Soren A. Kierkegaard vita e opere

 

 

 

Soren A. Kierkegaard vita e opere

 

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Soren A. Kierkegaard vita e opere

 

Kierkegaard


La riscoperta di Kierkegaard
Esistenza e sistemi filosofici
Le categorie dell’esistenza
La scelta
Scelte di vita e cristianesimo
Progetti di vita,modelli di personalità

1 – Kierkegaard -  Aut – Aut: scelta e personalità
2 – AA.VV. - Lettori di Kierkegaard nel Novecento

 

Ignorata o misconosciuta dal pensiero del suo tempo, duramente avversata negli ambienti culturali ed ecclesiastici conservatori, l'opera di Soren Kierke­gaard (1813-1855) è stata riscoperta solo nei primi decenni del secolo scorso. Dapprima Karl Barth e altri teologi protestanti hanno colto nei testi del pensato­re danese un'originale e potente ripresa dei contenuti più inquietanti del mes­saggio cristiano - dal principio dell'inattingibile trascendenza del divino a quello della costitutiva finitudine e peccaminosità dell'umano. Successivamente l'esistenzialismo europeo, da Heidegger a Sartre, ha riconosciuto in Kierke­gaard uno dei propri padri ideali: per l'innovatrice riabilitazione della catego­ria della singolarità e (appunto) dell'esistenza, per la vigorosa analisi dell'uo­mo come soggetto irriducibile e concreto, per la riconduzione della riflessione filosofica a meditazione sull'essere umano, colto nel suo conflitto tra la doloro­sa coscienza dei propri limiti e l'inesauribile tensione verso il trascendimento di sé. Se fin dagli anni '30 la storiografia filosofica individuava in Kierke­gaard uno dei più significativi avversari del razionalismo hegeliano e una delle sorgenti primarie di una filosofia radicalmente anti-idealistica, una par­te cospicua del pensiero contemporaneo ha scorto nei testi kierkegaardiani la testimonianza di un travaglio esistenziale e morale che ha pochi uguali nella storia della modernità. Non è un caso che opere come Aut-Aut e il Dia­rio di un seduttore, il Concetto dell'angoscia e la Malattia mortale abbiano avuto una risonan­za assolutamente eccezionale non solo all'interno del dibattito filosofico e teo­logico novecentesco, ma anche entro il più vasto orizzonte letterario, scientifi­co e artistico. Scrittori come Kafka e Gide, psichiatri come Binswanger e Laing, registi cinematografici come Dreyer e Bergman hanno variamente riconosciu­to i loro debiti nei confronti di un pensatore di cui Thomas Mann ebbe a sottolineare un giorno la grande audacia intellettuale «nello spingersi fino agli estremi della psicologia».

 

Soren A. Kierkegaard è, insieme con Schopenhauer, il grande avversario della fi­losofia idealistica. Egli nacque nel 1813 a Copenhagen in Danimarca, ove si formò nel clima di una rigida religiosità in cui era forte il senso del peccato. Da suo padre, che era già an­ziano quando egli venne al mondo, ereditò una profonda malinconia religiosa. Si laureò al­l'età di ventotto anni, con una tesi intitolata “Sul concetto di ironia con particolare ri­guardo a Socrate”, in cui criticava l'ironia dei romantici intesa come gioco e illusione. A questa forma di ironia, egli contrapponeva quella di Socrate, il quale la considerava un mez­zo per condurre i suoi interlocutori a scoprire la drammatica serietà della vita.
Sin da questa prima opera, Kierkegaard, contrapponendo la futile illusione dei romantici al severo richiamo morale di Socrate a vivere onestamente, si rivela un pensatore esi­stenziale, interessato cioè a concentrare la riflessione filosofica sull'esistenza. In questo contesto, si capisce l’interresse giovanile per Socrate, l'uomo che, condannato ingiustamente a morte dal tribunale ateniese, rifiutò la fuga (che, invece, gli era stata suggerita dagli amici, e forse anche dalle stesse autorità) e accettò con coraggio la morte. Nella figura di Socrate possiamo già scorgere alcuni dei temi centrali della riflessione kierkegaardiana, quali la necessità della scelta, la filosofia intesane non come costruzione concettuale astrat­ta, ma come riflessione sulle condizioni e sul significato della propria esistenza e come impegno personale in base al significato che ad essa si attribuisce.
In una confessione giovanile del suo Diario, Kierkegaard scrive: “Ciò che in fondo mi manca è di veder chiaro in me stesso, di sapere ciò che io devo fare e non ciò che devo conoscere, se non nella misura in cui la conoscenza ha da precedere sempre l’azio­ne. Si tratta di comprendere il mio destino, di vedere ciò che in fondo Dio vuole che io faccia, di tro­vare una verità che sia una verità per me, di trovare l'idea per la quale io voglio vivere e morire.” (Diario 1835)
Ecco, dunque, il concetto chiave della riflessione di Kierkegaard che aborriva l'idea che un giorno il suo pensiero potesse diventare un capitolo di un manuale di storia della filoso­fia, spiegato noiosamente a recalcitranti allievi. Che senso avrebbe, si chiede il giovane Kierkegaard, ingolfarmi nei sistemi dei filosofi? Scoprire qualcuna di quelle cosiddette verità oggettive? Sviluppare, ad esempio, una dottrina della conoscenza o una teoria dello Stato? Quale vantaggio avrei io - egli aggiunge - da una verità che si imponesse nuda e fredda davanti a me, indifferente alle esigenze più intime della mia anima? No. Quello che in­teressa il giovane filosofo è riflettere sulla propria condizione esistenziale, metterne in luce tutta la problematicità, accettarne l'irrazionalità e le contraddizioni: «di ciò ha sete ora - egli scrive - l'anima mia, come i deserti africani sospirano l'acqua» (ivi).
Nel 1841 ascoltò le lezioni di Schelling a Berlino, ove era dominante il clima idealistico ed hegeliano (anche se Hegel era morto da dieci anni). Quello che sconcertò il giovane Kierke­gaard fu la considerazione che il sistema idealistico si sforzasse di dare una risposta totale e definitiva a ogni possibile questione. Ma in realtà, osserva Kierkegaard, l'idealismo era in­teressato solo alla verità oggettiva, non alle verità importanti per il singolo indivi­duo. In breve, Hegel aveva dimenticato di essere un uomo concreto, mentre si affannava a elaborare concetti astratti e lontani dalla vita. Hegel prendeva in considerazione solo l'i­dea di umanità; al contrario, sostiene Kierkegaard, quello che conta è la persona nella sua singolarità, unicità e irripetibilità.
In effetti, la polemica anti-hegeliana costituisce il leit-motiv della filoso­fia di Kierkegaard, secondo il quale i sistemi idealistici non so­no interessati a descrivere l'esistenza reale, ma solo quella con­cettuale. Si legga il seguente epigramma di Aut-Aut, particolar­mente incisivo: «Quando si sentono i filosofi parlare di realtà, si è tratti in inganno come dal leggere su un cartello nella vetrina di un rigattiere: "Si stira la biancheria". Ma sbagliereste a porta­re qui per questo i vostri panni. Si vende solo il cartello». Per Kierkegaard, cioè, l'idealismo non parla della realtà concreta, ma di una dimensione astratta che lascia fuori il soggetto stes­so che l'ha pensata e costruita. Esso dimentica che ogni atto di pensiero, e di astrazione, presuppone un soggetto pensante concreto che lo pensa e che ne rappresenta il vero "cominciamento". Il pensiero non può prescindere da questo essere uma­no reale ed esistente, coinvolto dalle domande che si pone. Inoltre Hegel concepisce la dialettica come conciliazione e sintesi: in essa, infatti, i termini opposti raggiungono sempre una con­ciliazione, la tesi e l'antitesi trovano una mediazione. Ma questo è possibile solo nel pensiero astratto: nella realtà concreta i di­stinti e gli opposti non si lasciano sintetizzare o superare. Per Kierkegaard tentare di eliminare dall'esistenza la contraddizio­ne significa eliminare l'esistenza stessa. Dio e il mondo, ad esempio, non si conciliano mai definitivamente; il peccato non è mai del tutto estirpabile dalla condizione umana, perché l'uo­mo (anche colui che vive moralmente o religiosamente) è sem­pre un peccatore di fronte a Dio. A differenza della filosofia del sistema idealistico, il cristianesimo è lotta senza fine e para­dosso, di fronte al quale l'uomo non può trovare pace ma effet­tuare una scelta drammatica e radicale. Il cristiano non è l'uomo della conciliazione, ma colui che sa lottare giorno dopo giorno.

 

Kierkegaard, proprio perchè la sua filosofia vuole essere una riflessione sull’esistenza pone alla base del suo pensiero la categoria del singolo, una nozione essenzialmente cristiana, che deve mettere in scacco ogni forma di filosofia astratta, universale e sistematica. Nello scegliere la prospettiva del singolo, Kierkegaard prende le distanze oltre che da Hegel, che costituisce l’oggetto della sua polemica, anche da Marx che condivide con Hegel il fatto di privilegiare la dimensione collettiva (vedi “Introduzione alla filosofia contemporanea”, pag. 4 ). Secondo Marx, poiché l’individuo è caratterizzato dall’essere il prodotto delle condizione storico-sociali in cui vive, per comprenderlo occorre innanzitutto comprendere quest’ultime, per cui la filosofia è essenzialmente un’analisi critica della storia. Per Hegel invece l’individuo è il frutto dello “spirito del popolo”, ovvero delle istituzioni e della cultura che esso esprime, per cui la filosofia è principalmente una riflessione su di esse.

 

 

Diversamente da quanto accade nel regno animale, dove domina la necessità e il singolo è inferiore alla specie, ciò che caratterizza l'uomo è proprio la sua singolarità. Mentre del mondo animale, infatti, prendiamo in considerazione il cane, il gatto, il cavallo..., nel mondo degli uomini conta soltanto l'individuo particolare: Giovanni, Marco, Anna, Giulia... Di fronte a ciascuno di noi, chiamato per nome e preso indivi­dualmente, il concetto di specie (l'umanità) diventa qualcosa di secondario e inutile. Il motivo per cui la categoria del singolo è della massima importanza per Kierkegaard, un pen­satore essenzialmente religioso, risiede nel fatto che ogni uomo è considerato come una creatura forgiata a immagine e somiglianza di Dio e mantiene un rapporto individuale e in­timo con il suo creatore.
Insieme alla singolarità, la possibilità è l'altra categoria essenziale di Kierkegaard: un vero e proprio pilastro su cui il filosofo edifica la sua concezione del­l'esistenza. Infatti alla possibilità si ricollegano gli altri due aspetti che caratterizzano l’esistenza umana: libertà di decidere e ciò che la concretizza, la possibilità di scegliere.
La libertà non è soltanto qualcosa di positivo, non è solo un ampliamento e un arricchimento. La libertà ha anche un volto terribile, in quanto essere liberi significa scegliere tra termini opposti e contradditori. La libertà è responsabilità di fronte al bene e al male.
Infatti,  nella prospettiva dì Kierkegaard, la libertà non è affatto il campo dell'apertura al futu­ro, quanto piuttosto quello della minaccia che gra­va continuamente sulla vita di ogni individuo. Chi infatti abbia compreso l'esistenza umana sa che nella possibilità tutto è ugualmente possibile, tan­to ciò che è piacevole quanto ciò che è terribile e devastante. Tale angoscioso sentimento della pos­sibilità come oscura minaccia non si limita a es­sere una consapevolezza teorica ma viene "senti­ta" e può avere un effetto paralizzante sulle stes­se capacità decisionali di un singolo individuo. Ne ebbe, infatti, sulla vita di Kierkegaard stesso che volle mantenere la propria esistenza in quello che definì “il punto zero”tra qualcosa e il nulla, nella as­soluta impossibilità di scegliere. Gli stessi pseu­donimi sotto i quali vennero pubblicate le sue ope­re, indicano l'incapacità di farsi carico di quella sola identità e di quella sola scelta che ogni uomo è costretto a fare. Pur non potendo egli stesso sce­gliere (e anzi proprio per questo), Kierkegaard sentì fortemente la pressione delle possibilità di vita umane come alternative che non possono essere conciliate e di fronte alle quali ogni uomo de­cide di sé.
Questa condizione di fondo viene chiarita da Kierkegaard in due opere fondamentali: Il Concetto dell'angoscia (1844) e La Malattia mortale 1849. In queste opere egli analizza i sentimenti che accompagnano l'esistenza umana aperta alla possibilità, alla libertà: l'ango­scia e la disperazione.
L'angoscia è il sentimento che caratterizza il rapporto dell'uomo col mondo e dipende dal pos­sibile che lo costituisce; è la possibilità della libertà. L'uomo infatti sa di poter scegliere, sa di avere di fronte a sé ogni possibilità; ma è proprio l'indeter­minatezza di questa situazione che lo angoscia. Egli acquista la coscienza che tutto è possibile ma, di fronte alle infinite possibilità di decisione lo spiri­to è colto da una vertigine paralizzante ed è come se nulla fosse possibile. Questo è il sentimento che precede il peccato, l'angosciante possibilità di po­tere il bene come di potere il male. È l'angoscia pro­vata da Adamo di fronte al divieto di gustare i frut­ti dell'albero della conoscenza: egli non sa ancora in che cosa consista la conoscenza, non conosce la differenza tra il bene e il male, eppure è chiamato a scegliere tra l'obbedienza e la disobbedienza.
L'angoscia scaturisce dunque dall'esperire quella vertiginosa libertà di scelta fra infinite pos­sibilità che, ignota alle bestie e ai puri spiriti, è data invece agli umani: è «l'apparire della libertà davanti a se stessa nella possibilità». Per l'indivi­duo l'esercizio della libertà è rischioso; implica in­fatti la consapevolezza che tutte le  cose del mondo sono misere, illu­sorie, finite, portando a volgere lo sguardo verso l'infinito il quale, a sua volta, si presenta carico di terrore: è Dio, alterità assoluta, davanti a cui ci si scopre sempre peccatori. L'angoscia, dunque, è il ponte fra finito e infinito, creatura umana e Dio, poiché fa sorgere l'intuizione della nostra costi­tutiva peccaminosità. Da qui, solo da qui, si può dare il salto verso la fede, abbandonando tutto - la vita mondana, la società, le preoccupazioni este­riori - : «chi perde tutto vince tutto». (vedi lettura “Il concetto dell’angoscia”).
Connesso alla categoria della possibilità è an­che il sentimento della disperazione (la "malat­tia mortale"). Mentre l'angoscia riguarda la condizione umana nel suo rapporto con il mondo e le sue possibilità, la disperazio­ne si riferisce all'uomo, riguarda cioè ognuno di noi nel nostro rapportarci a noi stessi; la disperazione, infatti, nasce dall’impossibilità per l’individuo di convivere in modo sereno con se stesso. Es­sa nasce dall'incapacità di accettare la nostra più profonda realtà interiore. Kierkegaard spiega che si è disperati in un duplice senso. Innanzitutto, quando non riusciamo ad ac­cettarci per quello che siamo e rifiutiamo il nostro stesso essere, andando però incontro all'impossibilità di abbandonare il nostro io; in secondo  luogo, quando ci riteniamo autosuffi­cienti e completi e ci imbattiamo, inevitabilmente, nei nostri limiti. In entrambi i casi è im­possibile giungere “all'equilibrio e alla quiete”.
Nel 1843 uscivano anche i due volumi di Aut Aut, un'opera importante nell'itinerario intellettuale di Kierkegaard. Già dal titolo - aut... aut, "o... o" - si capisce che il tema è rappresentato dalla scelta tra due alternative contrapposte: si tratta di due diverse forme di vita, quella estetica e quella etica.
A differenza del sistema hegeliano, che concepiva la dialettica come conciliazione dei termini opposti, l'aut... aut di Kierkegaard pone l'uomo di fronte a una scelta radi­cale: la vita estetica o quella etica. Più avanti vedremo come le alternative siano ancora più ampie e articolate, in quanto si aggiungerà la vita religiosa. Quello che ora mette con­to sottolineare è l'interpretazione dell'esistenza come scelta.
Esistere significa scegliere. E la scelta si compie tra termini assolutamente contrad­dittori e inconciliabili. Beninteso, non si tratta di una scelta da compiere a livello teorico, ma esistenziale: una scelta che impegna il singolo fin nelle fibre più profonde del suo essere. In­fatti, ciò che dà valore all'uomo non è la profondità della sua cultura o l'ampiezza delle sue conoscenze, ma la capacità di assumersi la responsabilità delle proprie decisioni.
Scrive Kierkegaard:”… La scelta è decisiva per il contenuto della personalità; colla scelta essa sprofonda nella cosa scelta, e quando non sceglie, appassisce in consunzione... Il momento della scelta per me è assai serio, non tanto a cau­sa della severa riflessione sulle varie e distinte possibilità, e neppure a causa del­la molteplicità di pensieri che sono inerenti ad ogni valutazione, ma perché vi è pericolo che nel momento seguente io non sia più così libero di scegliere. Poiché quan­do si crede che per qualche istante si possa mantenere la propria personalità ter­sa e nuda, o che, nel senso più stretto, si possa fermare o interrompere la vita personale, si è in errore. La personalità, già prima di scegliere è interessata al­la scelta, e quando la scelta si rimanda, la personalità sceglie incosciente­mente, e decidono in essa le oscure potenze. ...
... Nella lettera precedente ho osservato che l'aver amato dà all'essere di una persona un'armonia che non vien mai persa del tutto; ora dirò che lo scegliere dà all'essere di una persona una solennità, una calma dignità che non vien mai persa del tutto. [...] L'uomo non diventa diverso da quello che era prima, diventa solo se stesso; la coscienza si raccoglie ed egli è se stesso. Come un erede, anche se fosse erede di tutte le ricchezze di questo mondo, non le possiede prima di diventar maggiorenne, così la più ricca persona­lità non è nulla prima di aver scelto se stessa, e d'altra parte, anche quella che potremmo chiamare la più misera personalità, è tutto quando ha scelto se stessa. La grandezza, infatti, non consiste nell'essere questo o quello, ma nell'essere se stesso, e questo ciascuno lo può se lo vuole. Che, in un certo senso, non si tratti di una scelta di qualche cosa, lo vedrai dal fatto che quello che appare dall'altra parte, ciò che nella scelta non è stato scelto, è l'estetica, che è l'indifferenza.” (“Aut-aut”).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La scelta (vedi lettura “Aut-Aut: scelta e personalità”)

La centralità e la problematicità della scelta è  riscontrabile anche nelle vicende biografiche dello stesso Kierkegaard. Tra gli avvenimenti che meritano di essere ricordati della vita di Kierkegaard, una vita pe­raltro priva di fatti esteriori importanti, vi è la vicenda della rottura del fidanzamento con la diciottenne Regina Olsen, figlia di un alto funzionario, che egli amava e aveva chiesto in sposa. Nel suo Diario Kierkegaard registra che il giorno seguente questa deci­sione si rese conto dell'errore e, dopo un paio di mesi di indescrivibili sofferenze, pervenne alla rottura definitiva. Regina rimase malissimo di fronte a queste decisioni, apparentemen­te immotivate, arrivando alla disperazione e alla minaccia del suicidio; emozioni che ricor­derà con animo turbato per tutta la vita.
Per noi assume grande significato la motivazione che Kierkegaard riporta di questo gesto: avendo abbracciato il cristianesimo, con tutta la «tremenda serietà» che quella scelta com­portava, egli non poteva condividere il suo amore per Cristo con un'altra persona né poteva continuare a vivere un'esistenza tranquilla e borghese come quella dell'uomo sposato. Ma anche per lui una simile decisione fu causa di insicurezza e angoscia, come dimostrano le parole scritte nel Diario: Kiekegaard confessa che, nonostante la necessità di lasciare Re­gina, rimarrà per sempre suo e afferma di aver imparato, attraverso questo difficile passag­gio della sua esistenza, qualcosa di fondamentale: «Dio ha la precedenza su tutto».
Nella rottura del fidanzamento ciò che emerge come particolarmente significativo è la decisione di scegliere Dio al di sopra di ogni altra cosa: una scelta esclusiva e senza com­promessi. Kierkegaard è infatti, principalmente, un pensatore cristiano: «il divenir cristiano - egli affermava - è stato il compito della mia vita».
Il suo cristianesimo, però, non deve essere confuso con quello della Chiesa ufficiale. Signi­ficativa a tal proposito è la dura polemica che egli ebbe con il vescovo protestante danese Mynster. La Chiesa è da lui accusata di essersi ribellata a Dio e di avere una visione pura­mente terrena e mondana dell'Assoluto. Gli uomini di Chiesa hanno ridotto il messaggio di Cristo a mera dottrina, cioè ne hanno fatto una speculazione teologica. Del cristianesimo essi hanno tralasciato proprio la parte più importante: l'imitazione di Cristo, una vita vis­suta all'insegna dell'abnegazione, dell'ascesi e del sacrificio. Cristo aveva testimoniato la sua verità con la messa in gioco della propria vita. I cristiani, al contrario, hanno tradito Cristo, considerando il cristianesimo come un gioco. C'è dunque un ateismo cristiano, consisten­te nel fare a meno di Dio, del suo volto più severo e inquietante, per sostituirlo con una ver­sione più addolcita, con l'obiettivo di «vivere tranquilli e attraversare felicemente il mondo».
A Kierkegaard va sicuramente attribuito il merito di aver elaborato in termini a noi contemporanei il cristianesimo operando il passaggio dalla spettacolarizzazione della religione all’interiorizzazione della religione, ovvero il passaggio dalla religione come obbligo sociale e sistema di verità assoluta alla religione come scelta di vita, su cui centrare la propria esistenza.

 

Vediamo ora quali sono le alternative fondamentali che, secondo Kierkegaard, si presentano all’uomo e di fronte alle quali egli si trova  a dover scegliere.
Di fronte alla vita ci si può comportare come don Giovanni (il personaggio dell’omonima opera di Mozart), per il quale la vita è seduzione. Ci si muove nel mondo senza mettere mai radici, ponendo tra sé e gli altri un sottile velo di immagini seducenti. Il seduttore non mostra mai se stes­so: mostra sempre una immagi­ne, una cangiante immagine, in modo da potersi nascondere dietro di essa e apparire come la donna che corteggia vuole che egli sia, senza in realtà essere mai nessuna delle maschere di cui si riveste. Il suo è il mondo della pura esteriorità, mondo dal quale è stata eliminata ogni dimensione di profondità, di cer­tezza e di stabilità. Come in un, gioco di superfici, tutto nella sua seduzione attrae, ma la vita di don Giovanni è senza spessore. Egli vive della sua seduzione; essa gli permette di non radicarsi mai in un rapporto durevole, di non costruire mai nel mondo dei punti di riferimento stabili. Tutto ciò che tende a cristallizzare i sentimenti e le abitudini, a costruire una quotidianità ordina­ta fatta di impegni e di doveri, tutto questo viene rigettato. Don Giovanni non ha una moglie: vuole tutte le donne, vuole sedurle ma non legarsi ad alcuna per poter non scegliere. Egli paga questa non-scelta che si rivelerà apparente, perché egli sceglie in realtà di fuggire da ogni scelta, con la impossibilità di costruire legami e affetti costanti, col vive­re del bisogno continuo del nuovo. E se si ferma è perduto. Se si ferma, infatti, è assalito dalla disperazione. Don Gio­vanni è un esteta, vuole il godi­mento immediato; ma la vita estetica è una vita letteraria, buona per il teatro in cui tutto è gioco di immagini e i sentimenti sono di cartapesta come le scene sullo sfondo. Se don Giovanni smette di recitare e guarda luci­damente a se stesso, scopre sol­tanto il vuoto: non ha accettato di fare delle scelte (ha creduto di poter sfuggire alla necessità di scegliere), non è dunque altri che nessuno. È nulla. Questo nulla è disperazione, terrore del vuoto, del non essere altro che niente. La sua disperazione nasce dalla coscienza che ogni attimo della vita è eguale all'altro, che il sempre nuovo che egli cerca nella superficialità dell'istante è lo stesso istante che ritorna iden­tico, che si ripete eguale perché la ripetizione non ha caratteristi­che. Ogni donna per don Giovanni  è uguale alle altre, perché nessuna per lui è oggetto di amore e di scelta. L'importante è ripetere, non fermarsi; importan­te non è mai ciò che si ripete, ma che il gioco si ripeta. Altrimenti don Giovanni cade nella disperazione.
Don Giovanni compie quindi una scelta estetica. L’esteta manca di qualsiasi punto di riferimento, di un “centro” interiore suo proprio, per cui scrive Kierkegaard “non può dare della sua vita nessuna spiegazione soddi­sfacente, perché egli vive sempre solo nel momento, e ha una coscienza soltanto relativa e limitata di se stesso”; mancando di un punto di riferimento l’esteta non è in grado di costruirsi un proprio progetto di vita “per cui egli spontaneamente è quello che è ... per cui di­venta quello che diventa”. Questa mancanza di un progetto si traduce a sua volta nell’incapacità di scegliere, infatti “la scelta estetica o è completamente spontanea, e perciò non è una scelta o si perde nella molteplicità ... si sceglie solo per il momento, e perciò nel momento seguente si può scegliere qualche cosa d'altro”. All’esteta Kierkegaard dice:”Sei spiritoso, ironico, buon osservatore, dialettico, esperto nei piaceri, sai calcolare il momento, sei, secondo le circostanze, sentimentale o senza cuore, ma con tutto questo vivi sempre solo nel momento, la tua vita si disfa in una serie incoerente di episodi senza che tu possa spiegarla” (“Aut-aut”).

 

 

 

 

 

 

 

È così che la scelta di don Gio­vanni ha come propria antitesi l'atto con cui l'uomo accetta di scegliere, aderendo così a un mondo etico. L'uomo che accetta il matrimonio permette alle profondità dell'amore di pene­trare in lui, rifiutando la superfi­cialità della seduzione. E un salto radicale, è la scelta di una  possibilità totalmente diversa. Con la profondità dei suoi senti­menti stabili, con la moglie, con i figli - persone di cui accetta la responsabilità nell'ordine bor­ghese della società moderna - l'uomo sposato trova una pro­pria identità.  A partire dai punti fermi del suo mondo (la fami­glia, il lavoro, la responsabilità che ne deriva, l'adesione a un ordine di regole sociali che gli garantiscono il rispetto degli altri, e così via), l'uomo sposato  costruisce un'esistenza regolare, fatta di diritti e di doveri accetta­ti; ne è contento, acquisisce abi­tudini, aderisce a un  sistema col­lettivo di valori, costruito dalla generalità dei suoi simili nella società in cui vive. Tuttavia questa generalità è anonima: nessun in particolare stabilisce le regole del vivere sociale, defi­nisce positivamente che cosa è bene e che cosa è male. È la società nel suo complesso a farlo. L'uomo etico aderisce ai valori impersonali di una collet­tività.
Mentre il seduttore  vive sempre nell'istante e non si fa mai carico del proprio passato e delle responsabilità che ne derivano, l'uomo sposato ha un rap­porto del tutto opposto con il presente. Tutto ciò che egli fa non è limitato all'istante, ma deriva dall'assunzione delle responsabilità che egli si è assunto nelle scelte passate (dall'aver sposato quella donna, avere messo al mondo quei figli), in vista di progetti futuri ben chiari e predeterminati. Tutto questo però copre soltanto il vuoto dell'esistenza. L' identità dell'uomo sposato è protetta: in un'esistenza regolare il nuovo è inquadrato, incasellato nell'ordi­ne esistente; il sistema di valori accettato dalla generalità degli uomini  ha  una risposta  per   ogni problema.
Tuttavia  anche l'uomo sposato non è al riparo dal vuoto dell'e­sistenza, anch'egli ha una libertà che si rivela vuota. Questo non accade tanto perché le responsa­bilità assunte lo limitano nelle sue scelte, infatti ciò che l'uomo sposa­to chiede è proprio di essere liberato dall’angoscia della scelta e di potersi affidare a un sistema oggettivo di valori da tutti accettato.  Il  punto è che l'uomo sposato si accorge di essersi liberato dalla responsabilità soggettiva della scelta accettando la responsabilità etica della famiglia e un ordine generale di valori , ma di avere così solo coperto la sua più profonda libertà, basata sulla radicale soggettività di ogni decisione. Rifugiarsi dietro le scelte dell'anonimo prossimo, aderire a valori superiori è solo un nascondersi dietro di essi. L’individuo rimane egualmente il soggetto responsabile di ciò che fa anche se si trincera dietro la sua rispettabilità borghese. Quando si accorge di questo l'uomo sposato entra nella dimensione dell'angoscia, vive, cioè il terribile vuoto della sua esistenza.
Questa crisi non è transitoria perché affonda le sue radici nell'essere dell'uomo. Tuttavia, se la superficialità del seduttore genera disperazione e la profon­dità dell'uomo etico genera angoscia, c'è alternativa per l'uomo singolo al sopravvivere come meglio può nello spazio tra queste due possibilità?

 

 

Né certe appassionate analisi etiche, né certe suggestive anatomie psico­-esistenziali devono però far dimenticare la natura essenzialmente religiosa del pensiero kierkegaardiano. Già Aut-Aut si concludeva con un'apertura verso la dimensione del divino. Ribadita la validità e la dignità della scelta etica, Kierkegaard suggeriva l'esistenza di un'altra prospettiva aperta dinanzi alla coscienza umana: la prospettiva religiosa.
In effetti, per Kierkegaard, l’unico antidoto all’angoscia e alla disperazione è la fede; infatti la disperazione nasce  perché non vogliamo ricono­scere che quello che siamo lo siamo per Dio; vale a dire, che il nostro essere si giu­stifica solo in Lui. Da che cosa deriva, dunque, la disperazione? Dal voler trovare un sen­so indipendente e autonomo al proprio essere negando di appartenere a Dio.
I cardini teorici essenziali della concezione kierkegaardiana della religione sono l'assoluta trascendenza del divino e la soggettività dell'esperienza reli­giosa. Soggettività non significa arbitrarietà o relatività della fede: significa, invece, che la religione è un fatto eminentemente personale. Nessuna mediazione estrinseca può e deve turbare l'immediatezza del colloquio dell'uomo con Dio. La fede, dice Kierkegaard, è un'esperienza solitaria: non si entra in essa «in compagnia». Il suo luogo specifico non è tanto la chiesa quanto la coscienza. La sua testi­monianza non è tanto un rituale pubblico, visibile, quanto un atto interiore. Il credente conquista Dio solo attraverso «la passione infinita dell'interiorità».
Questo forte privilegiamento della coscienza e dell'interiorità non implica però la riduzione dell'esperienza religiosa a un fatto tutto interno e immanen­te all'io. La fede è anzi proprio l'esperienza di una realtà che sta oltre l'oriz­zonte della coscienza e dell'umano. Sulla trascendenza del divino e sulla sua incommensurabilità Kierkegaard ha scritto (su tracce antico-testamentarie e protestanti classiche: Lutero, Calvino) pagine di grande potenza. Dio viene prima di ogni argomentazione, ed è al di là di ogni ipotesi. Non può essere «raggiunto» per via «naturale», né tanto meno può essere «dimostrato». Dio è oltre il «limite» al quale è dato di arrivare. Esso è «l'ignoto», irriducibile a «qualsiasi altra cosa che noi conosciamo». È «il diverso»: l'«assolutamente diverso», la «differenza assoluta».
A questa inquietante definizione del divino si collega quello ch'è uno dei temi storicamente più significativi della riflessione kierkegaardiana: il rap­porto tra fede e ragione, tra fede e filosofia. A questo proposito il pensatore danese assume, infatti, una posizione radicale ed estremamente polemica. Il bersaglio della sua critica sono tutte quelle concezioni (a cominciare dalla filo­sofia hegeliana) che in un modo o nell'altro cercavano di «concilia­re» umano e divino, religione e speculazione - o che cercavano, ancor peg­gio, di includere la fede nel superiore orizzonte del pensiero filosofico. Tale «conciliazione» non ha per Kierkegaard alcun fondamento. L'esperienza reli­giosa è per lui un «assoluto». Chi si mette per la strada della filosofia della religione non giungerà mai al traguardo desiderato. La verità filosofica è una cosa, la verità religiosa è un'altra. Credere con la ragione «è una cosa impossibile». L'esistenza di Dio è - e deve restare - uno «scandalo» logico: lo scandalo del­l'infinito che si incarna nel finito, dell'eterno che entra nel tempo. La fede deve credere «ciò che non vede». Deve scoprire - e accettare - «l'inverosimi­glianza e il paradosso». E per far questo occorre un impegno spirituale che va molto al di là degli argomenti razionali. Lo «scandalo», l'«inverosimile», il «paradosso» sono essenziali per la maturazione dell'uomo: gli fanno cogliere i limiti delle sue certezze e del suo buon senso, l'esistenza di verità in-dicibili e in-dimostrabili. È anche per questo che Kierkegaard dà tanta importanza all'angoscia e alla disperazione. Esse sono in qualche modo esperienze-limite che consentono all'essere umano di scoprire la propria insuf­ficienza e di prepararsi alla fede: l'angoscia «forma alla fede»; la disperazione è «il primo grado della fede» che produce «una bruciante nostalgia della re­ligione».
Soddisfare tale nostalgia in modo graduale e indolore non è peraltro possi­bile. La fede, sottolinea Kierkegaard (e questo è un altro dei temi che hanno maggiormente colpito la spiritualità contemporanea) è un «salto» e un «ri­schio»: è un rischio nel senso ch'essa dev’essere assunta in modo assoluto, senza alcuna prova o garanzia, anzi contro tutte le apparenze e le ipotesi. Perché tutto questo? Perché per Kierkegaard l'oggetto essenziale della religio­ne non è la verità/validità di ciò che si crede, ma come si crede e il modo d'essere del credente: il suo coraggio, il suo impegno, la sua disponibilità asso­luta.
Il simbolo della vita religiosa è Abramo che, vissuto fino all'età di settant'anni nel rispet­to dei doveri morali e familiari, all'improvviso un giorno riceve da Dio l'ordine di uccidere suo figlio Isacco, in netto contrasto con ogni legge morale e sociale. Abramo è posto di fron­te a una alternativa radicale: obbedire o non obbedire al comando di Dio, un comando in­comprensibile per la ragione umana. Abramo non ha via di scampo, deve scegliere: o Dio o la morale degli uomini. Non c'è la possibilità di una terza via, di una conciliazione o di un'in­decisione. Deve scegliere tra due opposti inconciliabili. Egli fa il salto della fede, sceglie Dio. Ma che significato ha tale scelta? Si tratta di una scelta irrazionale e assurda che va al di là di ogni buon senso e di ogni regola umana.
Proprio perchè contraria alla morale e all’opinione degli uomini ,  per cui richiede sempre una scelta individuale, la fede è scandalo: l’ordine di Dio ad Abramo testimonia drammaticamente l'ir­riducibile differenza tra la ragionevolezza della morale e l'imperscrutabile scandalo della fede.

 

 

 

Vita e opere                       

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Nato a Copenhagen nel 1813, nel 1830 Kierkegaard si iscrive alla facoltà di teologia dell'Università locale. Nel frattempo comincia a scrivere annotazioni in un diario, mantenendo questa abitudine per tutto il corso della sua vita (le sue Carte saranno pubblicate postume). Nel 1837 conosce Regine Olsen, con la quale in seguito si fidanza; nello stesso anno va a vivere da solo con una rendita passatagli dal padre, ricco commerciante, alla morte del quale erediterà un grosso patrimonio. Il rapporto con i genitori, e in particolare con il padre, permane come un'ombra alquanto oppressiva su tutta la sua esistenza. Circostanze rimaste ignote provocano quindi in lui un profondo rivolgimento interiore che si manifesta in un senso di angoscia e disperazione: una «scheggia nelle carni», secondo le sue stesse parole. Nel 1841 rompe il fidanzamento, si laurea in filosofia con la tesi Sul concetto di ironia con costante riferimento a Socrate, va per la prima volta a Berlino per ascoltare Schelling, ma ne rimane deluso. Tornato a Copenhagen, si concentra nella composizione delle sue opere: nel 1843 scrive Aut-Aut, Timore e tremore, La ripresa e alcuni Discorsi edificanti; l'anno successivo, Briciole di Filosofia (o Una filosofia in briciole) e Il concetto dell'angoscia. Seguono, fra gli altri, Postilla conclusiva non scientifica (1846), La malattia mortale (1849), Esercizio di cristianesimo (1850). L'elaborazione di questi testi, pubblicati poi sotto vari pseudonimi, è accompagnata da esperienze interiori di profonda sofferenza, acuita dalle difficoltà finanziarie e, soprattutto, dagli attacchi che muove contro di lui, a partire dal 1846, il periodico satirico «Il corsaro». Negli ultimi anni Kierkegaard accentua la sua polemica contro la chiesa ufficiale danese che culmina negli articoli stampati nella rivista «L'ora», da lui stesso pubblicata da maggio a settembre del 1855. Muore nel novembre del medesimo anno

 

Fonte: http://fioritofilsto.xoom.it/Dispense%20filo/Kierkegaard.doc

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