Virgilio bucoliche traduzione da latino in italiano

 


 

Virgilio bucoliche traduzione da latino in italiano

 

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Virgilio bucoliche traduzione da latino in italiano

 

Virgilio

Bucolica I
Latino
MELIBEO
Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui Musam meditaris avena;
nos patriae fines et dulcia linquimus arva:
nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas.

TITIRO

O Meliboee, deus nobis haec otia fecit:
namque erit ille mihi semper deus; illius aram
saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus.
Ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum
ludere, quae vellem, calamo permisit agresti

MELIBEO

Non equidem invideo; miror magis: undique totis
usque adeo turbatur agris. En, ipse capellas
protinus aeger ago; hanc etiam vix, Tityre, duco:
hic inter densas corylos modo namque gemellos,
spem gregis, ah, silice in nuda conixa reliquit.
Saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset,
de caelo tactas memini praedicere quercus.
Sed tamen, iste deus qui sit, da, Tityre, nobis.

TITIRO

Urbem, quam dicunt Romam, Meliboee, putavi
stultus ego huic nostrae similem, quo saepe solemus
pastores ovium teneros depellere fetus:
sic canibus catulos similis, sic matribus haedos
noram, sic parvis componere magna solebam:
verum haec tantum alias inter caput extulit urbes,
quantum lenta solent inter viburna cupressi.

MELIBEO

Et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi?
TITIRO
Libertas; quae sera, tamen respexit inertem,
candidior postquam tondenti barba cadebat;
respexit tamen, et longo post tempore venit,
postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit:
namque, fatebor enim, dum me Galatea tenebat,
nec spes libertatis erat, nec cura peculi:
quamvis multa meis exiret victima saeptis,
pinguis et ingratae premeretur caseus urbi,
non umquam gravis aere domum mihi dextra redibat.

MELIBEO
Mirabar, quid maesta deos, Amarylli, vocares,
cui pendere sua patereris in arbore poma:
Tityrus hinc aberat. Ipsae te, Tityre, pinus,
ipsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant.
TITIRO
Quid facerem? Neque servitio me exire licebat,
nec tam praesentis alibi cognoscere divos.
Hic illum vidi iuvenem, Meliboee, quotannis
bis senos cui nostra dies altaria fumant;
hic mihi responsum primus dedit ille petenti:
<>.

MELIBEO
Fortunate senex, ergo tua rura manebunt,
et tibi magna satis, quamvis lapis omnia nudus
limosoque palus obducat pascua iunco.
Non insueta gravis temptabunt pabula fetas,
nec mala vicini pecoris contagia laedent.
Fortunate senex, hic, inter flumina nota
et fontis sacros, frigus captabis opacum;
Hinc tibi, quae semper, vicino ab limite, saepes
Hyblaeis apibus florem depasta salicti
saepe levi somnum suadebit inire susurro;
hinc alta sub rupe canet frondator ad auras;
nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes,
nec gemere aeria cessabit turtur ab ulmo.
TITIRO
Ante leves ergo pascentur in aequore cervi,
et freta destituent nudos in litore piscis,
ante pererratis amborum finibus exsul
aut Ararim Parthus bibet, aut Germania Tigrim,
quam nostro illius labatur pectore voltus.
MELIBEO
At nos hinc alii sitientis ibimus Afros,
pars Scythiam et rapidum Cretae veniemus Oaxen,
et penitus toto divisos orbe Britannos.
En umquam patrios longo post tempore finis,
pauperis et tuguri congestum caespite culmen,
post aliquot mea regna videns mirabor aristas?
Impius haec tam culta novalia miles habebit,
barbarus has segetes; En, quo discordia civis
produxit miseros: His nos consevimus agros!
Insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vitis.
Ite meae, felix quondam pecus, ite capellae.
Non ego vos posthac, viridi proiectus in antro,
dumosa pendere procul de rupe videbo;
carmina nulla canam; non, me pascente, capellae,
florentem cytisum et salices carpetis amaras.
TITIRO
Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem
fronde super viridi: sunt nobis mitia poma,
castaneae molles, et pressi copia lactis;
et iam summa procul villarum culmina fumant,
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.

 

Italiano
MELIBEO

Titiro, tu sdraiato al riparo di un grande faggio
moduli una canzone boschereccia sulla umile zampogna;
noi abbandoniamo i territori della patria e i dolci campi,
noi fuggiamo dalla patria; tu, Titiro, placido all\'ombra
fai risuonare i boschi del nome della bella Amarilli.
TITIRO
O Melibeo, un dio ci ha dato questa pace:
egli infatti sarà sempre per me come un dio; un tenero agnello
tratto dai nostri ovili bagnerà sovente di sangue il suo altare.
Lui ha concesso che pascolino le mie giovenche, come vedi, e che io
suoni le canzoni preferite con lo zufolo agreste.
MELIBEO
Davvero non provo invidia; mi meraviglio piuttosto: a tal punto
dovunque c\'è scompiglio in tutta la campagna. Ecco, io stesso afflitto
spingo innanzi le caprette; anche questa trascino a fatica, Titiro:
qui or ora tra i fitti nocciuoli,ha lasciato due gemelli,
speranza del gregge, partorendo ohimè sulla nuda pietra.
Spesso questa sciagura ci predissero, ricordo, le querce colpite dal fulmine,
se si fosse stati meno improvvidi.
Ma dicci come sia questo dio, Titiro.
TITIRO
Melibeo, io sciocco credetti che la città che chiamano Roma
fosse simile a questa nostra, dove noi pastori siamo soliti
menare di frequente gli agnelli appena nati.
Così sapevo che i cagnolini sono simili alle cagne, i capretti alle madri;
così ero solito paragonare le grandi alle piccole cose.
Ma questa di tanto ha levato il capo sulle altre città,
di quanto si levano i cipressi sui flessibili vincastri.
MELIBEO
E quale fu la ragione così importante che ti spinse a vedere Roma?
TITIRO
La libertà, che sebbene tardi, tuttavia volse lo sguardo verso di me
nonostante la mia indolenza quando tagliavo la mia barba, cadeva alquanto bianca,
mi guardò tuttavia e sopraggiunse dopo molto tempo,
dopo che Amarilli mi tiene in suo potere,e Galatea mi ha abbandonato.
Infatti, lo confesserò, per tutto il tempo in cui fui legato a Galatea,
non avevo speranza di libertà, né cura del risparmio.
Per quanto numerose uscissero le vittime dai miei ovili,
e per quanto grasso formaggio si coagulasse per la città che non ricompensa,
la mia destra non ritornava mai a casa carica di denaro.
MELIBEO
Mi chiedevo sorpreso perché, Amarilli, invocassi mesta gli dei,
per chi lasciassi pendere sul loro albero i frutti:
Titiro era lontano di qui. Anche i pini, Titiro,
anche le fonti, anche questi cespugli ti invocavano.
TITIRO

 

Che dovevo fare? Non mi era concesso di uscire di schiavitù,
né trovare altrove divinità così propizie.
Là io vidi quel giovane, Melibeo, in onore
del quale ogni anno i nostri altari fumano per dodici giorni;
là alle mie domande lui per primo rispose:
«Pascolate come innanzi i buoi, ragazzi, allevate i tori».
MELIBEO
Vecchio fortunato, dunque tuoi rimarranno i campi,
abbastanza grandi per te anche se la nuda pietra
e la palude col giunco limaccioso ricoprono tutti i pascoli.
Ignote pasture non metteranno a repentaglio le madri sfinite,
né le danneggerà il pericoloso contagio di un gregge vicino.
Vecchio fortunato, qui fra fiumi noti
e sacre sorgenti prenderai il fresco ombroso;
di qui dal vicino confine con la siepe,
di cui sempre le api iblee succhiano il fiore del salice
da questa parte con lieve sussurro spesso ti inviterà come sempre
ti inviterà spesso a prendere sonno con il suo lieve ronzio.
da questa parte sotto l\'alta rupe canterà all\'aria il potatore;
né cesseranno di tubare le colombe, a te care,
o di gemere dall\'alto olmo la tortora.
TITIRO
Perciò gli agili cervi pascoleranno nell\'etere
e i flutti lasceranno a secco sul lido i pesci,
il Parto berrà l\'Arari o la Germania il Tigri
errando esuli fuori dei loro territori,
prima che sia cancellato dal nostro cuore il volto di lui.
MELIBEO
Ma di noi alcuni raggiungeranno da qui gli Africani assetati,
altri arriveranno in Scizia e al torbido Oasse
e ai Britanni del tutto fuori del mondo.
Accadrà mai che da qui a lungo tempo io possa rivedere i confini patri
e ammirare il tetto della povera capanna costruito di zolle
e dopo qualche stagione il mio regno?
Un empio soldato possiederà questi campi così ben coltivati,
un barbaro queste messi: ecco fino a qual punto la discordia
ha trascinato gli sventurati cittadini; per costoro noi abbiamo seminato i campi!
Innesta ora, Melibeo, i peri, disponi in filari le viti!
Avanti mio gregge un tempo felice, avanti caprette.
D\'ora in poi io non vi vedrò più, sdraiato in un verde antro,
pendere di lontano da una rupe coperta di rovi;
non canterò più canzoni; e non più con me pastore, caprette,
brucherete il trifoglio fiorito e il salice amaro.
TITIRO
Potevi tuttavia riposare qui con me per questa notte
sulle foglie verdi: ho mele mature,
castagne molli e formaggio abbondante,
e già di lontano fumano i tetti delle cascine
e più grandi scendono dagli alti monti le ombre. 

Bucolica IV
Latino
Sicelides Musae, paulo maiora canamus.
non omnis arbusta iuvant humilesque myricae;
si canimus silvas, silvae sint consule dignae.

Ultima Cumaei venit iam carminis aetas;
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
tu modo nascenti puero, quo ferrea primum
desinet ac toto surget gens aurea mundo,
casta fave Lucina; tuus iam regnat Apollo.

Teque adeo decus hoc aevi, te consule, inibit,
Pollio, et incipient magni procedere menses;
te duce, si qua manent sceleris vestigia nostri,
inrita perpetua solvent formidine terras.
ille deum vitam accipiet divisque videbit
permixtos heroas et ipse videbitur illis
pacatumque reget patriis virtutibus orbem.

At tibi prima, puer, nullo munuscula cultu
errantis hederas passim cum baccare tellus
mixtaque ridenti colocasia fundet acantho.
ipsae lacte domum referent distenta capellae
ubera nec magnos metuent armenta leones;
ipsa tibi blandos fundent cunabula flores.
occidet et serpens et fallax herba veneni
occidet; Assyrium vulgo nascetur amomum.

At simul heroum laudes et facta parentis
iam legere et quae sit poteris cognoscere virtus,
molli paulatim flavescet campus arista
incultisque rubens pendebit sentibus uva
et durae quercus sudabunt roscida mella.

Pauca tamen suberunt priscae vestigia fraudis,
quae temptare Thetin ratibus, quae cingere muris
oppida, quae iubeant telluri infindere sulcos.
alter erit tum Tiphys et altera quae vehat Argo
delectos heroas; erunt etiam altera bella
atque iterum ad Troiam magnus mittetur Achilles.

Hinc, ubi iam firmata virum te fecerit aetas,
cedet et ipse mari vector nec nautica pinus
mutabit merces; omnis feret omnia tellus.
non rastros patietur humus, non vinea falcem,
robustus quoque iam tauris iuga solvet arator;
nec varios discet mentiri lana colores,
ipse sed in pratis aries iam suave rubenti
murice, iam croceo mutabit vellera luto,
sponte sua sandyx pascentis vestiet agnos.

\'Talia saecla\' suis dixerunt \'currite\' fusis
concordes stabili fatorum numine Parcae.

Adgredere o magnos—aderit iam tempus—honores,
cara deum suboles, magnum Iovis incrementum.
aspice convexo nutantem pondere mundum,
terrasque tractusque maris caelumque profundum;
aspice, venturo laetantur ut omnia saeclo.

O mihi tum longae maneat pars ultima vitae,
spiritus et quantum sat erit tua dicere facta:
non me carminibus vincat nec Thracius Orpheus
nec Linus, huic mater quamvis atque huic pater adsit,
Orphei Calliopea, Lino formosus Apollo.
Pan etiam, Arcadia mecum si iudice certet,
Pan etiam Arcadia dicat se iudice victum.

Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem;
matri longa decem tulerunt fastidia menses.
incipe, parve puer. qui non risere parenti,
nec deus hunc mensa dea nec dignata cubili est.

 

Italiano
Bucoliche
Ecloga IV
Muse siciliane, cantiamo le cose un pò più grandi!
Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici:
se cantiamo le selve, le selve siano degne del console.
E già arrivata l\'utlima età della poesia cumana;
il grande ordine dei secoli nasce dall\'inizio.
Già ritorna la Vergine, ritornano i regni Saturni,
già una nuova progenie viene scesa dll\'alto cielo.
Tu,casta Lucina, aiuta il fanciullo nascente, con il quale
la gente insensibile scomparirà per prima
e su tutto il mondo sorgerà una stirpe aurea:
il tuo Apollo già regna.
Con te console, o Pollione, inizierà questo decoro dell\'età
e comineranno a trascorrere i grandi mesi;
con te guida, se alcune tracce della nostra scelleratezza rimarranno,
dissolte, libereranno la terra dalla paura perpetua.
Elle prenderà la vida degli dei e vedrà gli eroi
misti agli dei e egli stesso lo sembrerà a loro,
e regnerà il mondo pacificato dalle (con le) virtù paterne.
Ma a te, fanciullo, la terra spargerà
i primi piccoli doni con nessuna coltivazione,
le edere erranti dappertutto con il baccare
e la colocasia mista al ridente acanto.
Le stesse caprette (ti) porteranno a casa le mammelle
cariche di latte, e gli armenti non temeranno i grandi leoni.
Le stesse culle sprgeranno per te teneri fiori.
Il serpente morirà, e la fallace erba del veleno
morirà; nascerà dappertutto l\'amomo assiro.
Ma contemporaneamente potrai già leggere le lodi degli eroi
e le imprese del genitore e (potrai) conoscere quale sia la virtù,
il campo biondeggerà a poco a poco per la molle spiga,
e l\'uva rossa penderà dai rovi incolti,
e le dure querce suderanno miele rugiadoso.
Tuttavia resteranno poche tracce della vecchia frode,
che comandino di attaccare Teti con le imbarcazioni,
di cingere le città con le mura, di aprire solchi nella terra.
Ci sarà un altro tifi, e una altra Argo che trasporti
gli eroi prescelti; ci saranno anche altre guerre
e Il grande achille sarà mandato di nuovo a Troia.
Qui, quando l\'eta stabilita ti avrà reso uomo,
lo stesso mercante si allontanerà dal mare:
tutta la terra porterà tutte le cose.
La terra non patirà i rastrelli, nè la vigna la falce,
anche il robusto aratore scioglierà i gioghi ai tori;
e la lana non imparerà a mentirei vari colori,
ma lo stesso ariete nei prati muterà soavemente
i velli giallo argilla con il rosso porpora;
di sua spontanea volontà il carminio vestirà gli agnelli che pascolano.
Le Prache, concordi con lo stabile corso dei fati,
dissero ai loro fusi:"Accorrete, tali secoli".
Raggiungi i grandi onori (il tempo ci sarà già)
cara prole digli dei, grande incremeto di giove!
Guarda il mondo, trabballante per il peso convesso,
e la terra e i tratti di mare e il cielo profondo:
guarda affinchè nel prossimo secolo tutte le cose siano liete.
A me resti l\'ultima parte di una luinga vita,
lo spirito e quanto sarà necessario per dire le tue imprese:
in poesie non mi vince nè il Trace Orfeo, nè Lino,
sebbene questo abbia una madre e quest\'altro un padre,
Orfeo Calliope, Lino il formoso Apollo.
Anche Pan, se gareggiasse con me con Arcadia giudice,
anche Pan si direbbe vinco con Arcadia giudice.
Comincia, piccolo fanciullo, a conoscere la madre con il riso
(dieci mesi portarono lunghi fastidi alla madre).
Comincia, piccolo fanciullo: colo i quali non risero con il genitore,
il dio non li degna della mensa,
nè la dea del letto. 

Libro 1, vv. 461-514
Latino
Denique quid vesper serus vehat, unde serenas
ventus agat nubes, quid cogitet humidus Auster,
sol tibi signa dabit. Solem quis dicere falsum
audeat. Ille etiam caecos instare tumultus
saepe monet fraudemque et operta tumescere bella.
Ille etiam exstincto miseratus Caesare Romam,
cum caput obscura nitidum ferrugine texit
inpiaque aeternam timuerunt saecula noctem.
Tempore quamquam illo tellus quoque et aequora ponti
obscenaeque canes inportunaeque volucres
signa dabant. Quotiens Cyclopum effervere in agros
vidimus undantem ruptis fornacibus Aetnam
flammarumque globos liquefactaque volvere saxa!
Armorum sonitum toto Germania caelo
audiit, insolitis tremuerunt motibus Alpes.
Vox quoque per lucos volgo exaudita silentis
ingens et simulacra modis pallentia miris
visa sub obscurum noctis, pecudesque locutae,
infandum! sistunt amnes terraeque dehiscunt
et maestum inlacrimat templis ebur aeraque sudant.
Proluit insano contorquens vertice silvas
fluviorum rex Eridanus camposque per omnis
cum stabulis armenta tulit. Nec tempore eodem
tristibus aut extis fibrae adparere minaces
aut puteis manare cruor cessavit et altae
per noctem resonare lupis ululantibus urbes.
Non alias caelo ceciderunt plura sereno
fulgura nec diri totiens arsere cometae.
ergo inter sese paribus concurrere telis
Romanas acies iterum videre Philippi;
nec fuit indignum superis, bis sanguine nostro
Emathiam et latos Haemi pinguescere campos.
Scilicet et tempus veniet, cum finibus illis
agricola incurvo terram molitus aratro
exesa inveniet scabra robigine pila
aut gravibus rastris galeas pulsabit inanis
grandiaque effossis mirabitur ossa sepulchris.
Di patrii, Indigetes, et romule Vestaque mater,
quae Tuscum Tiberim et Romana Palatia servas,
hunc saltem everso iuvenem succurrere saeclo
ne prohibete! Satis iam pridem sanguine nostro
Laomedonteae luimus periuria Troiae;
iam pridem nobis caeli te regia, Caesar,
invidet atque hominum queritur curare triumphos;
quippe ubi fas versum atque nefas: tot bella per orbem,
tam multae scelerum facies; non ullus aratro
dignus honos, squalent abductis arva colonis
et curvae rigidum falces conflantur in ensem.
Hinc movet Euphrates, illinc Germania bellum;
vicinae ruptis inter se legibus urbes
arma ferunt; saevit toto Mars inpius orbe;
ut cum carceribus sese effudere quadrigae,
addunt in spatia et frustra retinacula tendens
fertur equis auriga neque audit currus habenas.

 

 

Italiano
Finalmente il sole darà segnali a te (sopra) che cosa il vespero serale arrechi, donde il vento spinga le nuvole che portano il sereno, che cosa l\'umido Scirocco mediti. Chi oserebbe chiamare il sole falso? Esso avvisa inoltre spesso che sono imminenti i clandestini tumulti, e che si preparano la frode e le nascoste guerre.
Esso inoltre ebbe compassione di Roma dopo che fu ucciso Cesare, quando coprì il capo lucente di fuligine oscura, e la generazione empia temette un\'eterna notte. Sebbene in quel tempo anche la terra e le onde del mare e le cagne oscene e gli uccelli che volavano fuori di tempo (importunae) davano segnali. Quante volte abbiano visto l\'Etna traboccante ribollire nei campi dei Ciclopi; avendo rotti i crateri, e vomitare globi di fiamme e pietre liquefatte! La Germania udì suoni di armi per tutto il cielo, le Alpi tremarono per movimenti insoliti. Anche una voce fortissima fu udita spesso per i boschi silenziosi, e fantasmi pallidi in modi strani furono visti sotto le tenebre della notte, e il bestiame parlò, cosa da non dirsi! I fiumi si fermano e la terra si apre, e l\'avorio mesto piange e i bronzi sudano nei templi. Il Po, re dei fiumi, straripò travolgendo le selve nei pazzi vortici, e portò gli armenti con le stalle per tutti i campi. Né in quello stesso tempo fibre minacciose (cessarono) di apparire nelle viscere di malaugurio, o il sangue cessò di uscire dai pozzi, o le alte città di risuonare nottetempo per lupi che urlavano. Molti fulmini non caddero altre volte quando il cielo era sereno, né comete minacciose risplendettero tante volte. Laonde Filippi vide le schiere romane azzufarsi tra di loro per la seconda volta con armi uguali; né fu spiacevole agli dei che l\'Emazia e i piani spaziosi dell\'Emo si facessero grassi due volte con il nostro sangue. Certamente verrà anche un tempo in cui l\'agricoltore, lavorando in quelle regioni la terra con l\'aratro ricurvo, troverà aste corrose dalla scabra ruggine, o percuoterà elmi vuoti coi rastrelli pesanti, e si meraviglierà delle grandi ossa, avendo scavate delle tombe.
O dei patrii, o eroi protettori del paese, e o Romolo e tu madre Vesta, che proteggi il Tevere toscano e il Palatino romano, non impedite che almeno questo giovane soccorra al secolo rovinato! Già da lungo tempo noi scontammo abbastanza con il nostro sangue gli spergiuri di Troia regno di Laomedonte; già da lungo tempo la reggia del cielo invidia te, o Cesare, a noi, e si lagna che tu curi i trionfi degli uomini: poiché quaggiù il bene e il male è confuso: tante guerre sono per il mondo, tante sorta di delitti; nessun onore degno all\'aratro; i campi sono squallidi essendo stati condotti via i coltivatori, e le falci ricurve si trasformano in spade rigide. Di qua l\'Eufrate muove guerra, di là la Germania, le città vicine portano guerra dopo aver rotto le alleanze tra di loro; il crudele Marte infuria in tutto il mondo: come le quadrighe quando si sono lanciate fuori dai ripari, aumentano di velocità a ogni giro, e il cocchiere, che tira i freni inutilmente, è trasportato dai cavalli, e il cocchio non sente più le briglie.


Vv. 485-527 - Orfeo ed Euridice
Latino
Iamque pedem referens casus evaserat omnes;
redditaque Eurydice superas veniebat ad auras,
pone sequens, namque hanc dederat Proserpina legem,
cum subita incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes.
Restitit Eurydicenque suam iam luce sub ipsa
immemor heu! victusque animi respexit. Ibi omnis
effusus labor atque immitis rupta tyranni
foedera, terque fragor stagnis auditus Avernis.
Illa, Quis et me, inquit, miseram et te perdidit, Orpheu,
quis tantus furor? En iterum crudelia retro
Fata vocant, conditque natantia lumina somnus.
Iamque vale: feror ingenti circumdata nocte
invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas!
dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
commixtus tenues, fugit diversa, neque illum,
prensantem nequiquam umbras et multa volentem
dicere, praeterea vidit, nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem.
Quid faceret? Quo se rapta bis coniuge ferret?
Quo fletu Manis, quae numina voce moveret?
Illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba.
Septem illum totos perhibent ex ordine menses
rupe sub aëria deserti ad Strymonis undam
flesse sibi et gelidis haec evolvisse sub antris
mulcentem tigres et agentem carmine quercus;
qualis populea maerens philomela sub umbra
amissos queritur fetus, quos durus arator
observans nido implumes detraxit; at illa
flet noctem ramoque sedens miserabile carmen
integrat et maestis late loca questibus implet.
Nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei.
Solus Hyperboreas glacies Tanaimque nivalem
arvaque Rhipaeis numquam viduata pruinis
lustrabat raptam Eurydicen atque inrita Ditis
dona querens; spretae Ciconum quo munere matres
inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi
discerptum latos iuvenem sparsere per agros.
Tum quoque marmorea caput a cervice revulsum
gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus
volveret, Eurydicen vox ipsa et frigida lingua 525
ah miseram Eurydicen! anima fugiente vocabat:
Eurydicen toto referebant flumine ripae.

 

Italiano
E già aveva oltrepassato tutte le difficoltà indietreggiando il passoo, ed Euridice, ritornata procedeva verso il cielo superiore sequendolo dietro (e infatti Proserpina aveva dato questo comando, quando una improvvisa pazzia prese l\'icauto amante, certamente da perdonare, se i Mani sapesero perdonare: si fermò, e guardò, immemore Oh!e vinto nell\'animo, la sua Euridice appena sotto la stessa luce. Qui tutta la fatica fu sciupata e i patti dell\'aspro tiranno furono rotti, tre volte un rumore fu udito dal lago averno. Ella disse: "Chi rovinò me misera e te, oh Orfeo, quale pazzia così grande? Ecco che di nuovo i crudeli fati mi chiamano indietro, e il sonno fa cessare le luci naviganti. E ormai addio: sono portata, circondata, dalla grande notte e mentre tendo a te , oh! non tua, lr mani invelide". disse e, giratasi, immeditamente si allontanò dagli occhi, come il tenue fumo misto nell\'aria, e non vide lui che afferrava inutilmente le ombre e che voleva direm molte cose; nè il nocchiero dell\'Orco accettò di fargli passare di nuovo la palude messa davanti. Che cosa potrebbe fare? dove si trascinerà, rapita la coniuge 2 volte (dopo che la coniuge fu rapita per 2 volte)? con quale lamento potrebbe commuovere i Mani, quali numi con la voce? Ella già navigava nella fredda barchetta stigia. Narrano che egli si lamentò di se stesso per sette interi mesi secondo l\'ordine sotto una rupe di aria presso l\'onda dello Strimone, e che ricordò queste sotto gli gelidi antri mentre placava le tigri e parlava alle querce con una poesia: come il dolente usignolo si lamenta sotto l\'ombra del pioppo dei figli persi, che il duro aratoresottrasse quardando nel nido implume; ma ella piange la notte, sedendo sul ramo ricomincia il canto meraviglioso, e riempe largamente di mesti lameti i luoghi. Nessuna Venere, nessun canto nuziale piegò l\'animo: da solo rischiara i ghiacci iperborei e il nevoso Tanai e le regioni mai prive dell\'inverno rifeo, lamentandosi della rapita Euridice e dei doni strappati da Dite. Le madri disprezzate dei Ciconi cosparsero con quel regalo il giovane, fatto a pezzi attraverso gli spazi larghi, tra le cose sacre degli dei e nell\'orgia notturna di Bacco. Allora,anche mentre Eagro Ebro volgeva il capo divelto dalla marmorea cervice, mentre lo portava nel mezzo dei gorghi, la stessa voce e la fredda lingua chiamavano Euridice, ah! misera Euridice: su tutto il fiume le rive riferivano "Euridice". 

 

Fonte: http://digilander.libero.it/tuttorecensioni/enciclopedia/virgilio.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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