletariato a piccole conquiste ed a piccole riforme fino alla disfatta finale.

Ad ogni momento storico corrisponde una coscienza di classe che di diritto va attribuita ai suoi attori anche a prescindere dalle concrete singole coscienze effettivamente sviluppatesi.
Il Partito Comunista era l’interprete corretto della storia  e la sua visione delle cose era dunque quella vera – così come la coscienza di classe da lui espressa era quella finalmente compiuta.

Coscienza di classe e rivoluzione

Il Marxismo credeva fermamamente che il capitalismo per la sua stessa logica interna fosse destinato ad incappare in sempre più frequenti e sempre più gravi crisi (di sovrapproduzione) nelle quali tutto il suo meccanismo si sarebbe inceppato ed avrebbe  mostrato la sua impotenza a risolverle: lo sbocco inevitabile di tutto ciò sarebbe stata una crisi finale che ne avrebbe segnato la fine.
Il capitalismo era incapace (per la sua stessa struttura) ad arrestare la sua folle corsa verso il suicidio.
Tuttavia secondo Lukàcs finchè il proletariato non è maturo per rovesciare il sistema di classe (cioè finchè la sua coscienza di classe non è sufficientemente sviluppata), la crisi è destinata a ripetersi ed a riproporsi mentre la borghesia continua a rimanere in sella e a trascinarsi coi suoi strumenti sempre più logori.
Certamente la crisi è un esito necessario della società capitalistica, ma da essa si esce a seconda dei rapporti di forza fra le classi e solo quando la coscienza di classe del proletariato è sufficientemente sviluppata da questa crisi si può generare la rivoluzione.
Il Partito Comunista è il portatore della completa e compiuta coscienza di classe del proletariato, l’oggettivazione della vera volontà sua e della Storia stessa e quando la rivoluzione scoppia padroneggiare e dirigere gli avvenimenti (già largamente previsti e preparati) è suo compito.

 

La Rivoluzione d’Ottobre

 

Lukàcs scrisse i saggi che compongono “Storia e coscienza di classe” fra il 1918 ed il 1922 ed essi si fusero così con la Rivoluzione d’Ottobre sulla quale  tanto riflettè e che gli apparve l’inveramento e la concretizzazione della sua stessa filosofia marxista.
L’apocalisse dello zarismo che implodeva e si disintegrava nel caos immenso scatenato da un popolo oppresso e schiacciato per millenni che finalmente spezzava e si strappava di dosso le sue orribili catene non poteva non convincere i marxisti che quella crisi finale del capitalismo già prevista da Marx come inevitabile stava avvenendo realmente nella storia.
Ancor più, il successo strepitoso della sparuta pattuglia bolscevica nel portarte a compimento la rivoluzione, dominare e domare eventi così grandiosi, cancellare dalla faccia della Terra la vecchia società e farne emergere una completamente nuova al suo posto, tutto ciò per essi non poteva che essere spiegato in un modo: Lenin ed i bolscevichi avevano potuto compiere un miracolo simile perchè erano stati gli unici a capire ciò che stava avvenendo e perchè.
Essi avevano considerato globalmente la società, erano i portatori della compiuta coscienza di classe quindi erano gli unici a sapere cosa le masse ribelli volevano veramente (oggettivamente!): solo loro insomma interpretavano correttamente la storia.  
Solo loro erano in grado di parlare e di farsi sentire nel luogo più riposto dell’animo dei lavoratori in lotta nè certamente si fermavano alla loro concreta coscienza psicologica: non erano ‘democratici’ nel senso che non pensavano di dover rispettare quel che il proletariato apparentemente voleva e spingevano invece verso dove la storia andava (e doveva andare!).
Essi erano l’autocoscienza della storia, l’espressione della vera coscienza (di classe) del proletariato: la venerazione che tutti i marxisti (Lukàcs compreso) hanno sempre avuto per Lenin deriva dalla sua lucidissima applicazione alla realtà della ortodossa dottrina marxista – e fu questa per loro la spiegazione del successo della rivoluzione.
Dalla corretta dottrina marxista non si può deviare mai (salvo provvisori adeguamenti tattici) altrimenti non si interpreta più il corso della storia e si va incontro alla inevitabile sconfitta.

 

La coscienza di classe dopo la rivoluzione

Dalla partecipazione e dall’osservazione appassionata degli eventi rivoluzionari russi Lukàcs trasse anche una lezione particolare ed apparentemente stupefacente, seppur in linea con tutto il suo discorso: la rivoluzione inevitabilmente coglie il proletariato in parte impreparato a portarla a termine.
Se infatti il proletariato (e la sua coscienza) quando scoppia la rivoluzione è tanto sviluppato da non poter più accettare le soluzioni portate avanti dalla borghesia, non può però essere ancora sufficientemente maturo da aver superato tutto il sistema (reificato) di questa: il proletariato è costretto a prendere il potere quando non è ancora pronto e questo è inevitabile perchè finchè vive nella società capitalistica non potrà mai rigettarne interamente l’ordinamento (borghese).
Il potere di una società è infatti essenzialmente spirituale (così, per es., lo stato è forte nella misura in cui si rispecchia nella coscienza dei suoi cittadini) e per quanto col continuo approfondimento della lotta di classe il proletariato se ne svincoli sempre di più, egli vive pur sempre in una società di questo tipo e in qualche modo partecipa ad essa: il passaggio al socialismo non è qualcosa di naturale ed organico perchè per raggiungere questo scopo tutto l’involucro culturale nel quale gli individui hanno sempre vissuto deve essere spazzato via e ciò necessariamente può avvenire solo dopo la presa del potere.
Il passaggio al socialismo comporta una crisi ideologica terribile del proletariato: dopo la presa del potere, quindi, la rivoluzione è tutt’altro che conclusa, anzi, si può dire che comincia solo allora - in fondo la borghesia ha subito una sola sconfitta ed il proletariato ha conseguito una sola vittoria.
Perchè la rivoluzione trascorra veramente nel socialismo è necessario che la coscienza di classe del proletariato (l’ultima della storia) si realizzi pienamente ed a ciò non si oppone solo la borghesia, ma anche il proletariato stesso che stenta a liberarsi da quello che l’ordinamento borghese ha lasciato dentro di lui.
In questo periodo il Partito Comunista deve essere inflessibile nel non lasciare il minimo spazio nè fare la minima concessione alla borghesia (ed allo stesso proletariato!) che comporti la minima sudditanza ideologica ad essa.
Nessun tentennamento è ammesso: il proletariato sta combattendo soprattutto contro se stesso e va forzato e costretto a liberarsi ed a squarciare e distruggere ciò che della spiritualità borghese ancora rimane in lui.
La dittatura del proletariato deve quindi avere un rigore d’acciaio: la lotta di classe continua per lungo tempo ancora dopo la presa del potere ad opera del proletariato, solo che ora essa ha cambiato di livello.
La rivoluzione continua ancora per lungo tempo.
La società socialista sarà qualcosa di radicalmente nuovo rispetto al passato: essa non solo trasformerà il sistema di produzione con la collettivizzazione dei suoi mezzi, ma presupporrà anche un diverso tipo di umanità.
Il socialismo è possibile e pensabile solo con una diversa coscienza degli uomini o, meglio, con uomini la cui coscienza sia finalmente libera.

Completezza ed armonia

L’opera si conclude lasciando alla nostra immaginazione la definizione del libero e felice uomo del futuro socialismo, ma ciò che colpisce nell’opera di Lukàcs è la sua organicità che tutto riassume in un discorso unico: storia, filosofia, politica, questioni pratiche, tutto, tutto è fuso in un unicum armonico che ha, si può dire, anche qualcosa di artistico.
Certamente però quest’unità di pensiero e di azione, per quanto apprezzabile, ha dei costi – e siamo alle solite: il rigore e la completezza logica si traducono, anzi, sono l’alibi, per la violenza ed il terrore senza fine che fin da subito caratterizzarono il comunismo.
L’unilateralità ed il semplicismo del marxismo applicato sono evidenti nella cecità e nell’insensatezza della repressione senza fine cui si dedicò sempre con costanza e determinazione assoluta, ma va anche ricordato che quelli che Lukàcs visse furono tempi durissimi e nella foresta per sopravvivere bisogna farsi lupi.
L’Europa di allora stava attraversando quell’eccezionale periodo di trapasso che vide il crollo di tutto il vecchio ordinamento ottocentesco e la sanguinosa e sofferta nascita del nuovo mondo contemporaneo: tutto era lecito attendersi dal futuro, tutto poteva succedere - e tutto stava succedendo.
Per gli spiriti rivoluzionari si poneva l’esigenza di riassumere un’epoca, spiegarne la fine e gettare le basi di quella nuova: Lukàcs interpretò allora il suo tempo alla luce di un marxismo che si sforzò di rendere il più corretto ed il più completo possibile e la sua filosofia fu la sintesi del pensiero classico tedesco con la rivoluzione russa.
Oggi gli ardori e le speranze di palingenesi mondiale dei marxisti di un secolo fa risultano incomprensibili e si condannano invece gli orrori della follia dei costi ritenuti necessari per raggiungerli, ma ciò dimostra solo quanto è cambiato il mondo da allora.

 

Fonte: http://luciogentilini.xoom.it/virgiliowizard/sites/default/files/sp_wizard/docs/S%20-%20LUKACS.doc

Autore del testo: Lucio Gentilini

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