Storia della filosofia moderna

 

 

 

Storia della filosofia moderna

 

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I. Le radici e lo sfondo culturale della filosofia moderna

1. I secoli XIII e XIV

 

1. L’avvento degli ordini mendicanti

1.
Nel tredicesimo secolo nascono gli ordini mendicanti, che avranno un influsso notevole nello sviluppo della vita intellettuale della cristianità e lasceranno un’impronta profonda nelle istituzioni accademiche e nelle diverse correnti di pensiero. I fratres non sono più vincolati ai monasteri e sono molto legati alla predicazione del messaggio cristiano.
Nella tradizione francescana è stato sempre sottolineato l’amore di Dio per le sue creature e in particolare per l’uomo . Questa nozione centrale del pensiero cristiano, abbinata a uno stile di vita di povertà radicale, ebbe conseguenze nel modo d’impostare la diffusione del Vangelo tanto che il ribadire l’amore di Dio diverrà, in alcuni autori, una riserva nei confronti della ragione. Infatti, i tentativi di approfondire la conoscenza dei disegni divini, e soprattutto dell’essere di Dio, sono considerati con una certa diffidenza perché implicherebbero una mancanza di rispetto verso la Rivelazione, nei confronti della quale si deve avere un atteggiamento di completo abbandono.

I domenicani davano invece una preminenza assoluta allo studio come mezzo per far fronte ai movimenti eretici e, per questo motivo,  ritenevano indispensabile la gestione di biblioteche e altre risorse per la formazione intellettuale dei loro membri. Non a caso, fu proprio questo ordine a ridestare l’interesse per lo studio dei pensatori dell’antichità e della tradizione araba, nel tentativo di approfondire la conoscenza della Rivelazione.
L’insegnamento nelle scuole vescovili – dalle quali sorgeranno poi le università – era affidato ai sacerdoti secolari, e l’avvento degli ordini mendicanti implicò l’istituzione di cattedre di teologia riservate a loro.
Alessando di Hales (1185-1245) ebbe la prima cattedra francescana a Parigi, seguito da Jean de la Rochelle (m. nel 1245). Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274) insegnò a Parigi dal 1248 al 1257. Come Generale dell’Ordine, dovette far fronte anche alle polemiche sull’aristotelismo con i domenicani. La sua proposta teologica si trova in continuità con l’agostinismo medievale, anche se inserisce alcuni elementi aristotelici.
La prima cattedra affidata ai domenicani a Parigi risale al 1230, e sarà segnata dal lavoro di Alberto Magno (1206-1280) e Tommaso d’Aquino (1225-1274). Entrambi portarono avanti lo studio sistematico del pensiero aristotelico e arabo, in dialogo con la tradizione agostiniana.

 

2. Giovanni Duns Scoto (1266-1308)

Nato a Maxton, in Scozia nel 1266. Muore a Colonia, 1308. Francescano. Studia a Parigi. Insegna a Cambridge (1297-1300), ad Oxford (1300-1301) e a Parigi (1302-1303). Nel suo epitaffio si legge: Scotia me genuit/Anglia me suscepit, Gallia me docuit/Colonia me tenet (la Scozia mi ha generato, l’Anglia mi ha allevato, la Gallia mi ha istruito, Colonia mi tiene).

a) Il volontarismo nella comprensione della fede e della ragione

2.
Scoto accentua la separazione fra la conoscenza razionale e quella proveniente dalla fede. La prima resta ad un livello molto imperfetto e generico. La seconda invece, dal valore piuttosto pratico, è attinta dalla rivelazione soprannaturale.
L’amore di Dio, anzi il fatto che «Dio è amore», è un elemento determinante nella proposta di Scoto. La creazione è un atto di amore.
L’intelletto, secondo quanto accennato sopra, ottiene delle conoscenze molto limitate e non può pretendere di capire il perché delle azioni divine. La spiegazione ultima risiede nell’imperscrutabile volontà divina.
Il primato della volontà-amore di Dio si riflette anche nella concezione del bene: bene è ciò che è comandato da Dio (cfr. l’idea tomistica: non è un bene perché Dio lo voglia, ma Dio lo vuole perché è un bene). Qui comincia il cosiddetto volontarismo, cioè l’enfasi nella potenza di Dio e nell’imperscrutabilità dei suoi disegni, con il conseguente abbandono della ricerca della loro razionalità. La radicalizzazione di questa impostazione da parte di Okham giungerà alla conclusione che se Dio avesse comandato di fare il contrario di ciò che effettivamente ha comandato, ciò sarebbe bene.

b) Il volontarismo e l’univocità dell’essere

3.
Avicenna impostò la questione metafisica dell’essere in termini di possibilità (anziché di potenza): in generale, secondo la sua visione qualsiasi essere possibile è proteso verso l’esistenza, la quale si presenta come ultima perfezione, quasi un ultimo accidente di una essenza pressoché completa .
Avicenna sosteneva che tutte le realtà create sono costituite da materia e forma, e che esiste una forma universale, di cui le forme particolari sono altrettante specificazioni.
La distinzione tomistica fra essenza e atto di essere, che metteva l’accento sull’atto come realtà radicale, non è ripresa da Scoto, che invece escogita una formula analoga a quella di Avicenna per spiegare l’esistenza e l’individuazione degli esseri.
Per Scoto, il principio secondo cui la prima idea dell’intelletto coincide con l’essere si riferisce a un essere semplicissimo e universalissimo, privo di qualsiasi determinazione. Un ens commune, nozione astratta e generica che si determina per una sorta di accumulazione di caratteristiche accidentali .
La materia prima è il sostrato ultimo del divenire, ma è in possesso di una forma-attualità propria (contro Aristotele). È, per così dire, un ente completo, che non può «aggiungersi» a un altro per determinare l’individualità (tesi in contrasto con quanto sostenuto da S. Tommaso).
Il principio di individuazione sarà una entità positiva che determina la natura alla singolarità, una caratteristica della forma che la rende singolare. È la entitas individualis o entitas singularitatis, chiamata poi haecceitas («questità»).
Per Scoto, come per gli arabi, tutte le realtà dipendono da un atto della volontà di Dio, che conferisce l’essere alle cose rappresentate nelle Idee divine.

 

3. Guglielmo di Ockham (c. 1290-c.1347)

Nato a Ockham, Surrey, verso il 1290 e morto a Monaco di Baviera, circa 1347/49.
La vita di Ockham è segnata dalle polemiche sulla radicalizzazione della povertà che divisero l’Ordine e la sua opposizione alle decisioni papali, per cui si rifugiò presso la corte di Luigi di Baviera a partire dal 1328.

a) Il nominalismo

4.
Il dodicesimo secolo fu segnato dalle discussioni sul valore dei concetti universali, i loro rapporti con il linguaggio e con le realtà da essi rappresentate. Ockham prende posizione in favore della semplicità, scegliendo come punti di riferimento la intuitiones sensibili e il linguaggio come consenso: le cose provocano delle sensazioni, che sono realtà indipendenti alle quali vengono assegnati dei nomi arbitrariamente. Il riferimento alle cose si basa su questo accordo e non su una presunta comprensione della loro essenza.
I termini possono essere scritti, proferiti o concepiti, manifestati tramite segni che «stanno per» la cosa (suppositiones). «Tendono» verso gli individuali (intentiones) .
Non bisogna pensare a una consistenza degli universali (essenze, astrazioni…). La semplicità, già riscontrata in Scoto, diventa metodo: entia multiplicanda non sunt praeter necessitate. Ecco il «rasoio» di Ockham, spartiacque fra la via antiqua (quella dei realisti, specie gli scotisti) e la via moderna.

b) Indipendenza della fede dalla ragione

5.
La fede è costituita da un insieme di verità indipendenti dalla loro coerenza razionale.
La conoscenza razionale parte dalle intuitiones che costituiscono l’esperienza (esterna e interna). Sono «atomi» di sensazione, separati e contingenti. Le conoscenze possono essere «complesse» o «incomplesse»; queste ultime sono costituite dai singoli termini e possono essere «intuitive» o «astrattive»: le prime colgono l’oggetto con tutte le caratteristiche particolari e l’esistenza mentre le seconde invece prescindono da tutte.
Nell’astrazione si prescinde dalle caratteristiche individuali ed così è possibile sviluppare il linguaggio.

c) Metafisica e causalità

6.
Nella fisica si conoscono i dati dell’esperienza nella quale è impossibile scorgere l’esistenza di Dio (i dati sono isolati). Le cinque vie per dimostrare l’esistenza di Dio non sono valide perché non abbiamo intuizioni dell’insieme che si pretende di conoscere.
La causalità dipende da collegamenti che non sono percepiti, quindi non può originarsi nell’esperienza. Si esclude decisamente la causalità finale (la causa finale non produce nulla). Soltanto è ammissibile la causalità efficiente.
La teologia dipende direttamente dalla Rivelazione ed è completamente separata dalla conoscenza razionale.
Alcuni dei problemi che sfuggono alla ragione (ad. es. l’immortalità dell’anima) sono sottratti al discorso razionale, che si illude di poter conoscere queste realtà. La Rivelazione e la fede offrono le risorse necessarie a condurre una vita cristiana, al di là dei limiti della nostra ragione.
La libertà è indimostrabile, ma ne abbiamo esperienza immediata. Questa possibilità di agire bene non basta però ai fini della salvezza, che invece dipende dalla grazia divina: G. Biel, maestro di Lutero, lo proporrà di nuovo più avanti.

 

4. Giovanni «Meister» Eckhart (c. 1260- c. 1327) e la mistica speculativa

Nato a Hochheim, vicino a Gotha in Turingia. Entra nell’Ordine Domenicano a Erfurt. Studia a Strasburgo e poi a Colonia. Ricopre cariche accademiche e di governo a Parigi, Strasburgo e Colonia. Giovanni XXII condanna nel 1329 28 tesi estratte dalle sue opere, fra le quali spiccano l’eternità del mondo e l’uomo inteso come «nulla».

a) La mistica speculativa germanica

7.
L’influsso del platonismo nelle regioni germaniche si mantenne durante il XII secolo. G. di Moerbecke tradusse la Elementatio theologica di Proclo, commentò il Parmenide e il Timeo, e il Liber de causis di Pseudo Dionigi, conosciuti e studiati a Colonia.
La distinzione fra ragione e fede, la crisi della scolastica (e le condanne parigine), e la “dissoluzione” sulle possibilità di arrivare razionalmente almeno ai preamboli della fede, soprattutto ad opera di Scoto e Ockham, esigono una nuova proposta per spiegare il rapporto fra Dio e l’uomo.
Questa corrente è detta «mistica» perché si basa sull’idea di un Dio al di là di ogni possibilità concettuale. È «speculativa» perché permeata di filosofia, in particolare platonica (Proclo e Pseudo Dionigi). Adopera come strumento fondamentale la «teologia negativa»: conosciamo di Diò più ciò che non è di quello che è, anche quando gli assegniamo caratteristiche eminenti (in-finitezza, onnipotenza, ecc.), perché i discorsi razionali si basano sulla conoscenza di cose imperfette e limitate (Cfr. Reale 1, 489).
Nel periodo di rifioritura del neoplatonismo e il suo accostamento al cristianesimo c’è una questione fondamentale che riguarda l’origine delle cose. Nel cristianesimo, la creazione è un atto libero e originale di Dio e l’essere delle creature è nettamente diverso da quello del Creatore. Questa distinzione sbiadisce nella corrente neoplatonica perché in questa tradizione è molto importante l’unità degli esseri. Tutto dipende dall’Uno e tutto ivi ritorna per una emanazione, quindi una distinzione chiara sembra una spaccatura nella scala degli esseri. L’Uno o Dio viene inteso come la fonte di tutti gli esseri, ma in una sorta di attività necessaria e continua, come la luce che si diffonde naturalmente. La consistenza degli esseri dipenderà dalla vicinanza alla fonte della luce, la quale si indebolisce man mano che ci si allontana da essa. Questa metafora serve a capire che la suddetta emanazione non è una mera confusione fra l’Uno e i molteplici, ma resta sempre una metafora.
Si presenta così il problema della non-distinzione fra Dio e le creature, e la spiegazione dell’emanazione come diffusione della luce non risolve la questione metafisica di fondo. È inevitabile la tendenza al panteismo. Per ciò è importante ricordare la nozione di creazione dal nulla (ex nihilo) ed evitare così di fondare la metafisica del creato in un concetto sbagliato di partecipazione.
La «contemplazione» negativa e la mancanza di distinzione fra Dio e la creatura avranno un influsso importante su N. Cusano, Boehme, G. Bruno, Spinoza, Hegel e Schelling. Tauler, Seuse, Groote (devotio moderna).

b) L’Unità fra Dio e le creature

8.
L’Unità è una esigenza metafisica, ma ben diversa dall’essere statico parmenideo perché è Vita. Nella Trinità si trovano Unità e Vita, dinamicità eterna senza alterità.
In Dio essere e conoscere coincidono e lì si trovano anche le creature. «In principio erat Verbum», non l’ens, prima «ego sum veritas» (conoscere), tutt’al più il Verbo sarà «la purezza dell’essere».
Si può dire che Dio è l’essere nel senso che è la causa di tutte le cose (per non dire che le cose «sono» senza Dio): l’essere è Dio, perché se l’essere è altro da Dio, Dio non è, né è Dio. Perciò Dio è carità, unisce, è in tutte le realtà e al di sopra di tutto.

c) Ritorno dell’uomo a Dio

L’uomo è capace di ricongiungersi a Dio tramite la ragione (il che non vuol dire tramite il ragionamento). La ragione deve essere presa da Dio e sommersa in Lui, trasformandosi totalmente in Dio.

 

5. Niccolò Cusano (1401-1464)

a) Vita e opere

Nato Cues (Kryfts o Krebs), nel 1401, morto a Roma nel 1464 .
Studia a Heidelberg (1416) e a Padova (1417-1423) (Canonico). Ordinato nel 1426 a Coblenza. Partecipa al Concilio di Basilea (1432), a seguito del quale pubblica De concordantia catholica (1433-4).
Riceve l’influsso di Eckhart, Scoto Eriugena, Pseudo-Dionigi, Plotino e Sant’Agostino. La sua proposta avrà influsso su Leibniz, Malebranche, Hegel e Schelling.
La più nota delle sue opere è De docta ignorantia (1438-40).

b) Dio e l’armonia

9.
Nelle cose finite si scopre in un primo momento l’opposizione, ma nell’insieme si scorge l’infinito, nel quale ha luogo la coincidentia oppositorum: il maximum e il minimum sono co-implicati nella loro opposizione e coincidenza.
Quell’infinito è Dio, nel quale si risolvono tutte le differenze. Nel massimo in entrambe le direzioni (massimamente grande-massimamente piccolo) non c’è distinzione.
In Dio si trova la coincidentia oppositorum, che si riflette sia a livello ontologico (tutte le cose) che politico-ecclesiastico. Da qui la missione della Chiesa e l’Impero insieme per riportare all’unità nella molteplicità. Il Papa manifesta questa unità.

c) La dotta ignoranza

10.
Il Cusano sottolinea l’importanza della via negativa per la conoscenza di Dio, inserendone però un senso di progresso o crescita: il rapporto fra la conoscenza finita e quella infinita è come quello che c’è fra il circolo e un poligono iscritto al suo interno, con lo stesso raggio: perché il poligono potesse raggiungere il perimetro del circolo dovrebbe avere una quantità infinita di lati, il che è impossibile. I punti di contatto con la circonferenza danno una conoscenza più perfetta (identità) mentre il resto della linea di ogni singolo lato rappresenta una conoscenza limitata (congetturale).
La conoscenza sensibile è valida e utile. Quella razionale è una dialettica fra affermazione e negazione, allo scopo di raggiungere l’unità.
Il linguaggio, prodotto razionale, ha un ruolo analogo, cioè negativo: con esso si riconosce che la ragione affronta una luce troppo forte. Le creature sono manifestazioni di quella luce che ci trascende.

d) Dio, l’uomo, il mondo

11.
L’Unità crea la molteplicità (uscita). È omnia complicans (cfr. Eckhart) perché tutto è in Lui, ed omnia explicans perché Egli si trova in tutto: il mondo è una teo-fania (manifestazione di Dio).
L’uomo è un piccolo mondo, una parte di quello più grande; in ogni parte del cosmo risplende il tutto (cfr. la copula mundi di Ficino).
L’essere umano è un luogo di sintesi, microcosmo di materia, vita sensibile e spirituale. Nell’anima si ripete in qualche modo la coincidentia oppositorum, grazie anche alla corporeità.

2. Rinascimento e Umanesimo

 

1. Introduzione

a) Sui termini Umanesimo e Rinascimento

12.
Il termine «Umanesimo» fa riferimento allo studio delle lettere classiche in contrasto con la lettura tradizionale-universitaria medievale. Questa ripresa delle humanae litterae e della paideia greca, fonti profane della cultura europea, è da intendersi anche con un segno di rinnovamento e di indipendenza nei confronti degli studi condotti dalle ricerche teologiche. Si sviluppa già nel Trecento nelle città italiane (Coluccio Salutati, toscano, 1331-1406) ma si diffonde soprattutto nel Quattrocento. Il tema centrale è l’uomo e non gli studia divinitatis e la fisica: si connota l’antropocentrismo.
«Rinascimento» è termine consacrato dalla storiografia dell’800 per sottolineare l’interpretazione secondo la quale la rinascita delle scienze umane classiche sarebbe una sorta di risveglio della cultura europea. Questa rinascita si sviluppa nei secoli XV e XVI. Il senso di reazione nei confronti della cultura religiosa medievale è fortemente accentuato. Si valorizza l’arte in sé stessa (sensualismo versus strumento dottrinale). Lo studio è ampliato per comprendere l’uomo insieme con la natura. Si diffondono testi di autori neoplatonici e si fa una lettura «secolarizzata» di Aristotele.
Relativizzazione di questa periodizzazione «classica»: Petrarca, Dante.
L’invenzione della stampa segna una svolta nella storia della cultura. Gutenberg stampa la prima Bibbia nel 1455.

b) La diffusione della tradizione bizantina in Italia

13.
La diffusione della cultura bizantina in Italia – allora divisa e con lo Stato Pontificio al centro – è una conseguenza della pressione dell’Impero Ottomano sulla capitale dell’Impero Romano di Oriente (presa nel 1453). Le trattative fra le Chiese Ortodossa e Cattolica per cercare una intesa sul campo dottrinale (con la prospettiva di collaborare anche sul campo della difesa dei confini cristiani contro l’Islam) favoriscono un intenso scambio: gli studiosi di lingua greca portano in Europa oltre alla loro conoscenza della lingua dei filosofi classici, anche manoscritti di opere non sconosciute, e anche versioni più affidabili di testi già noti nel Medioevo.
Al concilio di Basilea al quale parteciò Niccolò Cusano, seguirono i Concili di Ferrara e di Firenze (1438-39). I contatti con le autorità e gli studiosi di tradizione greca diedero origine a un arricchimento delle biblioteche italiane e a una fioritura degli studi dei testi originali.
Alcune famiglie agiate finanziano scuole «indipendenti» per l’insegnamento e la traduzione di testi, ad esempio la famiglia Medici.
L’abbondanza e la novità di molti testi e la mancanza di un metodo critico propiziarono la traduzione e diffusione di opere di valore eterogeneo. Si prese acriticamente ad esempio, il Corpus hermeticum, insieme di scritti fatti risalire ai secoli XIII-XII a.C. ad opera di Hermes Trismegistos (“tre volte grande”). L’autore sarebbe stato una sorta di profeta pagano di Persia, contemporaneo a Mosè. Il suo corpus era ritenuto una rivelazione parallela al giudaismo. I testi sono invece raccolte di diversi periodi molto più recenti, e ovviamente non attribuibili a un singolo autore.
Un altro gruppo di testi giudicati come antiche rivelazioni sono gli Oracoli caldaici, scritti ormai in epoca cristiana.
Parallelamente a questo sviluppo delle lettere, si diffonde la pratica della magia. Alcuni di quei testi contenevano principi di alchimia, tante volte frammisti a credenze gnostiche sulla capacità umana di dominare la natura tramite una conoscenza riservata a pochi eletti. Dalla tradizione ebraica proviene la cabala, nella quale si spiega un senso nascosto della Bibbia tramite la conoscenza dei valori nascosti nei testi, basati su calcoli numerici .

 

2. Marsilio Ficino (1433-1499)

a) Vita e opere

Figline Valdarno, 1433-Careggi (Firenze) 1499.
Ordinato sacerdote nel 1474. A Firenze, gode della protezione di Cosimo de’ Medici, nella cui villa organizza l’Accademia e traduce l’Opera omnia di Platone. Lavora anche sui testi di Plotino, Porfirio, Proclo, Giamblico, Pseudo-Dionigi, Ermete, gli Oracoli caldaici e i testi orfici.

b) Cristianesimo e filosofia

14.
Malgrado la sua estrazione cristiana, Ficino non si sottrae alla corrente che vede nelle tradizioni scoperte recentemente una sorta di «rivelazioni». Così, secondo lui, il Cristianesimo, con quelle altre «rivelazioni», costituisce la priscateologia (teologia primigenia), mentre l’interpretazione razionale dei filosofi è una pia filosofia. La riflessione filosofica integra il materiale rivelato per dare una spiegazione d’insieme delle diverse realtà.

c) Dio e il mondo

15.
Per Ficino esistono cinque essenze, in gradazione gerarchica:

Dio

 

Gli angeli

Immateriali

L’anima umana

immateriale, ma in stretto rapporto con la materia

Le qualità

le forme delle sostanze materiali

I corpi

 

Dio effonde la sua luce verso «il basso». Nella sua effusione, in cui si riversano bellezza, carità e amore, la sua energia perde forza.
L’anima umana è la copula mundi, cioè il «luogo» di collegamento fra lo spirito e la materia, chiamata dunque a riportare l’armonia fra l’essere superiore (Dio) e il mondo corporeo. È creata direttamente da Dio ed è immortale.
Alla suddetta «omologazione» fra la Rivelazione cristiana e le tradizioni testuali, si aggiunge la nozione neoplatonica di emanazione, con la conseguente perdita di chiarezza nei confronti della creazione.

d) Astrologia

16.
Conseguenza dello sviluppo delle credenze nella vitalità e l’influsso dei corpi celesti sulla vita umana è la concezione ficiniana sulla magia, secondo cui tutte le cose hanno un’anima (spirito materiale sottilissimo); pertanto, c’è la possibilità di agire sugli altri corpi, e l’uomo ha la possibilità di dominare lo spirito.
Vi è però una distinzione tra questi influssi e tra l’appropriazione da parte dell’uomo di queste capacità e i veri miracoli.

 

3. Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494)

a) Vita

Nasce a Mirandola (Emilia) nel 1463 e muore a Firenze nel 1494. Studia a Padova l’interpretazione averroista di Aristotele. A Pavia si specializza nella traduzione della lingua greca. Lavora a Firenze. È condannato per uso della cabala ma è liberato grazie all’intervento di Lorenzo il Magnifico e in seguito perdonato da Alessandro VI. Ebbe contatti con Savonarola.

b) Filosofia e teologia

17.
Analogamente a Ficino, Pico della Mirandola crede nella conciliazione di tutte le filosofie tramite la scolastica, e di tutte le teologie attraverso la cabala, per arrivare ad una conoscenza complessiva.
Come si vedrà in seguito, anche per lui la questione dell’unità in senso neoplatonico condiziona la sua spiegazione dell’origine delle cose.

c) Il sistema della realtà e la libertà umana

18.
Presenta un misto di platonismo e aristotelismo:

Dio-l’Uno

è superiore all’essere

Le sostanze

intellettuali

 

Celesti

 

terrestri

Nel processo di emanazione-ritorno all’Uno, l’amore ha un ruolo determinante come motore per riportare tutto all’unità.
Tutti i partecipanti a questo processo, cioè tutti gli esseri hanno un tipo di animazione, di vita propria, nozione cara al neoplatonismo e condivisa da Ficino.
Pico sottolinea la dignità dell’uomo e ribadisce il ruolo della libertà nella vita umana, opponendosi alla corrente tendenzialmente deterministica dell’astrologia in voga all’epoca, e anche implicita nella proposta neoplatonica (emanazione e ritorno all’Uno).

 

4. Idee generali sulla Riforma protestante

19.
La Riforma protestante segna una svolta religiosa, politica e culturale in Europa che si estende ai territori coinvolti nel processo di conquista dei primi decenni del secolo XVI.
Le polemiche scatenate da Lutero (1483-1546) trovano terreno fertile nell’ambito politico per il desiderio di autonomia dei regni germanici e, nel campo religioso-culturale, per la semina delle diverse reazioni dottrinali (J. Huss, ecc.).
Lo scandalo degli eccessi delle corti papali del Rinascimento richiedeva una vera riforma della disciplina e dei costumi. In tanti casi però contribuì a promuovere i movimenti secessionisti.
Vastissime regioni del Continente saranno scenario di lunghe guerre nella seconda metà del 500 e la prima del 600. Le questioni sul ruolo della religione nella società, la sua dipendenza (o non) dallo Stato, la tolleranza… apriranno un nuovo capitolo nella storia della filosofia.

 

3. La rivoluzione scientifica

1. N. Copernico (1473-1543): cambia il centro dell’universo

20.
N. Copernico propone un sistema planetario eliocentrico nel quale la Terra non è più il centro dell’universo. Tale ipotesi idea è in contrasto con la tradizione secondo la quale tutto gira in torno alla Terra, centro della Creazione, subordinata all’uomo. Lo sfondo religioso di queste idee e la forza della tradizione aristotelico-tolemaica, rendono difficile l’accettazione di una concezione dell’universo così rivoluzionaria.
La spiegazione copernicana ebbe però all’inizio una diffusione alquanto limitata e, inoltre, la pubblicazione col prologo «strumentalista» di Osiander (seguace di Lutero) del De revolutionibus orbium celestium diede origine all’espediente interpretativo col quale si considerava l’opera come uno strumento utile per capire meglio certi fenomeni, ma non come una proposta «realista» sull’effettivo assetto del cosmo. L’opera fu pubblicata lo stesso anno della morte di Copernico.
Copernico sostiene la sfericità della Terra, l’uniformità, la continuità e la circolarità dei moti dei corpi celesti, il duplice movimento (rotazione e traslazione) della Terra; la Terra non è quindi il centro del mondo-universo, che è infinitamente più grande del nostro pianeta.
Copernico crede nell’esistenza delle sfere del sistema aristotelico, che sarà negata da Tycho Brahe (1546-1601).

 

2. Iohannes Kepler: l’ellisse e la matematizzazione del sistema copernicano

21.
Date di nascita e morte: 1571-1630
Dopo la «demolizione» delle sfere da parte di Brahe, si giunge con Kepler alla descrizione ellittica delle orbite dei corpi celesti (1609). La sua proposta è supportata da un lavoro matematico immane che si aggiunge ai progressi dell’osservazione di Brahe. La dimostrazione matematica si impone come regola di interpretazione della meccanica celeste e dà una forte spinta alla fede in un mondo pensato «matematicamente» da Dio.
La credenza nella razionalità del piano della Creazione è una costante nella ricerca di tutti gli scienziati dell’epoca, e farà parte delle grandi discussioni sulla validità degli argomenti razionali per dimostrare l’esistenza di Dio. Forse la più famosa polemica fu quella tra Leibniz e Clarke.

 

3. Galileo: l’esperienza, la Rivelazione e la matematizzazione del mondo terrestre

Nasce a Pisa il 15 febbraio 1564 e muore l’8 gennaio 1642.
Galileo lavora nel mondo accademico in cui confluiscono le notizie e le interpretazioni sulla nuova concezione del mondo. Oltre alle teorie e le dimostrazioni più o meno complete sulla struttura dell’universo, conosce anche gli sforzi dei «fisici» di Parigi e Padova per dare un senso più operativo e meno metafisico alle nozioni basiche sul movimento, il peso, ecc., ancora dipendenti dalla tradizione aristotelica.

 

22.
Per quanto riguarda la concezione generale del cosmo, Galileo sosteneva l’interpretazione «realista» della proposta copernicana e introdusse nella sperimentazione l’applicazione di strumenti come il cannocchiale.
Nel 1610 pubblicò il Sidereus nuncius e poi le quattro Lettere copernicane, in cui presentava l’interpretazione realista.
Nel 1616 affronta il primo processo, coordinato dal Card. Bellarmino. Più che sulle questioni scientifiche di fondo, la sentenza accettata da Galileo si basa sull’impegno di non insegnare le «nuove» idee.
Lo scienziato manca al suo impegno nel pubblicare il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), nel quale si evince su posizione favorevole nei confronti dell’eliocentrismo. A nulla valse a Galileo l’amicizia con Urbano VIII, Maffeo Barberini, e dovette subire un secondo processo, seguito dall’abiura formale. La pena sfociò nel divieto di abbandonare la sua villa, dove scrisse i Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze (1638), forse la sua opera più importante.
È da sottolineare che nella polemica i malintesi non sono tutti da attribuire al temperamento e alla mancata prudenza di Galileo, il quale aveva anche ragione in molte osservazioni come il fatto che la Bibbia non è fatta per spiegare «come vanno i cieli» e la sua fede nel valore della conoscenza empirica.

23.
Galileo aprì la strada alla distinzione fra qualità primarie e qualità secondarie, resa celebre in seguito da Locke, che capovolge l’interpretazione aristotelica della sensibilità: gli oggetti sensibili comuni diventano qualità primarie dei corpi.
La concezione classica sugli oggetti sensibili propri di ogni facoltà sensibile si possono presentare così:

facoltà

oggetto proprio

Vista

colore

udito

suoni

olfatto

odori

gusto

sapori

tatto

(vari)

Tramite questi oggetti sensibili si percepiscono altri oggetti, come il numero, la dimensione, il moto (legati alla quantità) e sono perciò chiamati «oggetti sensibili comuni». Ci sono anche gli «oggetti sensibili per accidente», cioè quegli individuati tramite le qualità sensibili, come riconoscere che quell’oggetto bianco è Tizio o Caio.
Idea guida: la gerarchia è determinata dall’immaterialità e dalla maggiore informazione ricavabile. Precisione del senso nel suo oggetto proprio e mera approssimazione per i comuni.
Per i pensatori moderni, la distinzione tradizionale privilegia aspetti soggettivi della conoscenza che compromettono però la sua precisione: essi possono infatti cambiare da un soggetto all’altro, da un momento all’altro, ecc. La scienza non può restare a questo livello se vuole essere precisa e regolabile. Per la scienza dunque gli aromi e i colori saranno indifferenti perché non servono ai suoi fini.
Idea guida: sono più importanti le caratteristiche riducibili a un sistema di misura. La quantità espressa in modo tale da poter essere adoperata nei calcoli matematici.

 

4. Isaac Newton la matematizzazione dell’universo

Nasce il 25 dicembre 1642 – stesso anno della morte di Galileo – e muore il 20 marzo 1727.
24.
Gli sviluppi della scienza hanno avuto un forte influsso sulle proposte filosofiche (Descartes muore nel 1650 e ha già dovuto rimandare la pubblicazione di alcune opere dopo le condanne a Galileo; Hobbes muore nel 1679). Si è entrati nel «Secolo dei lumi», l’epoca della ragione.
Newton è un grande scienziato e un uomo di fede. Nei suoi scritti inoltre si trova una proposta metodologica che riguarda anche le basi della considerazione della esperienza, le ipotesi, il tipo di risposte che si addicono alla scienza in generale, ecc. Le sue idee furono usate come falsariga dai filosofi, uomini di scienza e di lettere. I riferimenti ai principi metodologici di Newton saranno il modello durante i due secoli successivi.


S. Francesco d’Assisi (1182-1226), ottenne nel 1210 l’approvazione di Innocenzo III per avviare il progetto di povertà evangelica radicale.

Cfr. Leibniz, §75.

Questa indeterminazione dell’idea di essere arriverà fino all’idealismo, ma non più come ‘pensato’, ma come unico e realissimo.

Nella proposta di Ockham è implicito il rappresentazionismo, cioè la posizione secondo la quale le idee non si ritenga abbiano a che fare con le cose, ma che siano degli «intermediari» fra la mente e le cose. Tale intermediazione è, in realtà, una sovrapposizione che impedisce di «guardare» la realtà. Cfr. l’appendice sull’intenzionalità, §§111-114.

Sepolto a S. Pietro in Vincoli, cappella a sinistra del primo altare della navata sinistra: tomba di Nicolò da Cusa (Cues sur Mosselle), vesc. di Bressanone, dal 1448 card. e governatore di Roma, con bassorrilievo di Andrea Bregno raffigurante S. Pietro tra il Cardinale e l’angelo liberatore. Vid. anche scritta in una delle travi del soffitto. Cfr. Roma e dintorni, TCI, Roma 1977, p. 355 (ed. 1999, p. 311).

Cfr. Reale 2, pp. 2-3; 23-24; 58.

Cfr. C.S. Lewis, The abolition of man, (tr. it. Franco Marano, Cooperativa Edizioni Jaca Book, Milano 1979, pp. 74-87): Lewis spiega come lo sviluppo delle pratiche magiche si sia sviluppato nel 400 come un processo evolutivo: in un «brodo di coltivazione» confluivano esperienze sulle qualità delle piante, calcoli dei moti celesti, credenze sull’influsso della recita di certe formule… A partire da questa base si sviluppò la magia come ramo malato, e la chimica (in senso largo) come ramo sano. La scienza dovette lottare per svilupparsi all’interno di un insieme di materiali molto variopinti.
Qabbalah, vocabolo ebraico che si può tradurre come recezione, tradizione, legge o dottrina tradizionale o insegnamento esoterico, è un sistema d’interpretazione mistica della Sacra Scrittura, un insieme di dottrine teosofiche e segrete che, secondo i suoi cultori, sono state trasmesse per via d’iniziazione da Adamo ai profeti, e da questi agli scribi, e poi ai mistici del medioevo e così fino ai nostri giorni. Si diffuse in particolare in Spagna nel XIII secolo e si riteneva che fosse opera di Mosè. A Dio si danno dieci nomi che corrispondono a 10 forze viventi in lui: il mondo, le estrinsecazioni di queste forze, che sono le 10 sfere celesti, ognuna dotata di angeli che sono invocabili: ecco la base della magia.

Philosophia naturalis principia mathematica (1687), sulla base del De motu corporum nel quale spiegava a Halley la base per la deduzione matematica delle orbite ellittiche, secondo il principio dell’attrazione dei corpi in proporzione inversa al quadrato della distanza che li separa.
Ebbe una grande notorietà una intensa attività pubblica. Nel 1703 fu nominato presidente della Royal Society. Conobbe oltre ai maggiori scienziati del suo tempo, filosofi come John Locke.

25.
Nel libro III dei Principia, Newton enuncia le quattro regole del ragionamento filosofico:
1. Non ammettere più cause delle cose naturali di quelle che sono sia vere che sufficienti a spiegare le loro apparenze;
2. Agli stessi effetti dobbiamo, per quanto possibile, assegnare le stesse cause;
3. Le qualità dei corpi, che non ammettono né aumento né diminuzione di grado, e che si trovano appartenere a tutti i corpi all’interno dell’ambito dei nostri esperimenti, debbono essere ritenute qualità universali di tutti i corpi (cfr. osservazioni sulle qualità primarie e secondarie);
4. Nella filosofia sperimentale, le proposizioni inferite per induzione generale dai fenomeni debbono essere considerate come strettamente vere o come vicinissime alla verità, nonostante le ipotesi contrarie che possono essere immaginate, fino a quando non si verifichino altri fenomeni dai quali queste siano rese più esatte oppure vengano assoggettate ad eccezioni.
Nello Scholium generale (fine del medesimo libro III) dopo aver affermato l’esistenza della forza di gravitazione, Newton riconosce che non è in grado di fornire una spiegazione sulla sua natura: hypotheses non fingo (non posso escogitare una spiegazione aldilà di ciò che mi consente l’osservazione e il calcolo).
Come si è accennato nel presentare le tesi fondamentali di Kepler, anche Newton pensava che la «macchina del mondo» non può che provenire da un Essere intelligente e potente. Nell’ordine si scopre il progetto del signore dell’universo. Le argomentazioni in questa direzione renderanno possibile una proposta rinnovata del principio classico e saranno discusse a lungo dai filosofi.


II. Razionalismo ed empirismo

 

1. Caratteristiche generali

26.
Una divisione resa classica da alcuni manuali fa partire la filosofia moderna dagli sviluppi avviati da una parte da Descartes (razionalismo) e dall’altra da Francis Bacon (empirismo). La tensione continua fra le due diverse impostazioni filosofiche che ne emergono, offre una struttura relativamente semplice per distinguere due gruppi di filosofi prima di Kant. Con Kant si chiude infatti la spiegazione della filosofia moderna, per passare al periodo contemporaneo a partire dall’Idealismo. Questa divisione è stata criticata ma l’opposizione fra empirismo e razionalismo offre dei vantaggi didattici che sono ripresi in qualche modo in questa presentazione.

Fra le caratteristiche generali e comuni a entrambe le correnti che è opportuno rilevare si trovano:

1. Uno spirito di rinnovamento o addirittura di rifondazione della filosofia, intesa come base delle scienze;
2. Il punto di partenza – che non di rado diventa tema centrale – è la conoscenza e non più l’essere. Si sottolinea la necessità di valutare le ‘possibilità’ della mente prima di intraprendere la descrizione dei diversi campi del sapere;
3. Inoltre, la conoscenza è considerata come un mezzo per dominare la natura. Il sapere è interpretato come potere, e il regnum hominis è un terreno da amministrare e sfruttare, non per la contemplazione o il godimento intellettuale;
4. La secolarizzazione del sapere e delle istituzioni di insegnamento. Le università passano a dipendere dai governanti e non c’è più la sorveglianza generale della Chiesa di Roma;
5. Soggettivismo. L’enfasi sulle possibilità della conoscenza spostano il baricentro del pensiero verso il soggetto. Alla svolta antropocentrica iniziata nel Rinascimento si aggiunge l’aspirazione a lavorare secondo la metodologia delle scienze particolari.
Si impongono come quesiti fondamentali i seguenti: qual è l’origine delle idee? Quali sono le condizioni e i limiti dell’esperienza? Come si possono conoscere Dio e la natura? Il modo di impostare le domande centrali condiziona il resto del discorso: le questioni non riguardano direttamente l’oggetto della conoscenza, bensì il soggetto che conosce. Pur condividendo una posizione antiscettica, molti filosofi cadono nel gioco di chi ritiene impossibile approdare a verità consistenti: la riflessione filosofica parte dalle argomentazioni sui dubbi, le incertezze e i limiti del pensiero.
Il paradigma della certezza, cioè di un elemento soggettivo, ha la meglio sul paradigma della verità, vale a dire un punto di riferimento oggettivo;
6. I rapporti fra anima e corpo. Mente e materia. Il problema del «ponte» o collegamento fra due principi diversi;
7. La fiducia nel progresso della scienza e l’assunzione della scienza a modello per la conoscenza filosofica.

 

2. Libertinismo erudito e scetticismo

27.
Una conseguenza della ricezione delle tradizioni greche classiche durante i secoli XIV e XV, fu la diffusione di dottrine scettiche che erano conosciute soprattutto in maniera indiretta. Inoltre, si avverte la rilevanza della classe borghese che, in crescita ormai notevole, può ormai disporre di scritti e luoghi adatti alla discussione culturale e filosofica anche fuori dagli ambienti universitari. Le lingue volgari cominciano ad essere le protagoniste anche del livello della discussione filosofica.
Nascono in questo ambienti i liberi pensatori, talvolta come critici della tradizione e dei filosofi professionisti. La Francia è il cuore di questo movimento culturale col modello dell’honnête homme mondano.
Le esperienze in campo politico-religioso favoriscono la considerazione delle questioni a livello naturale, per evitare la violenza delle posizioni religiose «forti».
I temi di discussione si ampliano: l’origine della società e le teorie sul «buon selvaggio», ravvisato nelle cronache delle scoperte geografiche; la moralità naturale, estranea al discorso religioso; la possibilità di considerare i costumi di altri popoli senza pregiudizi religiosi o culturali; lo studio dei processi storici come indipendenti dalla provvidenza.
L’erudizione consiste nell’avere una vasta conoscenza della cultura, dei costumi dei diversi popoli e delle opinioni dei pensatori al riguardo. Lo scopo della discussione non è necessariamente la scoperta di una verità, e in primis si evita di giungere a soluzioni di tipo dogmatico. La metodologia però degenera spesso in una ricerca di tutte le opinioni contrastanti allo scopo di far vedere che nessuna è concludente. Frequentemente il risultato è ritenere tutti gli argomenti assurdi.
Si giunge così ad una mentalità della persona «ragionevole» che valuta, calcola e discute, ma che non prende posizioni.
Nella morale si prenderanno i principi che si dimostreranno come più accettabili, o come più attuabili in una società particolare. Le discussioni sul bene e la felicità sono superflue.
La fede religiosa può servire per mantenere condizioni sociali  evidentemente utili e tradizioni che riflettono certe costanti dello spirito umano grazie alla sua autorità morale. Questa fede però non può essere dimostrata dalla ragione e certe credenze religiose accettabili devono essere credute senza cercare un supporto razionale (principio fondamentale del fideismo).
Sono palesi i parallelismi con il pensiero debole contemporaneo.

28.
Michel Montaigne (1533-1592) si rifà agli scettici classici secondo cui tutto è mutevole, sostiene che la fede è preferita all’ateismo, ma si tratta sempre una fede fideista. La filosofia è saggezza, un modo per vivere felici. Il saggio in questo senso sarà accomodante con le circostanze di tempo e luogo perché sa di essere sempre ‘in moto’: deve scegliere ciò che oggi e adesso è utile e buono, deve scoprire la particolarità del momento vissuto e tirarne fuori la felicità possibile hic et nunc.
L’amore per la vita deve condurre ad una esistenza pacifica e ad accrescere il proprio sapere. L’ordine stabilito e la religione aiutano a raggiungere questi scopi.
Pierre Charron (1541-1603)
Sottolinea l’autonomia della felicità nei confronti della religione dogmatica.

29.
Pierre Bayle (1647-1706)
Con Bayle la proposta diventa ‘impresa’, e le prime opere encliclopediche britanniche ispirano il suo Dizionario storico-critico. La finalità è di svelare il falso, più che di trovare il vero.
I Pensieri sulla cometa sono un capolavoro di critica contro tutte le spiegazioni che non si riducono all’osservazione dei fatti e alla considerazione pacata delle loro conseguenze. La coincidenza fra superstizione e religione è così frequente che quest’ultima – (affermazione mai fatta da Bayle espressamente) – non può essere punto di riferimento nelle spiegazioni dei fenomeni più o meno comuni: le spiegazioni religiose di certe calamità fanno pensare a un Dio troppo umano (crudele, arbitrario…) o le pretese di interpretazione della Provvidenza diventano uno strumento di oppressione in mano alle autorità religiose.
Molte di queste idee sono state esposte o saranno riprese da altri filosofi a scopi diversi. Il modello di Dio «razionalmente accettabile» sarà un luogo comune nel pensiero del Settecento e sarà la base del Dio «architetto dell’Universo» della massoneria e, in generale, dei filosofi laici (ad es. Hume).
Lo stile di Bayle si riconosce nelle opere di Voltaire e in tanti altri autori dell’Illuminismo. La stessa idea del dizionario ispirerà la composizione dell’Enciclopedia.
Altri autori di questa epoca sono Cyrano de Bergerac (1619-1655), François La Mothe Le Vayer (1588-1672) e Gabriel Naudé (1600-1653).

 

3. Francis Bacon (1561-1626)

1. Vita e opere

Nasce il 22 gennaio 1561. Il padre era un alto funzionario (Lord Guadrasigilli con Elisabetta I); madre calvinista. Studia filosofia a Cambridge, giurisprudenza a Londra. Vita politico-diplomatica: Parigi, Camera dei Comuni. Avvvocato Generale (1607) con James I Stuart, Procuratore Generale della Corona (1613), Lord Guardasigilli (1617) e Lord Cancelliere (1618). Barone di Verulam e visconte di Sant’Albans. Processato per corruzione e ulteriore condono da parte del re (1621). Negli ultimi anni si dedica allo studio, alla stesura e alla revisione dei suoi scritti. Muore il 9 aprile 1626.
30.
Nella sua incompiuta Instauratio Magna, Bacon riprende materiale di opere precedenti e procede nel tentativo di offrire un nuovo orizzonte delle scienze. Alcune delle sue parti sono:

Novum Organum (pubblicato nel 1620, ma scritto nel 1608).
Fenomeni dell’universo o storia naturale e sperimentale per costruire la filosofia: Historia naturalis et experimentalis ad condendam philosophiam sive phenomena universi, vol. I: Historia ventorum; vol. II: Storia vita e mortis

 

2. Il sapere come dominio sulla natura

31.
«Bisogna considerare ancora la forza, la virtù e gli effetti delle cose scoperte, che non ricorrono tanto chiaramente in altre cose, quanto in quelle tre invenzioni, che erano ignote agli antichi, e la cui origine, sebbene recente, è oscura e ingloriosa: l’arte della stampa, la polvere da sparo, la bussola. Queste tre cose, infatti, mutarono l’assetto del mondo tutto, la prima nelle lettere, la seconda nell’arte militare, la terza nella navigazione; onde infiniti mutamenti sorsero, tanto che nessun impero né setta né stella sembra aver esercitato sull’umanità maggiore influsso ed efficacia di queste tre invenzioni» Novum Organum, (cit. in Reale 2, p. 239).
Idea fondamentale: la convinzione che il sapere dovesse portare i suoi frutti nella pratica, che la scienza dovesse essere applicabile all’industria, che gli uomini avessero il sacro dovere di organizzarsi per migliorare e per trasformare le condizioni di vita.
Bacon accetta il meccanicismo – la meccanica come scienza empirica – ma non ammette il valore della matematica.

 

3. Critica delle tradizioni: magia, filosofia e pregiudizi

32.
Secondo Bacon i maghi confondono il profano con il sacro e così le loro dottrine sono inaffidabili, frutto del caso e non del metodo.
Adoperano interpretazioni preordinate e tradiscono l’esperienza (ad es. Paracelso).
Bacon disprezza Aristotele: con i suoi concetti metafisici (vuoto, atto-potenza, categorie…), provenienti più dalla dialettica che dall’esperienza, ha condizionato la storia del sapere scientifico.
Il pensiero di Platone è innanzitutto politico. Il suo approccio alla natura è sterile e la sua teologia è nociva quanto la dialettica aristotelica.

a. Idòla tribus: pregiudizio dell’intero genere umano, ad esempio:
«nei cieli ogni movimento deve avvenire sempre secondo circoli perfetti», si rifiuta l’esperienza pur di conservare indisturbata l’autoritàdelle sue prime affermazioni.
La nostra debole natura ci fa accettare le opinioni generali.
b. Idòla specus. Attaccamento, difesa e universalizzazione delle proprie scoperte.Come Gilbert col magnete...Gli alchimisti, con pochi esperimenti di laboratorio. Altri, prendendo acriticamente gli antichi...
c. Idòla fori:
«Vi sono anche idoli che dipendono per così dire da un contatto o dai reciproci contatti del genere umano: noi li chiamiamo idoli del foro, riferendoci al commercio e al consorzio tra gli uomini.»
d. Idòla theatri. Fede nelle filosofie precedenti, considerate favole rappresentate sul palcoscenico.

 

4. Finalità ed elementi della scienza

a) La causalità

33.
Non c’è causa finale nella fisica: Causa finale. «è tanto lontana dal portar giovamento alle scienze che anzi le corrompe; essa può valere soltanto per lo studio delle azioni umane» (cit. in Reale 2, p. 253).
La conoscenza della causa formale è condizionata dalla finalità pratica della scienza: «Un uomo che conosca le forme può scoprire e ottenere effetti mai prima ottenuti; effetti che né i mutamenti naturali, né il caso, né l’esperienza e la industriosità umana hanno mai prodotto, effetti che mai altrimenti la mente umana avrebbe potuto prevedere» (id.).

b) La logica. Induzione per eliminazione

34.
Inst. Magna: «il fine della nostra scienza non è di scoprire argomenti, ma arti; non le conseguenze che derivano da principi posti, ma gli stessi principi»
«secondo il nostro metodo [...] gli assiomi devono essere ricavati di continuo e per gradi, per venire solo in ultimo ai concetti generalissimi».
Bisogna «fare una citazione, di fronte all’intelletto, di tutte le istanze note che s’accordano in una stessa natura, anche se si trovano in materie diversissime» (cit. in Reale 2, p. 249). Calore: tavola della presenza — tabula declinationis sive absentiae in proximo — tabula graduum — vendimiatio prima (ipotesi prima) — experimentum crucis.

4. René Descartes (1596-1650)

1. Vita e opere

Nasce a La Haye (Turenna) il 31 marzo 1596. Insoddisfato degli studi a La Flèche per la mancanza di una metodologia seria che potesse servire alla ricerca della verità, eccezione fatta per quanto riguarda la matematica e la geometria. Ritiene che la filosofia insegnata nelle aule sia sterile in quanto basata sul commento di testi e non una conoscenza della realtà.
È difficile giudicare se sia il primo fra i veramente «moderni» o l’ultimo degli «scolastici» (in senso suareziano). Molte delle nozioni da lui adoperate, riprendono termini della tradizione scolastica e il modo di studiarle segue i modelli classici delle quaestiones.
Lo stesso ideale «sistematico» non è assente nella proposta di Suárez come non lo è neanche la formulazione fra essenza ed esistenza, di tradizione medievale, e che tralascia l’idea tomistica dell’atto di essere (cfr. formalismo di Scoto).
Descartes studia diritto a Poitiers e poi si arruola nel 1618 nelle truppe di Maurizio di Nassau. Conosce il matematico Beeckman. Fra il 10 e l’11 novembre del 1619 ebbe una sorta d’ispirazione contenente gli elementi fondamentali per riformare la filosofia.
Tramite Mersenne, conosce i circoli intellettuali francesi pur rimanendo in Olanda. Segue con apprensione gli sviluppi della polemica di Galileo.
Le polemiche con i professori dell’Università di Leida e la situazione caotica di Parigi rendono molto attraente l’invito della Regina Elisabetta di Svezia per recarsi nella sua corte. Muore il 2 febbraio 1650.

Regulae ad directionem ingenii (Regole per la guida dell’intelletto), 1627-8. Pubblicate postume nel 1701
Traité de Physique, diviso in due parti: Le Monde; L’Homme, quasi finito nel 1633 ma non pubblicato dopo aver appreso la notizia della condanna a Galileo. Pubblicati postumi: 1664
Discorso del metodo, seguito da Dioptrique, Météors e Géométrie (1633-7)
Meditationes de prima philosophia in qua Dei existentia et animae immortalitatis demonstratur, con critiche e risposte (Hobbes, Arnauld, Gassendi, Mersenne, 1641).

 

2. Dubbio, evidenza e metodo

35.
L’impresa cartesiana è contraddistinta dal desiderio di far fronte ai progressi dello scetticismo sviluppatosi nel Cinquecento. In quest’ordine di idee è logico che la questione della certezza e dell’evidenza abbiano un ruolo fondamentale .
Nel Discorso e nelle Regulae si lamenta del fatto che i filosofi non siano mai riusciti ad andare oltre il livello didattico nella disciplina intellettuale. In questo modo «la dialettica comune è in tutto e per tutto inutile per chi brama indagare la verità delle cose, ma soltanto può giovare talvolta a esporre agli altri più facilmente le ragioni già conosciute» (cit. in Reale 2, p. 265).
Il fondamento della conoscenza si trova nell’evidenza, e proprio da essa partono le ‘regole’ del pensiero (più di venti nelle Regulae, ridotte a quattro nel Discorso):
1. L’evidenza: «Non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza: di evitare cioè accuratamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi nulla di più di quello che si presentava così chiaramente e distintamente alla mia intelligenza da escludere ogni possibilità di dubbio» (cit. in Reale 2, p. 268).
L’evidenza è una sorta d’intuizione: «non la fluttuante testimonianza dei sensi o il giudizio fallace dell’immaginazione malamente combinatrice, ma un concetto della mente pura e attenta così facile e distinto che non rimane alcun dubbio intorno a ciò che pensiamo […] ed è più certo della stessa deduzione».
2. L’analisi o divisione di «ogni problema […] in tante parti minori, quante fosse possibile e necessario per meglio risolverlo», «in parti elementari fino al limite possibile».
3. La sintesi: «condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscere, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza dei più complessi; e supponendo un ordine anche tra quelli di cui gli uni non precedono naturalmente gli altri». Ricomporre dal semplice.
4. «L’ultima regola è quella di far dovunque enumerazioni così complete e revisioni così generali da essere sicuro di non aver omesso nulla». Enumerazione per la completezza e revisione per la correttezza.
Lo scopo del metodo sarà dunque arrivare a delle idee chiare e distinte, per poter successivamente ricombinarle.
Per arrivare però alle prime certezze è necessario un esame dei problemi e dei ragionamenti che hanno portato i filosofi a girare intorno alle questioni senza mai riuscire a risolverle veramente. Si scoprono così false le basi della metafisica, della sensibilità, e nella logica e perfino nella matematica è possibile che vi siano delle forze sconosciute che le rendono evidenti soltanto in apparenza. È metodologicamente valido l’atteggiamento di considerare come dubbia ogni conoscenza, per trovarsi in condizioni di cercare la verità: lo scopo è ‘non costruire sulla sabbia’.
Nel Discorso Descartes afferma che «appena ebbi a costatare che, mentre volevo pur pensare che tutto fosse falso, bisognava necessariamente che io, che così pensavo, fossi qualche cosa. Ed osservando che questa verità “penso, dunque sono”, era sì ferma e sì salda che tutte le più stravaganti ipotesi degli scettici non erano capaci di scuoterla, giudicai che potevo accettarla senza scrupolo come il primo principio della filosofia da me cercato» (cit. in Reale 2, p. 271). Ribadito nelle Meditazioni e nei Principia philosophiae con il motto «cogito ergo sum (penso dunque sono)», in cui pensiero significa «tutto ciò che vi è in noi di così fatto che di esso siamo immediatamente coscienti; e così tutte le operazioni della volontà, dell’intelletto, dell’immaginazione e dei sensi sono “pensieri”» (cit. in Reale 2, p. 272). È da notare l’omologazione fra attività intellettuali, emozionali, ecc.
Precedente in Sant’Agostino: «si fallor sum»?

 

3. L’idea: nozione vaga e radice del rappresentazionismo

36.
È importante sottolineare che la stessa nozione di idea nella filosofia di Descartes è tutt’altro che chiara. In termini classici si può dire che alle volte sembra riferirsi alle facoltà coinvolte nella “produzione” delle idee, altre volte invece sembra descrivere le attività per cui vengono originate e altre ancora sembra indicarne il senso più comune, cioè, i “contenuti” della mente nel pensarle o percepirle.
Ma le ambiguità riguardano anche una confusione fra i diversi tipi di fenomeni mentali, vale a dire, l’uguaglianza delle attività affettive, conoscitive e immaginative.
Un altro aspetto molto più importante di questa confusione è quello che riguarda il rapporto fra l’oggetto conosciuto e le attività conoscitive (o i loro contenuti): non è infatti chiaro se le idee si riferiscano alle realtà esterne o alle immagini createsi (anche fisicamente) nello spirito. Sembra che le idee siano delle rappresentazioni della realtà, cioè qualcosa che “sta per” la realtà ed è stato in qualche modo da essa prodotto, ma non si spiega come quell’immagine possa “rimandare” alla realtà esterna.
Le diverse confusioni appena indicate avranno un’influenza notevole in diversi autori anche all’interno dell’empirismo. Sull’ultimo aspetto evidenziato, ossia la confusione fra la realtà conosciuta e l’ambito soggettivo, si veda la nota sull’intenzionalità conoscitiva negli appendici a questi appunti.
È anche importante mettere in relazione quanto indicato poche righe prima sull’enfasi di Descartes sugli aspetti soggettivi della conoscenza (evidenza e certezza) con la mancanza di precisione nel distinguere fra la realtà e i contenuti – azioni della mente: la tendenza a privilegiare gli aspetti «interni» sugli esterni sarà evidente in buona parte degli autori moderni fino all’idealismo, come l’apriorismo kantiano.

 

4. Dio e l’origine delle idee

37.
Le idee secondo Descartes sono di tre tipi: innate: nate assieme alla propria coscienza. Avventizie: vengono dal di fuori e  rinviano a cose del tutto diverse dal percipiente. La loro oggettività è in contrasto col dubbio metodico. Fattizie o costruite dal soggetto.

La questione dell’affidabilità delle idee avventizie rende necessaria una definizione del ruolo di Dio, che parte dalle profondità della coscienza (cioè dall’ambito delle idee innate): Dio è «una sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, e dalla quale io stesso e tutte le altre cose che sono (se è vero che ve ne siano di esistenti), siamo stati creati e prodotti» (Meditazioni metafisiche).
Per passare all’ «oggettività» di questa idea, Descartes spiega che «è una cosa manifesta per luce naturale che deve esserci per lo meno tanto di realtà nella causa efficiente e totale quanto nel suo effetto: perché, donde l’effetto può trarre la sua realtà se non dalla propria causa, e come questa causa potrebbe comunicargliela, se non l’avesse in se stessa?»: non può avere, quindi, una causa diversa da un essere infinito, ecc., cioè Dio.
L’idea dell’essere perfetto non può provenire da me perché questo implicherebbe una perfezione al di sopra di me stesso. Una terza argomentazione rammenta il ragionamento simultaneo: l’esistenza è parte integrante dell’essenza, perciò non è possibile avere l’idea di Dio senza ammetterne l’esistenza, così come non è possibile concepire un triangolo senza pensarlo con la somma degli angoli interni uguale a due retti.
Dio si presenta alla coscienza come l’idea innata di un essere che è causa sui (atemporale), una causa sine ratio, garante delle verità eterne e che sorregge il mondo con una creazione continua.
Con la veracità del Creatore e il sistema abbozzato nelle Regulae e nel Discorso, la conoscenza umana è rinsaldata e l’uomo può ritrovare la fiducia nel proprio pensiero e nei progetti di conquista sulla realtà.

 

5. La nozione di sostanza e la sua applicazione

38.
L’intelletto, per Descartes, è «una cosa pensante, o una sostanza, di cui tutta l’essenza o la natura è soltanto di pensare» (cit. in Reale 2, p. 277). D’altra parte «non c’è dunque che una stessa materia in tutto l’universo, e noi la conosciamo per questo solo, che essa è estesa; poiché tutte le proprietà che percepiamo distintamente in essa, si riportano a questa: che essa può esser divisa e mossa secondo le sue parti, e può ricevere tutte le diverse disposizioni, che noi osserviamo potersi verificare per mezzo del movimento delle sue parti» (Principia Philosophiae; cit. in Reale 2, p. 278). E «la natura della materia o del corpo preso in generale non consiste in questo, che è una cosa dura e pesante e colorata o che tocca i nostri sensi in qualche altro modo, ma solo in questo, che è una sostanza estesa in lunghezza, larghezza e profondità […]. La sua natura consiste in questo soltanto: che essa è una sostanza che ha estensione» (cit. in Reale 2, p. 279).
L’interpretazione della materia quale mera estensione (cfr. la spiegazione aristotelica di questa come «primo accidente della sostanza corporea»), è implicita in Galileo e suppone l’identificazione fra materia-corpo ed estensione.
Non ci sono realtà intermedie fra res cogitans e res extensa (per quanto Descartes parli della vicinanza dell’immaginazione alla materia), e le distinzioni fra oggetti sensibili propri e comuni è tralasciata in favore di un riferimento quantificabile. Le qualità secondarie sono ritenute soggettive e perciò inutili agli scopi della scienza.
A spiegare i moti del corpo umano e dell’animale bastano le leggi della materia, di cui si tratterà più avanti.
I rapporti fra anima e corpo trovano difficoltà insuperabili con la distinzione fra le sostanze perché la stessa nozione di sostanza non ammette sovrapposizioni: sostanza è «la cosa che esiste in modo tale che non ha bisogno di nessun’altra per esistere» (Principia Philosophiae, 1.51)
Con le sue premesse, Descartes sarebbe costretto a dare una risposta «platonizzante» per spiegare i rapporti fra anima e corpo, malgrado i suoi riferimenti ad una «unione sostanziale» fra le due res: «Non basta che essa [l’anima] sia collocata nel corpo come un pilota nella sua nave se non forse per muoverne le membra, ma è necessario che essa sia congiunta e unita più strettamente con esso, per provare inoltre sentimenti e appetiti simili ai nostri e comporre così un vero uomo» (cit. in Reale 2, p. 284; cfr. Principia Philosophiae, 2,2).
Il ricorso alla ghiandola pineale come sede dell’anima, che trasmetterebbe la vitalità al corpo, tramite gli spiriti animali (di tradizione aristotelica) che viaggiano nel sangue, non fa che accentuare la debolezza della sua proposta. Spinoza, Malebranche, Leibniz e lo stesso Berkeley si troveranno a fare i conti con la questione del «ponte» che unisce le due sostanze.

 

6. Un mondo meccanico

39.
Le res extensae sono sottoposte alle leggi instaurate dal Creatore, ma lo studio della loro causalità finale e del loro piano generale non spetta all’uomo, che dovrà accontentarsi di cercare le cause efficienti, le connessioni naturali attraverso lo studio dei rapporti degli effetti con le cause materiali.
Le leggi determinano il funzionamento di un enorme meccanismo composto da elementi omogenei (stessa materia per tutti), le differenze fra di loro (e fra le diverse parti di ognuno di essi) si spiega per lo scambio di movimenti. La dinamica delle loro parti determina la distinzione fra liquidi, solidi e gassosi, che si spiegano come alterazioni dimensionali. Non esiste il vuoto, tutti i corpi si trovano in continuità.
Tutte le trasformazioni si possono spiegare con gli elementi della geometria (l’universo è semplice, logico e coerente) e nella spiegazione scientifica possono essere ridotti alle leggi dell’intelletto nella spiegazione scientifica. Non ha senso la pretesa di un’indagine sulle cause profonde dei movimenti (antimetafisico).

 

7. La morale provvisoria

40.
Descartes considerava il sapere in modo organico, come un albero i cui frutti – vale a dire, le ultime estensioni e le più importanti – si trovano nella morale. Dal punto di vista della costruzione del sistema, la spiegazione della morale doveva essere rimandata alla conclusione delle basi metafisiche e fisiche. Perciò il filosofo ritenne opportuno di abbozzare nel Discorso delle regole generali che indicassero le linee del suo pensiero in questo campo. La «provvisorietà» non è necessariamente «caducità» perché in essa si trovano degli elementi del progetto definitivo.
Vi sono tre regole fondamentali:
1. «Obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, osservando costantemente la religione in cui Dio mi ha fatto la grazia di essere istruito fin dall’infanzia e regolandomi in ogni altra cosa secondo le opinioni più moderate e più lontane da ogni eccesso che fossero comunemente accolte e praticate dalle più sensate fra le persone con le quali mi sarebbe toccato vivere» (Discorso, 3; cit. in Fazio-Gamarra, p. 69).
2. «[…] perseverare nelle mie azioni più fermo e risoluto che potessi, e di non seguir meno costantemente le opinioni più dubitate, quando mi ci fossi una volta determinato, che esse fossero state sicurissime» (id.). La volontà prevale sul dubbio.
3. «Sforzarmi sempre di vincere piuttosto me stesso che la fortuna e di mutare i miei desideri piuttosto che l’ordine del mondo, e in generale di avvezzarmi a credere che nulla c’è che sia interamente in poter nostro, eccetto i nostri pensieri» (id.).
La trasformazione della necessità in virtù mette in rilievo il razionalismo della sua posizione, confermata da un ultimo principio regolatore: «impiegare tutta la mia vita a coltivare la mia ragione e progredire quanto più possibile nella conoscenza del vero, seguendo il metodo che mi sono prescritto» (id).
La superiorità dell’anima nei confronti del corpo è ribadita da Descartes in diversi momenti, il che è perfettamente coerente con le sue regole. Nel Trattato sulle passioni dell’anima valuta le passioni buone, ma da sottoporre alla ragione, evitandone così l’eccesso o il cattivo uso.
Le affermazioni dell’esistenza di Dio e del valore delle sue regole restano fuori dallo schema della vita morale. Pur essendo un sincero credente, Descartes presenta una filosofia pratica eminentemente secolare.

 

5. Thomas Hobbes (1588-1679)

1. Vita e opere

Nasce a Westport nel 1588 durante l’assedio della Invincibile Armata. Studia filosofia a Oxford. Precettore dei Cavendish. Studia con entusiasmo i classici greci e latini. 1610-1613 viaggio in Francia e Italia (a Venezia conosce colleghi di Galileo): tornerà nel Continente più volte e conoscerà Mersenne e i cartesiani. Gli Elementi di Euclide gli ispirano un modello geometrico per la politica. Muore a Malmesbury nel dicembre 1679.

De Cive, Parigi 1642 (3a. parte del sistema), De Corpore, 1655 (1a. parte del sistema), De Homine, 1658 (2a. parte).
Il Leviatano, ossia la Materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile scritto a Parigi, pubblicato a Londra, 1651.

 

2. Unità ed elementi del progetto hobbesiano

41.
Per Hobbes, il fine della filosofia è consentirci di utilizzare a nostro vantaggio i dati dell’esperienza, cioè attraverso il contatto dei corpi, traducendo in atto le operazioni concepite nella nostra mente, per quanto la materia, la forza, la tecnica ce lo permettano, a vantaggio della vita umana. Il fine della conoscenza è la possibilità di agire... e lo scopo dell’attività speculativa è il compimento degli atti o delle cose che devono essere fatte (cfr. De Corp. I.I.6).
Le arti sono «i più grandi vantaggi del genere umano», soprattutto l’arte di misurare i corpi e i loro moti, l’arte di muovere corpi pesantissimi, l’arte di costruire, l’arte di navigare, di fabbricare strumenti per ogni uso, l’arte di calcolare i moti celesti, gli aspetti delle stelle o le parti del tempo, l’arte di raffigurare la superficie della terra…
Inutilità delle divagazioni metafisiche, ad es. le speculazioni sulle parole come ipostasi, eternità, ecc. (Cfr. Copleston 5, p. 15).

Materialismo e meccanicismo sono determinanti nella proposta di Hobbes. La realtà fisica si riduce a estensione (cfr. Descartes sulla distinzione res cogitans-res extensa e il rapporto della sua interpretazione della materia come mera estensione).
L’essere umano del resto viene considerato come una parte della natura corporea (è veramente un progetto antropologico condiviso da molti autori e che si rifletterà anche in Hume).

In questo senso viene interpretata anche la sensibilità perciò le qualità sensibili sono considerate come prodotte dai movimenti degli oggetti. Più che nella soggettività, l’accento viene messo sulla «fisicità» dei fenomeni sensibili.
Si trova d’altra parte la sua pretesa di precisione metodologica secondo il modello della geometria: «Poiché qualunque aiuto venga dato alla vita dell’uomo, attraverso l’osservazione del cielo o la descrizione della terra, o la misurazione del tempo, o gli ormai antichissimi tentativi di navigazione, e qualunque cosa indichi il progresso della civiltà rispetto alla rude semplicità dei primitivi, noi lo dobbiamo alla geometria» (Copleston 5, p. 23).
«Gli studiosi di filosofia naturale studiano inutilmente se non cominciano dalla geometria, e coloro che ne scrivono se sono ignoranti di geometria fanno perdere il tempo ai loro lettori» De Corp. 1.6.6 (Copleston 5, p. 23).
42.
L’impronta del nominalismo e la riduzione della sensibilità ai contatti fisici sboccano in un «sensismo nominalista», nel quale il nome è una voce umana usata ad arbitrio dell’uomo, come una nota con la quale possa suscitarsi nella mente un pensiero passato e che, disposta nel discorso, e proferita ad altri, sia per essi segno di quale pensiero si sia prima avuto o non avuto in colui stesso che parla (Cfr. De Corp. I.2.4).
L’universale dunque non esprime mai cose realmente esistenti né idee o rappresentazioni mentali, ma sempre un nome o una parola. Nomi comuni, non che l’uomo, la pietra, lo spirito sia o possa essere universale. (cfr. De Corp. I.2.9.)
Le proposizioni prime vengono ridotte a definizioni o parti di definizioni, ed unicamente esse sono principi della dimostrazione, cioè verità stabilite dall’arbitrio di coloro che ascoltano.
Il ragionamento è calcolo, cogliere la somma di più cose l’una aggiunta all’altra, o conoscere il resto, sottratta una cosa all’altra. Ragionare, dunque, è la stessa cosa che addizionare e sottrarre. Aritmetica, geometria, logica, politica, lettere, tutto è addizione e sottrazione.
43.
Il senso è l’origine di tutti i pensieri perché non c’è alcuna concezione della mente umana che non sia stata dapprima, in tutto o per parti, generata negli organi del senso. Il resto è derivato da quella origine.
L’idea è «un fantasma prodotto dalla reazione e dalla sollecitazione verso l’esterno nell’organo di senso, causata da una sollecitazione impressa dall’oggetto, la cui durata varia di volta in volta» (De Corp. 4, 25, 2; Copleston 5, p. 41).
44.
La filosofia è divisa in due parti fondamentali, la filosofia prima e la filosofia della natura: la filosofia prima si occupa della corretta delimitazione dei nomi più universali quali corpo, causa, tempo, luogo, atto… (Lev. 1.1; cit. in Fazio-Gamarra, p. 145).
L’oggetto proprio della filosofia è il corpo, ossia «ciò che non dipende dal nostro pensiero e che coincide con alcuna parte dello spazio o è coestensivo con esso» (De Corp. 2.8.1; cit. in Fazio-Gamarra, p. 145).
Il movimento è «la prima porta che ci apre alla conoscenza dell’intera fisica» (De Corp, dedica; cit. in Fazio-Gamarra, p. 146). Ogni cambio o azione fra i corpi si spiega a partire dal movimento, che ha due aspetti: il «conatus —il minore movimento che possa darsi attraverso uno spazio e un tempo— e l’impetus —la velocità stessa, considerata in un qualsiasi punto del tempo in cui si realizza il movimento, in modo tale che l’impetus è la quantità o la velocità del conatus stesso» (De Corp. 3.15.2; cit. in Fazio-Gamarra, p. 146).

 

3. L’egoismo

45.
Per distinguere fra le attività coscienti e incoscienti dei viventi, Hobbes spiega che esistono i «moti vitali» e i «moti animali». Fra i primi si trovano la circolazione sanguigno, le pulsazioni, la respirazione, la digestione, ecc. sono movimenti per i quali non vi è bisogno dell’aiuto dell’attività immaginativa (Cfr. Lev. 1.6; Copleston 5, p. 42).
I moti animali o volontari sono come andare, parlare, «quando tali azioni sono precedentemente immaginate nella mente» (id.)
I singoli cominciamenti dei movimenti entro il corpo dell’uomo, prima che si manifestano nel camminare, nel parlare, nel percuotere e nel compiere altre azioni visibili, vengono comunemente denominati tendenze (ibid). (Cfr. conatus spinoziano).
La distinzione fra bene e male viene interpretata riduttivamente col binomio piacere-dolore: qualunque sia l’oggetto appetito o desiderato da un uomo, questo viene  da lui indicato come buono; è definito cattivo l’oggetto del suo odio e della sua avversione giudicato vile e spregevole quello del suo disprezzo (Lev. 1.6; Copleston 5, p. 43).
Le parole «bene» e «male» sono sempre relative alla persona che le usa(Lev., 1.6; Copleston p. 44).
Tutte le passioni sono ridotte a moti o movimenti tendenziali animali.
La distinzione fra la sensibilità e le nozioni dell’intelletto è logicamente considerata sotto l’aspetto dell’alterazione fisica: quando gli oggetti esterni vengono a contatto con gli organi di senso sorge «quel movimento e agitazione dell’intelletto che definiamo concetto», (Human Nature 8.1; Copleston 5 p. 44). Quando tale movimento dell’intelletto si comunica al cuore «viene chiamato passione» (ibid).
46.
La deliberazione è «l’insieme di desideri, avversioni, speranze e timori susseguenti finché l’oggetto sia ottenuto o considerato irraggiungibile» (Lev. 1, 6; Copleston 5, p. 45). «La volontà dunque è l’ultimo appetito nella deliberazione» (ibid). Si trova anche negli animali.
La libertà è condizionata dalla sensazione di piacere o dolore: «Né la libertà di volere o di non volere è maggiore nell’uomo che negli altri esseri animati. Infatti, il desiderio è stato preceduto dalla causa propria del desiderio e, perciò, lo stesso atto del desiderio... non poteva non seguire, cioè è seguito necessariamente. E dunque, che una tale libertà sia libera dalla necessità non si riscontra nella volontà né degli uomini né delle bestie. Se per libertà intendiamo la facoltà non di volere, ma di fare ciò che si vuole, allora certamente quella libertà si può concedere all’una e all’altra, e, quando c’è, è ugualmente nell’una e nell’altra»(De Corp. 4.25, 13; Copleston 5, p. 46).
Hobbes distingue le capacità innate dalle acquisite: alcuni sono più agili ed altri più lenti: la loro mente è torpida «a causa dell’appetito per il piacere sensuale o corporeo. E possiamo supporre che tale passione abbia origine da una grossolanità e difficoltà del movimento dello spirito intorno al cuore»(Human Nature 10.3; Copleston p. 46).
Nella dinamica tendenziale si riscontrano alcune passioni che «più di tutte generano la differenza di spirito, [e] sono principalmente il maggiore o minore desiderio di potere, di ricchezza, di conoscenza, di onore e tutte possono essere ricondotte alla prima, il desiderio di potere, perché ricchezza, conoscenza ed onore sono soltanto diverse specie di potere» (Lev. 1, 8; Copleston 5, pp. 46-47).
Questo egoismo «amorale» e «atomistico» si riflette nella riproposta della sentenza homo homini lupus sia a livello personale che sociale. Il desiderio di conservazione ci porta ad agire così.
Il rapporto fra conoscenza e legge (di natura) si spiega così:«Una lex naturalis è un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione, che vieta ad un uomo di fare ciò che è lesivo della sua vita o che gli toglie i mezzi per preservarla, e di omettere ciò con cui egli pensi possa essere meglio preservata» (19 nel Lev).
Non c’è fine ultimo (cfr. Fazio-Gamarra, p. 147).

 

4. Filosofia politica

47.
Hobbes da una spinta enorme al concetto di «stato di natura» nel quale i singoli presentano «le tre principali cause di contrasto: la rivalità, la diffidenza, l’ambizione» (Lev. 1.13).
Come visto in precedenza, la passione fondamentale, rappresentata dal desiderio di potere determina l’agire umano.
Si sottolinea il fatto che la natura non può essere sottoposta a giudizio morale: «Nessuno accusa la natura dell’uomo in se stessa. I desideri e le altre passioni umane non sono in se stessi malvagi, né lo sono le azioni che procedono da quelle passioni, fino a quando l’uomo non conosca una legge che le vieti; ma prima che la legge sia stata sancita non gli è possibile conoscerla, né alcuna legge può essere emanata, prima che si sia convenuto di nominare la persona che dovrà formularla» (Lev. 1.13).
Ciononostante, la ragione è capace di capire che «in tale condizione non vi è posto per l’attività industriale, perché il frutto di essa sarebbe incerto; di conseguenza non vi è agricoltura né navigazione, né uso delle merci che possono essere importate via mare, né comodi edifici né macchine per rimuovere oggetti che richiedono molta forza, né misurazione del tempo, né conoscenza della superficie terrestre, né arte, né lettere, né vivere sociale; e, ciò che è peggio, domina un continuo timore e minaccia di morte violenta e l’uomo vive solitario, povero, pieno di disgusto, abbrutito, e la sua vita è breve»(Lev. 1.13; Copleston p. 49).

48.
Da lì la necessità assoluta del patto sociale:
«La sola via per erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini dall’aggressione straniera e delle ingiurie reciproche [...] è quella di conferire tutti i loro poteri e tutta la loro forza ad un  uomo o ad un’assemblea di uomini che possa ridurre tutte le loro volontà, per mezzo della pluralità delle voci, ad una volontà sola [...] Questo è più del consenso o della concordia, è un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro [...] Fatto ciò, la multitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. [...] Infatti, per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni. In esso consiste l’essenza dello stato che (se si vuole definirlo) è una persona di cui atti ogni membro di una grande moltitudine, con patti reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e viceversa, si è fatto autore, affinchè essa possa usare la forza e in mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune difesa» (cit. in Reale 2, p. 374; cfr. Copleston 5, pp. 54-55).
La proposta di Hobbes riguardo al potere dello stato così definito è un luogo comune per la giustificazione dell’assolutismo in una qualsiasi delle sue forme.

 

6. Blaise Pascal (1623-1662)

 

1. Vita e opere

Blaise Pascal nasce il 19 giugno 1623, a Clermont Ferrand. Nel 1631 la famiglia si trasferisce a Parigi. Il padre segue direttamente l’educazione dei figli Blaise e Jacqueline (nata nel 1625) secondo i consigli di Montaigne. La viva intelligenza di Blaise convince il padre ad accelerare la sua istruzione, che sfocia nella composizione di un trattato sulle sezione del cono. Nel 1639, trasferimento a Rouen. Lavora alla sua macchina calcolatrice.
La famiglia entra a contatto con i membri di Port-Royal, monastero che è il punto di irradiazione del giansenismo, corrente all’interno della chiesa cattolica che promuove un rigorismo ascetico non lontano dal calvinismo e che dà molta importanza alle esperienze personali che danno al soggetto la certezza di essere scelti da Dio. Blaise esperimenta la sua «prima conversione»; comincia a «gustare Dio» e guadagna a questa nuova spiritualità suo padre e la sorella Jacqueline.
Nel 1646 Ripete a Rouen le esperienze di Torricelli sul vuoto. Nel settembre di 1647 si svolgono i due famosi incontri con Descartes. Dopo la morte del padre (1651), Jacqueline entra come religiosa a Port Royal. Comincia il «periodo mondano» di Pascal. Scritti di geometria.
23 novembre 1654: notte della «seconda conversione». Il Memoriale (cfr. il testo in Fazio-Gamarra, pp. 73-4).
1656-7. Lettere provinciali, polemica in cui si difendono i principi di Port-Royal contro le condanne e contro la casistica.
Lavora alla preparazione di una Apologia.
Nel febbraio 1659 s’ammala gravemente. È costretto a interrompere ogni lavoro impegnativo e si trasferisce a Clermont, dalla sorella Gilbert. Lavora più intensamente all’Apologia, annotando i «pensieri». Infuria la polemica sul giansenismo.
Muore il 19 agosto del 1662.
Pensieri, frammenti per l’Apologia, curato dagli amici di Port-Royal, 1670.

 

2. Conoscenza e intuizione

a) La ragione e il cuore

49.
Dopo la fiducia nei poteri della ragione – successo personale, spirito dell’epoca, incontri con Descartes –, le esperienze religiose lo portano a ridimensionare il ruolo delle capacità speculative in favore di una facoltà superiore:
«Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce: lo vediamo in mille cose. Io dico che il cuore ama l’essere universale naturalmente e se stesso naturalmente, secondo che si attacca all’uno o all’altro; e s’indura contro l’uno o l’altro a sua scelta. Voi avete respinto l’uno e conservato l’altro: è forse seguendo la ragione che amate il vostro io?», (Pensieri 277).
«Il cuore, e non la ragione, sente Dio. E questa è la fede: Dio sensibile al cuore e non alla ragione», (Pensieri).

I rapporti fra il corpo («automa») e l’intelletto dipendono dall’abitudine:
«...Perché non dobbiamo dimenticare la nostra condizione: noi siamo automa [tendenze abituali...] e intelletto, e da questo dipende che lo strumento per ottenere la convinzione non è la sola dimostrazione. Quanto sono poche le cose dimostrate! Le prove non convincono che l’intelletto. L’abitudine rende le nostre prove più forti e più credute; essa spiega l’automa, e questo trascina l’intelletto senza che se ne accorga. Chi mai ha dimostrato che domani vivremo oppure moriremo? (...)» (Pensieri, 252).

b) L’esprit de finesse e l’esprit de géométrie

50.
Per Pascal, la distinzione fra i tipi di conoscenza implica la possibilità di sviluppare due caratteri diversi nella capacità di approfondire la conoscenza della realtà:
Pensieri, 1: Differenza tra la mentalità geometrica (esprit de géométrie) e la mentalità intuitiva (esprit de finesse). «Nella prima i principi sono palpabili ma fuori dell’uso comune, tanto che, per mancanza d’abitudine, si fa fatica a prestarvi attenzione; però, appena vi si presta un po’ d’attenzione, i principi si vedono perfettamente; e bisognerebbe aver proprio una mente completamente falsata per ragionar male su principi così evidenti che è quasi impossibile che sfuggano.»

»Invece, nella mentalità intuitiva, i principi appartengono all’uso comune e stanno sotto gli occhi di tutti. Non c’è che da prestarvi attenzione senza farsi violenza; basta soltanto una buona vista, ma che sia buona per davvero; perché i principi sono così tenui e così numerosi che è quasi impossibile che qualcuno non sfugga. Ora, l’omissione di un principio conduce all’errore; perciò bisogna avere la vista ben chiara per vedere tutti i principi, e avere poi una mente equilibrata per non ragionare falsamente sui principi conosciuti».
È in questo senso che si capisce il suo rifiuto dell’ideale cartesiano della gioventù: «Descartes, inutile e incerto» (Pensieri, 78).

 

3. Il Dio dei filosofi

51.
«(...) Mi stupisce l’arditezza con cui queste persone si mettono a parlare di Dio. Rivolgono i loro discorsi agli increduli, nel loro primo capitolo provano la Divinità per mezzo delle opere della natura. Il loro procedimento non mi stupirebbe se rivolgessero i loro ragionamenti ai credenti, perché è certo [che tutti quelli] che hanno una fede viva nel loro cuore vedono immediatamente che tutto ciò che esiste è opera del Dio che adorano» (Pensieri, 242).

«Prefazione. Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal modo di ragionare degli uomini e così complicate che colpiscono poco; e se anche servissero ad alcuni, servirebbero soltanto nell’istante in cui essi vedono questa dimostrazione, perché un’ora dopo temono di essersi ingannati», (Pensieri, 543).

«Non posso perdonarla a Descartes, il quale in tutta la sua filosofia avrebbe voluto poter fare a meno di Dio, ma non ha potuto evitare di fargli dare un colpetto al mondo per metterlo in moto; dopo di che non sa più che farne di Dio» (Pensieri, 77).

 

4. L’uomo: grandezza e miseria. Finito e infinito

52.
«Avevo trascorso molto tempo nello studio delle scienze astratte, ma me n’ero disgustato per la poca comunicabilità che se ne poteva ricavare. Appena ho cominciato lo studio dell’uomo, ho visto che quelle scienze astratte non sono proprie dell’uomo, e che mi sviavo più io dalla mia condizione studiandole, che gli altri ignorandole. Ho perdonato agli altri di saperne poco. Però ho creduto di trovare almeno molti compagni nello studio dell’uomo, e che questo fosse il vero studio che gli sia proprio. Mi sono ingannato» (Pensieri, 144).

«L’uomo è evidentemente fatto per pensare: sta qui tutta la sua dignità e il suo mestiere; e tutto il suo dovere consiste nel pensare come si deve. Orbene, l’ordine del pensiero sta nel cominciare dal proprio io, dal proprio autore e dal proprio fine.
Ma a che cosa pensa il mondano? Non pensa mai a questo, ma a danzare, a suonare il liuto, a cantare, a scrivere versi, a far tornei ecc., a duellare, a diventar re senza pensare che cosa è un re e che cos’è un uomo», (Pensieri, 146).

«Tutta la dignità dell’uomo consiste nel pensiero.
»Il pensiero dunque è una cosa meravigliosa ed incomparabile per natura. Avrebbe dovuto avere degli strani difetti per esser disprezzabile; ma ne ha alcuni di cui non c’è niente di più ridicolo. Come è grande per natura! Com’è basso per i suoi difetti!
Ma che cos’è questo pensiero? Quanto è stolto!» (Pensieri, 365; cfr. 347, infra).

In una discussione antiscettica:
«[...] Quale chimera è dunque l’uomo? Che novità, che mostro, che caos, che soggetto di contraddizioni, che prodigio! Giudice di tutte le cose e miserabile verme di terra; depositario della verità e cloaca di incertezza e d’errore; gloria e rifiuto dell’universo. […]
»Riconoscete dunque, o superbi, che siete un paradosso per voi stessi. Umìliati, ragione impotente; taci, natura imbecille, impara che l’uomo sorpassa infinitamente l’uomo, e impara dal tuo Signore la tua vera condizione che ignori. Ascolta Dio.» (Pensieri, 434).

«L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente» (Pensieri, 347).
Ma c’è un altro livello di vita spirituale, quello della grazia e della carità: «La distanza infinita tra i corpi e gli spiriti raffigura la distanza infinitamente più infinita tra gli spiriti e la carità, perché questa è soprannaturale» (Pensieri, 793).

 

5. La scommessa sulla propria vita

53.
Con queste premesse si comprende la distinzione fra gli uomini: i libertini, irrazionali che si occupano dei divertimenti e non cercano Dio; i saggi razionalisti, che cercano Dio senza trovarlo; e coloro che lo hanno trovato. Il modello dell’ «honnête homme», raffinato e scettico, è il tipo dei suoi amici «mondani».
Pensando a questi interlocutori Pascal, propone un argomento che va oltre le possibilità della comprensione razionalista.


  È importante rilevare che la certezza (forza della convinzione del soggetto che conosce) e l’evidenza (forza con cui ci si mostra una realtà) sono aspetti soggettivi della conoscenza. Le questioni legate ad esse sono importanti, ma sottolinearle eccessivamente può portare al soggettivismo perché si rischia di trascurare il trattamento della verità.

La figura del Leviatano è presa dal mostro descritto nel libro di Giobbe (40-41).

«—[…] Valutiamo il guadagno e la perdita, scegliendo croce, cioè l’esistenza di Dio. Esaminiamo questi due casi: se guadagnate, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete dunque che egli esiste, senza esitare […].
—Poiché c’è uguale probabilità di guadagno o di perdita, se aveste da guadagnare soltanto due vite per una, potreste ancora scommettere […] Ma c’è un’eternità di vita e di felicità. E così stando le cose, qualora ci fosse un’infinità di probabilità di cui una sola fosse a vostro favore, avreste ancora motivo di scommettere uno per guadagnare due; e agireste con scarso giudizio se, obbligato a giocare, vi rifiutaste di giocare una vita contro tre in un gioco in cui tra un’infinità di probabilità ce n’è una per voi, nel caso che ci fosse una vita infinita infinitamente felice da guadagnare. Ma qui c’è proprio una vita infinita infinitamente felice da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quello che voi mettete in gioco è finito» (Pensieri, 233).

 

7. Nicolas Malebranche (1638-1715)

 

1. Vita e opere

Nicolas Malebranche nasce nel 1638 e frequenta il Collegio La Marche, per passare poi allo studio della teologia presso La Sorbona. Nel 1660 entra nell’Oratorio (Card. Bérulle) ed entra a contatto con la filosofia cartesiana e agostiniana. È ordinato sacerdote nel 1664. Legge il Trattato sull’uomo di Descartes che lo colpisce fortemente.
Scrive sui rapporti fra anima e corpo, e nel suo Trattato della natura e della grazia (1680) difende posizioni contrarie al giansenismo (in polemica aperta con Arnauld). Gode di grande celebrità nel mondo cattolico. Muore nel 1715.
Ricerca della verità (1668).

 

2. Filosofia e teologia

54.
Il sapere teologico e la ragione hanno lo stesso oggetto, ma diversi punti di vista. In religione bisogna rispettare e fare attenzione alla tradizione, in filosofia non vige questa modalità.
Seguendo la linea agostiniana – nisi credideritis non intelligetis – Malebranche sostiene che la teologia completa e rinsalda le conoscenze umane. Ciononostante, cade in una certa razionalizzazione del dogma e offre delle risposte a questioni filosofiche con principi provenienti dalla fede.

 

3. La teoria delle idee e la visione in Dio

55.
I sensi sono inaffidabili: «Quando si sente il caldo, non ci si inganna affatto nel credere di sentirlo (...). Ma ci si inganna se si ritiene che il calore che si sente, è al di fuori dell’anima che lo sente.» (Ricerca della verità, 1.5).
Bisogna sforzarsi nella ricerca dell’idea chiara e distinta dell’estensione, l’intelletto deve combattere i moti dell’immaginazione.
L’idea è «ciò che è l’oggetto immediato, o il più prossimo dello spirito quando esso percepisce qualche oggetto».
Della nostra anima conosciamo «soltanto ciò che percepiamo avvenire in noi» (Ricerca della verità 3.2.7), mentre le idee le contempliamo in Dio: Egli agisce nel modo più semplice, e farci conoscere tramite altre vie sarebbe più complesso.
Dio è necessario:«le idee che ci rappresentano le creature non sono altro se non perfezioni di Dio le quali corrispondono a queste medesime creature e le rappresentano».

 

4. L’occasionalismo

56.
La separazione cartesiana fra res cogitans e res extensa lasciò una eredità molto problematica. I moti dello spirito non possono causare quelli del corpo, ma sono soltanto «occasioni» perché Dio intervenga sull’estensione, e i movimenti di quest’ultima sono la «causa occasionale». È Arnold Geulincx (1624-1669) che da una forma precisa all’ «occasionalismo»: corpo e anima si comportano come due orologi sincronizzati. Tale idea si ricollega in qualche modo alla libertà in termini spinoziani e si rifletterà anche nella nozione di «armonia prestabilita» di Leibniz.

Dio rivela l’esistenza dei corpi a proposito e in occasione della sensazione. È un fatto soggettivo che rivela qualcosa e fa credere che i corpi esercitino un’attività realmente causale. L’unica causa vera è Dio, le altre sono soltanto cause «occasionali». Non c’è efficacia reale delle creature: nell’urto di due corpi, l’impatto e «l’agente» sono l’occasione della distribuzione del movimento. È di nuovo il principio di semplicità che serve a difendere questa posizione: è più facile che Dio intervenga direttamente che non supporre un’attività delle sostanze e un collegamento che si è dimostrato sempre problematico.

 

5. La morale

57.
La libertà rimane compromessa, perché non si capisce il collegamento fra le decisioni e i movimenti conseguenti, che potrebbero essere soltanto successivi (cfr. testo in Fazio-Gamarra, pp. 89-90).
Volontà e libertà: la prima precede la libertà, è radicale, generale e necessaria: l’uomo non può non volere il bene generale, che è Dio. La seconda invece è derivata, determinante. La volontà è l’azione di Dio nell’anima, e la libertà è l’attività del singolo che determina sé stesso, ma senza efficacia reale, non invincibile. Questa «attività inefficace» è uno dei punti più oscuri della proposta malebranchiana.
La virtù principale è «l’amore dell’ordine» (simile all’ordo amoris, di Agostino), che implica sottomissione alla legge divina. Bisogna chiedere la grazia per ripristinare l’ordine.

 

8. Baruch Spinoza (1632-1677)

 

1. Vita e opere

Baruch Spinoza, nacque ad Amsterdam il 24 novembre 1632, nel seno di una famiglia ebrea d’origine portoghese, emigrata nei Paesi Bassi verso la fine del sedicesimo secolo.
Fu educato nella tradizione religiosa giudaica, cioè nella conoscenza della Sacra Scrittura e del Talmud . Nel periodo compreso dal 1639 al 1652 studiò nella Keter-Thora, scuola ebraica portoghese di Amsterdam. Conobbe le speculazioni cabalistiche e le opere dei grandi pensatori ebraici medioevali, ad esempio quelle di Mosé Maimonide. Dal 1652 al 1656 frequentò le lezioni di Francis Van den Ende, un medico e libero pensatore di taglio libertino, che gli insegnò matematica e grazie al quale perfezionò la sua conoscenza del latino. Van den Ende gli fece conoscere sia i classici latini, quali Terenzio, Cicerone e Seneca, sia la filosofia cartesiana e il pensiero di Hobbes e Bacon. Questa scuola è stata il punto di incontro di Spinoza con i protestanti liberali.
Ben presto le sue idee entrarono in contrasto con le dottrine ortodosse ebraiche. Già nel 1654, a soli ventidue anni, lasciò la pratica religiosa e due anni dopo, il 27 luglio 1656, venne formalmente espulso dalla sinagoga, cioè scomunicato. Per guadagnarsi la vita, esercita il mestiere di molatore di lenti. Frequenta circoli protestanti di Mennoniti e Collegianti, sette in cui si predica la tolleranza religiosa. Ebbe una fitta corrispondenza con altri pensatori dell’epoca, ad esempio con Henry Oldemburg, della Royal Society di Londra e con Leibniz. Spinoza non cercò mai di mettersi in vista e non occupò posti accademici. Anzi, nel 1673 rifiutò la cattedra di filosofia all’università di Heidelberg, poichè non voleva perdere la sua completa libertà di pensiero.
Nel 1670, dopo la pubblicazione anonima del Tractatus theologico-politicus, subì violenti attacchi da parte soprattutto dai teologi calvinisti. Nel 1675, tenta di pubblicare la sua Etica, ma vi rinuncia perché circolano accuse sul suo ateismo. Morì da solo, nella sua camera, malato di tubercolosi il 21 febbraio del 1677. Nel novembre dello stesso anno, gli amici pubblicano le opere da lui lasciate.
Oltre ai classici latini cita spesso Maimonide e Avicebron, Bruno e Leone Ebreo. Conosce anche la Scolastica dei secoli XVI-XVII e soprattutto Descartes e Hobbes.
Tractatus de intellectus emendatione, 1661, incompiuto, pubblicato postumo.
Ethica ordine geometrico demonstrata (iniziata nel 1661; pubblicata 1677)

 

2. Il metodo spinoziano

58.
In Spinoza l’intreccio fra la vita e l’opera è molto importante. La consapevolezza di star portando avanti un progetto non soltanto intellettuale ma, innanzitutto, esistenziale, si riflette nella proposta di avere una scienza che ci permetta di godere eternamente tramite la conoscenza di tutta la natura: educare dunque l’intelletto, guidare tutte le scienze unitariamente allo scopo di pervenire alla somma perfezione umana: «soteriologia filosofica», senso gnostico del sapere razionale (cfr. Bruno).
La fede e la filosofia sono conoscenze diverse. La prima richiede obbedienza e ci conduce alla preghiera, mentre la seconda ha a che fare con la verità.
L’intelletto si sviluppa a partire dalla nozione di Dio. Con il metodo deduttivo, a partire dall’idea di Dio, si raggiunge l’unità e identità con la natura perché «ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum», l’ordo e la connessione delle idee coincide con l’ordine e la connessione delle cose.

 

3. I gradi della conoscenza

59.
I diversi tipi di conoscenza conducono l’uomo a scoprire qual è la sua vera «posizione», la quale si ottiene con una ferrea disciplina. Progredendo, si scopre che la varietà dei fenomeni e cose non è altro che manifestazione di una unica realtà, della quale anche il soggetto ne fa parte.
La conoscenza tramite l’immaginazione dipende dai sensi, è utile per la vita quotidiana ma è confusa.
La ragione raggiunge l’idea in sé, senza relazione con gli oggetti.
A partire dall’idea adeguata dell’essenza formale di certi attributi di Dio, si passa alla conoscenza adeguata dell’essere delle cose, alla scienza intuitiva.
L’idea e l’essenza oggettiva sono identiche. Si raggiunge la verità e in quel livello si scopre che è Dio che conosce tramite la mente umana.

 

4. Dio o la sostanza. Sostanza, attributi e modi. Dio, «causa sui». Panteismo

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Spinoza sostiene che c’è una intuizione di Dio, che è conosciuto e dimostrato in se stesso, contro il dualismo e il dubbio cartesiano.
La nozione di Dio è inscindibile dalla sua nozione di sostanza, che riprende la linea stabilita da Descartes, ma è colta senza mezzi termini: «quello che è in sé e che si concepisce per sé, cioè, ciò il cui concetto non ha bisogno, per formarsi, del concetto di un’altra cosa», (Ethica, prop. 1). La descrizione è di stampo razionalistico – non realistico nel senso di Descartes – ma l’identità reale fra i diversi ambiti della realtà la renderà ancora «più reale» di quella cartesiana. L’autonomia della sostanza è frutto della concezione del filosofo francese, ma l’impianto della proposta spinoziana è del tutto originale. (cfr. attributi e modi).
Accanto alla nozione di sostanza bisogna considerare la sua concezione di Dio – «Dio, o detto in un altro modo, tutti gli attributi di Dio» che sono infiniti –, del quale l’uomo conosce due attributi, il pensiero e l’estensione. Non bisogna pensare all’esistenza di due tipi di sostanze.
I modi sono le «affezioni della sostanza, o quello che è in altra cosa per mezzo della quale è anche concepita». Possono essere finiti o infiniti, proprietà degli attributi, e anche cose, effetti, in senso formale-deduttivo (more geometrico).
Tutto è causato e dedotto da Dio, che è «Deus, sive substantia, sive Natura», Dio ovvero la sostanza, ovvero la natura.
Il Dio-Natura si presenta in due momenti o situazioni, che ricordano le idee di Scoto Eriugena: «Natura naturante» e «Natura naturata»: «dobbiamo intendere per natura naturante ciò che è in sé e per sé si concepisce, ossia gli attributi della sostanza che esprimono l’eterna e infinita essenza, cioè Dio, in quanto si considera come causa libera. Per naturata, invece, intendo tutto ciò, che segue dalla necessità della natura di Dio, ossia di ogni attributo di Dio, vale a dire tutti i modi degli attributi di Dio (...) che senza di Dio non possono né essere né essere concepiti» (Etica 1, prop. 29)

Dio è causa sui, nel senso che l’essenza coinvolge l’esistenza. Indipendenza di Dio, libertà assoluta, che è necessità: circolazione di ragione secondo la legge della propria natura. La causalità efficiente riflette un ordinamento logico.
Spinoza sosteneva che il suo sistema non era un panteismo bensì un «panenteismo», in cui tutto è in Dio.
Ciononostante, conoscere Iddio quale causa unica ed eterna produce l’amor intellectualis Deo, l’amore con cui Dio ama se stesso, non in quanto è infinito, ma in quanto può essere espresso mediante l’essenza della mente umana, considerata sotto la specie di eternità: identificazione dell’amore di Dio come amore per l’umanità.

 

5. L’uomo. Anima e corpo. Libertà e passioni

61.
Secondo quanto accennato precedentemente, il dualismo cartesiano viene cancellato dalla novità nella concezione della sostanza: «All’essenza dell’uomo non appartiene l’essere della sostanza, ossia la sostanza non costituisce la forma dell’uomo (...) Ne segue, che l’essenza dell’uomo è costituita da certe modificazioni degli attributi di Dio». (Etica, II, prop. 10). L’anima è l’idea del corpo; il corpo è l’oggetto dell’anima, è così che si scopre la mutua corrispondenza, senza unità: «un modo dell’estensione e l’idea di questo modo sono una sola e la stessa cosa, però espressa in due maniere diverse» (id. prop. 7).
Il corpo è inteso in senso meccanicista, senza finalità.
La coscienza è l’idea che ha l’anima di se stessa.
Conseguenza logica è che l’uomo non fa eccezione all’ordine della Natura. Le passioni non sono dovute a debolezze o mancanza dell’animo, ma sono manifestazioni della potenza della Natura, e come tali non vanno detestate e biasimate, ma spiegate e capite.
Le passioni scaturiscono dal conatus o tendenza a perseverare nel proprio essere, tendenza accompagnata dalla coscienza. Quando la tendenza è riferita soltanto alla mente, si chiama volontà e quando è riferita anche al corpo si chiama appetitus. Dalla gioia e il dolore (quel che favorisce e quel che ostacola il conatus) sorgono le altre passioni, che sono dedotte more geometrico.
Il carattere naturale delle passioni spiega il fatto che, pur ritenendoci liberi di agire in diversi modi, facciamo di solito quel che è comandato da questi moti involontari: «la stessa esperienza, non meno che la ragione, insegna che gli uomini credono di essere liberi solo perché sono consapevoli delle proprie azioni, e ignari delle cause da cui sono determinati». Da qui consegue la riduzione della libertà a consapevolezza e a conoscenza della necessità. La conservazione secondo ragione è determinata dall’utile

 

6. Filosofia politica

62.
Il Tractatus theologico-politicus fu scritto per diversi scopi: si affrontano le accuse di panteismo, si discutono i pregiudizi teologici che impediscono di dedicarsi alla filosofia, e, infine, si difende la libertà di pensiero. È anche un saggio di esegesi (primo tentativo di metodologia storica).
Nella religione il ruolo decisivo tocca all’obbedienza e il potere politico si incarica di regolare le cose sacre. Nel campo filosofico invece vige il principio della libertà. In ogni stato libero ogni individuo può pensare ciò che vuole e dire ciò che pensa.
L’agire e il pensare si possono trovare in opposizione: quando il potere politico limita la libertà dell’individuo, questi è tenuto a obbedire perfino contro la propria coscienza: lo stesso principio di convenienza-utilità che determina la libertà in generale, porta a sopprimerla secondo la ragione di stato. Buono e cattivo, giusto e ingiusto, sono determinazioni dello stato civile (cfr. positivismo giuridico). Nei confronti delle religioni si deve agire secondo la nozione di tolleranza.

 

9. John Locke (1632-1704)

 

1. Vita e opere

Nasce a Wrington, nei pressi di Bristol, nel 1632. Masters of Arts presso Oxford (1658). Tutor di greco e retorica e censore di filosofia morale. Deluso dall’insegnamento della filosofia («un peripatetismo impacciato di parole oscure e inutili ricerche») studia medicina e fisiologia. Nel 1668 è nominato membro della Royal Society. Entra nel mondo della politica al servizio di Lord Ashley Cooper, Cancelliere di Inghilterra e Conte di Shaftesbury (1672). Fino al 1689 la sua vita è condizionata dagli sconvolgimenti politici, si reca in Francia, dove conosce il cartesianesimo (1675), e in seguito visita l’Olanda. Nel 1689, con Guglielmo di Orange e Maria Stuart, fautori della monarchia parlamentare torna in Inghilterra: il suo sostegno a questo governo gli fa guadagnare una situazione privilegiata e diventa punto di riferimento per tutto il mondo culturale. Si dedica soprattutto allo studio e alla pubblicazione delle sue opere. Muore nel 1704.
Saggio sull’intelletto umano (1688, con successive edizioni): proposta empirista in polemica con Leibniz.
Tre Lettere sulla tolleranza, 1689 (in latino, anonima), 1690, 1693.
Due trattati del governo civile, 1690 (giustifica la rivoluzione di 1688).
Ragionevolezza del cristianesimo, 1695.

 

2. Il Saggio sull’intelletto umano e le basi del suo pensiero

63.
Il Saggio sull’intelletto umano nasce nell’ambiente di discussione informale fra i membri del corpo docente. Locke spiega nell’Epistola al lettore come si siano resi conti che «prima di iniziare indagini di quella natura, era necessario esaminare le nostre capacità, per vedere quali oggetti il nostro intelletto fosse o non fosse in grado di trattare. Proposi ciò alla compagnia, la quale prontamente acconsentì; e fu quindi concordato che questa sarebbe stata la prima nostra indagine. Alcuni pensieri frettolosi e mal digesti, su un argomento che non avevo ancora mai considerato, che annotai per la nostra prossima riunione, formarono la prima introduzione a questo Discorso; il quale, essendo stato iniziato per caso, venne continuato su preghiera dei miei amici, scritto a brani incoerenti, trascurato per lunghi intervalli e poi ripreso secondo quanto mi concedeva l’umore o l’ocasione e, infine, durante una vacanza solitaria, presa per motivi di salute, venne messo nell’ordine in cui ora lo vedi» (i lavori si protrassero per circa vent’anni).
Si continua così nell’Introduzione la proposta metodologica: «Conoscendo la nostra forza, sapremo meglio che cosa intraprendere con qualche speranza di successo; e quando avremo ben bene esaminato i poteri del nostro spirito e fatto una valutazione di che cosa possiamo attenderci da essi, non saremo propensi né a star quieti, senza mettere il nostro pensiero all’opera, disperando di conoscere qualsiasi cosa né, dall’altro lato, a mettere in dubbio tutto e disconoscere ogni conoscenza perché alcune cose non possono essere comprese. è di somma utilità al marinaio di conoscere la lunghezza della sua fune, anche se con essa egli non può scandagliare tutte le profondità dell’oceano [...] Il nostro compito qui non è di conoscere tutte le cose, ma solo quelle che concernono la nostra condotta».
La struttura del Saggio è utile allo scopo di capire come si concretizza la posizione iniziale:
1. Polemica contro l’innatismo
2. Origine delle idee (semplici-complesse)
3. Rapporto fra le parole e le idee
4. Certezza, estensione e gradi della conoscenza .

Il progetto empirista è più moderato di quello di Hobbes per quanto riguarda la considerazione della materia e dà una importanza maggiore al concetto cartesiano di idea come base della conoscenza.
Da rilevare la trasformazione della considerazione degli oggetti della sensibilità: qualità primarie e secondarie (cfr. Galileo).

 

3. L’origine delle idee e la polemica coll’innatismo. Le idee complesse

64.
«Dire che una nozione è impressa nello spirito, e allo stesso tempo dire che lo spirito ne è ignorante e che finora non se ne è mai accorto, significa rendere quest’impressione nulla. Di nessuna proposizione si può dire che essa sia nello spirito mentre nello spirito non l’ha mai conosciuta o non ne è mai stato consapevole».
Nel campo della morale si rende evidente la stessa realtà: «E se ci guardiamo intorno per vedere gli uomini quali sono, troveremo che hanno rimorso in un luogo per aver fatto oppure omesso di fare ciò che, in un altro luogo, credono meritevole».
Per Dio, ci sono popoli che «non hanno neppure un nome per designare Dio, non hanno religione né culto».
Le idee semplici quindi vengono dall’esterno.
Presenta l’idea classica dell’intelletto come tabula rasa «Supponiamo dunque che lo spirito sia per così dire un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza alcuna idea. In che modo verrà ad essere fornito? Da dove proviene quel vasto deposito che la fantasia industriosa e illimitata dell’uomo vi ha tracciato con una varietà quasi infinita? Da dove si procura tutto il materiale della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall’esperienza. Su di essa tutta la nostra conoscenza si fonda e da essa in ultimo deriva».
La distinzione fra idea e qualità è descritta così: «chiamo idea tutto ciò che lo spirito percepisce in se stesso, o che è l’oggetto immediato della percezione, del pensiero o dell’intelletto; invece chiamo il potere di produrre un’idea nel nostro spirito qualità del soggetto in cui sta il potere. Così, per esempio, una palla di neve ha il potere di produrre in noi le idee di bianco, di freddo e di rotondo, e chiamo qualità i poteri di produrre quelle idee in noi, così come sono nella palla di neve; in quanto sono invece sensazioni o percezioni del nostro intelletto, le chiamo idee» (Introd. 8, 1; cit. in Reale 2, p. 382).
Lo scambio con la filosofia cartesiana provoca l’inserzione di un concetto poco chiaro nel quale vengono assunte sia le idee dell’intelletto che i fenomeni della vita passionale .
65.
Descrizione delle qualità primarie e secondarie: «le prime sono le qualità primarie e reali dei corpi, che si trovano sempre in essi (cioè la solidità, l’estensione, la figura, il numero, il movimento o il riposo...). Le altre non sono altro che i poteri di varie combinazioni di quelle primarie (colori, sapori...). [...] ci sono qualità che in verità sono negli oggetti solo poteri di produrre in noi sensazioni varie per mezzo delle loro qualità primarie, cioè la mole, la figura e la consistenza, insieme al movimento delle loro parti impercettibili, quali colori, suoni, gusti, ecc.» (cit. in Reale 2, p. 382).
Ricorda la sentenza di Democrito: «opinione il dolore, opinione l’amaro, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il colore; verità gli atomi e il vuoto» (cit. in Reale 2, p. 383).
Per assicurare una certa validità alle qualità secondarie si affida alla saggezza del Creatore: «Allo stesso modo in cui le idee delle qualità originarie vengono prodotte in noi, possiamo concepire che siano anche prodotte le idee delle qualità secondarie, cioè mediante l’azione di particelle impercettibili sui nostri sensi […] Supponiamo ora che i diversi movimenti, le figure, la mole e il numero di tali particelle nell’agire  sui vari organi dei nostri sensi, producano in noi le diverse sensazioni che abbiamo dai colori e dagli odori dei corpi […] Infatti non è più difficile concepire che Dio possa annettere queste idee a tali movimenti, coi quali non hanno alcuna somiglianza, di quanto sia difficile concepire che egli abbia collegato l’idea del dolore col movimento di un pezzo di acciaio che incide la nostra carne, movimento al quale quell’idea non rassomiglia affatto» (cit. in Reale 2, p. 383).
Così si può spiegare la diversità delle idee semplici, ma bisogna spiegare anche la loro evidente complessità. Locke raggruppa così i concetti complessi chiamandoli modi, sostanza e relazione.

Modi: non contengono la supposizione di sussistere per sé, ma sono considerate come dipendenze o affezioni delle sostanze—gratitudine, omicidio.
Sostanza: costatiamo che alcune idee vanno sempre insieme, ci abituiamo a considerare che esista un sostrato sebbene non sappiamo cosa sia. Locke non nega l’esistenza delle sostanze, ma soltanto la credenza che le conosciamo «in se stesse» e non nelle nostre idee.
La considerazione della sostanza come sostrato ipotetico riprende una lunga tradizione critica nei confronti della nozione «oggettivista» di radice aristotelica: «L’idea quindi alla quale diamo il nome generale di sostanza, non è altro che il sostegno supposto ma sconosciuto di quelle qualità che scopriamo esistenti, che non possiamo immaginare sussistano ‘sine re substante’, senza qualcosa per sostenerle; e chiamiamo perciò quel sostegno substantia; il che, secondo il vero valore della parola, in inglese comune si dice star sotto o sostenere» (cit. in Reale 2, p. 385).
La distinzione cartesiana fra res cogitans e res extensa rientra nella stessa critica perché costituisce una sorta di intuizione della sostanza e inoltre una sovrapposizione di sostanze. È un mistero il fatto che il potere di pensare sia stato concesso alla materia dal suo Creatore.
Le relazioni sorgono dal confronto delle idee fra di loro e dalla comparazione che l’intelletto istituisce fra di loro: causa-effetto, identità, relazioni morali .

 

4. Il linguaggio e le idee universali

66.
Per quanto riguarda l’evidenza del linguaggio e la generalizzazione delle idee che esso implica, Locke mostra l’eredità nominalista e «artificialista» dei suoi predecessori empiristi:
«è chiaro che il generale e l’universale non appartengono all’esistenza reale delle cose, ma sono invenzioni e creature dell’intelletto, fatte da esso per il suo uso, e riguardano solamente i segni, siano parole o idee. E le parole sono generali quando sono adoperate come segni delle idee generali e così possono essere applicate indifferentemente a molte cose particolari; le idee sono generali quando sono poste a rappresentare molte cose particolari. Ma l’universalità non appartiene alle cose stesse, le quali sono tutte particolari nella loro esistenza, comprese le parole e le idee che sono generali nel loro significato. Perciò, quando ci allontaniamo dai particolari ciò che rimane di generale è solo una creatura di nostra fabbricazione; infatti la sua natura generale non è che la capacità conferita dall’intelletto, di significare o rappresentare molti particolari. Il significato che ha è soltanto una relazione che lo spirito dell’uomo aggiunge a questi particolari» (cit. in Reale 2, p. 387).
La sua spiegazione dell’astrazione è alquanto povera ed è intesa come una «parzializzazione» delle percezioni.

 

5. I gradi della conoscenza

67.
La conoscenza è considerata come «la percezione della connessione o dell’accordo o del disaccordo e del contrasto, fra le nostre idee».
Prospettiva che condiziona la nozione di certezza che è centrale nella filosofia postcartesiana: «la certezza infatti è soltanto la percezione dell’accordo o disaccordo fra le nostre idee, e la dimostrazione è null’altro che la percezione di tale accordo attraverso l’intervento di altre idee mediatrici; poiché le nostre idee morali, come quelle matematiche, sono gli stessi archetipi e pertanto idee adeguate e complete, ogni accordo o disaccordo che troveremo fra esse produrrà una conoscenza reale, come accade per la figura matematica» (Saggio 4.4.7).

L’evidenza immediata che deve trovarsi alla base di ogni certezza non può che restare rinchiusa in quel livello: «In essa lo spirito non si dà la pena di provare o di esaminare, ma percepisce la verità come l’occhio la luce, solo dirigendosi verso di essa. Così lo spirito percepisce che il bianco non è nero, che un circolo non è un triangolo, che tre sono più di due e uguale a uno più due. Lo spirito percepisce questa specie di verità appena vede le idee insieme, per pura intuizione, senza l’intervento di altra idea; e questa specie di conoscenza è la più chiara e certa di cui l’umana fragilità sia capace. Questa parte della conoscenza è irresistibile […]. Da questa intuizione dipende tutta la certezza e l’evidenza di tutta la nostra conoscenza[...]» (cit. in Reale 2, p. 387).
Nonostante la sua mentalità empiristica, Locke ammette l’esistenza di due idee «privilegiate», cioè l’idea dell’io e l’idea di Dio, mutuando così elementi di cartesianesimo che, a rigor di metodo, sarebbero inaccettabili. Sarà Hume a portare avanti la critica in questo campo limitato della proposta lockiana.

68.
Per Locke «niente può essere per noi più evidente della nostra propria esistenza. Io penso, io ragiono, io sento piacere e dolore […] ho una percezione certa della mia propria esistenza come dell’esistenza del dolore che sento; o se so di dubitare, ho la percezione certa della cosa che dubita come del pensiero che io chiamo “dubbio” […] noi siamo consci di fronte a noi stessi del nostro proprio essere e su questo punto non manchiamo del più alto grado di certezza» (cit. in Reale 2, p. 388).
Il ragionamento per mostrare l’evidenza dell’esistenza di Dio riflette la sua origine cartesiana: «l’uomo sa, per intuitiva certezza, che il puro niente non produce un essere reale più che non possa essere uguale a due angoli retti. Se un uomo non sa che il non-ente o l’assenza di ogni essere, non può essere uguale a due angoli retti, è impossibile che conosca una qualsiasi dimostrazione di Euclide. Se per ciò noi sappiamo che c’è qualche essere reale e che il non-ente non può produrre un essere reale, questa è la dimostrazione evidente che dall’eternità c’è stato qualcosa; perché ciò che non esiste dall’eternità ha avuto un inizio; e ciò che ha avuto un inizio dev’essere prodotto da qualcosa d’altro» (id).
Perciò Dio deve essere onnipotente, onnisciente, eterno.
L’evidenza dell’esistenza delle cose è invece indiretta: «Avere l’idea di qualcosa nel nostro spirito non prova l’esistenza di questa cosa più che il ritratto di un uomo non renda evidente la sua esistenza nel mondo o che le visioni di un sogno costituiscano come tali una storia vera»(cit. in Reale 2, p. 389).
Per altri tipi di conoscenza si passa al livello della probabilità, la quale è l’apparenza d’accordo o disaccordo mediante prove in cui la conessione delle idee non è costante né immutabile, o, almeno, non percepita come tale«ma è o appare per lo più tale, ed è sufficiente a indurre lo spirito a giudicare la proposizione vera o falsa, piuttosto che il contrario» (cit. in Reale 2, p. 389).
Locke dà una posizione speciale alla fede, che non gode dell’evidenza sensibile, ma nondimeno «esige il grado più alto del nostro assenso sulla base di una semplice testimonianza, sia che la cosa proposta concordi sia che non concordi con l’esperienza comune e con il nostro corso ordinario delle cose. La ragione di questo è che la testimonianza è quella di Uno  che non può ingannare né esser ingannato, cioè di Dio stesso. Essa include un’assicurazione che è al di là del dubbio, una prova senza eccezioni. Con un nome peculiare è chiamata rivelazione e il nostro assenso ad essa fede» (cit. in Reale 2, pp. 389-90).
Il fatto che Locke proponga queste idee sui generis esenti dal passaggio sensibile e quindi contro i principi stessi dell’empirismo giustificano che alcuni autori parlino di un «semiempirismo» per riferirsi al suo sistema. Anche qui la critica di Hume sarà implacabile.

 

6. Filosofia morale

69.
Per Locke la morale è soggetta a dimostrazione come la matematica.
La base del ragionamento morale è la considerazione dell’idea di «un essere supremo infinito nella sua potenza, bontà e sapienza, di cui siamo opera e dal quale dipendiamo», e «l’idea di noi stessi come esseri intelligenti razionali, presentandosi a noi con chiarezza, dovrebbero, suppongo, se debitamente considerate e seguite, dare una fondazione al nostro dovere e alle leggi dell’agire, tale da porre la morale fra le scienze suscettibili da dimostrazione», cosicché «le norme del giusto e dell’ingiusto possono essere colte da ciascuno che si voglia applicare all’una con la stessa obiettività e attenzione che pone all’altra di quelle scienze» (Saggio 4.3.18, Copleston 5, p. 164).

A livello operativo, Locke pensa che quello che determina la volontà «non sia, come si suppone generalmente, il maggior bene che si ha in vista; bensì un qualche disagio (e per la maggior parte si tratta di quello più pressante) dal quale un uomo è afflitto». Il disagio è descritto come «qualsiasi dolore corporeo di qualsiasi specie, e ogni turbamento dello spirito, è disagio: e a questo è sempre unito il desiderio, uguale al dolore o al disagio provato, e a malapena distinguibile da esso» (Copleston 5, p. 164).
In questo modo la considerazione del bene e del male («non sono altro che piacere o dolore, oppure quello che produce o procura a noi piacere o dolore») è molto vicina a quella di Hobbes.
La necessità di riportare il principio a livello universale e sociale implica il rapporto con la universalità delle norme: «il bene e il male morali, dunque, sono solamente la conformità o il disaccordo delle nostre azioni volontarie con qualche legge, mediante la quale il bene o il male è attirarlo su di noi dalla volontà e dal potere del legislatore; e quel bene o male, quel piacere o dolore, che accompagnano la nostra osservanza o infrazione della legge per decreto del legislatore, è ciò che chiamiamo ricompensa e castigo» (cit. in Reale 2, p. 391).
La legislazione si basa sulla legge rivelata, che coincide con quella «promulgata tramite i lumi della natura».

 

7. Filosofia politica

70.
Lo stato di natura è spiegato in termini molto meno radicali di quelli adoperati da Hobbes. Si tratta di una situazione di «uomini che vivono insieme secondo ragione, senza un comune capo sulla terra che abbia l’autorità di giudicare fra di essi, questo è propriamente lo stato di natura» (Secondo Trattato 3.19; cfr. Copleston 5, p. 167).
I diritti naturali si basano sulla ragione e non sull’istinto come si desumeva dalla posizione di Hobbes.
Il potere legislativo è la base della società organizzata, e «la comunità affida il potere legislativo a quelle mani che pensa degne di questa delega, affinché possa essere governata da leggi scritte per evitare che la pace, che la quiete e la prosperità conservino la stessa instabilità che avevano allo stato di natura» (Secondo Trattato, 11, 134 e 136).
Tutti gli altri poteri in ogni membro o parte della società devono essere derivati da esso ed essergli subordinati.
Locke si dimostra contrario all’assolutismo: sebbene «vi possa essere un solo potere supremo, quello legislativo, al quale tutti gli altri sono e devono essere subordinati, tuttavia essendo solo fiduciario questo potere di deliberare in vista di determinati fini, rimane sempre nel popolo un supremo potere di rimuovere o trasformare il legislativo quando veda che esso agisce in modo contrario alla fiducia riposta in esso» (Secondo Trattato, 13, 149).
Fra altri principi che regolano la convivenza umana si trova quello della tolleranza in materia di religione: «La tolleranza verso coloro che dissentono dagli altri in fatto di religione è cosa talmente consona al Vangelo e alla ragione, che è mostruoso vi siano ciechi a tanta luce» (cit. in Reale 2, p. 391).
Vale la pena considerare il suo atteggiamento nei confronti della Sacra Scrittura perché riflette da una parte un sincero apprezzamento del suo valore, pur essendo stato «razionalizzato» in molti aspetti: «La Sacra Scrittura è, e sarà sempre, la costante guida del mio assenso; ed io le presterò sempre ascolto, perché essa contiene l’infallibile verità riguardo a cose della massima importanza. Vorrei si potesse dire che non vi sono misteri in essa; ma devo riconoscere che per me ve ne sono, e temo che ve ne saranno sempre. Dove però mi manca l’evidenza delle cose, troverò un fondamento sufficiente perchè io possa credere: Dio ha detto questo. Condannerò pertanto immediatamente e rifiuterò ogni mia dottrina, non appena mi si mostrerà che essa è contraria ad una qualche dottrina rivelata nella Scrittura» (cit. in Reale 2, pp. 392-3).

 

10. Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716)

1. Vita e opere

Nasce a Lipsia nel 1746, di famiglia con tradizione universitaria. Studia filosofia dal 1661 nella città natale, e matematica a Jena. Si laurea in Giurisprudenza e ottiene il dottorato ad Altdorf (vicino a Norimberga).
Dal 1672 al 1676 soggiorna a Parigi e conosce Arnauld, Malebranche, Huygens (comincia a scrivere in francese). Nel viaggio di ritorno incontra Newton, Leewenhoeck e Spinoza.
Consigliere e storiografo ufficiale degli Hannover. Va in Austria e in Italia. Socio dell’Accademia delle Scienze di Parigi e nel 1700 fonda la corrispondente di Berlino. Riprende l’idea dell’arte combinatoria che dovrebbe portare ad avere un linguaggio universale ed essere la strada di un intesa durevole fra i diversi saperi e i sistemi religiosi. Si impegna nel dialogo fra le diverse confessioni cristiane.
Iniziativa di unione fra le Chiese.
Consigliere di Federico I di Prussia, Pietro il Grande e dell’imperatore d’Austria. Scopre parallelamente a Newton il calcolo infinitesimale. Nel 1714 Giorgio di Hannover divenne Giorgio I d’Inghilterra e Leibniz cadde in disgrazia. Muore dimenticato nel 1716.
1693-1704. Nuovi saggi sull’intelletto umano: lunga polemica con Locke.
1710. Saggi di teodicea (contro le critiche di Bayle).
1714. Monadologia.

 

2. Caratteristiche generali del suo sistema

71.
Mediazione e sintesi. Le sue convinzioni sulla necessità di unire paesi e religioni ha un riflesso anche a livello filosofico: bisogna riconciliare la philosophia perennis con i philosophi novi. Due questioni fondamentali da ripristinare sono i principi aristotelici della teleologia e la sostanza intesa come «forma sostanziale». Dovevano essere armonizzate con la fisica meccanica, che si occupa della grandezza, la figura e il movimento.
Dinamismo della natura.
C’è un’armonia universale, e bisogna sviluppare una scienza per tradurla al linguaggio intellettuale: serve un’ars combinatoria, un linguaggio scientifico universale.
Un certo eclettismo.
Le tensioni con l’empirismo e soprattutto la lunga polemica con Locke (i Nuovi saggi vogliono essere una risposta al Saggio lockiano) danno origine a una nozione «ibrida» dell’intelletto, che si presenta non più come una tabula rasa bensì come una lastra di marmo non ancora lavorata. Per non ritrovarsi sulla posizione dell’innatismo puro di Cartesio, Leibniz parla allora di un innatismo “virtuale”: «mi sono servito anche del paragone di un blocco di marmo che abbia venature, piuttosto che di un blocco uniforme, oppure delle tavolette vuote, che è poi ciò che i filosofi chiamano tabula rasa. Infatti, se l’anima rassomigliasse a queste tavolette vuote, le verità sarebbero in noi come la figura di Ercole si trova in un marmo, quando il marmo è del tutto indifferente a ricevere questa figura o qualunque altra. Ma se nel marmo vi fossero venature che delineassero la figura di Ercole a preferenza di altre, questo marmo vi sarebbe in qualche modo predisposto e la figura dell’Ercole vi sarebbe in qualche modo innata […]. È in questo senso che le idee e le verità sono in noi innate: come inclinazioni, disposizioni, abitudini o virtualità naturali, non già come azioni» .
«Nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu... nisi intellectus ipse»: non c’è niente nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi, tranne lo stesso intelletto, la sua configurazione.

 

3. La combinatoria e i due tipi di verità

72.
La combinatoria o scienza universale deve ridurre le proposizioni vere («verità») a principi («verità prime»), per abbinarle alle combinazioni possibili non contraddittorie, in un linguaggio logico di tipo algebrico (characteristica universalis): logica puramente formale e matematica, un tipo della logica.
La verità è definita come una affermazione il cui predicato è incluso nel soggetto, e così in ogni proposizione affermativa vera, necessaria o contingente, universale o particolare, la nozione del predicato in qualche modo è contenuta nella nozione del soggetto. Questo si dimostra analizzando le proposizioni fino ad arrivare alle idee, i loro elementi semplici: «risolviamo il termine dato nelle sue parti formali cioè definiamolo. Poi risolviamo queste parti nelle loro parti o diamo la definizione dei termini della prima definizione, fino a giungere a parti semplici o termini indefinibili». A questo punto si può collegare l’elemento semplice alle idee innate grazie alla sua evidenza. Le idee prime o innate non hanno bisogno di dimostrazione.
73.
Leibniz distingue fra «verità di ragione» e «verità di fatto»: le verità di ragione, sono tali per cui la loro negazione è contraddittoria, come nella geometria, e sono necessarie e conosciute a priori (come l’esistenza di Dio e che tutti gli angoli retti sono uguali). Sono riducibili a proposizioni identiche (totale o parziale), per il principio di identità. Le necessarie ma non identiche si riducono a quelle identiche per il principio di ragion sufficiente («nessuna proposizione è vera se non ha, in se stessa o in un’altra, la ragione della sua verità»).


Talmud Torah, parole ebraiche che significano lo studio o insegnamento della Legge, è il grande libro del giudaismo postbiblico, creazione dei rabbini e maestri ebrei.

Cfr. nota 7.

Cfr. Copleston 5, p. 97. Fazio-Gamarra, p. 155

Sulle questioni legate a questa nozione di idea, cfr. §36.

Cfr. schema di Reale 2, p. 384

Cit. da Reale 2, p. 287.

 

Le verità di fatto sono quelle non necessarie, che potevano non essere così, essere diverse o non accadere. Hanno una ragione sufficiente in modo tale che il loro predicato può essere incluso nel soggetto:

Verità di ragione

Verità di fatto

necessarie, eterne, essenziali

contingenti, temporali, esistenziali

Dio esiste; tutti gli angoli retti sono uguali

Io esisto, vi sono in natura corpi con degli angoli retti

conosciute a priori

conosciute tramite l’esperienza

basate sul principio di non contraddizione

basate sul principio di ragion sufficiente

non contraddittorie

il loro predicato può essere incluso nel soggetto

finitamente analitiche

Infinitamente analitiche: non dimostra-bili

 

scelte da Dio fra gli infiniti possibili

Il principio di non contraddizione è così definito: «nessuna cosa è identica alla propria negazione»=«non-a è non-A»=«A non è non-A».
Il solo criterio di verità è l’identità, totale o parziale, tra soggetto e predicato: matematica. Le verità di fatto, per il principio di ragion sufficiente sono riconducibili al principio di non contraddizione.
Dio sempre sceglie il meglio (principio di convenienza). La volontà divina si rapporta con l’intelligenza divina dal momento che la bontà del mondo non dipende da un atto della sola volontà, ma c’è una ragione oggettiva nei possibili stessi che consente e in qualche modo esige la loro creazione (cfr. distinzione medievale fra essenza, esistenza e possibilità).
Non è chiaro se in questi termini si possa parlare di libertà divina nella scelta e nell’atto di creazione. Anche la nozione di perfezione o perfettibilità degli esseri viene compromessa. Il suo intento è di giustificare la complessità del mondo nel suo insieme e che neanche il male si sottrae al dominio divino non nel senso che Dio ne risulta l’autore, ma che lo permette nell’ambito della suprema bontà del mondo, così anche la libertà dell’uomo si sviluppa in una cornice armonica con la libertà di Dio.

 

4. La fisica

74.
Come accennato in precedenza, Leibniz sostiene una nozione più classica della sostanza rispetto a quella elaborata dalla meccanica di stampo cartesiano, considerata da lui opera dell’immaginazione. La fisica è subordinata, attraverso la geometria, all’aritmetica e, attraverso la dinamica, alla metafisica.
L’estensione, per Leibniz è un fenomeno, quindi non è valida la distinzione fra qualità primarie e secondarie. Serve un principio superiore alla materia, che è l’energia: conatus, nisus, entelècheia, atto, attività. Si tratta di una «forza viva», più che di quantità di movimento, è un principio formale. Con questa nozione di forza riapre il discorso della finalità, che ingloba la spiegazione dei fenomeni meccanici. Non riprende però la nozione di potenza – c’è soltanto la sua nozione di possibilità – per non introdurre la passività.
Altri principi della sua fisica sono la legge di continuità e di gradazione (non ci sono salti). Lo spazio e il tempo dipendono dall’ordine delle coesistenze e dall’ordine delle successioni, e sono quindi relativi, come nella fisica aristotelica.

 

5. Metafisica. Le mònadi. L’armonia prestabilita

75.
Possibilità ed essenza. Con l’interpretazione della possibilità come non-contraddizione intrinseca, o la non-impossibilità dei termini, oppure la compatibilità delle note dell’essenza, il risultato è che possibile è quello che non è non-impossibile.
La possibilità inoltre si presenta con una certa esigenza o spinta verso l’esistenza: questa dipende dalla «quantità di essenza» dal grado di perfezione di ogni forma. Un’essenza prima di esistere è appunto un’essenza possibile, cioè in certo senso già perfetta a cui manca soltanto l’esistenza per essere completamente reale.
La questione è da comprendere con la scelta di Dio della migliore fra le essenze possibili. Sembra che il principio di ragion sufficiente dipenda dalla volontà di Dio che sceglie, ed Egli sceglie seguendo la legge del migliore.
Forma sostanziale (essenza)+Materia prima (energia). I corpi non sono semplici (come la materia prima) ma sono di «materia seconda», composta da sostanze semplici. Si spiega così la diversità.
Necessità ipotetica di tutte le sostanze e fatti non necessari, che dipendono dall’essere creati. Una volta creati, sono “programmati”.
Le monadi sono unità immateriali, gerarchiche (non diverse per materia, ma dalla loro forma sostanziale). Anime, principi di vita. Non sono generabili né corruttibili: passibili soltanto di creazione o annichilimento da parte di Dio. Anime con diverse gradazioni, con diversi tipi di sensazioni (parallelismo con Aristotele).
Sono microcosmi, ognuna riflette l’intero mondo.
«Nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu... nisi intellectus ipse» («non c’è nulla nell’intelletto che prima non provenga dai sensi… tranne lo stesso intelletto») : reminiscenza per passare dalle idee confuse a quelle chiare, tutto all’interno della mònade, che non ha finestre.
Concordanza tra le rappresentazioni del mondo che le diverse mònadi si formano: «un’armonia prestabilita», perché Dio le ha create così (Geulincx, Malebranche...). Anche l’anima e il corpo (cfr. Spinoza) si trovano in un rapporto di questo tipo. Lo stesso vale per le rappresentazioni della mente.
Il corpo è un aggregato di mònadi tenute insieme da una mònade «dominante», l’anima, che funge da vincolo sostanziale (più platonico che aristotelico).

 

6. La teodicea, il problema del male e l’etica

76.
I Saggi di Teodicea del 1710 fanno fronte all’impostazione scettica degli scritti bayleani. Sono una «giustificazione (dell’esistenza) di Dio».
L’esistenza di Dio si può dimostrare:
1. A partire dalle realtà contingenti (verità di fatto). Argomento cosmologico.
2. Seguendo l’argomentazione agostiniana delle essenze eterne (verità di ragione): possibili, pensabili, da un intelletto eterno.
3. Con l’armonia prestabilita, con una rielaborazione della finalità. 8Molto legato al n. 1. )
4. «a priori»: l’idea di Dio implica la sua possibilità, la quale implica necessariamente la sua esistenza: se Dio ha la possibilità (ragione) della sua esistenza, qualora Egli sia possibile, sarà anche realmente esistente, anzi sarà addirittura necessario (perché non può ricevere l’essere da nessun’altro).
Alla domanda sulla creazione – «perché mai esiste qualche cosa anziché nulla?» – si risponde dicendo che Dio crea per una «necessità morale», derivata dalla sua bontà. Così si salva in qualche modo la libertà divina e si evita di formulare la questioni in termini di «necessità metafisica». Ci sono diverse idee o principi che fanno da sfondo nelle spiegazioni teologiche e che sono tipiche di una lettura razionalistica della metafisica classica . Leibniz però stabilisce delle precisazioni, come quella appunto della necessità morale per evitare il determinismo nell’agire divino.
Leibniz, pensa che è possibile trovare la coerenza di una religione naturale, cioè una certa unità dell’insieme dei fenomeni legati alla religione e alla sua valutazione filosofica..
Nella prospettiva di Bayle, l’evidenza del male contraddice tutte le proposte della teologia naturale per razionalizzare la bontà di Dio tramite la bontà delle creature. Leibniz spiega la questione del male rifacendosi a nozioni classiche ma che echeggiano anche le spiegazioni spinoziane.
Il «male metafisico» è la limitazione intrinseca di ogni creatura. L’unico vero male, il male morale, il peccato, deriva dalla libertà umana, e ci dà una conoscenza difettosa che ci fa scambiare il bene apparente con quello reale (libertà ridotta, “socratica”). Il male fisico: dolore, ecc.: è la punizione per i peccati commessi, e mezzo per far apprezzare e gustare maggiormente il bene .

Per spiegare l’agire umano, Leibniz deve evitare gli eccessi della posizione spinoziana, dalla quale non è tanto lontano. Le condizioni della libertà umana sono tre: l’intelligenza, la spontaneità (esclusione di coazione) e la contingenza (esclusione di necessità metafisica). L’anima, come ogni monade, gode di una libertà intesa come in-dipendenza da altro, cosa ben diversa dal poter scegliere.
La monadologia rende molto difficile capire la libertà umana: le azioni, più che predicati inclusi necessariamente nel soggetto, sono eventi previsti e prefissati da Dio dall’eternità: la libertà sembra totalmente illusoria. La realtà del male (il peccato) ci mette davanti alla nostra impossibilità di spiegare l’economia divina, che ne trarrà dei beni maggiori. Nello stato di viatores dobbiamo accontentarci di sapere senza capire veramente questo mistero.
Nell’uomo c’è, per natura, l’inclinazione al bene, e il piacere è inteso in collegamento ad una perfezione graduale.
Leibniz considera lo spirito umano come superiore a tutto l’universo, perché oltre a rifletterlo in sé stesso, ne è consapevole e indaga su di esso. L’insieme degli spiriti costituisce «la Città di Dio», «la repubblica degli spiriti» oppure «il regno della grazia».

 

7. Filosofia politica

77.
L’ideale politico di Leibniz è sempre permeato dalla nozione di armonia prestabilita.
Il diritto naturale è basato sulle tendenze appunto naturali: «non fare del male a nessuno» (giustizia commutativa), «dare a ciascuno il suo» (giustizia distributiva), «vivere onestamente» (carità): si passa al piano della rivelazione.
Nel «Regno-repubblica degli spiriti», regge la finalità e non il meccanicismo, Dio quale capo di tutte le persone intelligenti e monarca assoluto della repubblica più perfetta.
Il Regno naturale (natura) contrasta col regno morale (grazia, cfr. supra): perfetta armonia: punizione-ricompensa, ecc. Dunque, risolve: concordia fra natura e grazia; fra ragione e fede; Provvidenza; essenza della religione cristiana, condivisibile da tutte le confessioni: amore verso Dio e verso il prossimo (ideale di unità-armonia politico-sociale-religioso).

–           –         –

78.
Nella proposta di Leibniz c’è un tentativo di unificare tutti i tipi di conoscenza.
A questo scopo, Leibniz applica schemi metafisici alquanto astratti ad argomenti assai complicati, quali la comunicazione delle sostanze, la libertà e natura libertà e grazia. La sua ripresa di strumenti metafisici di stampo classico – che dipendono più da Suárez che non da S. Tommaso – è condizionata dallo stile cartesiano-geometrico in cui la chiarezza è da raggiungere a tutti i costi. Le conclusioni devono essere universali e necessarie.
Quest’impostazione razionalistica della metafisica è sintetizzata da Wolff e da lì arriverà a Kant. Per diversi motivi, il vocabolario filosofico accademico resterà segnato dalla manualistica leibniziano-wolffiana fino al XX secolo, e parallelamente la trasmissione della metafisica, intesa come tronco di tutta la filosofia manterrà l’impronta «geometricizzante». Il risultato è un modo di capire la filosofia in termini poco legati all’esperienza e che riducono tutti i saperi (antropologia, etica, politica, fisica…) a spiegazioni troppo semplici e non adatte a spiegare la varietà e la ricchezza della conoscenza umana.

 

11. Giambattista Vico (1668-1744)

1. Vita e opere

Nacque a Napoli il 23 giugno di 1668. Conosce il nominalismo e la filosofia di Scoto. Deve lasciare l’università e come precettore ha occasione di approfondire nello studio dei classici greci e latini. Torna a Napoli nel 1695 e ottiene la cattedra di Eloquenza latina e retorica dell’università di Campania. Nel 1710 pubblica il primo volume del De antiquissima Italorum sapientia. Spicca la sua conoscenza del pensiero di Grozio. Nel 1725 pubblica la prima edizione della Scienza nuova. Muore nel 1744.
De antiquissima Italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda (Dell’antichissima sapienza italica da trarsi dalle origini della lingua latina), 1710.
Principi di una Scienza nuova d’intorno alla natura delle Nazioni, per la quale si ritrovano i principi di altro sistema del diritto naturale delle genti.

 

2. Reazione contro il cartesianesimo

79.
Vico si oppone decisamente al matematicismo proprio della proposta generale di Descartes. Per lui, la fisica dipende dai fatti, e la matematica e la geometria dipendono dalla creazione umana (verum est factum). La verosimiglianza è il criterio di distinzione delle idee in molti campi, nei quali è sterile la ricerca di chiarezza e distinzione.
Sono «prodotti» umani anche le leggi, la letteratura, il linguaggio…e costituiscono le scienze più importanti.

 

3. Il valore della storia

80.
La creazione delle istituzioni e della storia in generale dipende dall’agire umano, ma bisogna comunque dargli una veste scientifica, per poter parlare di una «scienza nuova» o storia del mondo civile: trovare le leggi universali dello sviluppo storico.
Le basi d’ispirazione le trova in Platone, Tacito, Bacon e Grozio: il primo considera l’uomo così come deve essere; il secondo come è realmente; il terzo lo incita a creare un sapere organico nuovo; l’ultimo spiega l’origine delle istituzioni.
Nella storia si fondono l’universale e il particolare (legge-fatto), cosicché il suo studio non potrà essere astratto o a priori. La filologia, riflesso dei costumi e delle istituzioni fornirà una cornice teorica, dando così il dato «certo». La filosofia invece studia il vero, che deve confrontarsi con i fatti. Si arriva così ad una complementarietà: il vero senza il certo resterebbe vuoto, e il certo senza il vero sarebbe cieco.
Bisogna trovare il senso della storia con l’aiuto di una metafisica della mente.
La storia ideal eterna presentata dalla filosofia si integra con la storia reale, nella quale si manifestano tre tappe:

stadio-età

caratteristiche, istituzioni

facoltà più sviluppate

1o degli dèi

religione, matrimonio, sepoltura

sensibilità (sentono senza avvertire)

2o degli eroi

organizzazione socio-politica

fantasia: giovinezza, animo perturbato e commosso. Creativa

3o degli uo-mini

repubbliche democratiche e consapevolezza della dignità dell’essere razionale

ragione: adulto, riflette con mente pura

Senza mai giungere a un sistema deterministico, Vico spiega che nella storia ci sono corsi e ricorsi, cioè periodi o cicli in cui si ripresentano le tre età appena descritte.
La Divina Provvidenza può agire grazie alla «eterogenesi dei fini»: l’uomo agisce liberamente con la sua volontà, ma sempre si attua nella storia il disegno divino sul mondo.

 

12. George Berkeley (1685-1753)

1. Vita e opere

Nacque a Kilcrene, presso Kilkenny, il 12 marzo 1685 e morì a Oxford il 14 gennaio 1753.
Presso il Trinity College (Dublino) studia matematica, logica, filosofia e i classici. Fellow nel 1707. Nel 1710 ministro anglicano e professore aggiunto di greco e latino sempre a Trinity. Nel 1713 visita Londra e conosce J. Swift che lo introduce in Corte. Va in Francia e Italia con il conte di Peterborough nel 1714, e poi soggiorna a Torino e Napoli fra il 1716 e il 1720. Diventa dottore in Teologia a Londra nel 1721 e insegna greco ed ebraico a Dublino. Progetto di fondazione di una scuola nelle Bermude: rimane dal 1728 al 31 in Rhode Island (scrive Alcifrone). Vescovo di Cloyne nel 1734. Nel 1752 si trasferì a Oxford.

Saggio della nuova dottrina della visione, 1709.
Tre dialoghi fra Hylas e Philonous, 1713.
Alcifrone o il filosofo minuzioso, Londra 1732 (scritto negli USA): sette dialoghi apologetici contro i liberi pensatori.
Dottrina della visione o linguaggio visivo a dimostrazione dell’immediata presenza e provvidenza di una divinità giustificata e spiegata, risposta ad un giornale che criticava il Saggio.

2. Dio e l’immaterialismo

81.
La filosofia di Berkeley è tutta permeata da uno spirito religioso e dalle sue conoscenze dei classici. Una nozione neoplatonica di Dio e una spinta quasi apologetica segnano buona parte delle sue opere. Gli argomenti fondamentali gireranno attorno alla questione della materia (che secondo lui è da ritenere non esistente in sé), in contrasto con il pensiero tendenzialmente ateo, e la critica dei liberi pensatori.
Gli aspetti propositivi sono imperniati nella sentenza «esse est percipi (o percipere)».
«Il grande pericolo sta nel far che l’estensione esista fuori della mente. In quanto, se esiste fuori della mente, deve essere riconosciuta infinita immutabile eterna ecc. Il che sarà o fare che Dio sia esteso (cosa che ritengo pericolosa), o fare che esista un essere eterno immutabile infinito increato accanto a Dio» (Taccuini di appunti D, app. 290, cit. in Reale 2, p. 397).
Berkeley presenta oltre a questi grandi principi una vera assiomatica del pensiero. Fra queste nozioni regolatrici, si trova una riduzione degli argomenti alle idee della mente («non usare nessuna parola senza un’idea […] non si discute su cose di cui non abbiamo nessun’idea»).
Queste idee giungono dal di fuori (per mezzo dei sensi, quindi sensazioni) o dal di dentro (operazioni chiamate pensieri). Fin qui gli assiomi 1 a 5. Così fino a 18 (cfr. Reale 2, p. 398).
Fra le idee semplici si trovano il tempo («è una sensazione, quindi è solo nella mente»; e, in effetti, «perché il tempo nella sofferenza è più lungo del tempo nel piacere»), le idee primarie e le secondarie (sono sensazioni e non si trovano nella materia) e altrettanto l’estensione e il moto (cfr. Reale 399).
La «critica del materialismo» si allarga alle questioni della causalità («che significa “causa” come distinta da “occasione”?», cfr. Malebranche) e della sostanza: «io non tolgo via le sostanze. Io non dovrei esser accusato di scartare la sostanza dal mondo razionale. Io rigetto soltanto il senso filosofico (che in effetti è un nonsenso) della parola “sostanza”. Domandate a un uomo che non sia stato mai infettato da codesto gergo, che cosa egli intende per sostanza corporea, o per la sostanza di un corpo. Risponderà massa, solidità e simili qualità sensibili. Queste io le mantengo. Scarto il filosofico nec quid nec quantum nec quale, di cui non ho nessuna idea». E «il volgo non pensa mai l’idea astratta di essere o esistenza. Non usa mai quelle parole come stanti per idee astratte» (cit. in Reale 2, p. 399).

 

3. L’Immaterialismo

82.
Così si può sfidare «chiunque a immaginare o concepire la percezione senza un’idea o un’idea senza percezione».
Sull’estensione «ammettendo che ci siano sostanze estese, solide ecc. fuori della mente, è impossibile che la mente le conosca o percepisca: ché la mente, anche secondo i materialisti, percepisce solo le impressioni fatte sul cervello, o piuttosto le idee che accompagnano quelle impressioni» (cit. in Reale 2, p. 400).
Il trattato sui fenomeni ottici mira a smontare gli argomenti sulla pretesa autonomia del «mondo» nei confronti della nostra mente: infatti, tutte le distorsioni della sensazioni si originano nella mente e non «nelle cose».
Sul valore e la natura delle idee condivide la posizione lockiana: «È evidente per chiunque esamini gli oggetti della conoscenza umana che questi sono: o idee impresse ai sensi nel momento attuale; o idee percepite prestando attenzione alle emozioni e agli atti della mente; o infine idee formate con l’aiuto della memoria e dell’immaginazione, riunendo, dividendo o soltanto rappresentando le idee originariamente ricevute nei [due] modi precedenti». Le idee, come già accennato, sono sensazioni. Esse provengono dai sensi (cfr. Reale 2, p. 402).
Le «cose» o «sostanze» si creano a motivo della combinazione costante o dell’abituale coesistenza di alcune di queste idee: «Poiché si vede che alcune di queste sensazioni si presentano insieme, vengono contrassegnate con un solo nome, e quindi considerate come una cosa sola. Così, avendo osservato, per esempio, che si accompagna un certo colore con un certo sapore, un certo odore, una certa forma, una certa consistenza, tutte queste sensazioni sono considerate come una cosa sola e distinta dalle altre, indicata col nome di “mela”; mentre altre collezioni di idee costituiscono una pietra, un albero, un libro e simili cose sensibili che, essendo piacevoli o spiacevoli, eccitano in noi i sentimenti d’amore, di odio, di gioia, d’ira, ecc.» (cit. in Reale 2, pp. 402-403).
È impossibile separare, anche solo mentalmente, una qualunque di esse dalla percezione: «poiché mi è impossibile vedere o toccare qualcosa se non sento attualmente quella cosa, mi è anche impossibile concepire nei miei pensieri una cosa od oggetto sensibile distinto dalla sensazione o percezione di esso» (cit. in Reale 3, 403).

Lo spirito invece esiste come percipiente: «oltre a questa infinita varietà di idee, o di oggetti della conoscenza, v’è poi qualcosa che conosce o percepisce quelle idee, ed esercita su di esse diversi atti come il volere, l’immaginare, il ricordare, ecc. Questo essere che percepisce ed agisce è ciò che chiamo “mente”, “spirito”, “anima”, “io”. Con queste parole io non indico nessuna mia idea, ma una cosa interamente diversa da tutte le mie idee e nella quale esse esistono, ossia dalla quale esse vengono percepite: il che significa la stessa cosa perché l’esistenza di una idea consiste nel venir percepita» (cit. in Reale 2, p. 407).
E davanti all’evidenza dell’intermittenza del proprio pensiero, Berkeley completa il sistema appellandosi all’intelletto divino: «[...] tutto l’ordine dei cieli e tutte le cose che riempiono la terra, tutti quei corpi insomma che formano l’enorme impalcatura dell’universo non hanno alcuna sussistenza senza una mente, e il loro esse consiste nel venir percepiti o conosciuti. E, di conseguenza, finché non vengono percepiti attualmente da me, ossia non esistono nella mia mente né in quella di qualunque altro spirito creato, non esistono affatto, o altrimenti sussistono nella mente di qualche Eterno Spirito» (cit. in Reale 2, p. 407).
La distinzione fra le facoltà di conoscere e di volere di ogni singolo spirito si spiega così: «uno spirito è un essere semplice, indivisibile, attivo: in quanto esso percepisce idee, si chiama “intelletto”; in quanto produce idee od opera in altro modo su di esse, si chiama “volontà”» (cit. in Reale 2, p. 408).
Il ricorso a Dio è di nuovo necessario per completare il sistema: «qualunque sia il potere che io ho sui miei propri pensieri, trovo che le idee percepite attualmente dai sensi non dipendono nello stesso modo dalla mia volontà. Quando apro gli occhi alla piena luce del giorno, non posso scegliere di vedere o di non vedere, né fissare quali oggetti si debbano precisamente presentare alla mia vista, e lo stesso accade per l’udito e per gli altri sensi: le idee impresse ad essi non sono creazioni della mia volontà. V’è dunque qualche altra volontà ossia un altro spirito che le produce» (cit. in Reale 2, p. 408).
Vale la pena badare a un’ultima distinzione, quella che separa il pensiero dalla sensazione: «le idee del senso sono più forti, più vivaci, più distinte di quelle dell’immaginazione; inoltre esse hanno stabilità, ordine, coerenza. Non vengono suscitate a caso, come spesso avviene per quelle causate da umane volontà, ma con un processo regolare, ossia in una serie ordinata» (cit. in Reale 2, p. 408). Hume presenterà alcuni tratti in comune con questa concezione delle idee e il loro ordinamento.

 

13. David Hume (1711-1776)

1. Vita e opere

Nacque il 26 aprile 1711 vicino a Edimburgo. Frequenta l’università senza finire gli studi di giurisprudenza. Studia con impegno i classici latini e molto giovane abbozza un progetto di riforma filosofica che si manifesterà nel Trattato. Muore il 25 agosto 1776.
Conosce l’opera degli empiristi e nelle sue opere è manifesto l’influsso di Hobbes per quanto riguarda le basi della natura umana, senza l’accettazione però del suo materialismo. La sua metodologia, la considerazione delle idee e la loro combinazione è simile a quella di Locke.
In Francia conosce l’opera di Descartes e di Malebranche, oltre a raccogliere materiale sulle tradizioni religiose del Continente che gli serviranno nelle sue critiche contro la superstizione e la religione.
Trattato della Natura Umana, 1739-1740.
Ricerca sull’Intelletto Umano (1751), basato sul libro 1 del Trattato.
Ricerca sui Principi della Morale (1751), rifacimento del terzo libro del Trattato.
Nei Dialoghi sulla religione naturale e Storia naturale della religione presenta le religioni come istituzioni umane e rinnova le critiche di Bayle, molto simili a quelle di Voltaire. Nella configurazione della società non concede un ruolo positivo alla religione e, tanto meno, accetta la possibilità della religione rivelata.

 

2. Lineamenti generali del pensiero

83.
Hume intraprende la spiegazione della natura umana allo scopo di scoprire quali sono le sue risorse e dunque le sue possibilità di sviluppo (cfr. influsso di Hobbes).
Non è facile studiare l’insieme del suo pensiero perché le tematiche affrontate sono molto diverse. Le tradizioni interpretative non gli rendono giustizia in parte per la sua stessa tendenza alla provocazione (cfr. polemica sull’identità personale o sui miracoli) e tante volte le spiegazioni si limitano ad un processo della sua filosofia della conoscenza. In altre linee di pensiero ci si sofferma troppo sui «vantaggi» della sua filosofia pratica, senza badare ai rapporti con la parte speculativa.
È molto importante lo sfondo newtoniano della sua proposta. Benché ci siano elementi per pensare ad una diminuzione dell’influsso del fisico inglese sul sistema humeano, la pretesa di dare alla filosofia una struttura more newtoniano è presente in tutta la sua opera.
Fra i principi del Trattato che resteranno alla base delle sue opere si trovano: una nozione secolare dell’uomo e della sua finalità; una preoccupazione costante per la pratica anziché per la speculazione (da qui le interpretazioni che lo considerano uno dei padri del common sense e dell’utilitarismo) un certo agnosticismo sulle radici ultime della conoscenza, uno scetticismo nei confronti delle proposte religiose.

 

3. La teoria della conoscenza

a) Esperienza: impressioni e idee

84.
Hume riprende la nozione cartesiana di «idea», già assimilata da Locke. In questo modo, il livello fisico della conoscenza viene interpretato in termini di «impressioni» e il livello conoscitivo e affettivo è inglobato nel concetto di idea. Un problema fondamentale, che si ritrova nella maggior parte degli empiristi, Hume compreso, è quello del valore oggettivo delle idee, cioè il rapporto fra questi “fenomeni” che accadono all’interno della nostra mente e le realtà esterne. Il linguaggio di Hume è in questo senso ambiguo; se da una parte egli afferma infatti che conosciamo soltanto «le nostre impressioni» (cfr. Trattato 1.2.6; 1.4.1-6; Ricerca sull’intelletto umano 12.1), dall’altra si riferisce continuamente alla realtà esterna con molta naturalezza. Si tratta della confusa «via delle idee» aperta da Descartes.
La distinzione fra la sensibilità esterna e interna è spiegata a più riprese negli stessi termini: «la differenza fra impressioni e idee consiste nel grado diverso di forza e vivacità con cui colpiscono la nostra mente e penetrano nel pensiero ovvero nella coscienza. Le percezioni che si presentano con maggior forza e violenza, possiamo chiamarle impressioni: e sotto questa denominazione io comprendo tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, quando fanno la loro prima apparizione nella nostra anima Per idee, invece, intendo le immagini illanguidite delle impressioni» (Trattato 1.1.1).
È da notare inoltre l’assenza di distinzione fra i diversi tipi di idee (Descartes, Locke).
Così Hume pretende di raggiungere la precisione e la semplicità dei princìpi della fisica di Newton: vi sono unità elementari (corpi materiali, per Newton, impressioni o «atomi» di sensibilità, per Hume) che si muovono grazie ad una forza di gravitazione (associazione) di cui conosciamo soltanto le manifestazioni più superficiali.

b) L’associazione di idee e i suoi effetti

85.
La gravitazione è una gentle force che associa spontaneamente le nostre idee all’interno della mente. Tale associazione è retta da tre princìpi fondamentali: la somiglianza, la contiguità spazio-temporale e la causalità. Questi princìpi, secondo Hume, «sono realmente per noi il cemento dell’universo e tutte le operazioni della mente ne debbono in grande misura dipendere» (Estratto del Trattato sulla natura umana, tr. it. Roma-Bari 1987, vol. 4, p. 31).

c) Le idee astratte

86.
La sua concezione delle idee astratte s’inserisce nela linea empirista: «tutte le idee generali non sono altro che idee particolari congiunte a una certa parola che dà loro un significato più esteso e, occorrendo, fa sì che ne richiamino altre individuali simili a loro».
E così «la parola, non essendo capace di far rivivere l’idea di tutti questi individui, si limita a toccar l’anima, se così posso esprimermi, e fa rivivere l’abitudine che abbiamo contratta nell’esaminarli» (cit. in Reale 2, p. 420).
La parola stimola i meccanismi della memoria e dell’immaginazione e gradualmente si sviluppano gli habits che determinano le reazioni della nostra mente.

d) ‘Abiti mentali

87.
L’atomismo dell’universo mentale descritto secondo la falsa riga newtoniana è sanato dalle risorse della memoria e dell’immaginazione, nelle quali si sviluppano naturalmente delle abitudini (custom-habits) basate sulla spontanea associazione delle idee.
L’impossibilità di penetrare nell’intimo degli oggetti conosciuti è controbilanciato dal fatto che noi crediamo nella loro esistenza e permanenza. Le credenze o beliefs non spiegano la realtà bensì la nostra fiducia in certi principi non dimostrabili.

e) I livelli della conoscenza. Relazioni di idee e questioni di fatto.

88.
Nella sezione 1.4.1 del Trattato, Hume si pone il problema della certezza della conoscenza o meglio, dei diversi tipi di conoscenza.
La debolezza della mente umana rende inaffidabili quelle che dovrebbero essere le conoscenze più salde, cioè quelle che dipendono soltanto dai numeri e dai calcoli. La conoscenza certa (knowledge) si riduce a mera probabilità (probability).
La distinzione fra knowledge e altri tipi inferiori di conoscenza non è una invenzione humeana anzi, il filosofo scozzese manifesta delle riserve nei confronti di questa gerarchizzazione alquanto rigida e propone la distinzione dei ragionamenti «in tre specie: cioè, quelli fondati sulla conoscenza (from knowledge), su prove (from proofs)e su probabilità (from probabilities). Per conoscenza, intendo la certezza che nasce dal confronto delle idee; per prove, le argomentazioni basate sulla relazione di causa ed effetto, completamente libere da dubbi e incertezze; per probabilità, l’evidenza che però è ancora accompagnata da incertezza» (Trattato 1.3.11).
Pur presentando distinzioni meno nette di quelle lockeane per quanto riguarda le diverse certezze, Hume si rifarà anche alla distinzione fra verità di fatto e verità di ragione, resa celebre dalla polemica fra Leibniz e Locke: la vera conoscenza dimostrativa dovrà dipendere dal confronto di idee (comparison of ideas), mentre tutti i ragionamenti di esperienza si baseranno sulle questioni di fatto (matters of fact). Il suo sforzo per creare un ambito di certezza esclusivo per la causalità non romperà il modello base del suo predecessore. La distinzione fra i ragionamenti causali e gli altri della categoria più bassa dipenderà soltanto dal grado di vivacità che raggiungeranno nella mente, a seconda dell’esperienza accumulata, e non dalla chiarezza delle relazioni fra i fenomeni .

 

4. La critica alla causalità

89.
Per spiegare la causalità e l’induzione, Hume si rivolgerà all’analisi della «condotta» della nostra mente dinanzi agli eventi, utilizzando analogie tratte da modelli meccanicisti. Con il suo associazionismo, Hume spiega i collegamenti delle idee all’interno della nostra mente come un semplice abituarsi a contemplare le successioni dei fatti secondo sequenze stabili. Tale contemplazione della regolarità si traduce in aspettative per il futuro, secondo le norme della probabilità descritte precedentemente.

 

5. La sostanza materiale e la conoscenza dell’io

90.
La mente è rivolta a conoscere gli oggetti che ‘riceve’ in qualche modo dall’esterno, ma resta rinchiusa nei suoi fenomeni. Così, la concezione di Hume sulla sostanza è simile a quella sostenuta da Locke: «Noi non possiamo evitare di considerare il colore, il suono, il sapore, la figura e le altre proprietà dei corpi, come esistenze che non possono sussistere a parte, ma richiedono un soggetto d’inerenza che le sostenga o sorregga: poiché, non avendo mai scoperto nessuna di queste qualità sensibili senza immaginare insieme, per le ragioni su esposte, l’esistenza d’una sostanza, la stessa abitudine che ci fa inferire una connessione fra causa ed effetto, ci fa inferire qui la dipendenza di ogni qualità da una sostanza ignota. L’abitudine d’immaginare una dipendenza ha lo stesso effetto che avrebbe quella di osservarla realmente» (Copleston 5, p. 424).
Di nuovo, la coerenza delle percezioni è indimostrabile e affidata alla credenza.
La conoscenza che il soggetto ha di se stesso è ancora più problematica, perché il sostrato delle proprie conoscenze non compare mai nelle sensazioni, e quindi l’idea che abbiamo di esso non può avere la stessa origine delle altre, che del resto, secondo Hume, è l’unica ammissibile.
La nozione di «io» che Hume si trova a dover combattere portando all’estremo il principio empirista è quella cartesiana e lockiana: un’intuizione speciale dotata della più forte evidenza possibile.
Per Hume, invece, la mente non è altro che «una collezione di diverse percezioni, unite fra di loro per certe relazioni, con la supposizione — benché falsa — che sono dotate di una perfetta semplicità ed identità» (Trattato, 1.4.2).
Altrove Hume afferma che «noi non abbiamo nessun’idea dell’io, nel modo che viene qui spiegato. Da quale impressione potrebbe derivare tale idea? (…) Ci vuol sempre una qualche impressione per produrre un’idea reale. Ma l’io, o la persona, non è una impressione: è ciò a cui vengono riferite, per supposizione, le diverse nostre impressioni e idee.» (Trattato 1.4.6, cfr. Copleston 5, p. 424).
Per quanto riguarda la permanenza o identità di questo io, Hume aggiunge: «Ma, fatta eccezione di qualche metafisico [...], io oso affermare che per il resto dell’umanità noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento. (…) La mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni. Né c’è, propriamente, in essa nessuna semplicità in un dato tempo, né identità in tempi differenti, qualunque sia l’inclinazione naturale che abbiamo ad immaginare quella semplicità e identità» (Trattato 1.4.6, cfr. Copleston 5, p. 425).

I diversi testi del Trattato in cui Hume critica la certezza della nostra conoscenza delle sostanze e dell’idea dell’io vanno a colpire direttamente la chiarezza e distinzioni che gliene attribuiscono i razionalisti e anche Locke. Se vengono isolati i summenzionati brani, sembra che Hume neghi addiritura l’esistenza dei diversi tipi di sostanze, ma nell’insieme delle sue opere, è chiaro che ne dà per scontata l’esistenza, e ci si creda per una sorta di fede. Queste ambiguità verranno riprese da Hamann – discepolo e amico di Kant – e da Jacobi. La versione tedesca dei testi elaborata da Hamann avrà una certa diffusione e il filosofo di Königsberg li ha presenti nelle sue argomentazioni contro lo scetticismo del filosofo scozzese.
Questi celebri testi, che poi non si ripropongono nelle opere della maturità, hanno avuto un influsso molto forte nella filosofia contemporanea. L’unica via di uscita che Hume propone dinanzi allo scetticismo e al disagio di queste critiche contro nozioni così importanti è quella della dedizione a una vita «normale» e di non votarsi fanaticamente alla riflessione metafisica: egli insiste nell’asserire che tutte queste conseguenze negative si devono all’allontanamento dalle preoccupazioni della vita quotidiana.
D’altra parte, la critica al sotterfugio di Locke rende più evidente il problema della «dimostrazione» dell’esistenza dell’io e la sua «funzione» di unificatore delle percezioni, che comparirà in punti cruciali della Critica della ragion pura di Kant.

 

6. Morale del sentimento

91.
Il trattamento delle passioni si trova nel libro 2 del Trattato e nella Dissertazione sulle passioni. Il soggetto apparentemente eliminato nel libro 1, diventa un presupposto di tutto il libro 2, e tutti i sentimenti trovano in esso il loro sostegno. Ecco il punto di partenza della vita emozionale, che si sviluppa con principi analoghi a quelli della conoscenza. In questo caso i rapporti determinati dalla forza di «gravitazione» sorgono dallo scambio di contatti e dalle relazioni fra le persone coinvolte. Le stesse impressioni possono stare alla base di sentimenti contrari a seconda della nostra posizione nei confronti dell’oggetto (un’altra persona) che li produce.

Fra i testi più oscuri delle opere di Hume si trovano le sue valutazioni della volontà e la libertà. La volontà è descritta talvolta come una impressione interna, ma non le viene concesso un ruolo chiaro. La libertà è negata esplicitamente per spianare la strada alle argomentazioni sulla regolarità e la prevedibilità della condotta umana, per poi affermare che sono i fenomeni naturali a comportarsi con la regolarità dei fenomeni interni dell’intelletto, come sono appunto quelli della cosiddetta libertà. Bisogna anche aggiungere che Hume asserisce che la natura umana non sia qualitativamente diversa da quella animale, ma si tratta soltanto di un diverso livello di raffinatezza, sebbene in diversi testi, meno legati ai suoi principi sistematici, ammetta implicitamente la libertà e la netta superiorità dell’uomo nei confronti degli animali.

I limiti della ragione si trovano anche nella distinzione fondamentale fra bene e male: «è impossibile che la distinzione tra bene e male morale possa essere stabilita dalla ragione, in quanto questa distinzione ha sulle nostre azioni un’influenza della quale la ragione è del tutto incapace» (Trattato 3.1.1, Copleston 5, p. 428).
Così «la morale [...] è più propriamente oggetto di sentimento che di giudizio, per quanto questo senso o sentimento sia di solito tanto dolce e lieve che siamo portati a confonderlo con una idea, secondo la nostra solita abitudine di prendere per identiche le cose che hanno una forte rassomiglianza reciproca» (Trattato 3.1.2, Copleston 5, p. 428). Ecco la base delle discussioni contemporanee sulla impossibilità di collegare «l’essere» col «dover essere» o «is-ought question».
In questo modo la «percezione» delle qualità morali si riduce ad «sentire una soddisfazione di un tipo particolare nel contemplare una certa qualità. Ed è proprio in questo sentire che risiede la nostra lode o la nostra ammirazione. Noi non andiamo oltre: non andiamo a cercare la causa della soddisfazione» (Trattato 3.1.1, Copleston 5, p. 428).
Alla base della vita affettiva si trovano alcune passioni fondamentali che condizionano lo sviluppo degli altri sentimenti, come la simpatia o benevolenza, che spiegano la permanenza di certe tendenze e abitudini nei diversi popoli e lungo la storia. Si tenta così di controbilanciare l’egoismo ereditato da Hobbes, con il quale si condivide la nozione della ragione che calcola le scelte in vista del mantenimento dell’ordine sociale.

 

7. Religione, filosofia e metafisica

Come l’armonia prestabilita, principio importante e sempre discussione sui rapporti anima-corpo e anche in questioni di filosofia della natura. Altrettanto si può dire dell’idea che viviamo nel migliore dei mondi possibili, cioè che se Dio ha previsto tanti “mali” e situazioni per noi incomprensibili è perché fanno parte di un piano superiore alle nostre capacità conoscitive.

Questa sorta di visione “ottimista” dei mali, sulla falsa riga della riflessione teologica classica, fa parte della coerenza della religione che Leibniz pensa di poter formulare in termini razionali.

Hume riprende la distinzione fra relazioni di idee e questioni di fatto (relations of ideas-matters of fact) maturata nelle polemiche fra Locke e Leibniz per distinguere fra le verità «eterne» e quelle contingenti. Le prime apparterrebbero alle scienze speculative esatte (matematica e geometria) e le altre alle scienze empiriche; le prime consentono una conoscenza deduttiva, mentre le altre dipendono dall’esperienza. Cfr. Trattato 3.1.1,9 e 19/28, pp. 458 e 463 (484 e 490) rispettivamente; Ricerca, 4.1,1/13, pp. 20-21 (31), e 4.2,5/10, p. 31 (41).

 

La valutazione generale della religione, è permeata dalle critiche razionalistiche e scettiche, anche nel loro versante «ragionevole-empirista» di Locke, ma senza fare concessioni: «Ogni filosofia del mondo ed ogni religione, che non è se non una classe di filosofia, non saranno mai capaci di portarci aldilà del corso abituale dell’esperienza o fornirci di norme di condotta o comportamenti diversi di quelle che ci fornisce la riflessione sulla vita comune» (Ricerca sull’intelletto umano, 11).
I sedicenti credenti dovrebbero pensare alle conseguenze di fatto delle loro credenze religiose: il mancato influsso sulle attività giornaliere sta a dimostrare la loro inutilità. Le passioni sono alla base del sentimento religioso, e sono la causa della «tendenza universale a credere in un potere invisibile ed intelligente» (Storia naturale della Religione, 15).
Dalle sue letture giovanili dei classici latini e greci provengono i principi epicurei e lucreziani che si trovano nelle sue opere di maturità: «le prime idee religiose non nacquero dalla contemplazione delle opere della natura, ma da una preoccupazione per gli eventi della vita e dalle speranze e dai timori che incessantemente turbano la mente umana» (Copleston 5, p. 430).
Il fatto religioso nel suo insieme è giudicato sempre nella stessa linea, alle volte con degli spunti paradossali: «L’ignoranza è la madre della devozione: è una massima proverbiale, confermata dalla esperienza di tutti. Cercate però un popolo del tutto privo di religione: se lo troverete, siate pur certi che poco differisce dai bruti» (Copleston 5, p. 430).
La credenza generica nel creatore-ordinatore del mondo ha delle caratteristiche che la rendono simile a quelle riguardanti l’esistenza dei corpi e della causalità, senza arrivare alla loro consistenza e «utilità».
Il suo attacco ad ogni forma di pensiero metafisico si riassume nelle celebri linee conclusive della Ricerca sull’intelletto umano: «Quando, persuasi di questi principi, scorriamo i libri di una biblioteca, di che cosa dobbiamo disfarci? Se prendiamo in mano qualche volume —di teologia o di metafisica scolastica, ad esempio—, chiediamoci: “Contiene forse dei ragionamenti astratti intorno alla quantità o al numero?” No. “Contiene dei ragionamenti basati sull’esperienza e relativi ai dati di fatto o all’esistenza delle cose?” No. Allora diamolo alle fiamme! giacché esso non può contenere nient’altro che sofisticheria e inganno» (Ricerca 12, ultimo paragrafo).

 

14. Jean-Jacques Rousseau (1712-1778)

1. Vita e opere

93.
Nasce a Ginevra in seno a una famiglia calvinista. Durante la sua avventurosa giovinezza si converte al cattolicesimo e convive con Madame de Warens. Nel 1741 si stabilisce a Parigi dove stringe amicizia con Diderot e Condillac e si rende noto per le sue composizioni musicali e le sue opere di teatro. I cinque figli avuti con una donna di modeste condizioni sono affidati all’orfanotrofio. Negli anni cinquanta si riconverte al calvinismo, rompe i rapporti con i curatori dell’Enciclopedia. Oltre alla instabilità del suo carattere, il contenuto delle sue opere gli causa non pochi problemi con i governi di Ginevra e Parigi, che lo costringono a cambiare luogo di residenza più volte. Conosce Hume, con cui si reca in Inghilterra (1766), ma anche in questo caso i rapporti si troncano dopo pochi mesi. Ritorna a Parigi e muore a Ermenonville nel 1778.

Nel 1750 l’Accademia di Digione indisse un concorso sul tema «se le scienze e le arti abbiano giovato a purificare i costumi», il quale fu vinto da Rousseau con il Discorso sulle scienze e le arti. Tre anni dopo scrisse il Discorso sull’origine ed i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini per partecipare ad un altro concorso, ma questa volta non vinse.

 

2. Il «buon selvaggio» e il contratto sociale

94.
Nei due Discorsi Rousseau sostiene la bontà naturale dell’essere umano – il «buon selvaggio» – il cui stato di natura viene corrotto dai rapporti sociali. Le scienze e le arti (la cultura) sono gli strumenti di questa degradazione. Questa ipotesi sullo stato di natura, condiviso da Hobbes, spiega che l’uomo all’inizio non era né buono né cattivo, ma innocente e naturalmente socievole. La disuguaglianza è introdotta dalla proprietà privata, e da essa derivano i vizi, le guerre e tutta la corruzione della civiltà. Le istituzioni politiche devono essere rovesciate perché sono volte al mantenimento del sistema corrotto. La proposta di Rousseau si presenta così come un capovolgimento radicale e necessario per liberare l’uomo e renderlo capace di tornare nella situazione primitiva.
Il Contratto sociale riprende l’idea dello stato primitivo e spiega che l’essere umano può essere sottomesso all’autorità di un altro soltanto dando il suo consenso, mediante un patto di unione (e non di soggezione, come propone Hobbes). Tale patto deve essere universale, cioè ciascun individuo deve cedere i propri diritti in favore degli altri: solo così si può evitare la prevaricazione e riacquistare integra la propria libertà, dando luogo a una vera democrazia, che si esercita direttamente, senza organismi di rappresentanza.
Da qui deriva la volontà generale, una volontà unica e indivisibile che deve essere seguita perché è come obbedire a sé stessi. Il corpo sociale è un tutto indivisibile come il corpo vivente. Così il popolo detiene la totalità del potere, è il titolare della sovranità, la quale è illimitata e definitiva, ed esercitata in maniera infallibile: è sempre una volontà buona. La democrazia diventa così totalitaria, che si rende operativa tramite lo Stato

 

3. L’educazione, il sentimento e la religione

95.
In Emile (1762) l’idea della corruzione da parte della società si sviluppa in un progetto educativo incentrato sul singolo e non sullo sconvolgimento sociale. All’educando deve essere assegnato un precettore che deve limitarsi a evitare che il naturale sviluppo del suo allievo sia corrotto dai cattivi influssi della società. L’istinto o sentimento è la guida naturale – e per tanto, buona – di Emile, privo di peccato originale.
Nel libro 4 di questa opera si inserisce la «Professione di fede del vicario savoiardo», modesto parroco in cui si imbattono Emile e il suo precettore. Il disilluso chierico spiega il suo sistema di religione, basato sul deismo, che ignora tutti gli aspetti sovrannaturali del cristianesimo (la rivelazione, i miracoli, il peccato e la redenzione) così come le strutture di governo. La base della religione, alla stregua di tutto il sistema educativo ivi illustrato, è il sentimento, che è spontaneo e naturale. Da lì sorgono le idee di una religione naturale autosufficiente. È in questa atmosfera che si trova l’elogio entusiasta della coscienza: «Coscienza! Coscienza! istinto divino, voce immortale e celeste; guida sicura d'un essere ignorante e limitato, ma intelligente e libero; giudice infallibile del bene e del male, che rendi l'uomo simile a Dio».

4. La libertà del singolo e l’autenticità

96.
Il romanzo Julie o la nuova Eloisa (1761) è la storia di una giovane donna che deve rinunciare al matrimonio con l’uomo che ama perché le costrizioni sociali glielo vietano. Questa nuova Eloisa, con l’evidente richiamo al dramma biografico medievale, rende propri i programmi derivati dalle norme sociali accettandoli con un atto di volontà: questo piegarsi alle decisioni degli altri è solo apparente perché lei ha nobilitato in qualche modo quello che era l’inevitabile. Julie è al di sopra degli altri e della situazione stessa, malgrado la ingiustizia subita. Se la libertà non garantisce la riuscita pubblica delle scelte, almeno rende le persone più «autentiche».
In un certo senso, questa autenticità è presente nelle Confessioni: il filosofo immagina sé stesso dopo la morte al cospetto di Dio. Ivi sono presenti tutti coloro che l’hanno conosciuto e probabilmente molti di loro avrebbero qualcosa da dire durante il giudizio. Rousseau prende la parola e provoca gli altri dichiarandosi peccatore, ma non peggiore di nessun altro: lui è consapevole delle sue imperfezioni, ma non si considera inferiore a nessuno perché la sua schiettezza lo rende immune, innocente. Lui avrà potuto sbagliare o fare del male, ma non ha mai covato sentimenti egoisti e quindi le sue azioni non posso essere giudicate da nessuno. Molto probabilmente gli spettatori che volevano la sua condanna dovranno agire come gli scribi e i farisei che volevano lapidare la donna adultera e andarsene nello scoprire che, se Jean-Jacques è colpevole di qualcosa, loro non lo sono di meno.

 

15. Immanuel Kant (1724-1804)

1. Tratti generali del suo pensiero

97.
La formazione filosofica di Kant è segnata dall’assimilazione del razionalismo wolffiano, che a poco a poco verrà ridimensionato fino a trasformarsi in una «rivoluzione copernicana». La lettura di diverse opere di stampo scettico (soprattutto una versione della parte 4 del libro 1 del Trattato humeano) conducono Kant a formulare una proposta in cui si superano il soggettivismo razionalistico – tutto ciò che conta nel pensiero proviene dal soggetto – e la mancanza di universalità dell’empirismo, che intende fondare la scienza nella mera esperienza e nella credenza della regolarità dei fenomeni.
Kant offre una risposta d’insieme in cui il soggetto con le sue ‘forme a priori’ è determinante, e in cui anche la sensibilità ha la suo ruolo. La «rivoluzione» consiste nel centrare il discorso sulle condizioni iniziali del soggetto, invece che nelle ignote condizioni degli oggetti della conoscenza.
La proposta inoltre comprende i diversi settori della filosofia e delle scienze: matematica, geometria, fisica, metafisica, morale, ispirazione artistica.

2. Sul vocabolario kantiano

98.
Lo sforzo di Kant nel ridare la dignità di scienza alla speculazione filosofica si traduce inoltre nella creazione di un linguaggio proprio, del quale è indispensabile fare qualche cenno:
1. a priori:
In contesto filosofico indica tutto ciò che si trova nel soggetto prima di conoscere la realtà esterna. In questo senso, la sensibilità e l’intelletto hanno delle forme a priori, cioè, predeterminazioni formali che strutturano la conoscenza. Anche nella morale ci saranno degli elementi a priori.

2. trascendentale, incondizionato, molto legato all’a priori e alla necessità:
Il trascendentalismo kantiano significa che tutto ciò che precede la conoscenza è trascendente nei confronti dell’esperienza, cioè si trova al di sopra di essa, e la sua superiorità implica universalità, che è un elemento indispensabile per la scienza. Se non ci fossero previamente queste determinazioni a priori-trascendentali, non sarebbe possibile stabilire i principi e le regole fondamentali delle scienze.
Il carattere di incondizionato o assoluto di solito fa riferimento alla inderivabilità nei confronti della esperienza.

3. analitico/sintetico:
Kant riprende la distinzione classica fra giudizi sintetici e giudizi analitici. I primi sono quelli in cui si aggiunge al soggetto della predicazione che non era implicito nella sua definizione, mentre che negli analitici in realtà ciò che si fa è dedurre una caratteristica ormai contenuta nella definizione anche se non espressa.
Il vantaggio dei giudizi analitici è che sono universali e necessari, ma il loro limite è che non arricchiscono la conoscenza: sono tautologici e non fanno altro che esplicitare elementi compresi nelle premesse o nelle definizioni dei termini implicati (“Tutti gli uomini sono mortali”, “Tizio è un uomo”, quindi “Tizio è mortale”). Con i giudizi sintetici invece si ottengono delle novità, ma si arriva soltanto a proposizioni esperienziali senza validità assoluta.
Kant afferma che lo spartiacque fra la vera scienza e gli altri saperi è la capacità di formulare dei giudizi sintetici a priori, cioè delle proposizioni che aggiungono conoscenza tramite l’esperienza, ma un’esperienza strutturata dagli elementi a priori della conoscenza, che le danno universalità.
La necessità proviene quindi dalle strutture a priori o trascendentali, e l’esperienza è indispensabile per renderla operativa.

4. intuizione:
Le intuizioni sono le impressioni della sensibilità, punto di partenza della conoscenza empirica.

 

3. La critica della ragion pura

99.
Nella Critica della ragion pura (cfr. schema alla fine della dispensa) si propone una netta distinzione fra l’ambito della conoscenza e l’ambito del mondo fisico. Il soggetto possiede delle forme a priori nella sua sensibilità che configurano le intuizioni, le quali non hanno un ordine proprio. Tali forme a priori sono lo spazio e il tempo.
In un secondo livello si trovano le categorie o forme a priori dell’intelletto, che grazie all’attività dell’immaginazione prendono la sensibilità ormai formalizzata e la «trasportano» nelle 12 forme a priori dell’intelletto o categorie.
«Le intuizioni senza le categorie sono cieche, e le categorie senza le intuizioni sono vuote»: entrambe sono necessarie perché ci sia la conoscenza, le prime sono la forma e le seconde sono la materia. Siamo di fronte a un «ilomorfismo» della conoscenza.
Ciò che conosciamo è il «fenomeno», ciò che appare, e non il «noumeno» o cosa in sé, che resta sempre sconosciuta .
Kant spiega questi passaggi della vera conoscenza sostenendo che la matematica con la geometria, e la fisica, hanno raggiunto la maturità perché sono aderenti ai fenomeni. La metafisica invece deve ancora dimostrare di essere in grado di produrre giudizi altrettanto saldi e universali. Con la spiegazione degli elementi della conoscenza, Kant è in grado di affermare che una metafisica sana dovrebbe rispettare i limiti dell’intelletto, e accettare che certe nozioni, pur essendo utili come «sfondo» per la conoscenza, come indicazioni generali, non appartengono alla conoscenza vera e propria. Il problema è che i desideri mai appagati della ragione fanno sì che l’uomo si illuda di poter dimostrare l’universalità e la necessità di ‘nozioni limite’ quali l’immortalità dell’anima, la libertà, l’esistenza e le caratteristiche di Dio, l’ordine dell’universo e così via.
Kant sostiene inoltre che la conoscenza della ragione non va oltre le 12 categorie, e che alcune delle nozioni più affascinanti della filosofia avranno un ruolo «moderatore», ma sono escluse dalla scienza della ragione. L’applicazione delle regole delle categorie e diverse argomentazioni metafisiche classiche costituiscono la parte più lunga della Critica.
Benché la conoscenza sia considerata passiva a livello della sensibilità, la spiegazione del lavorio dell’immaginazione rivela in realtà un processo produttivo. Sembra che la natura da noi contemplata sia la natura da noi prodotta, tutto spiegato con il linguaggio della fisica, in continuità con l’ilomorfismo sottolineato precedentemente.
100.
Il cuore della struttura della conoscenza è la giustificazione finale delle categorie. Kant elabora sempre una giustificazione per descrizione (deduzione empirica) per poi passare a una giustificazione definitiva (deduzione trascendentale). Affinché si possa spiegare la posizione delle categorie, è necessaria l’idea di un «qualcuno» che le sorregga, che giustifichi la loro posizione (perché la loro funzione è stata ormai descritta ovvero dedotta empiricamente). Siccome questa idea non può appartenere alle categorie, perché si trova in qualche modo al di sopra di esse, bisogna pensare a un presupposto indimostrabile: l’Io che giustifica la conoscenza è necessario (trascendentale) ma sconosciuto (noumenico).
Il limite che costrinse Kant a fare due formulazioni di questa spiegazione, ricorda la critica humeana sull’idea dell’io del razionalismo: da una parte è necessario, ma dall’altra è indescrivibile. Lo si può pensare come la sintesi di tutte le percezioni esterne ed interne («fascio di sensazioni») o come una sorta di spazio illuminato nel quale compaiono i fenomeni («teatro» di Hume).
Il punto interrogativo costituito da questo Io è il limite che l’idealismo non è disposto ad accettare: Fichte accetterà la metodologia kantiana, rimproverando al maestro di non aver avuto il coraggio necessario per portare avanti l’impresa e sostiene che quella posizione dell’Io è in realtà il punto di partenza e l’origine di tutto.

 

4. La morale

101.
Nella Fondazione della metafisica dei costumi e nella Critica della ragion pratica Kant presenta la riflessione morale.
Le idee di libertà, immortalità e l’esistenza di Dio vengono proposte come dei postulati, cioè come delle verità indimostrabili ma necessarie. Non fanno parte della speculazione della ragion pura, ma ciò non vuol dire che vengano «spiegate» tramite la ragione pratica, che semplicemente le presuppone per poter sviluppare la filosofia pratica.
L’elemento a priori più operativo è un sentimento, ma non quello di Shaftesbury, Hutcheson, Hume o Rousseau, ma un sentimento di rispetto nei confronti della legge. Questo è il «faktum» della ragione, una realtà in cui lo stesso io si imbatte senza poter andare oltre. Questo sentimento spinge il soggetto ad agire sempre con riguardo alla legge, e viene riconosciuto dal fatto che tutti considerano l’unica cosa incondizionatamente buona, cioè una «volontà buona». Una tale volontà si contraddistingue perché non è legata ad alcun profitto o progetto, è la volontà che agisce per rispetto della legge, e in questo consiste la sua assolutezza e la rende l’a priori necessario per la moralità (formalismo).
Questa volontà, ovvero la ragione nel suo versante pratico, è autonoma, cioè obbedisce solo a sé stessa (autonomia). Così l’uomo è in grado di distinguere fra i principi di condotta quelli condizionati – il che non vuol dire cattivi – e quelli incondizionati. Le massime di moralità sono per lo più direttive condizionate: «fai questo se vuoi avere quello…» (mantenere la salute, guadagnare soldi, ecc.). A questi comandi non necessari Kant dà il nome di «imperativi ipotetici», mentre quelli incondizionati sono chiamati «imperativi categorici».

102.
In realtà, il carattere assoluto di questi imperativi fa sì che la loro formulazione sia astratta perché devono essere dei principi applicabili ad ogni singola decisione. In realtà non sono un comando specifico, ma un principio di discernimento universale:
1. «agisci come se la massima (cioè la norma soggettiva) della tua azione dovesse diventare, per tuo volere, una legge universale». Sono immorali azioni come il suicidio, la mancata restituzione dei debiti, il disinteressarsi degli altri, perché nessuno potrebbe volere che tutti si comportassero in questo modo, mentre sono morali precetti come «ama il tuo prossimo», perché ognuno vorrebbe che tutti si comportassero in questo modo verso di lui. «Devi, perché devi».
2. «agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo»
3. «agisci in modo che la tua volontà possa considerarsi come universalmente legislatrice rispetto a se medesima».

La caratterizzazione della ragion pratica come autonoma esclude la possibilità di fondare la morale nella religione o che vi sia almeno un ambito di scambio a parità di circostanze. La religione può offrire degli spunti ausiliari, delle massime utili, ma non può avere un ruolo fondante.

103.
Kant sviluppa altri elementi non presenti nella trattazione della ragion pura nella Critica della facoltà di giudicare. In quest’opera, vengono ripresi diversi concetti che aprono la ragione all’ispirazione e alla valutazione delle opere artistiche e dei fenomeni della natura, con la reintroduzione della finalità. La percezione del bello e del sublime vengono spiegati all’interno del criticismo kantiano da una prospettiva innovativa.


 

III. L’Illuminismo

1. Caratteristiche generali

104.
Al di là delle differenze e peculiarità di un movimento così vasto come l’Illuminismo, alcuni tratti comuni, si possono così riassumere:

1. Sapere aude! Definito così da Kant, significa l’uscita della minore età, momento in cui bisogna avere il coraggio di pensare per sé stessi senza la guida e le costrizioni delle antiche istituzioni. Autonomia del sapere.
I «Lumi» della ragione devono gettare la loro luce, e di fatto lo fanno, nell’esistenza degli uomini.
2. Sviluppo delle scienze. Trionfo della rivoluzione scientifica e conseguente ottimismo nel progresso. I problemi dell’umanità sono questioni «tecniche» che saranno risolte a poco a poco. Non bisogna confidare nella Provvidenza.
3. Separazione fra fede e ragione. Non più per una difesa della dignità della Rivelazione bensì per un accantonamento della medesima. Negata o semplicemente tralasciata, non trova più spazio nella riflessione filosofica .
Deismo e ateismo. Da qui la possibilità di teorizzare una religione del «Dio lontano», magari Creatore, ma disimpegnato nei confronti del mondo. In alcuni casi – specie in Francia – si sviluppa un vero ateismo.
Vi sono delle forme intermedie di scetticismo o di agnosticismo.
4. Morale indipendente dalla religione e dalla Rivelazione. Affidata alla ragione o ai sentimenti.
5. Società: la democrazia e la partecipazione sono considerate forme di vita sociale migliori dell’assolutismo. La divisione dei poteri dovrebbe garantire l’uguaglianza e la giustizia.

2. Gran bretagna

105.
In Inghilterra gli scritti di Locke rappresentano un contributo alla corrente di pensiero nota come deismo . Nella sua opera Ragionevolezza del cristianesimo, e anche in altri scritti, Locke sottolinea l’importanza della ragione in quanto giudice della rivelazione, ma non rifiuta l’idea della rivelazione. I deisti, invece, tendevano a ridurre il cristianesimo alla religione naturale. È pur vero che differivano notevolmente nelle loro opinioni sulla religione in generale e sul cristianesimo in particolare. Ma, pur credendo in Dio, essi tendevano a ridurre i dogmi cristiani a verità che possono essere affermate dalla ragione e a negare il carattere unico e soprannaturale del cristianesimo e l’intervento miracoloso di Dio nel mondo. Tra i deisti si annoverano John Toland (1670-1722) e Mathew Tindal (c. 1656-1733). Tra gli oppositori dei deisti abbiamo Samuel Clarke (1675-1729) e il vescovo Butler (1692-1752).
Morale. Caratteristica del tempo è la teoria del senso morale, rappresentata da Shaftesbury (1671-1713), da Hutcheson (1694-1746), e, in una certa misura, da Butler e da Adam Smith (1723-1790) . In opposizione all’interpretazione hobbesiana dell’uomo come fondamentalmente egoista, questi filosofi insistono sulla natura sociale dell’uomo, e sostengono che l’uomo possiede un «senso» o sentimento innato, grazie ai quali distinguono i valori morali e le loro diversità (altruismo).

106.
Scozia. Nell’ultima metà del secolo si fece sentire una reazione contraria all’empirismo e favorevole al razionalismo che ebbe come rappresentanti, ad esempio, Richard Price (1723-91) e Thomas Reid (1710-1796). Il primo sosteneva che in morale la ragione gode di autorità e non il sentimento. Noi fruiamo di un’intuizione intellettuale delle oggettive diversità morali. Per Reid e la sua scuola esistono dei principi immediatamente evidenti, i principi del «common sense», che sono il fondamento di ogni nostro ragionamento e che non sono suscettibili di dimostrazione diretta, né la esigono. Come il materialismo di Hobbes aveva provocato la reazione dei platonici di Cambridge, così anche l’empirismo di Hume provocava una reazione. Esiste infatti una continuità tra i Platonici di Cambridge e i filosofi scozzesi del senso comune, capeggiati da Reid.

3. Francia

107.
Voltaire (1694-1778), non era ateo, anche se il terremoto di Lisbona del 1755, pur non causandogli l’abbandono di ogni fede in Dio, lo aveva indotto a modificare le sue opinioni sul rapporto tra il mondo e Dio, e sulla natura dell’azione divina. Ma l’ateismo fu rappresentato da un numero notevole di scrittori. Il barone d’Holbach (1725-1789) per esempio, fu un ateo dichiarato. L’ignoranza e il timore portarono a credere negli dèi, la debolezza ad adorarli, la credulità li conserva, la tirannide si serve della religione per i suoi fini. Anche La Mettrie (1709-1751) fu un ateo e cercò di perfezionare l’affermazione di Pierre Bayle (1647-1706), secondo cui uno stato di atei è possibile, sostenendo che è desiderabile. Diderot (1713-1784), uno degli eredi della Enciclopédie, passò dal deismo all’ateismo. Tutti questi scrittori, tanto i deisti quanto gli atei, erano anticlericali e avversi al cattolicesimo.

A differenza di Locke, Condillac (1715-1780) che intendeva sviluppare un empirismo coerente, cercò di spiegare ogni vita mentale mediante le sensazioni «trasformate» mediante segni o simboli. Il suo sensismo, costruito in modo molto accurato, esercitò grande influenza in Francia, ma per trovare un vero materialismo dobbiamo volgerci ad altri pensatori. La Mettrie, nell’Uomo macchina estende l’interpretazione meccanicistica cartesiana della vita animale e del corpo alla totalità dell’uomo. D’Holbach riteneva che l’anima è un epifenomeno del cervello, e Cabanis (1757-1808) affermava: «Les nerfs, voilà tout l’homme». Secondo Cabanis, il cervello secerne il pensiero come il fegato secerne la bile.

Un’interpretazione materialistica dell’uomo, comunque, è ben lungi dall’implicare sempre un rifiuto degli ideali e dei principi morali. Diderot insiste sull’ideale del sacrificio e domanda all’uomo benevolenza, pietà e altruismo. Anche d’Holbach fa consistere la morale nell’altruismo e nel servizio del bene comune. Nella teoria utilitaristica di Helvetius, esercita una funzione fondamentale il concetto della maggior felicità possibile per il numero più grande possibile. Questo idealismo morale non dipende evidentemente da presupposti e assunti teologici, ma è, invece, strettamente connesso all’idea di una riforma sociale e legale. Secondo Helvetius, ad esempio, il controllo razionale dell’ambiente umano e la promulgazione di buone leggi spingono gli individui a perseguire l’interesse pubblico. D’Holbach insiste sulla necessità di una riorganizzazione sociale e politica. Con appropriati sistemi educativi e legislativi, sorretti da assennate sanzioni l’uomo, nella ricerca del proprio utile, è sollecitato ad agire virtuosamente, vale a dire, in modo utile alla società.

108.
Montesquieu (1689-1755), si occupò del problema della libertà e, come risultato della sua analisi della costituzione inglese, insistette sulla separazione dei poteri come condizione di libertà. Vale a dire che il potere legislativo, esecutivo e giudiziario devono essere indipendenti nel senso che non devono essere sottoposti alla volontà né di un uomo né di un gruppo di uomini, sia esso un piccolo gruppo di nobili o il popolo. Montesquieu era contrario a ogni forma di assolutismo, ma Voltaire, ancorché influenzato dalla conoscenza delle consuetudini e del pensiero inglesi, specialmente del pensiero di Locke, guardava ad un despota illuminato per attuare le necessarie riforme. Come Locke, Voltaire si fa moderato patrocinatore del principio di tolleranza, ma non è particolarmente impegnato all’instaurazione di una democrazia. Una delle accuse da lui mosse alla chiesa, per esempio, è di essere d’ostacolo al sovrano e di impedire un governo veramente forte. Per trovare un eminente difensore della democrazia nel vero senso, dobbiamo rivolgerci a Rousseau (1712-1778). In generale, tra gli scrittori dell’Illuminismo francese si trova da una parte chi insiste sul costituzionalismo, come Montesquieu, o dall’altra, chi spera in un regnante illuminato, come Voltaire. Ma, in entrambi i casi, è evidente l’ispirazione e l’ammirazione per la vita politica inglese, anche se Voltaire era più impressionato dalla libertà di discussione che dal governo rappresentativo.

Locke aveva sostenuto la dottrina dei diritti naturali, cioè di diritti naturali dell’individuo che non derivano dallo Stato e che non possono essere legittimamente soppressi dallo Stato. Questa dottrina, che ha i suoi presupposti nel pensiero medioevale e che fu applicata nella Dichiarazione di indipendenza americana, esercitò la sua influenza anche nell’Europa continentale. Voltaire, per esempio, suppone che vi siano principi morali e diritti naturali immediatamente evidenti. In buona parte della filosofia francese del diciottesimo secolo possiamo trovare la stesso genere di tentativo, che ritroviamo anche in Locke, di combinare l’empirismo con elementi derivati dal razionalismo. Con gli utilitaristi, però, viene alla ribalta un altro punto di vista. Negli scritti di Helvetius, ad esempio, la massima felicità per il maggior numero possibile di persone sostituisce, come criterio di valore, i diritti naturali di Locke. Ma Helvetius sembra non essersi reso pienamente conto che questa sostituzione comportava il rifiuto della teoria dei diritti naturali, giacché se l’utilità è il criterio, anche i diritti ricevono la loro giustificazione solo dalla loro utilità. In Inghilterra, Hume si rese conto di ciò: i diritti si fondano, non su principi evidenti per se né su verità eterne, ma su una convenzione, su regole generali, la cui utilità è stata dimostrata dalla esperienza.
Condorcet (1743-1794) è uno degli autori più entusiasti nei confronti della nozione di progresso sviluppatasi dalla fine del Seicento, nelle sue applicazioni sociali.
La fede degli enciclopedisti e di altri secondo cui il progresso consiste nei lumi intellettuali e nella crescita della civiltà, e secondo cui un tale progresso è inevitabilmente accompagnato dal progresso morale, è stata apertamente invece rifiutata da Rousseau.

4. Germania

109.
1a Tappa: Leibniz. La sua dottrina venne ordinata in un sistema, non senza qualche modifica di contenuti, ma senza alterarne lo spirito, da Christian Wolff (1679-1754). Tra i suoi discepoli si annoverano Bilfinger (1693-1750), Knutzen (1713-51), le cui lezioni a Königsberg furono seguite da Kant, e Baumgarten (1714-72).
2a Tappa. Rivela l’influsso dell’Illuminismo francese e inglese. Se si dice che questa fase è rappresentato in Federico il Grande (1712-1786), ciò non vuol dire, ovviamente, che il sovrano fosse egli stesso un filosofo. Ammirava moltissimo i pensatori dell’Illuminismo francese e invitò a Potsdam Helvetius e Voltaire.
Il deismo trovò in Germania sostenitori in Samuel Reimarus (1694-1768) e in Moses Mendelssohn (1729-1786), uno dei «filosofi popolari» (così chiamati perché bandivano le sottigliezze dalla filosofia e cercavano di portarla al livello dell’intelligenza media) che fu anche influenzato dall’Illuminismo. Più importante fu Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781), il pensatore più rappresentativo dell’Aufklärung. Assai noto per aver detto che se Dio gli avesse offerto la verità con una mano, e con l’altra la ricerca della verità, egli avrebbe scelto quest’ultima, poiché non riteneva che la verità assoluta possa essere raggiunta, in metafisica e in teologia almeno e persino che ci fosse una tale verità. Solo la ragione deve decidere sul contenuto della religione, senza, tuttavia, che le si possa dare un’espressione definitiva. C’è, per così dire, una continua educazione della razza umana da parte di Dio, cui non si può, ad un certo momento, porre termine fissandola in un sistema di proporzioni indiscutibili. Quanto alla morale, essa è per sua natura indipendente dalla metafisica e dalla teologia.
La razza umana raggiunge la sua maggiore età, per così dire, quando arriva a comprendere questo fatto, e quando l’uomo compie il suo dovere senza tener conto di un premio in questa vita o in quella futura. Con questa idea di progresso verso la comprensione della autonomia della morale, e con il suo atteggiamento razionalistico riguardo alla dottrina cristiana e all’esegesi biblica, Lessing rivela la profonda influenza del pensiero dell’Illuminismo francese ed inglese.
3a tappa. Considerati piuttosto come critici del trascendentalismo kantiano e al di là degli orizzonti dell’Illuminismo, addirittura forgiatori degli elementi dell’identità della filosofia tedesca del secolo successivo.
Iohann Georg Hamann (1730-1788) non nutriva simpatia per l’intellettualismo illuministico né per ciò che egli considerava una illegittima dicotomia tra ragione e sensibilità. Il linguaggio stesso rivela l’ingiustificabilità di questa separazione. Nella parola, infatti, vediamo l’unione di ragione e senso. Con Hamann, la concezione analitica e razionalistica cede dinanzi a un atteggiamento di sintesi quasi mistico. Egli fa rivivere la teoria della coincidentia oppositorum o sintesi degli oppositi, e suo intento è vedere nella natura e nella storia l’autorivelazione di Dio.
Un’analoga reazione contro il razionalismo si trova nel pensiero di F. Jacobi (1743-1819). La sola ragione, se presa isolatamente, è «pagana», ci porta ad una filosofia materialistica, deterministica e atea, oppure allo scetticismo di Hume. Dio è colto dalla fede più che dalla ragione, dal cuore o da un ‘sentire’ intuitivo più che da un procedimento freddamente logico e analitico dell’intelletto. Jacobi, è di fatto, uno dei più eminenti sostenitori del sentimento religioso.
Iohann Gottfried Herder (1744-1803), condivide con Hamann l’avversione alla separazione di ragione e sensibilità e anche il suo interesse per la filosofia del linguaggio. Anziché nutrire interesse per il progredire dell’uomo verso lo sviluppo di un unico modello, il modello del libero pensatore che, per così dire, si allontana sempre più dal Trascendente e dalla Natura, egli cerca di vedere la storia nel suo complesso. Ogni nazione ha una sua storia e una sua linea di sviluppo, prefigurata nelle sue doti naturali e nei suoi rapporti con l’ambiente naturale. Nello stesso tempo, le diverse linee di sviluppo si articolano in un unico schema, in una grande armonia; e tutto il processo di evoluzione è la manifestazione o il dispiegarsi della divina provvidenza.

 

5. Breve nota sulla teoria economica

110.
I cosiddetti «fisiocrati»: Quesnay (1694-1774) e Turgot (1727-1781) chiedevano la libertà in campo economico. Se lo stato si astiene da ogni interferenza non necessaria in questo campo, e se lascia liberi gli individui di seguire il loro interesse, risulterà inevitabilmente promosso l’interesse comune. Esistono, infatti, leggi economiche naturali che producono la ricchezza quando nessuno ostacola la loro operazione. È questa, la dottrina economica del laissez faire. Ciò riflette, in una certa misura, il liberalismo di Locke. Ma, evidentemente, ciò si fonda su una ingenua fede nell’armonia tra l’operazione delle leggi naturali e il raggiungimento della massima felicità per il maggior numero possibile. Adam Smith parte dai principi lockeani e humeani per dare un primo assetto sistematico al liberalismo (The Wealth of Nations).


Appendice: Rappresentazione e intenzionalità

111.
La perdita delle nozioni classiche sull’immaterialità della conoscenza e dei «fenomeni» ad essa collegati (idee, phantasmata, reminiscenza…) portano ad un’interpretazione materialista della mente e delle sue azioni.
La nozione cartesiana di idea è da una parte ambigua, perché comprende tutti i moti dell’anima (rappresentazioni, intuizioni, passioni…) e, dall’altra, è tendenzialmente materialista, come accennato prima.
Descartes non riesce a evitare l’interpretazione della mente come una sorte di specchio in cui si riflette materialmente la realtà esterna, secondo quanto illustrato dalle sue esperienze di riflessione delle figure nell’occhio di un animale. Le nostre conoscenze sono immagini della realtà, e per non confonderle con quella medesima realtà, vengono intese come rappresentazioni, qualcosa di simile, a copie che, a un tratto, entrano nella nostra mente . Questo «somigliarsi» alla realtà, per il fatto di non avere elementi per spiegare la formalizzazione operata dalla sensibilità interna (una dottrina complessiva sull’immaginazione), è intesa in termini pittorici, come ri-produzioni della realtà all’interno del cervello: in questo modo la dinamica della conoscenza si riduce a movimenti fisici.
Con questa spiegazione, è impossibile spiegare teoreticamente la realtà della comunicazione, la «coincidenza» dei contenuti mentali con la realtà: se sono immagini di tipo fisico, non permettono «vedere» verso l’esterno.

112.
Alcune delle nozioni che mancano a Descartes, e in generale a tutti gli autori successivi, dipendono dalla distinzione fondamentale fra atto e potenza e fra i diversi tipi di atti: kinesis-praxis, praxis teleia (azione perfetta); dynamis (potenza come facoltà); hexis (habitus). Malgrado le oscillazioni dei testi aristotelici, queste nozioni servono a spiegare differenze fondamentali fra le attività fisiche e perlopiù transitive, da quelle che dipendono da un principio vitale che fa crescere «verso l’interno» grazie a operazioni che perfezionano il singolo (attività immanenti). Non si possono spiegare in poche parole né le nozioni minime indispensabili né la loro relazione profonda con ciò che si spiega qui sotto.

Anche la proposta kantiana è carente di questi elementi. Il principio fondamentale dell’apriorismo, cioè, che è il conoscente a determinare la forma del pensiero, implica che una buona parte di ciò che si conosce non appartiene alla realtà esterna, ma alle forme a priori. Inoltre, l’attività del pensiero, che per Kant è costruttiva, è intesa in termini quasi fisici perché non ci sono distinzioni fra i fenomeni esterni ed esterni. «Attività», «spontaneità», ecc. si usano senza chiarire se ci siano differenze fra il mondo fisico e quello mentale .

113.
Un altra nozione basilare riguarda la «natura» delle nostre «immagini mentali». Infatti, per evitare che ostruiscano il nostro contatto con la realtà sovrapponendosi a essa, ri-presentandocela al suo posto, bisogna intenderle come qualcosa di immateriale. La questione non è semplice: perché si pone la questione di come facciano a entrare nella nostra mente elementi materiali in modo immateriale, e come mai possano rimandare alla realtà fedelmente e senza una «mediazione ostacolante».
Un termine coniato per esprimere questo contatto diretto e immateriale con la realtà è quello di intenzionalità conoscitiva, che si può riassumere – sempre con un linguaggio legato a caratteristiche materiali – come «trasparenza». Le nostre immagini mentali devono essere tali da permetterci di vedere direttamente la realtà esteriore, altrimenti non potremmo neanche sapere cosa stiamo vedendo (o toccando o ascoltando) e cosa vedono gli altri. Parlare di trasparenza non spiega altro che la necessità di attribuire un carattere immateriale alle nostre idee ed evitare in principio i problemi fondamentali della «fisicalizzazione» della conoscenza qui criticata.
Vanni Rovighi riassume così il nucleo della questione: «l’idea è la visibilità della realtà per l’intelletto, non la sua rappresentazione pittorica» .

114.
Un’altra via per capire questa necessità è riflettere sulla nozione di significato. Il signum «sta per» una realtà senza confondersi con essa, come il segnale stradale sta per la curva o per il semaforo senza sovrapporsi ad essi. Rimandano ad una realtà fisica esterna, pur essendo anch’essi degli esseri fisici.
Bisogna andare oltre e pensare che la funzione di segno delle nostre idee ha un carattere solamente formale (immateriale) e che quindi può rimandare a queste senza essere materiale. La flessibilità del linguaggio mostra alcune delle conseguenze di questa immaterialità: possiamo capire che si parla di un cane o della specie cane in diversi modi (additando un cane, mostrandone una fotografia, usando la parola italiana, inglese o latina, imitando l’abbaiare o con la mimica). Si può intravedere così che la fisica e la meccanica non offrono tutte queste possibilità.
Le nozioni tomistiche di origine aristotelica su questi argomenti caddero in oblìo dopo i commentatori della seconda scolastica. Alcuni sono stati riscoperti agli inizi della fenomenologia contemporanea (Brentano, Frege), con la riflessione appunto sulle nozioni di significato e senso (Bedeutung-Sinn; meaning-sense): quando ci si riferisce a una realtà si suppone un senso, ma ci si può riferire alla stessa realtà con nomi diversi: quando si dice «Venere», «stella del mattino» e «il secondo pianeta in ordine di distanza dal Sole», ci si riferisce allo stesso corpo celeste (senso), ma i diversi nomi indicano significati diversi. Quindi l’idea di «Venere» che abbiamo non è una «fotografia» perché ciò renderebbe impossibile stabilire tutti questi rapporti che si manifestano nel linguaggio.


Bibliografia

Testi di riferimento:

Berti, Enrico - Volpi, Franco, Storia della filosofia, vv. 2 (Quattrocento al Settecento) e 3 (Ottocento e novecento), Laterza, Roma-Bari 1991
Reale, Giovanni – Antiseri, Dario, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, v. 2., La Scuola, Brescia 1983. Citato come “Reale 2”

Altri testi:

Copleston Frederick, Storia della filosofia, vv. 4-7, Paideia, Brescia 1982
Fazio, Mariano – Gamarra, Daniel, Introduzione alla storia della filosofia moderna, Apollinare Studi, Roma 1994
Fazio, Mariano – Fernández Labastida, Francisco, Historia de la filosofía IV. Filosofía contemporánea, Palabra, Madrid 2004
Fernández, José Luis-Soto Bruna, María José, Historia de la filosofía moderna2, Eunsa 2006
Mori, Massimo, Storia della filosofia moderna, Laterza, Roma-Bari 2005
Stelli, Giovanni – Sensi, Piergiorgio, Storia della filosofia III. Filosofia moderna e contemporanea. Dal romanticismo a oggi, Armando, Roma 2003
Vanni-Rovighi, Sofia, Storia della filosofia moderna, vv. 1-2, La Scuola, Brescia 1976 e 1980

 


Cfr. appendice sull’intenzionalità, §§111-114.

Cfr. §5 sulla separazione ragione-fede nel nominalismo.

I paragrafi 2 a 5 sono un estratto con ritocchi di Copleston 6, cap. 1, parti 1 e 2.

Cfr. Hume, §91.

Per Descartes ciò si applica alle idee avventizie, non a quelle innate.

Anche se il presupposto c’è: il mondo dello spirito è radicalmente diverso da quello materiale.

Cfr. S. VANNI ROVIGHI, Elementi di filosofia, cit., pp. 117-118.

 

Fonte origine documento : http://www.pusc.it/fil/p_mercado/jamm/downloads_files/dispsf32008.doc

fonte: http://www.pusc.it/fil/p_mercado/jamm/downloads.html

autore: Juan A. Mercado

 

Pontificia Università della Santa Croce

Facoltà di Filosofia

Istituto Superiore di Scienze Religiose
All’Apollinare

 

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