I maremoti
I maremoti
I maremoti (tsunamis): che cosa sono?  
  I maremoti  sono onde lunghe, con periodi compresi tra 5 e 60 minuti (mediamente 15-20  min), generate impulsivamente per lo spostamento della massa d'acqua e che,  avvicinandosi alla costa, possono raggiungere altezze molto elevate. La  comunita`scientifica internazionale ha unanimemente adottato il  termine tsunami, dal giapponese "tsu"=porto e "nami"=onda (onde di  porto), per indicare il fenomeno dei maremoti. Gli tsunami sono causati, nella  maggior parte dei casi, da terremoti sottomarini o in prossimita` della costa  e, meno frequentemente, da frane sottomarine o aeree, da eruzioni vulcaniche e,  raramente, dall'impatto di meteoriti nell'acqua. Non tutti i terremoti  sottomarini sono in grado di generare maremoti. Perche`questo si verifichi  occorre che il terremoto abbia una profondita` focale non troppo elevata, una  magnitudo rilevante e, soprattutto, abbia un meccanismo focale che provochi uno  spostamento verticale del fondo marino in grado di mettere in moto la massa d'acqua  sovrastante. Anche le frane sottomarine, con scivolamento di sedimenti (spesso  attivato da terremoti), possono modificare l'equilibrio della massa d'acqua e  produrre uno tsunami, cosi` come la caduta in acqua di grossi blocchi rocciosi  o di sedimenti in caso di frane aeree. Talvolta violente eruzioni vulcaniche  sottomarine possono creare una forza impulsiva che sposta la colonna d'acqua e  genera il maremoto. Inoltre tsunami di origine vulcanica possono essere dovuti  allo scivolamento in mare di masse di materiale lavico incandescente lungo i  fianchi ripidi del vulcano. Da un punto di vista fisico le onde di maremoto  sono caratterizzate da lunghezze d'onda (distanza tra due creste) molto  elevate, dell'ordine delle decine o centinaia di chilometri, quindi molto  grande rispetto alla profondita` dell'acqua in cui viaggiano, anche in aperto  oceano. Questa caratteristica fa si che le onde di maremoto si comportino come  "onde in acque basse" (shallow water waves). Queste onde viaggiano ad  elevata velocita` in mare aperto, raggiungendo anche i 700-800 km/ora, e sono  in grado di propagarsi per migliaia di chilometri conservando pressoche`  inalterata la loro energia ed essendo quindi in grado di abbattersi con  eccezionale violenza anche su coste molto lontane dal punto di origine. Le onde  di tsunami, che in mare aperto passano spesso inosservate per la loro scarsa  altezza, quando si avvicinano alla costa subiscono una trasformazione: la loro  velocita`si riduce (essendo direttamente proporzionale alla profondita' dell'acqua)  e di conseguenza l'altezza dell'onda aumenta, fino ad arrivare a raggiungere  anche alcune decine di metri quando si abbatte sulla costa. L'altezza e  l'impatto delle onde sulla costa e` funzione di molti parametri. Infatti, oltre  alla profondita` dell'acqua anche la topografia del fondale marino e le  caratteristiche della costa, come la presenza di insenature, golfi, stretti, o  foci di fiumi che possono produrre  effetti di amplificazione, giocano un  ruolo determinante. Talvolta il maremoto si manifesta con un fenomeno di  iniziale ritiro delle acque (regressione) che lascia in secco i porti e  le navi per breve tempo. In realta` questo rappresenta l'arrivo del cavo  dell'onda ed e', pertanto, un fattore determinante che preannuncia l' arrivo  del la successiva cresta e la conseguente inondazione (ingressione). Lo  tsunami che raggiunge la costa puo` apparire simile ad una marea che cresce e  decresce rapidamente, sollevando il livello generale dell'acqua anche di molti  metri; o si puo` presentare come un treno di onde, delle quali la prima non  necessariamente e` la maggiore; oppure si presenta come un vero e proprio muro  d'acqua e, in questi casi, l'impatto delle onde di tsunami sulla costa e` molto  spesso devastante. Dopo l'inondazione, quando un'onda di tsunami si ritira (draw  down) tende a trascinare con se tutto quello che ha incontrato nel suo  percorso sulla spiaggia e a lasciare sul terreno acqua e detriti che formano  depositi che sono importanti per ricostruire l'ingressione la massima quota  raggiunta dall'onda (runup). I maremoti sono un fenomeno molto  importante e spesso sottovalutato, in grado di produrre danni ingenti e perdita  di molte vite umane. Fortunatamente i maremoti catastrofici sono eventi rari,  tuttavia tsunami rilevanti e di entita` minore colpiscono spesso nel mondo. In  particolare l'area del Pacifico e`quella nella quale questi fenomeni sono  piu`frequenti e disastrosi, con onde in grado di attraversare l'intero Oceano  Pacifico in meno di 24 ore. La regione del Giappone-Taiwan rappresenta l'area  piu`attiva, dove si genera circa il 30% del totale degli tsunami del Pacifico,  anche se non tutti sono distruttivi. Nel 1896 un forte maremoto in Giappone ha  provocato 27.000 morti ma il piu` forte e` quello seguito al terremoto del Cile  del maggio 1960, che ha causato oltre 1000 vittime nelle coste cilene. Lo  tsunami ha poi raggiunto le coste delle isole Hawaii con ingenti danni e  vittime e si e` propagato fino in Giappone attraversando il Pacifico in 22 ore  e provocando oltre 150 vittime. Nel marzo del 1964 un altro violento tsunami fu  prodotto in Alaska, con poche vittime ma con onde che si propagarono sino alle  coste della California. Anche il Mediterraneo e` stato interessato nei secoli  da eventi di tsunami, sia distruttivi che di minore entita`, principalmente  lungo le coste della Grecia e dell'Italia. Il maremoto in assoluto piu`  devastante e` stato quello prodotto dal collasso della caldera del vulcano  Santorini, circa nel 1400 a.C.  dove l'esplosione ha prodotto il collasso della caldera con onde stimate tra  50-90 m.  di altezza. Il maremoto si propago` con una velocita` di oltre 300 km orari e in pochi  minuti raggiunse le coste della Turchia meridionale. Meno di tre ore dopo la  Siria, l'Egitto e la Palestina furono devastati dalle onde. Questo evento  e`ritenuto essere la possibile causa della scomparsa della civilta` minoica.  Per quanto riguarda le coste italiane, il maremoto piu` disastroso e` quello  seguito al terremoto di Messina del dicembre 1908. Il terremoto distrusse  totalmente le citta` di Messina e Reggio Calabria ed un violento tsunami segui`  la scossa principale, causando ingenti danni e centinaia di vittime, con onde  che raggiunsero i 13 m  di altezza sulle coste calabre, a Pellaro e 11,70 m a S.Alessio, sulle  coste della Sicilia. L'ultimo maremoto italiano e`quello avvenuto a  Stromboli (Isole Eolie) il 30 Dicembre 2002, causato dallo scivolamento  (prevalentemente sottomarino) di un enorme massa di materiale vulcanico alla  Sciara del Fuoco.
  Fonte: http://www.maella.it/Download/Eventi%20naturali%20-%20I%20maremoti.doc
I maremoti
Tsunami, l'onda assassina
Può viaggiare a 750 Km/h
Gli tsunami, dette anche "onde killer", che hanno causato la tragedia nel Sud-Est asiatico, sono caratterizzati, al largo, da una grande lunghezza d'onda e da una bassa altezza d'onda. Quando arrivano sottocosta la lunghezza d'onda diminuisce (le creste d'onda si ravvicinano) e l'altezza d'onda cresce enormemente. Si manifestano improvvisamente e sono spesso preceduti dal ritirarsi del mare, fino a livelli minimi.

La curiosità della gente che si precipita sulla  spiaggia per vedere questo strano fenomeno, è tra le maggiori cause di morte,  in quanto, in pochi minuti l'onda in avvicinamento, arriva ad altezze  eccezionali, anche diverse decine di metri a seconda della profondità dei  fondali e della loro natura. 
  
  Gli tsunami sono provocati da terremoti sottomarini o dallo scontro di due  blocchi crostali, eccezionalmente dalla caduta di meteoriti o frane sottomarine  e vanno distinti dalle onde di marea e dalle onde di vento, in quanto le prime  increspano la superficie, anche con onde che possono raggiungere trenta metri,  ma sono poco profonde; le seconde, provocano correnti sottomarine profonde e  onde anche piuttosto alte che, però, sono generate dall'attrazione  gravitazionale della Luna o del Sole. 
  
Queste spaventose  onde killer quando sono al largo sono quasi "invisibili", al massimo  possono alzarsi dalla superficie marina di un metro, spesso raggiungono una  lunghezza, o fronte, in pieno oceano, anche di 800 km e viaggiano anche a 750 km/h. Date queste  caratteristiche queste onde sono state chiamate dai giapponesi tsu-nami, onda  di porto, e cioè un'onda capace di attraversare silenziosamente gli oceani per  poi alzarsi mostruosamente in vicinanza delle coste. 
  
  
  Gli tsunami degli ultimi anni 
    Negli anni 90 si sono verificati ben dieci tsunami devastanti che hanno  causato tra le 4000 e le 5000 vittime, l'ultima avvenuta in nuova Guinea nel  1998 sulle coste di Papua Nuova Guinea e, come tutte le altre, è stata causata  da collisioni fra zolle tettoniche lungo il perimetro dell'Oceano Pacifico.  Negli anni 90, gli altri tsunami sono stati: 
  2 settembre 1992, Nicaragua, altezza d'onda (hO) 10 m. vittime 170; 
  12 dicembre 1992 Isola di Flores hO 26 m. vittime 1000; 
  12 luglio 1993 Okushiri, Giappone hO 31 m vittime 239; 
  14 novembre 1994 Isola di Mindoro hO 7 m vittime 49; 
  2 giugno 1994, Giava orientale hO 14   m. vittime 238; 
  9 ottobre 1995 Jalisco Messico hO 11   m vittime 1; 
  1 gennaio 1996 Isola di Sulawesi hO 3,4 m vittime 9; 
  17 febbraio 1996 Irian Jaya hO 7,7   m. vittime 161; 
  17 luglio 1998 Papua Nuova Guinea hO 15 m. vittime 2200. 
Sisma come milioni di atomiche
Intensità pari al 9° grado Richter
Il sisma che ha colpito l'Oceano Indiano è stato del nono grado sulla scala Richter. Si tratta del quarto maggior sisma, per intensità, dal 1990 ad oggi. Gli esperti paragonano l'energia liberata dal sisma a quella di un milione di atomiche. L'onda anomala è arrivata fino alla Somalia e al Kenya, a 6 mila km dall'epicentro. Se il terremoto si fosse verificato 250 km più a ovest, le onde avrebbero del tutto sommerso le isole Maldive.
Tutto è cominciato con una "frizione"  lungo i due lembi di una lunghissima faglia sottomarina che si è sviluppata a  Nord Ovest dell'isola di Sumatra. Uno scatto in avanti che ha liberato nella  crosta terrestre un'energia paragonabile a 23 mila esplosioni nucleari del tipo  di Hiroshima, e che poi si è trasmessa alle acque dell'Oceano Indiano,  provocando sulle zone costiere ondate di oltre quindici metri di altezza.
  Gli esperti di geofisica conoscono bene il fenomeno  di cui il termine "tsunami" (letteralmente onda del porto in  giapponese), riproduce in sintesi tutta la peculiarità: una serie di onde  generate da avvallamenti improvvisi sul fondo del mare che si trasferiscono  dinamicamente alla massa d'acqua soprastante. Quello che si vede in superficie  è quindi l'ultima fase della manifestazione sismica in atto. Man mano che si  avvicina alle coste, infatti, lo tsunami riduce la sua velocità, ma dal momento  che la sua energia rimane costante l'onda aumenta in altezza. Le onde viaggiano  tra gli 800 e i 400 km/h  e possono raggiungere l'altezza di decine di metri.
  L'origine è quindi lo spostamento lungo l'asse di  scorrimento di due enormi placche sottomarine, che hanno come effetto  l'innalzamento e la caduta successiva dei fondali marini. In questo caso si è  trattato di una frattura che si estende per quasi cento chilometri a Nord Ovest  dell'isola di Sumatra, lungo un cordone di isole chiamate Nicobar e Andamane.  In questa zona, tra l'oceano Indiano e il Golgo del bengala, si è verificato lo  scontro e la placca indiana si è scontrata con quella birmano-cinese, che a sua  volta fa parte della più grande placca euro-asiatica.
  Lo spostamento si è trasferito istantaneamente alla  superficie, dove ha creato una cresta e un avvallamento con un dislivello  relativo di alcuni metri e una distanza  superiore a dieci chilometri.  Quindi una serie di oscillazioni successive hanno creato le onde: dapprima  lunghe e regolari, in mare aperto non risultano pericolose per le navi, ma  diventano distruttive in prossimità delle coste. La velocità di propagazione di  uno tsunami è estremamente variabile: dove il mare è più profondo, 4 o 5 mila  metri, il maremoto è più veloce e raggiunge gli 800 chilometri  orari, come dire la velocità di crociera di un aereo. Dove il mare è più baso  la velocità rallenta, e contemporaneamente produce l'innalzamnto dell'onda  "in frenata".
"E' mancato il sistema d'allerta"
Un esperto americano punta il dito
Un esperto dello Us Geological Survey ne è certo.  Si poteva salvare la vita a gran parte delle migliaia di persone morte per le  ondate che sono seguite al terremoto in Asia con un sistema di allarme sugli  tsunami come quelli attivi nel pacifico. Nessuno dei paesi colpiti, tra cui  India, Thailandia, Indonesia, e Sri Lanka, aveva un istema di allerta capace di  mettere in guardia la popolazione sul pericolo in arrivo e indurla a spostarsi  verso l'interno.
  Vista la rarità del fenomeno degli tsunami nell'oceano  Indiano, secondo Waverly Person dello Us Geological Survey, la gente  difficilmente pensa di mettersi in salvo ritirandosi dalla costa se avverte un  terremoto, ma le cose avrebbero potuto andare diversamente con un sitema di  allerta efficace. Per l'esperto si tratta di una lezione per i governi dei  paesi colpiti.
  Viene così alla luce che gli scienziati  statunitensi hanno tentato invano di avvertire i colleghi dell'Asia meridionale  che un maremoto stava per investire le loro coste immediatamente dopo il violentissimo  sisma. Lo ha rivelato il direttore del centro di allerta, maremoti per la  regione del Pacifico. Del resto non esiste un sistema istituzionalizzato di  allerta nelle zone interessate, perché catastrofi di questo genere si producono  circa una volta ogni settecento anni, ha spiegato Charles McCreery, direttore  dell'Amministrazione nazionale oceanica e atmosferica a Honolulu.
  Pochi istanti dopo che gli strumenti avevano  registrato la violentissima manifestazione tellurica, McCrery e i suoi  collaboratori si sono messi in contatto telefonico con l'Australia, poi con i  loro referenti nella Marina militare statunitense, con diverse ambasciate  americane e infine con il dipartimento di Stato. Ma non sono stati in grado di  avvertire i Paesi interessati del pericolo imminente, perché nessuno di questi  paesi dispone di un sistema istituzionalizzato di allarme.
  Un sistema d'allarme come quello istituito lungo la  faglia del Pacifico avrebbe potuto risparmiare migliaia di persone dal  maremoto, secondo gli esperti del servizio geologico statunitense. Gli Stati  Uniti ne hanno allestiti nelle Hawaii e in Alaska e sono gestiti dal Geological  Survey e dal Noaa. Ma nessuna di queste strutture vigila sulla regione  dell'Oceano Indiano.
  Questi centri richiedono investimenti ingenti e un  impegno sul lungo periodo per gestire una rete di comunicazione attiva  ventiquattr'ore su ventiquattro, capacità operative, fromazione del personale,  ha spiegato l'esperto.
Maremoto sposta l'asse terrestre
Lo sostiene l'Agenzia spaziale italiana
Il catastrofico sisma del 26 dicembre è stato talmente violento da modificare in modo considerevole l'inclinazione dell'asse di rotazione terrestre. La conferma arriva dai dati raccolti dai ricercatori del Centro di Geodesia Spaziale dell'Agenzia spaziale italiana di Matera. "Si tratta di risultati preliminari - ha detto Giuseppe Bianco, direttore del centro Asi - che indicano uno spostamento lineare di 5-6 cm lungo la direzione dell'epicentro del terremoto".

I numeri, dunque, sembrano confermare quelle che  inizalmente erano soltanto delle voci. Il terribile terremoto nell'Oceano  Indiano avrebbe causato uno spostamento dell'asse di rotazione terrestre pari a  circa 2 millesimi di secondo d'arco (l'angolo sotteso da una moneta da 1 Euro  ad una distanza di 2000 km).  Tecnicamente parlanto, la forte scossa avrebbe modificato l'assetto linearmente  di 5-6 cm  proprio lungo la direzione dell'epicentro del terremoto che ha scatenato il  maremoto nel Sud-Est asiatico. 
  La scoperta è stata resa possibile grazie  all'elaborazione in tempo reale dei dati prodotti dalla rete mondiale di  telemetria laser satellitare, della quale l'osservatorio lucano è uno dei  capisaldi fondamentali. Da una prima analisi i ricercatori non segnalano invece  alcun effetto lungo la direzione del meridiano di Greenwich. 
  Nel frattempo l'elaborazione  delle informazioni continua a ritmo serrato in collaborazione con il Prof.  Roberto Sabadini dell'Università di Milano. L'obiettivo congiunto degli  istituti è quello di verificare l'effetto prodotto dal sisma su altri parametri  terrestri, come la posizione del centro di massa e la forma del campo di  gravità
  Della stessa opinione non è invece il geologo del  Cnr Mario Tozzi che, in merito all'ipotesi di uno spostamento dell'asse  terrestre, fa notare come una cosa del genere non si verificò nemmeno dopo  il sisma di 40 anni fa in Cile, che fu di proporzioni paragonabili a quello che  ha sconvolto l'Asia. 









  Il terremoto ha cambiato la Terra
Gli effetti della scossa asiatica
Il terremoto del 26 dicembre 2004 non verrà ricordato solo per la terribile tragedia che ha devastato l'Asia causando migliaia di morti, ma anche per un cambiamento epocale che ha mutato la geografia della Terra. Ne sono convinti gli scienziati e lo confermano i dati. Dopo il sisma, infatti, il nostro pianeta avrebbe non solo cambiato il suo assetto con uno spostamento dell'asse di rotazione di 6 centimetri, ma avrebbe anche innalzato la catena dell'Hymalaya, ridotto la durata del giorno di tre microsecondi e, infine, modificato la topografia delle isole Andamane e Nicobar.

Tecnicamente parlando, si tratterebbe di  cambiamenti epocali che, affermano i ricercatori, non influenzeranno però le  stagioni, il clima, la flora e la fauna. "Una scossa così forte come  quella che si è registrata - ha spiegato il sismologo Enzo Boschi - ha  provocato una redistribuzione della massa al suo interno, ma non è un fenomeno  particolarmente importante dal punto di vista delle conseguenze pratiche come  il cambiamento del clima". 
  Molto rilevanti dal punto di vista scientifico, nel  dettaglio le mutazioni della Terra causate dal terremoto riguardano invece  alcuni parametri numerici che sottolineano la forza e la potenza del sisma che  ha devastato l'Asia. Noto fino dal 1875, ad esempio lo spostamento dell'asse  terrestre in realtà è un fenomeno che sulla Terra si ripete di continuo e che  in questo caso ha però subito uno scarto improvviso che potrebbe aiutare a  conoscere meglio le dinamiche meccaniche della Terra. 
  Nessun allarmismo, dunque. "L'asse ha subito  uno spostamento di qualche centimetro -ha spiegato al Tempo il professor  Antonino Zichichi, direttore del centro "Majorana" di Erice- ma uno  spostamento lieve che non comporterà conseguenze pratiche consistenti".  Gli fa eco Enzo Boschi, presidente dell'Istituto nazionale di geofisica:  "Dal 26 dicembre la Terra  ha un altro asse, che non è più quello di un'ora prima dell'evento sismico. E'  ovvio però che il pianeta ha subito ritrovato una situazione di equilibrio  dinamico". 

Discorso diverso invece per quanto riguarda  l'ipotesi di una riduzione della durata delle giornate. Stando a Richard Gross,  esperto del Jet propulsion laboratory della Nasa, infatti, il terremoto in Asia  potrebbe aver causato un infinitesimale rallentamento della velocità di  rotazione della Terra con una conseguente diminuzione delle giornate  nell'ordine di tre microsecondi. Su quest'ipotesi, al momento, altri scienziati  non si sono ancora pronunciati, ma l'idea sembra plausibile. 
  Quanto al presunto innalzamento della catena  Hymalayana, gli esperti hanno spiegato che il terremoto ha esercitato una forte  pressione a margine della placca indiana che spinge verso nord scontrandosi con  quella birmana. Nessuno ha saputo stimare il reale innalzamento della catena,  ma sul suo probabile cambiamento sono tutti d'accordo. 
  Per certi, infine, sono dati anche la  trasformazione delle coste dell'India e i leggeri spostamenti delle isole  Andamana e di Nicobare. Secondo le prime osservazioni, si tratterebbe di  slittamenti nell'ordine dei 20-30   metri che costringeranno a ridisegnare le carte  gerografiche del pianeta. Il terremoto del 26 dicembre ha cambiato la Terra
Gli animali si sono salvati
Stupore tra le guardie forestali
Mentre continuano le ricerche per le migliaia di  persone disperse, le guardie forestali dello Sri Lanka non hanno trovato alcun  animale morto. La cosa ha incuriosito molto tutto il personale del Yala  National Park, dove le onde giganti dello Tsunami hanno invaso la terra per  almeno tre chilometri. Questo parco è la più grande riserva naturale del paese  e ospita centinaia di elefenti e diversi leopardi. 
  " La cosa strana è che non abbiamo  registrato la morte di alcun animale" H.D. Ratnayake, vice direttore  del Wildlife Department "nessun animale è morto, nessuna lepre o  coniglio". A questo proposito, gli esperti confermano la teoria che  gli animali possiedono una sorta di sesto senso e sono quindi in grado di  prevedere disgrazie e calamità naturali come maremoti, cicloni e tifoni. I cani  diventano inquieti e nervosi quando sentono avvicinarsi il pericolo e  addirittura possono percepire l’arrivo di un terremoto fino a 48 ore prima. I  giapponesi usano le tortore per prevedere scosse terrene, mentre un laboratorio  brasiliano sono in grado di pronosticare disastri naturali grazie alla  sensibilità di un gatto. Questo spiegherebbe l’assenza di cadaveri  animali, in un luogo dove almeno 40 turisti sono annegati. 


    
    







Tsunami, volontari a rischio mine e ordigni inesplosi
La  calamità naturale che ha colpito i migliaia di chilometri di costa sull'Oceano  Indiano dall'Asia all'Africa, è uno dei più catastrofici eventi tellurici che  ha interessato la terra negli ultimi cento anni. Un terremoto, peraltro,  accompagnato da un violentissimo ed estesissimo maremoto che ha distrutto tutto  ciò che ha incontrato sulla sua strada. 
  L'acqua marina ha sicuramente contaminato il  territorio. Ha sconvolto le fognature, è entrata a contatto con le falde di  acqua potabile, ha lasciato una elevatissima percentuale di sali dannosi fra le  zolle delle aree agricole, pregiudicando forse per molti anni futuri la produzione  alimentare. La violenza dell'acqua ha sconvolto il terreno, lo ha scavato e  arato. Ha trascinato arbusti, sassi e quanto altro normalmente trattenuto dalla  terra. 
  Ma questo non è il solo danno e pericolo  futuro che la tragedia ha provocato. Moltissime aree interessate dalla  catastrofe naturale, infatti, sono fra quelle censite dalle Nazioni Unite come  a rischio per la presenza di mine e ordigni bellici non esplosi (Uxo).  Materiale che insieme al fango e ai detriti può essere stato asportato dalla  posizione originaria e spostato dovunque l'acqua si è insinuata. 
  La Somalia, la Cambogia, alcune zone  delle stesse Maldive sono fra quelle a maggiore rischio. Fra tutte, però, lo  Sri Lanka è quello in cui il problema sicuramente assumerà connotati  significativi e incrementerà lo stato di emergenza conseguente ai danni diretti  provocati dal maremoto. Il paese, infatti, fin dal 1999 è fra quelli in cui è  maggiormente sviluppata l'opera della Mine Action Internazionale per arginare  un pericolo grave, se si pensa che ancora nel 2003 si sono verificati 99  incidenti da mina che hanno coinvolto la popolazione civile, con 25 morti e 55  feriti gravi. 
  Dopo la definitiva cessazione dello stato di  belligeranza la comunità internazionale ha iniziato a impegnarsi per affrontare  il problema specifico assicurando le risorse economiche perché molte agenzie  non governative specializzate in attività di bonifica potessero operare. Molto  è stato fatto; circa 1/3 delle aree a rischio è stata bonificata e recentemente  il governo dello Sri Lanka ha dichiarato che il paese sarà definitivamente  liberato dalle mine e dagli Uxo entro il 2006. 
  Una previsione sicuramente ottimistica se si  pensa che nel tempo è stato posato sul terreno un milione di mine che vanno ad  aggiungersi alle centinaia di migliaia di Uxo dovuti ai venti anni di guerra  civile terminata appena nel 2001, ma che evidenzia una volontà politica di  elevato contenuto morale. Nello stesso tempo, però, conferma come nel paese la  specificità del problema abbia una macro dimensione destinata ad assumere  connotati molto più gravi dopo i recenti avvenimenti di calamità naturale. 
  La maggior parte delle mine utilizzate in SRI  Lanka sono anti persona e di plastica quindi assolutamente non intaccabili  dall'acqua anche salata come quella del mare. L'esercito regolare ha utilizzato  mine pakistane P4, cinesi Type 72 e italiane VS50. Le forze non governative  hanno impiegato mine direzionali Claymore, mine artigianali Jony in contenitori  di legno o antiveicolo sempre di plastica chiamate Amman e derivate dalla MK1.  A tutto si aggiunge un numero imprecisato di trappole esplosive (Improvised  Explosive Devices - IED) e naturalmente di Uxo. 
  Da appena un anno - alla fine del 2003 - è  stato ultimato il controllo tecnico del territorio (Technical Survey) con  l'individuazione e la segnalazione delle aree considerate a rischio. Inoltre,  il territorio è stato controllato a tappeto per quantificare l'impatto sociale  innescato dalla presenza delle mine e degli Uxo (Impact Survey) con risultati  essenziali per stabilire le priorità di bonifica e ottimizzare quindi gli  interventi operativi. 
  Il maremoto in una manciata di secondi ha  cancellato e vanificato questi sforzi durati quattro anni per cercare di  arrivare alla completa pulizia del territorio, che hanno impegnato consistenti  risorse economiche e anche richiesto un impegno umano significativo, se si  pensa che fino a oggi ci sono stati circa 40 morti fra gli specialisti di  bonifica. Infatti, sicuramente le mine - la maggior parte di plastica - sono  state trascinate dalla massa acquosa, tirate fuori dal terreno e portate in  luoghi dove prima non c'erano. Insieme a esse bombe e munizionamento non  esploso. 
  Con altrettanta elevata probabilità  moltissime delle aree già bonificate non sono più riconoscibili perchè l'acqua  ha portato via la prevista segnaletica. Altrettanto per quanto attiene alle  zone individuate come pericolose, marcate e recintate per salvaguardare la  popolazione in attesa di una bonifica sistematica. 
  Sicuramente molte di queste mine e Uxo si  trovano fra i detriti, forse anche trascinate dall'acqua negli anfratti più  impensati, nelle case danneggiate, nei tombini delle fognature, nei pozzi  d'acqua. Un pericolo nell'immediato futuro per la popolazione appena si  accingerà a rientrare nelle proprie terre da cui il tragico evento naturale le  ha scacciate. 
  Un rischio importante in questo momento per  le decine di volontari che si stanno recando sul territorio per portare aiuto,  per sgomberare le strade, per cercare di ricostruire. Probabilmente, la maggior  parte di costoro non conosce il problema, non sa cosa sia una mina, non è in  grado di distinguerla da un sasso o da una scatola per lucido da scarpe. Una  realtà che si ripresenta ogni qual volta si è chiamati a intervenire in zone  dove gli episodi bellici hanno sconvolto per anni il territorio. 
  Forse questa contingenza dovrebbe indurre a  valutare la necessità di istituzionalizzare cicli formativi a favore di chi è  destinato, come possono essere ad esempio gli operatori della Protezione  civile, a intervenire in aree colpite da eventi di calamità naturali e  collocate fra quelle censite come a rischio per la presenza di Uxo e mine. 
  Moduli formativi di breve durata, ma incisivi  per informare costoro e insegnare loro - operatori della Croce Rossa, volontari  delle Organizzazioni non governative, personale della Protezione civile - a  muoversi fra il pericolo e a saperlo riconoscere. Insieme a costoro, poi, non  sarebbe male pensare di inserire personale professionalmente in grado e  attrezzato per affrontare nell'immediato il problema e quanto meno pronto a  riconoscerlo e a censirne le dimensioni. 
  Una mina anti uomo esplode se oggetto di una  pressione di 10-15   chilogrammi. Una bomba a mano o da mortaio esplode se  colpita violentemente da un oggetto pesante o dalla pala di una macchina  escavatrice. In questi giorni chi opera sul territorio si muove fra detriti che  possono nascondere le mine, muovono macerie e utilizzano sicuramente escavatori  per sgomberarle. 
  Appena lo scorso anno, proprio in questi  giorni, in Iran si è verificato un terremoto che ha sconvolto aree in  prossimità o direttamente interessate al percolo di inquinamento post bellico.  Allora molti dei volontari di oggi si muovevano fra le macerie, calpestando  sassi ma rischiando di calpestare anche mine. In questo momento questi  volontari sono in Sri Lanka e corrono lo stesso pericolo dello scorso anno. 
  L'esperienza di allora non ha insegnato nulla  e costoro sono all'oscuro di qualsiasi informazione specifica rimanendo  indifesi contro un pericolo peraltro noto a tutti gli Stati firmatari della  Convenzione di Ottawa sulla messa a bando delle mine anti persona e  protagonisti dal 1997 della Mine Action Internazionale, nonché di peculiare  interesse delle Nazioni Unite. 
INFORMAZIONI
Uno tsunami è costituito da una serie di onde oceaniche  generate solitamente (ma non solo) da terremoti il cui epicentro si trova sul  fondale marino o nelle immediate vicinanze e che, dopo aver percorso anche  migliaia di chilometri attraversando interi oceani, si abbattono come  giganteschi muri d'acqua sulle coste, distruggendo tutto ciò che incontrano sul  loro cammino. Il termine è di origine giapponese - può essere tradotto  letteralmente come "onda del porto" - e la ragione di  tale nome appare in modo lampante proprio se consideriamo i terribili effetti  che questo evento provova sulle regioni costiere sulle quali si abbatte. A  sinistra è riportato l'ideogramma giapponese che indica il termine tsunami:  nella parte superiore il carattere tsu che significa porto e nella parte inferiore il  carattere nami, il cui significato è onda. A destra una eloquente  immagiune delle devastanti conseguenze dello tsunami del 1946 a Hilo (Hawaii): è la  sede di un circolo politico completamente distrutta dall'impeto dell'onda. Nel passato, talvolta, il termine è stato tradotto con "onde di  marea", ma tale traduzione è fuorviante. E' certamente vero che la  situazione di alta o bassa marea presente nel momento in cui uno tsunami  colpisce può influenzare notevolmente la sua azione, ma si tratta di due  fenomeni fisici ben distinti e assolutamente non correlati. Il verificarsi  delle maree, inoltre, è un evento completamente prevedibile in quanto dipende  dall'azione gravitazionale del nostro satellite, mentre uno tsunami non ha  tempi prefissati e scadenze ben precise.. A differenza di quanto si verifica  per le maree, lo sviluppo di uno tsunami è caratterizzato da un tempo di  preavviso molto limitato, e questo non fa che aumentare notevolmente la  pericolosità della sua azione. Un altro termine (impiegato soprattutto nella  comunità scientifica) con il quale ci si riferiva a questo fenomeno era quello  di "onda sismica marina", ma anch'esso non è  completamente corretto poichè quella sismica è solamente una delle possibili  origini di uno tsunami. Anche la traduzione con il termine italiano di "maremoto"  è, per analogo motivo, parzialmente fuorviante, come suggerisce l'etimologia  stessa del termine che richiama espressamente ad un fenomeno di natura sismica.  L'origine di uno tsunami non va, dunque, ricercata solamente in fenomeni  sismici: in generale si può affermare che qualunque causa in grado di  perturbare verticalmente una colonna d'acqua sufficientemente grande muovendola  dalla sua posizione di equilibrio è in grado di originare uno tsunami; dunque  possono a pieno titolo diventare causa di tsunami anche eruzioni vulcaniche,  esplosioni, frane e movimenti tettonici sottomarini. A queste cause di origine  terrestre ne va aggiunta anche una esterna, costituita dal possibile impatto  con oggetti cosmici. Proprio per evitare le possibili inesattezze legate ai  diversi termini impiegati per indicare il fenomeno è stato deciso, nel corso di  una convegno scientifico internazionale tenutosi nel 1963, di introdurre la  parola giapponese "tsunami" quale denominazione ufficiale.  Uno tsunami è profondamente differente dal comune moto ondoso che ha la sua  origine nell'azione dei venti in mare aperto e come epilogo il ritmico,  rilassante - e talvolta poetico - infrangersi delle onde sulla battigia delle  coste. Nel classico moto ondoso le onde sono caratterizzate da un periodo (intervallo di tempo tra due onde successive) solitamente di 5-20 secondi e da  una lunghezza d'onda (distanza tra due creste successive) di circa 100-200 metri; le onde di uno  tsunami,invece, hanno un periodo dell'ordine di un'ora e una lunghezza d'onda  che può raggiungere anche il valore di alcune centinaia di km. Ma i parametri  fisici che più di ogni altro caratterizzano le onde di uno tsunami (chiamate  anche "shallow-water waves" - onde d'acqua bassa - in quanto  la loro lunghezza d'onda è di gran lunga maggiore della profondità dell'acqua  in cui si sviluppano) sono la loro modesta ampiezza (altezza rispetto al  piano medio della superficie marina) e l'elevata velocità con la quale  si propagano in mare aperto. La velocità v di propagazione delle  "shallow-water waves" è data dalla formula: 
incautamente, si è attardato ad  osservare lo strano fenomeno. L'entità finale dell'evento è,  evidentemente, legata in modo molto stretto all'energia trasmessa all'oceano  dall'evento scatenante: nel caso di terremoto, ad esempio, sarà la sua  magnitudine a determinare l'ampiezza iniziale del moto ondoso. Ma hanno la loro  importanza anche altre caratteristiche quali la rapidità delle deformazioni del  fondo marino, il profilo batimetrico e la profondità del mare nella zona  dell'epicentro. Nella figura viene illustrato in modo schematico il fenomeno  dello tsunami: l'immagine, naturalmente, è solamente indicativa e dunque non ha  alcuna pretesa di mostrare i fenomeni ondosi in scala. L'intento è quello di  descrivere la situazione che si viene a creare allorché un'onda di tsunami  proveniente dal mare aperto si avvicina alla costa, si innesca il fenomeno del  runup ed una montagna d'acqua si abbatte violentemente sulla regione costiera.  In mare aperto (1) l'onda è caratterizzata da una limitata  ampiezza. Al diminuire della profondità del fondale (2) si  innesca il fenomeno del runup (3) ed il muro d'acqua si  riversa sulla costa (4) spingendosi nell'entroterra. Una  vista tridimensionale del fenomeno può consentirci di comprendere meglio il  susseguirsi delle drammatiche fasi finali di uno tsunami. Il disegno è un adattamento  di quello riportato nell'articolo Tsunami! di F.I. Gonzalez pubblicato  sulla rivista Scientific American del maggio 1999. Alcuni  dati raccolti in occasione dello tsunami che si è abbattuto sulle Hawaii nel 1960 a seguito del terremoto  del 22 maggio in Cile ci possono dare un'idea più concreta della violenza del  fenomeno.
  Il terremoto venne stimato di magnitudine 8.6 ed il suo epicentro fu  localizzato al largo delle coste del Cile centro-meridionale, ad una profondità  di 33 km.  I primi effetti devastanti dello tsunami si manifestarono, come è ovvio, sulle  coste cilene nei minuti immediatamente seguenti alla registrazione del  terremoto, ma le onde innescate dall'evento stavano ormai propagandosi a grande  velocità anche in direzione opposta, raggiungendo, circa 15 ore dopo, le coste  hawaiane distanti 10.000   km dall'epicentro. Il porto di Hilo (città collocata sulle coste della maggiore delle isole dell'arcipelago  hawaiano, a 300 
km in linea d'aria dalla capitale  Honolulu, in direzione sud-est) fu sommerso dall'oceano, che si abbatté sulle  costruzioni con un fronte d'acqua alto 10.7 metri: un'idea della violenza del  fenomeno si può avere osservando i supporti dei parchimetri, piegati dalla  forza dell'onda, ed il desolante spettacolo delle costruzioni abbattute. Non si  è trattato, però, di un evento assolutamente insolito ed unico: nella storia di  queste isole, infatti, data la posizione particolarmente esposta, si sono  verificati spesso tali fenomeni di violenta interazione tra mare e terra e  proprio la città di Hilo è stata frequentemente interessata da onde di tsunami,  tanto da meritarsi la reputazione di "capitale dello tsunami" degli  Stati Uniti. Lo tsunami più distruttivo nella storia recente di questo  arcipelago si è verificato il 1 aprile 1946, in occasione del terremoto di magnitudine  7.1 con epicentro in Alaska (Isole Aleutine); il massimo runup misurato fu di 16.8 metri a Pololu  Valley (Big Island), con le onde che, in alcune aree, penetrarono per quasi un  chilometro nella terraferma. Proprio per ridurre al minimo la perdita di vite  umane nell'arcipelago delle Hawaii e nei propri territori del Pacifico, gli  Stati Uniti hanno attivato, a partire dal 1948, il Pacific Tsunami Warning  System, un sistema di osservazione e monitoraggio che, combinando rilevazioni  sismologiche con misurazioni dei cambiamenti del livello dell'acqua in stazioni  di rilevamento sparpagliate nell'Oceano Pacifico, è in grado di prevedere il  possibile insorgere di uno tsunami e, in caso di pericolo, lanciare l'allarme  per attivare le procedure di evacuazione della popolazione. Ma non è  sicuramente questa l'unica zona del pianeta in cui uno tsunami può portare il  suo carico di devastazione, come eloquentemente dimostra quanto è accaduto il  17 luglio 1998 in  Nuova Guinea e come testimoniano i ripetuti episodi che hanno funestato le  isole del Giappone. Certo è che le Hawaii, con la loro collocazione geografica  che le vede immediatamente a ridosso della zona sismicamente più attiva  dell'intero pianeta, il cosiddetto "anello di fuoco" situato  nell'Oceano Pacifico, sono fatalmente destinate a sperimentare più di ogni  altro luogo le conseguenze degli eventi sismici.
Fonte: http://www.maella.it/Download/Eventi%20naturali%20-%20Tsunami%2026-12-2004.doc
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