Diritto del lavoro

 


 

Diritto del lavoro

 

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Diritto del lavoro

1. NOZIONI DI BASE

 

Diritto: insieme di norme che disciplinano una determinata materia.

  1. Diritto penale: fa riferimento al codice penale, il quale raccoglie le leggi che regolano i reati (ad esempio il furto)
  2. Diritto amministrativo: norme che regolano il rapporto fra lo stato (o gli enti pubblici) e il cittadino (ad esempio come devono essere composti i consigli comunali, quali sono i poteri delle regioni…)
  3. Diritto civile: insieme di norme che regolano il rapporto fra due o più cittadini o fra un cittadino e lo stato quando questo si comporta come “privato cittadino”. Fanno capo al diritto civile il diritto commerciale (norme che regolano l’esercizio di una attività in forma societaria), il diritto del lavoro… 

Fonti legislative: quando si affronta un problema giuridico si va alla ricerca delle fonti legislative.

  • si guarda cosa dice la legge in materia (leggi emanate dal legislatore)
  • si guarda cosa dice la dottrina (interpretazioni dei docenti universitari di diritto), cioè la teoria
  • si guarda cosa dicono le sentenze (emanate dai giudici), cioè la pratica

Indicazione delle fonti: l’articolo 1 delle disposizioni preliminari al codice civile stabilisce quali sono le fonti del diritto:

  • le LEGGI;
  • i REGOLAMENTI;
  • le NORME CORPORATIVE (CONTRATTI COLLETTIVI);
  • gli USI.

Il Codice Civile risale al ’42, non era ancora stata scritta la COSTITUZIONE (emanata nel ’47, attiva dal ’48); quindi tra le fonti va inclusa la Costituzione e va collocata al vertice.

Leggi ordinarie (l.): provvedimento adottato a maggioranza dai due rami del parlamento (prima dalla Camera e poi dal Senato, o viceversa).

Atti con forza di legge: quando vi sono materie sulle quali il parlamento non vuole legiferare, il parlamento stesso emana una legge delega con la quale delega il governo ad emanare un atto legislativo che ha la stessa “forza” di una legge ordinaria, parliamo in questo caso di decreti legislativi (d.lgs). Quando invece ci sono situazioni di urgenza o necessità il governo è delegato ad emanare un decreto legge (d.l.) il quale dovrà essere riconvertito entro una certa scadenza (60gg dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) affinché diventi permanentemente vincolante, altrimenti decade con efficacia “ex tunc” (perde efficacia sin dall’inizio). Ha quindi la stessa “forza” di una legge ordinaria ma è precario e transitorio.
L., dlgs., d.l. sono sullo stesso livello, col termine “legge” li includiamo tutti.   

Abbiamo inoltre le leggi regionali che sono emanate dalle regioni; i regolamenti governativi, ministeriali e di altre autorità minori; i contratti collettivi (norme corporative); le consuetudini (usi).

Lo schema di riferimento va poi aggiornato con le FONTI COMUNITARIE, dovute all’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea (UE).

Legislazione della comunità europea: sono i regolamenti emanati dal parlamento europeo che vincolano immediatamente i cittadini appartenenti all’unione; le direttive self-executing emanate dal parlamento europeo che vincolano immediatamente i cittadini appartenenti all’unione; le direttive non self-executing emanate dal parlamento europeo che sono precettive per gli stati, ma non per i cittadini (vincolano gli stati membri ad adottarle con un provvedimento legislativo); le raccomandazioni (sono atti non vincolanti); le decisioni della corte di giustizia, cioè le sentenze dei giudici del tribunale europeo.
Tra le fonti vanno inserite le prime tre.

Norme del diritto internazionale: sono quelle generalmente riconosciute, norme banalmente riconosciute del vivere civile (v. art. 10  cost.); e quelle di origine pattizia, derivanti da accordi e patti fra stati diversi.

Norma giuridica: è astratta (si occupa di un caso astratto e non specifico) e generale (si applica alla generalità dei cittadini).

Sentenza: decide su un caso concreto e non ha caratteristiche di generalità, si applica solo alle parti in causa.

Gerarchia delle fonti:

  • costituzione italiana (COST)
  • norme del diritto internazionale generalmente riconosciute
  • regolamenti comunitari, direttive self-executing e decisioni generali
  • leggi ordinarie (L)
  • decreti legge (DL)
  • decreti legislativi (DLGS o DLGV)
  • norme del diritto internazionale di origine pattizia (ratificate con legge)
  • direttive comunitarie non self-executing
  • leggi regionali
  • regolamenti
  • contratti collettivi e individuali del lavoro
  • consuetudini

Esiste quindi una gerarchia tra le fonti del diritto: la fonte superiore prevale su quella inferiore. Nel diritto del lavoro vale il principio di favore: la fonte di grado superiore cede di fronte a quella di grado inferiore se più favorevole al lavoratore, salvo che per le leggi inderogabili.
Tale principio risulta difficilmente interpretabile; inoltre ci sono delle eccezioni a tale principio relativamente ai contratti collettivi che possono introdurre deroghe migliorative o peggiorative rispetto alla legge (v. tutela della professionalità vs tutela del posto di lavoro).

Diritto del lavoro in senso lato: risulta suddivisibile in tre parti.

  • diritto del lavoro in senso stretto (nascita,sviluppo e termine di un rapporto di lavoro)
  • diritto sindacale (sindacati e norme ad essi collegati)
  • diritto di previdenza sociale (pensioni)

Dottrina: vi sono professori universitari del diritto del lavoro, il cui compito è quello di studiare la legge e le sentenze dei giudici per potere trarre opportune considerazioni, è quindi costituita da libri nei quali possiamo trovare le interpretazioni della legge e delle sentenze dei giudici.

Giurisprudenza: insieme delle sentenze dei giudici.

Giudice:

  • penale (corte d’Assise, corte d’Assise d’appello…)
  • amministrativo (consiglio di stato, TAR= Tribunale Amministrativo Regionale,…)
  • civile
  • giudice di pace
  • giudice unico
    • funzione monocratica (ex pretore)
    • funzione collegiale (ex tribunale) con 3 giudici
  • corte d’appello (5 giudici)
  • suprema corte di cassazione (5 giudici, 7 se a sezioni unite)

Per stabilire quale è il giudice competente in una determinata causa ho tre diversi criteri:

  • competenza per valore
  • competenza per territorio
  • competenza per materia

Il giudice del lavoro è in primo grado il pretore e in secondo grado il tribunale (cioè il giudice unico); infatti il nostro ordinamento giuridico prevede due gradi di giudizio. Durante il primo grado il giudice guarda per la prima volta la causa ed emana una sentenza; facendo appello si va in secondo grado dove avviene un riesame della causa (chiesto dalla parte soccombente). Il pretore e il tribunale sono chiamati giudici del merito perché guardano i fatti ed applicano la legge. Esiste anche un terzo grado, svincolato dai precedenti, dove la suprema corte di cassazione (giudice di legittimità) è un garante, che non guarda come si sono svolti i fatti, ma si limita a controllare che, nel secondo grado siano state rispettate le regole e applicate le leggi.

 

2. LAVORATORE AUTONOMO, SUBORDINATO E PARASUBORDINATO

Il diritto del lavoro si applica soltanto al lavoratore subordinato. Il lavoratore, peraltro, può essere autonomo ovvero parasubordinato. I concetti di subordinazione e di autonomia non sono facilmente esprimibili, quindi la nostra costituzione non ha neanche cercato di definirli.

Tramite l’art. 2094 cod. civ. si definisce chi è il prestatore di lavoro subordinato: "è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro manuale o intellettuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore".
Da tale articolo si evince che l'obbligazione fondamentale del lavoratore è la prestazione lavorativa, mentre la prestazione fondamentale del datore di lavoro è la retribuzione, il quale detiene poi un potere direttivo e disciplinare nei confronti del lavoratore.

L’art. 2222 cod. civ. definisce il contratto d'opera: "quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente…". Qui, dunque, abbiamo il compimento di un'opera o di un servizio senza vincolo di subordinazione, da un lato e il pagamento di un corrispettivo, dall'altro lato.

Alla luce delle due norme, si capisce bene che l'elemento distintivo tra il lavoro subordinato ed il lavoro autonomo è dato rispettivamente dalla presenza ovvero dall'assenza del requisito della subordinazione. Ma che cos'è la subordinazione ? Il codice civile non lo dice. Né alcuna altra legge lo dice.

D'altra parte è importantissimo stabilire quand'è che il lavoro è autonomo e quand'è che è subordinato, perché - come si è detto - al lavoro subordinato si applica il diritto del lavoro (cioè quell'insieme di norme che prevedono una serie di importanti tutele a favore del lavoratore) mentre al lavoro autonomo non si applica il diritto del lavoro, ma il diritto civile in generale. Per essere più chiari ancora, e tanto per fare un esempio, se il lavoratore è autonomo, il committente deve soltanto pagare il corrispettivo; mentre se il lavoratore è subordinato, il datore di lavoro oltre alla retribuzione deve anche versare i contributi previdenziali, che rappresentano indicativamente quasi una ulteriore retribuzione.

La dottrina, allora, è intervenuta sul punto, dicendo che la subordinazione consiste nella eterodirezione, vale a dire nel fatto che il lavoratore subordinato deve osservare scrupolosamente le direttive impartite dal suo datore di lavoro (l'eterodirezione consiste quindi nella sottoposizione del lavoratore al potere direttivo dell'imprenditore). Il discorso, però, non è così semplice, perché è stato giustamente messo in luce che anche il lavoratore autonomo molto spesso deve osservare le direttive del suo committente. La dottrina, poi, ha evidenziato che il lavoratore subordinato è soggetto al potere disciplinare del datore di lavoro, mentre il lavoratore autonomo non è soggetto ad un potere disciplinare del committente.

Stante, dunque, la concreta difficoltà di distinguere tra autonomia e subordinazione, anche la giurisprudenza è intervenuta sul punto, individuando dei criteri (indici giurisprudenziali) distintivi per chiarire quando si è in presenza di lavoro autonomo o subordinato:

  • Il primo criterio definisce il lavoratore autonomo come il lavoratore che si impegna ad una obbligazione di risultato (fornisco il risultato della mia attività al committente, al suo completamento); il lavoratore subordinato come il lavoratore che si impegna ad una obbligazione di mezzi (momento per momento fornisco la mia attività al datore di lavoro).
  • Per il secondo criterio, si è in presenza di lavoro autonomo se fa capo al lavoratore un'organizzazione di impresa; in caso contrario si è in presenza di lavoro subordinato.
  • Per il terzo criterio, si è in presenza di lavoro autonomo se sul lavoratore ricade il rischio d’impresa, in caso contrario si è in presenza di lavoratore subordinato.
  • Per il quarto criterio, si è in presenza di lavoro autonomo se la retribuzione non è in funzione del tempo, se lo è invece abbiamo il lavoratore subordinato.
  • Per il quinto criterio, si è in presenza di lavoro autonomo se l’orario di lavoro è libero, se è fissato si parla di lavoratore subordinato.
  • Per il sesto criterio, si è in presenza di lavoratore autonomo se questo detiene la proprietà degli strumenti di lavoro, in caso contrario siamo in presenza di lavoratore subordinato.
  • Per il settimo criterio si ha lavoratore subordinato in caso di continuità temporale della prestazione, se manca questa continuità allora il lavoratore è autonomo.
  • L’ottavo criterio (introdotto a partire dal 1991) si basa sul nomen iuris (= nome che le parti hanno dato al contratto: contratto di lavoro autonomo ex art. 2222 cod. civ. oppure contratto di lavoro subordinato ex art. 2094 cod. civ.). Mentre in precedenza il nomen iuris usato dalle parti non aveva nessun valore, oggi la giurisprudenza ha ammesso che possa avere valore, purché sia supportato da altri criteri.

Secondo la giurisprudenza, non è sufficiente la ricorrenza di un solo criterio per consentire di affermare che si è in presenza di lavoro autonomo o subordinato, ma è necessaria la ricorrenza di una pluralità di criteri, in concorso tra loro.

Evidenziamo ora, con qualche esempio, come ogni indice sia scarsamente selettivo, se preso singolarmente: in riferimento al primo criterio, osserviamo che un medico si impegna a curare (obbligazione di mezzi) e non a guarire (obbligazione di risultato), sembrando così un lavoratore subordinato; ma dobbiamo tenere conto anche del fatto che esistono medici liberi professionisti e quindi lavoratori autonomi.

Oppure, in riferimento al quarto criterio, possiamo osservare che un medico appare come lavoratore autonomo nel caso in cui riceva pagamenti saltuari, cioè solo quando una persona ha bisogno di avvalersi dei suoi servizi; tuttavia può presentarsi l’eventualità in cui un cliente (es. una casa di cura) decida di avvalersi in modo continuativo dei servizi del medico: in tal caso questi potrebbe percepire una retribuzione temporalmente continua (stipendi mensili, ad esempio) e potrebbe essere considerato un lavoratore subordinato.

In riferimento al quinto criterio, consideriamo il caso di un dirigente di una ditta che, pur essendo un lavoratore subordinato, apparirebbe come lavoratore autonomo avendo orario di lavoro flessibile.

In riferimento al sesto criterio, pensiamo al medico ospedaliero che potrebbe essere considerato un lavoratore autonomo, in quanto, nell’esercitare la professione, usa i propri strumenti!

Giova ribadire che solo la ricorrenza di più indici giurisprudenziali è altamente indicativa dello stato di autonomia o di subordinazione del lavoratore.

Metodo tipologico: è un metodo che presuppone la riconduzione della fattispecie concreta alla fattispecie astratta secondo un giudizio di approssimazione.

Metodo sussuntivo: è un metodo che presuppone la riconduzione della fattispecie concreta alla fattispecie astratta secondo un giudizio di perfetta identità alla categoria lavoro autonomo ovvero alla categoria lavoro subordinato.

Ovviamente esistono casi più o meno difficili da risolvere e a tal fine ricordiamo l’esempio del pony express, un caso che ha fatto scuola. In base agli indici giurisprudenziali vediamo cosa possiamo affermare: in virtù del primo criterio, essendo nel caso di obbligazione di risultato, sembrerebbe un lavoratore autonomo; invece, in base al secondo e al terzo, non essendoci organizzazione di impresa e non ricadendo su di lui il rischio di impresa, sembrerebbe un lavoratore subordinato. Inoltre, per il quarto criterio, potrebbe essere considerato lavoratore autonomo, essendo pagato in base alle consegne, e allo stesso modo un lavoratore subordinato, essendo pagato in modo continuativo a fine mese; infine per il sesto criterio, essendo di sua proprietà il mezzo di trasporto con cui effettua le consegne, sembrerebbe un lavoratore autonomo, ma è anche vero che la radiolina non gli appartiene e quindi lo si potrebbe considerare un lavoratore subordinato.
Appare perciò evidente l’ambiguità della situazione, tanto che si trovano alcune sentenze della cassazione che, in un primo momento, lo indicavano come lavoratore autonomo e altre per le quali era considerato lavoratore subordinato: ora, in virtù della sua situazione di debolezza, è definitivamente considerato dalla cassazione lavoratore subordinato.

Casi analoghi non sono inconsueti e proprio questo è il motivo per cui viene introdotto un terzo tipo di lavoratore, il lavoratore parasubordinato, cioè il lavoratore la cui fattispecie lavorativa non sempre è ben inquadrabile come rapporto di lavoro autonomo ovvero subordinato.
Un esempio di questo ultimo tipo è il medico libero professionista convenzionato con l’ASL; egli infatti deve sottostare ad alcuni vincoli: deve avere lo studio in un determinato quartiere, deve essere disponibile per le visite urgenti fino ad una certa ora del mattino, ecc.

Prima di vedere cosa cambia dal punto di vista del diritto del lavoro per le tre condizioni di lavoratore viste, dobbiamo ricordare che ogni ramo del diritto ha due sfaccettature: quella sostanziale e quella processuale. Così, con riferimento al diritto penale, abbiamo il diritto sostanziale, che si occupa di dire quali comportamenti costituiscono un reato, e il diritto processuale, che raccoglie le norme che regolano il processo penale. Alla luce di questo possiamo dire che al lavoratore subordinato si applica sia il diritto sostanziale del lavoro che quello processuale; per il lavoratore parasubordinato solo il diritto processuale del lavoro (mentre il diritto sostanziale applicato sarà quello civile). Per il lavoratore autonomo non si applica il diritto del lavoro nelle due forme viste, processuale e sostanziale, ma si applica il diritto sostanziale civile ed il diritto processuale civile.
Qual è la differenza tra lavoratore parasubordinato e autonomo?
La differenza è che per entrambi vale il diritto sostanziale civile (fatte salve alcune tutele giuslavoristiche che si applicano ai lavoratori parasubordinati, come per esempio la disciplina delle rinunzie e transazioni), mentre per il lavoratore parasubordinato vale il diritto del lavoro processuale, che permette di snellire i procedimenti in termini di tempo. Com'è ben noto, infatti, il processo del lavoro è più breve rispetto al processo civile ordinario.

In definitiva si può affermare che il diritto del lavoro sia sostanziale che processuale garantisce una forma di tutela per il lavoratore subordinato (in considerazione della situazione di debolezza socio-economica che lo caratterizza) e che tale tutela è totalmente assente per il lavoratore autonomo.

 

3. LAVORO GRATUITO, DEI RELIGIOSI, ASSOCIATIVO E COOPERATIVO

Lavoro gratuito: è possibile un rapporto di lavoro subordinato a titolo gratuito?
Vi sono due posizioni interpretative:

  1. una minoritaria, basata sull’impostazione dell’art. 2094 cod. civ. (prestatore di lavoro subordinato) secondo il quale è prevista una retribuzione, quindi il rapporto di lavoro  deve considerarsi irriducibilmente oneroso;
  2. una prevalente, secondo cui il rapporto di lavoro deve presumersi a titolo oneroso, ma è ammessa la prova contraria, in presenza di talune particolari circostanze.
  • In particolare la gratuità deve essere associata a determinati eventi, come i seguenti casi:
  • Es. rapporto di relazione di parentela: una madre “fa il letto al figlio” senza essere retribuita;
  • Es. volontariato: l’attività del volontario non è retribuita, al massimo possono essere rimborsate le spese.
  •        Per volontariato si intende quell’attività prestata a favore di una organizzazione di volontariato, in modo volontario, spontaneo, gratuito, senza scopo di lucro ed esclusivamente a scopo di solidarietà (il volontariato è regolato dalla l. n. 266/1991).
  • Nota: vi sono due tipi di presunzione:
  1. assoluta, quando non è ammessa la prova contraria;
  2. relativa, quando è ammessa.

 

Lavoro dei religiosi: nell'ambito del rapporto di lavoro dei religiosi, bisogna distinguere:

  1. Attività carismatiche:
    • prestate all’interno dell’ente religioso di appartenenza: non sono ammesse ingerenze da parte dello stato;
    • prestate all'esterno dell’ente religioso di appartenenza: sarebbe in astratto configurabile un rapporto di lavoro (Messa privata tenuta al di fuori dell’ente religioso).
  2. Attività secolari:
      • prestate all’interno dell’ente religioso di appartenenza: non è possibile il lavoro subordinato (suora che pulisce il convento);
      • prestate all’esterno dell’ente religioso di appartenenza: è configurabile un rapporto di lavoro subordinato (suora infermiera in una casa di cura o sacerdote professore in una scuola non dell’ente).
  •                           
  • Quanto detto sopra vale esclusivamente per gli individui classificabili come religiosi, cioè i ministri di culto, gli ecclesiastici e i religiosi in senso proprio (cioè quei soggetti che, entrati in associazioni religiose approvate dalla Chiesa, abbiano pronunziato voti pubblici per svolgere la professione evangelica secondo la regola dell'ente).           
  •  
  • Oltre al lavoro subordinato, parasubordinato ed autonomo sono possibili i seguenti rapporti.
  •  

Lavoro associativo: lavoro di tipo non subordinato (non è configurabile tramite l'art. 2094 cod. civ.).

  1. Impresa familiare (art. 230 bis cod. civ.).

Ad esempio Gianni Rossi ha un negozio di vestiti, è un’impresa familiare dove lavorano moglie e figlio. Questi tre individui sono tra loro associati, non soci. La moglie e il figlio prestano lavoro all'interno dell'impresa e tale lavoro è disciplinato in maniera particolare:

    • non percepiscono una retribuzione, ma hanno diritto ad essere mantenuti secondo la condizione patrimoniale della famiglia;
    • a fine anno, partecipano alla suddivisione degli utili, benché, all’esterno, chi rileva sia solo Gianni Rossi, non la moglie, né il figlio;
    • le decisioni relative all'impiego degli utili e degli incrementi, nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa non sono prese per quote, come avviene invece nel caso delle società (in tal caso si considera infatti il “peso delle quote”). Le decisioni, nell'impresa familiare, vengono prese a maggioranza e non il singolo proprietario.
  1. Associazione in partecipazione (art. 2549 cod. civ.).

L’associante attribuisce all’associato la partecipazione agli utili dell’impresa, in cambio di un apporto, che ben può essere rappresentato da una prestazione lavorativa.

  • Siamo all’interno di un rapporto di associazione. Cioè l’associato dà un contributo lavorativo e prende utili ma non è un socio, è appunto un associato. La disciplina è stata innovata dal decreto n. 276 del 2003 (la c.d. Riforma Biagi): v. schema alla fine degli appunti.
  •  

Lavoro in società: la società è un particolare contratto che si ha quando due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica al fine di dividere gli utili (scopo di lucro).

  • Le società sono di due tipi:
  1. società di persone:
    • società semplice
    • s.n.c. (società in nome collettivo)
    • s.a.s. (società in accomandita semplice)
  1. società di capitali:
  • s.p.a. (società per azioni)
  • s.r.l. (società a responsabilità limitata)
  • società in accomandita per azioni

La costituzione di una società, vale a dire di una persona giuridica distinta dalle persone fisiche dei soci che la compongono, comporta la creazione di un patrimonio di una società distinto da quello dei singoli soci. La tutela nei confronti del patrimonio del socio nella società di capitali è massima, non in quella per persone.
Ad esempio, nel caso in cui una società per azioni fallisca, perdo il valore delle sole azioni, salvo, nell'ipotesi in cui sia un socio amministratore, che si dimostri che ho gestito la società non osservando le norme che il codice impone.

Un socio di una società di persone svolge attività lavorativa nell'ambito della società. Ebbene, tale soggetto è un lavoratore subordinato? Ad esempio, tre amici aprono un bar e lavorano tutti e tre in questo bar. Sono lavoratori subordinati? No, sono soci, i contributi non li pagano, non hanno ferie pagate, malattie pagate: cioè non si applicano le norme del diritto del lavoro.
Il socio, peraltro, potrebbe svolgere un'attività lavorativa che esula dal contratto di società. Laddove questa attività sia di lavoro subordinato (cioè esista la subordinazione), il socio, oltre che socio, è anche lavoratore subordinato.

Il socio si impegna a versare un capitale nella società di capitali. E’ possibile che però conferisca anche un apporto alla società, ad esempio lavorativo.

Se abbiamo un socio nonsi esclude a priori la condizione di lavoratore subordinato. Socio e dipendente sono concetti cumulabili (dunque, sia nelle società di persone che di capitale). E' logico, tuttavia, che perché si abbia lavoro subordinato è necessario che vi sia il requisito della subordinazione. Ad esempio, un operaio della Fiat che compra azioni della Fiat, sarà contemporaneamente socio e lavoratore subordinato.

Società mutualistiche (cooperative): sono caratterizzate dal fatto che i soci non costituiscono la cooperativa al fine di dividere gli utili, ma al fine di ottenere un vantaggio economico in termini di minor costo su determinati beni (cooperative consumatori) o in termine di occupazione (cooperative di produzione e lavoro).

Ovviamente soltanto le cooperative di produzione e lavoro hanno una precisa rilevanza giuslavoristica. Ad esempio, cooperative di facchini, tassisti, muratori che decidono di mettersi insieme per trovare più facilmente un’occupazione. Questi non sono subordinati, né autonomi, sono soci.
La disciplina è stata modificata dalla legge Biagi, ossia dalla legge delega n. 30 del 2003 (in proposito, si veda lo schema, alla fine degli appunti).

 

 

 

 

 

 

    


 

Subordinato  
-art.2094 c.c.-

  • Si applicano

      lo Statuto dei lavoratori e
      le Norme sulla sicurezza

  • Retribuzione                                                                          
  • Contributi

 

 

 Rapporto lavorativo 

 

Autonomo
-art.2222 c.c.-

  • Norme sulla sicurezza
  • Statuto dei lavoratori

              (art.: 1, 8, 14, 15)

 

 

Parasubordinato
(Collaborazione Coordinata Continuativa)

 

 

 

4. CONTRATTO DI LAVORO

Il contratto di lavoro è l'atto con il quale viene formalizzata l'assunzione di un dipendente.

Ovviamente nell'ambito del diritto del lavoro il contratto di lavoro generalmente è rappresentato da una lettera di assunzione indirizzata dal datore di lavoro al lavoratore e contenente il fondamentale contenuto del rapporto di lavoro. Nella lettera di assunzione si scrive "laddove Lei (prestatore di lavoro) sia d'accordo con quanto sopra riportato, vorrà restituirci copia della presente debitamente sottoscritta, per integrale accettazione". La lettera di assunzione, che quando viene inviata è una proposta di contratto, una volta restituita firmata diventa un contratto vero e proprio.

In generale, cosa è un contratto? La nozione generale di contratto è data dall’art. 1321 cod. civ., secondo cui è il contratto è “l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Queste parti hanno bisogno di far nascere, regolare o far cessare tra loro un rapporto giuridico, con contenuto patrimoniale.

I quattro requisiti fondamentali di un contratto, espressi dall’art. 1325 cod. civ., sono:

  1. accordo delle parti: questo può andare al di là dell’accordo verbale o scritto, ad esempio, può anche avvenire per fatti concludenti (contratto di compravendita: prendo un giornale dal giornalaio e lo pago senza dire una parola; sono necessarie determinate caratteristiche: esposizione della merce, apertura al pubblico…). L’accordo si ha per espressione della volontà delle parti.
  •               Vizi della volontà:
    • violenza (ti obbligo con la forza a firmare un contratto);
    • errore (Tizio crede di stipulare il contratto con un’altra persona);
    • dolo (dichiaro di conoscere le tre lingue richieste per un determinato lavoro, senza avere tali competenze).
  1. causa: è la ragione giustificatrice del contratto. Ad esempio, il contratto di mutuo ha come causa: dare i soldi a prestito, da una parte, riceverli con la clausola di renderli, dall’altra.
  • Differenza tra motivo e causa: la causa è l’obbiettivo immediato che si pongono le  parti, il motivo è l’obiettivo secondario (causa: ricevere i soldi di un mutuo, obiettivo primario, motivo: per comprare la macchina obiettivo secondario).
  • Quindi la causa è un obbiettivo essenziale, mentre i motivi non rilevano, tranne nel caso di un motivo illecito da entrambe le parti (art. 1345 cod. civ. “motivo illecito”).
  • Un contratto è illecito anche quando la causa è illecita (art. 1343 cod. civ.).
  • oggetto: sono le prestazioni negoziali che i due soggetti si scambiano.
  • Ad esempio, in un contratto di compravendita abbiamo un libro da una parte, i soldi dall’altra.
  •       L’oggetto deve rispettare determinati requisiti dettati dall’art. 1346 cod. civ.,che sono i seguenti:
  • possibilità: si deve trattare lo scambio di prestazioni possibili (un quadro che nel frattempo è bruciato non è più possibile venderlo).
  • liceità: non contrarietà dell’oggetto a norme imperative, all’ordine pubblico e al buoncostume.
  • Norme: ne esistono di due tipi:
  • norme dispositive: sono valide solo se le parti non hanno disposto altro diversamente (la legge a volte stabilisce norme che possono essere derogate dalle parti).
  • Ad esempio, l’art. 1282 cod. civ. (“luogo delle obbligazioni”) è una norma dispositiva: il luogo dell’obbligazione è il luogo in cui è stato stipulato il contratto. È possibile però specificare un’altra località.
  • norme imperative: sono norme che devono essere per forza osservate.
  • Ad esempio, “tutti i lavoratori debbono essere assunti regolarmente”.
  • Ordine pubblico:  sono i principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico.
  • Buoncostume: e l’insieme delle regole di comportamento sociale la cui violazione è ritenuta scandalosa dai consociati (cioè i cittadini); sono regole legate, in genere, alla moralità. Ad esempio, il patto di uno sportivo che si accorda con un soggetto per non presentarsi ad una gara e far perdere la sua squadra.
  • determinatezza o determinabilità: le regole devono essere ben determinate al momento della sottoscrizione del contratto o comunque ben determinabili in futuro.

Ad esempio, la retribuzione può essere di due milioni/mese (determinata), oppure con partecipazione agli utili (indeterminata), bisogna quindi specificare il 20% degli utili (determinabile).

  1. forma del contratto: la conclusione del contratto (stipulazione) può avvenire nelle seguenti forme:
    • oralmente
    • per patti concludenti
    • in forma scritta:
      • scrittura privata
      • atto pubblico (stipulato presso un notaio)

La forma è un requisito eventuale di un contratto. Ci sono casi in cui la legge impone la forma scritta, o per atto pubblico, e la prescrive sottoforma di nullità (nullo significa illegittimo; è l’ipotesi peggiore di illegittimità che si possa considerare).

  •  
  • Nota: il contratto in generale non verte solo sul diritto del lavoro.
  • La legge tipizza i contratti più diffusi:
  1. contratto di compravendita;
  2. contratto di matrimonio;
  3. contratto di trasporto;
  4. contratto di lavoro;
  5. contratto d’opera (art.2222 cod. civ.).
  • Il contratto di lavoro è un contratto tipico siccome la legge lo disciplina.
  •  
  • Le parti possono inventarsi un contratto nuovo non previsto dalla legge (atipico)? Sì purché siano diretti a garantire interessi meritevoli di tutela (art. 1322 cod. civ. “autonomia contrattuale”). Ad esempio, il contratto di franchising.
  •  
  • Gli elementi accidentali (eventuali) del contratto sono tre:
  1. condizioni: le parti si accordano affinché gli effetti del contratto si producano o vengano meno al verificarsi di un evento futuro ed incerto.
  • Esistono tre tipologie di condizione:
    • casuale: dipende completamente dal caso (Tizio vuole acquistare un’auto da Caio, fanno un contratto: Tizio venderà a Caio un’auto e la pagherà 20mil, a condizione che il 6 ottobre a Modena piova)
    • potestativa: la condizione dipende dalla volontà di una delle due parti (comprerò una casa da Caio se deciderò di trasferirmi)
    • mista: dipende in parte dalla potestà del soggetto, in parte dal caso (acquisto una casa da Tizio, le parti convengono quanto segue: Tizio vende la casa e io mi  impegno ad acquistarla se il 6 ottobre 2000 mi sposerò)
  • La condizione inoltre può essere:
  • sospensiva: gli effetti rimangono congelati;
  • risolutiva: gli effetti cessano di prodursi.
    • termine: le parti appongono una data precisa da cui decorrerà la validità del contratto.
    • modo: il modo è una disposizione che può essere apposta ai contratti a titolo gratuito. (dono 10 milioni a una fondazione ma voglio che siano adibiti a una causa specifica)
  •  

Capacità giuridica: si acquista dal momento della nascita; si acquisisce cioè la capacità di divenir titolare di diritti e doveri (art. 1 cod. civ.).
Ad esempio, il nonno intesta un appartamento al nipote.

  •  

Capacità d’agire: si acquisisce con la maggiore età; è la capacità di disporre dei propri diritti e doveri (art. 2 cod. civ.).
Ad esempio, il nipote non può vendere l’appartamento fino al diciottesimo anno.

  • In campo giuslavoristico, vi è un'eccezione: l'art. 2, comma 2, cod. civ. dispone che "sono fatte salve le leggi speciali che stabiliscono un'età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro. In tal caso il minore è abilitato all'esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro".
  •  
  • Contratto tra lavoratore e datore di lavoro:
  • oggetto: retribuzione.
  • causa: prestare la propria attività lavorativa.
  • forma: nell’ambito del diritto lavorativo vige la regola della aformalità, cioè la mancanza d’obbligo di fare un contratto di lavoro scritto, anche se è fortemente consigliabile.
  • Tale regola subisce delle eccezioni, ad esempio:
    • contratto di arruolamento marittimo: va fatto per atto pubblico.
  • I seguenti richiedono la scrittura privata:
    • assunzione a tempo parziale (altrimenti la si considera a tempo pieno);
    • contratto di formazione lavoro (altrimenti lo si considera già definitivo);
    • lavoro interinale (temporaneo);
    • agente d’arma;
    • gente dell’aria (piloti, hostess,…);
    • contratto di reinserimento;
    • lavoro a squadra in risaia;
    • lavoro sportivo.
  •  
  • Esempio di contratto di lavoro per fatti concludenti: raccoglitori di pomodori a giornata (vengono prelevati al mattino con pulmini dalla piazza del paese e portati sui campi: questi lavoratori salgono sul pulmino senza dire una parola e così manifestano la loro volontà di lavorare per l'intera giornata).
  •  
  • Elementi accidentali possibili in un contratto di lavoro:
  • termine (ad esempio, sostituzione di una lavoratrice in maternità);
  • patto di prova  (assunzione condizionale);
  • patto di non concorrenza: per un certo lasso di tempo ci si impegna  a non fare concorrenza al proprio ex datore di lavoro.
  • Queste clausole devono essere apposte per iscritto anche se il resto del contratto è orale.
  •  
  • Obbligo di fedeltà: grava finché dura il rapporto di lavoro.
  •  
  • Contratto di lavoro illegittimo/invalido:
  • nullità: è l’ipotesi più grave di illegittimità.
    •  “Quod nullum est, nullum producit effectum”: il contratto nullo non produce alcun effetto.
    • Le parti potranno sempre andare dal  giudice a chiedere l’annullamento del contratto.
    • La nullità potrà essere fatta valere dalle parti e da chiunque vi abbia interesse. Ad esempio,  Tizio è debitore nei confronti di Caio di 100 milioni; Tizio vende la sua casa a Sempronio; Caio può richiedere la nullità del contratto.
    • La nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
    • Non è convalidabile.
  • annullabilità: è un contratto che presenta una forma non gravissima di illegittimità, quindi è valido a meno che una delle due parti ne chiede l’annullamento.
    • Gli effetti del contratto non si cancellano “ex hunc” ma dal momento della stipula del contratto, “ex tunc”.
    • Esiste un limite di 5 anni per richiedere l’annullamento del contratto, può essere richiesto solo dalla parte a sfavore.
    • Non può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
    • Convalida del contratto annullabile, cioè è possibile rinunciare a far valere l’annullabilità del contratto in seguito ad un accordo di entrambe le parti.
  •  
  • Contratto di lavoro nullo:
  • Art. 1418 cod. civ.: “quando è contrario a norme di lavoro imperative”.
    • Ad esempio, le parti si accordano a non pagare l’Inps.
    • In questo caso la legge prevede una sostituzione automatica delle clausole.
  • Art.1419 cod. civ.: “nullità parziale di un contratto”.
    • In questo caso la legge prevede una sostituzione automatica delle clausole.
  • Mancanza di uno degli elementi essenziali di un contratto (previsti dall’art.1325 cod. civ.).
  • Art. 1345 cod. civ.: per “motivo illecito”, si ha quando entrambe le parti sono consapevoli dell’illecito.
    • Ad esempio, Tizio assume Caio per farsi fare dei quadri falsi.
  • Art. 1343 cod. civ.: “causa illecita”.
    • Ad esempio, Tizio assume Caio per far costruire dei recipienti per contenere della droga. Questo non incide sulla validità del contratto, se il lavoratore non ne conosce tale obiettivo secondario.
  • Contrarietà all’ordine pubblico, al buoncostume o in frode alla legge.
  • Oggetto illecito, indeterminato o indeterminabile, o impossibile.
    • Ad esempio, assumo Eva per fare la prostituta (illecito).
    • Ad esempio, non stabilisco parametri per retribuirlo (indeterminato).
    • Ad esempio, assumo Tizio per sollevare dei macigni (impossibile).
  •  
  • Contratto di lavoro annullabile:
      • Per errore sulle qualità essenziali dell’altro contraente.
      • Ad esempio, una banca vuole assumere un cassiere, lo crede integerrimo ed invece è un pluripregiudicato.
      • Violenza
      • Ad esempio, il lavoratore punta una pistola e chiede di essere assunto.
      • Dolo
        • Ad esempio, il lavoratore, per farsi assumere, dichiara che conosce benissimo il cinese, ma in realtà non è vero.
  • Stipulazione del contratto in violazione alle norme di collocamento (art. 2098 cod. civ.), l'azione può essere esercitata da pubblico ministero, entro un anno dalla data di assunzione.
      • Incapacità di contrattazione di una delle parti.
  •  
  • Capacità giuridica: nel diritto del lavoro la si assume a 15 anni, se sono stati assolti gli obblighi scolastici. Per lavori pericolosi o per il lavoro notturno è prevista un’età minima di 18 anni.
  •  
  • Capacità d’agire: per la capacità di agire 15 o 18 anni come nei casi precedenti.
  •  
  • Nel diritto del lavoro la capacità giuridica e la capacità di agire sono contestuali.
  •  
  • Un quindicenne può firmare il contratto di lavoro? Esistono due orientamenti contrastanti, probabilmente è migliore l’orientamento che dà diritto al quindicenne di stipulare il contratto.

È stato emanato un decreto legislativo comunitario (n.152 del 1997) che impone al datore di lavoro di informare per iscritto il suo dipendente degli elementi fondamentali del contratto stipulato oralmente (entro un mese dall’assunzione). Inoltre (art. 9 bis, comma 3, della l. n. 608/1996), si obbliga il datore di lavoro a consegnare al lavoratore all’atto dell’assunzione una dichiarazione contenente i dati relativi al lavoratore inseriti nel libro matricola (per far capire al lavoratore che è stato messo in regola). Queste comunicazioni sono unilaterali.

  •  
  • Nel caso in cui non si applica il contratto collettivo, il datore di lavoro dovrà scrivere sul contratto a riguardo degli istituti fondamentali: ferie, retribuzione,...
  •  
  • Art. 2126 cod. civ.: “la nullità o l’annullamento del contratto non produce effetto, per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità non derivi da illiceità della causa o dell'oggetto”.
      • Comma 1: assumiamo che il soggetto abbia già lavorato per un determinato tempo. Regola generale: la nullità o l'annullamento non producono effetto per il tempo già trascorso, con la conseguenza che il lavoratore, nonostante la nullità o l'annullamento, ha comunque diritto alla retribuzione.
  • Eccezione: In caso di illiceità della causa o dell'oggetto il lavoratore non avrà diritto alla retribuzione, ma, al massimo, ad un'azione per indebito arricchimento. Ciò significa che il lavoratore verrà rimborsato comunque del valore delle cose prodotte per evitare l’indebito arricchimento del suo datore, ad eccezione della contrarietà del buon costume (ad esempio, prostituzione).
  • Comma 2: eccezione all’eccezione precedente, se il contratto è illecito a causa di una norma a favore del lavoratore: allora in questo caso il lavoratore ha comunque diritto alla retribuzione (siccome di fatto c’è stata una prestazione lavorativa).
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  • Da che cosa deriva il rapporto di lavoro? Dal contratto di lavoro secondo la teoria contrattuale. Ora si preferisce una teoria acontrattuale, basata sull’art. 2126 cod. civ., secondo cui il rapporto di lavoro può prescindere dal contratto di lavoro. Alcuni professori universitari sostengono invece teorie istituzionalistiche, oggi meno accreditate, secondo cui: l’impresa è un’istituzione, con comunità di scopo tra datore e lavoratore, improntata sulla base di una rigida gerarchia.
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  • L’art. 2140 cod. civ. impone la “diligenza del prestatore di lavoro”. Tra i due soggetti vi può essere una divergenza d’interesse: interesse mediato , immediato.
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  • 5. PATTO DI PROVA
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  • L’art. 2096 cod. civ. sancisce che il patto di prova deve essere necessariamente stipulato in forma scritta, altrimenti si suppone l’assunzione definitiva sin dall’inizio. In questo caso l'intero contratto, a meno che la legge non imponga la forma scritta, potrà essere stipulato oralmente, ma la clausola relativa alla prova dovrà essere necessariamente scritta.

Qui si ricorda che la forma scritta è necessaria in 3 casi:

    • patto di prova
    • patto di non concorrenza
    • termine
  • Finalità della prova: entrambe le parti sono interessate all’istituto della prova, e durante essa entrambe le parti sono portate a dare il meglio.
  • Natura giuridica della prova: secondo alcuni si è di fronte ad una condizione sospensiva (il contratto produrrà i suoi effetti se si verificherà quell'evento futuro e incerto che è il positivo superamento della prova), secondo altri si è di fronte ad una condizione risolutiva (il contratto cesserà di produrre i propri effetti se si verificherà quell'evento futuro e incerto che è il negativo superamento della prova).
  •  
  • L’art. 2096 cod. civ. ci dice che deve essere scritta, ma non ci dice nulla a riguardo del momento in cui deve essere stipulato. La giurisprudenza ci dice che deve essere stipulato prima o al massimo contestualmente all’inizio della prestazione lavorativa.
  •  
  • Durante il periodo di prova ogni parte può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso.

(Nel diritto del lavoro le categorie per cui non sussiste l’obbligo di preavviso sono 5: dirigenti, lavoratori ultrasessantenni che abbiano i requisiti pensionistici e non abbiano chiesto il proseguimento lavorativo, lavoratori domestici, atleti professionisti, lavoratori in prova.)

Durata della prova: al massimo sei mesi, è richiesto inoltre un tempo ragionevole di durata che mi consenta di dimostrare le mie capacità. La prova non può essere prorogata.

Forma “ad substantiam”: forma stabilita per la validità dell’atto, serve per la sostanza del contratto.

 

Forma “ad probationem”: il contratto è valido anche se orale, ma se si va davanti al giudice è necessario avere la forma scritta per provare come stanno le cose.

 

6. CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO

I contratti si possono dividere in due grandi categorie:

  • a tempo indeterminato: questo tipo di contratto non presenta alcun tipo di termine; possono proseguire finché una delle due parti non decide di reciderlo. Il recesso dal contratto di lavoro prende il nome  di licenziamento se posto in essere dal datore di lavoro, o di dimissioni in caso sia posto in essere dal dipendente.
  • a tempo determinato: è un contratto di lavoro precario poiché le parti stabiliscono un termine di scadenza. Tale termine può essere esplicito (ad esempio, Tizio assume Caio fino a 31/12/2000), oppure legato ad un particolare evento e non a una data precisa (ad esempio, Tizio assume Caio al posto di una lavoratrice in maternità; il termine è il rientro della lavoratrice in azienda).

Il legislatore ha deciso che il contratto di lavoro a tempo determinato fosse stipulabile solo in presenza di situazioni particolari. Tali situazioni sono state individuate dalla l. n. 230/1962 e sono:

  • il lavoratore sia assunto per sostituire un altro dipendente assente ma che ha diritto a mantenere il suo posto di lavoro (ad esempio, sostituzione di una lavoratrice in maternità, di un dipendente che svolge il servizio militare, oppure di un dipendente malato o infortunato);
  • in caso di attività di tipo stagionale (ad esempio, dipendenti di uno stabilimento balneare);
  • in caso di punte stagionali nell’attività esercitata (ad esempio, Fini con i pacchi di natale);
  • per far fronte alla necessità di un opera o servizio definito nel tempo, predeterminato e che abbia carattere straordinario ed occasionale;
  • per lavorazioni a fasi successive che richiedono maestranze diverse da quelle normalmente impiegate (ad esempio, i lavori di falegnameria in un cantiere edile);
  • assunzione di personale in riferimento a specifici programmi televisivi o radiofonici;
  • assunzioni di dirigenti tecnici o amministrativi;
  • oppure nelle ipotesi previste nei contratti collettivi stipulati da sindacati nazionali o regionali aderenti alle organizzazioni maggiormente rappresentative;
  • assunzione per personale di aziende di trasporto aereo;
  • lavoratori in mobilità con durata del contratto inferiore di 12 mesi e con le agevolazioni previste per gli apprendisti;
  • ricercatori di piccole e medie imprese, per progetti di durata determinata.

Oggi il contratto di lavoro a termine e' disciplinato dal decreto legislativo del 6 settembre 2001 n 368 che recepisce la direttiva comunitaria 1999/70/CEE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. Questo decreto si compone di 13 articoli ma noi ne studieremo solo alcuni.

Art1: Apposizione del termine.
Questo articolo ci dice e' possibile apporre un termine alla durata del contratto subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (senza le limitazioni del 230)
Inoltre il secondo comma recita" L'apposizione del termine e' priva d'effetto se non risulta direttamente o indirettamente da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni del comma 1."
Una eccezione al 2° comma e' contenuta nel 4° che ricorda che la forma scritta non e' necessaria nel caso in cui la durata del rapporto sia inferiore ai 12 giorni.

Art3: Divieti.
Non e' possibile apporre un termine alla durata del contratto per sostituire lavoratori in sciopero, se entro i 6 mesi precedenti ci sono stati licenziamenti collettivi, se l'impresa non ha effettuato il piano dei rischi, se si sta attuando un piano di integrazione salariale.

Art4: Disciplina della proroga.
Il contratto di lavoro a tempo determinato puo' essere prorogato col consenso del lavoratore, solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore ai 3 anni, e puo' essere prorogato una sola volta a condizione che si riferisca a condizioni oggettive e si riferisca alla stessa attivita' produttiva.
Se queste 5 ipotesi sono rispettate la durata del contratto iniziale sommata alla proroga non potra' superare i 3 anni.

Art5: Scadenza del termine e sanzioni .
Se il rapporto di lavoro, inizialmente fissato o successivamente prorogato, continua dopo la scadenza del termine il datore di lavoro e' tenuto a corrispondere una maggiorazione della maggiorazione del 20% fino al decimo giorno successivo. Nei 10  giorni successivi  la maggiorazione e' del 20% nel caso in cui il periodo inizialmente fissato o le successive proroghe siano di un periodo complessivo inferiore ai 6 mesi. . Nei 20  giorni successivi  la maggiorazione e' del 40% nel caso in cui il periodo inizialmente fissato o le successive proroghe siano di un periodo complessivo superiore ai 6 mesi.
Il secondo comma impone la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno nel caso di durata inferiore ai 6 mesi o se continua oltre al trentesimo giorno nel caso di durata superiore ai 6 mesi.
RIASSUMIAMO L'ARICOLO 5:

                                                       10 giorni +20%                =20giorni                        Caso durata <6mesi
 



Scadenza    |   10 giorni +20%                                                                    Tempo indeterminato

                                                        20 giorni +40%               =30giorni                         Caso durata > 6mesi
 



             
Qualora un lavoratore venga riassunto a termine entro 10 nel caso di contratto di durata inferiore ai 6 mesi e di 20 giorni nel caso di contratto di durata superiore ai 6 mesi il secondo contratto si considera a tempo indeterminato.
Quando si hanno 2 assunzioni consecutive a termine, il lavoro si pensa a tempo indeterminato dalla data del primo contratto.

Art6:Principio di non discriminazione.
Il prestatore di lavoro a tempo determinato deve essere trattato come i lavoratori a tempo indeterminato in materia di ferie, gratifiche natalizie.......

Art 11: Abrogazione e disciplina transitoria.
Dalla data di entrata in vigore di questo decreto si considerano abrogate le leggi 230 del 1962 e successive modifiche.

Il contratto di lavoro a termine, può estinguersi soltanto per scadenza del termine, ovvero per giusta causa. Qualora nasca la necessità di recedere il contratto prima, lo si può fare ma bisogna risarcire il danno alla parte che subisce il recesso.

Regime del recesso del contratto di lavoro: il recesso può essere visto secondo due profili:

  • forma: ossia in che modo deve essere presentato;
  • sostanza: cause del recesso.

Come detto in precedenza il recesso del contratto di lavoro si può presentare sottoforma di dimissioni, quando il dipendente decide di recedere dal contratto di lavoro, oppure come licenziamento se è il datore di lavoro che decide di recedere da tale contratto.

Qualora un dipendente decida di presentare le dimissioni lo può fare anche in modo orale: la forma deve comunque tenere fede alle specifiche previste nel contratto collettivo (quello per il commercio impone una scrittura privata trasmessa tramite raccomandata con A.R.). Per quanto riguarda gli obblighi di sostanza il lavoratore è libero di andarsene senza motivare la sua scelta.

Qualora ci si trovi in caso di licenziamento il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicarlo in modo scritto. Per quanto riguarda gli obblighi sostanziali il datore di lavoro deve comunicare il motivo. Le motivazioni del recesso si dividono in:

  • giustificato motivo: si divide in
    • oggettivo: prescinde dal lavoratore (ad esempio, l’introduzione del computer in ufficio);
    • soggettivo: a causa di un grave inadempimento degli obblighi da parte del lavoratore (ad esempio, il lavoratore arriva sempre in ritardo);
  • giusta causa (art. 2119 cod. civ.): è una ragione soggettiva; una causa così grave che non permette di proseguire oltre il rapporto di lavoro (ad esempio, offese molto gravi del datore di lavoro). Qualora ci si trovi di fronte ad una motivazione di giusta causa, non è necessario dare il periodo di preavviso, e se la colpa di tale atto è del datore di lavoro, questo deve dare il preavviso al dipendente sottoforma di denaro (ad esempio, se il preavviso è di un mese, il datore di lavoro dovrà dare al dipendente una mensilità in più).

 

7. DATORE DI LAVORO VS IMPRENDITORE

Fino ad ora si è parlato indistintamente di imprenditore e di datore di lavoro, malgrado ciò i due termini non vogliono dire la stessa cosa. Vediamo le differenze:

  • datore di lavoro imprenditore (art. 2082 cod. civ.): è imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o di servizi. Le parole chiave in questo articolo sono: “organizzata” ossia deve esistere una struttura organizzata dedicata a quel bene o quel servizio e “professionalmente” che assume il significato di stabilmente. Gli imprenditori si dividono a loro volte in due grandi classi:
  • piccoli (art. 2083 cod. civ.): sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano una attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia;
  • non piccoli: si differenziano dai precedenti per il fatto che possono fallire, hanno il dovere di tenere scritture contabili molto complesse e sono soggetti ad un regime di pubblicità (ad esempio, in determinati casi bisogna sapere cosa fanno, i loro bilanci…);
  • datore di lavoro non imprenditore: in tale categoria stanno i liberi professionisti, coloro che assumono persone per le pulizie domestiche, e le aziende di tendenza: ossia quelle aziende che svolgono attività religiose, politiche e altro, senza scolpo di lucro (ad esempio, i sindacati, gli asili religiosi…).

 

8. L’INCONTRO TRA DOMANDA E OFFERTA DI LAVORO. LA DISCIPLINA DELLE ASSUNZIONI.

 

Intermediazione nel rapporto di lavoro: fenomeno che si verifica quando si ha un incontro tra domanda e offerta nel mondo del lavoro. Quando ad esempio il datore di lavoro si rivolge a persona fidata per sapere se è conveniente assumere un determinato lavoratore come dipendente. Questo tipo di comportamento, anche se poteva risultare vantaggioso per datore di lavoro e per quel particolare lavoratore meritevole, era vietato da una vecchia norma che dava allo stato il monopolio del collocamento.
Oggi anche privati possono esercitare intermediazione, purché in possesso dei requisiti imposti dalla legge.

 

Vedi il Manuale.

Vediamo il collocamento dei disabili: in passato la legislazione imponeva che tutti i datori di lavoro pubblici o privato con più di 35 dipendenti fossero tenuti ad assumere dei dipendenti non vedenti, sordo muti, invalidi… Con la l. n. 68/1999 si parla di collocamento dei disabili (e non più collocamento obbligatorio come in precedenza) che sono raggruppati in tre categorie:

  1. disabili (psichici e fisici);
  2. invalidi (guerra, lavoro e servizio);
  3. non vedenti e sordomuti.

In più vi è un regime transitorio per le rimanenti categorie deboli come vedove, orfani…
Cambiano, inoltre, i numeri; la legge ora si applica per imprese con più di 15 dipendenti:

  1. un disabile per imprese con un numero di dipendenti compreso tra i 15 e i 35;
  2. due disabili per imprese con un numero di dipendenti compreso tra i 36 e i 50;
  3. il 7% del numero di occupati se i dipendenti superano le 50 unità.

I disabili sono parificati in tutto e per tutto ai dipendenti normali: un  disabile può essere licenziato per giustificato motivo, per giusta causa oppure se il grado di invalidità aumenta a tal punto da essere pericoloso per se stesso e per gli altri. In tali casi il datore di lavoro può adibire a mansioni inferiori il disabile mantenendogli la stessa retribuzione.
Le uniche imprese che non sono tenute ad assumere disabili sono le agenzie di trasporto marittimo, aereo e terrestre.

 

9.  DISTACCO E TRASFERIMENTO

Nel caso di lavoro privato comando e distacco sono sinonimi, mentre nella pubblica amministrazione sono due cose diverse (il distacco è un rapporto speciale soggetto a regole proprie). Dal 1993 è però iniziato un processo di privatizzazione della Pubblica Amministrazione (Bassanini).

Caratteristica: trilateralità del rapporto.

 

                    

 

Ricordiamo che il distacco è un istituto che ha creato la giurisprudenza.

Nell’ambito del Diritto del Lavoro si ha l’istituto del distacco quando un datore di lavoro A manda B a lavorare presso C.
Non è necessario il consenso del lavoratore.
Il distacco è stato recentemente disciplinato dal d. lgs. n. 276 del 2003 (Riforma Biagi), il quale ha stabilito che il distacco si configura quando il datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente il lavoratore a disposizione di un altro imprenditore. I requisiti quindi sono due:

      • il soddisfacimento di un proprio interesse;
      • la temporaneità del distacco (non è specificato il periodo temporale, nella norma 5 o 6 mesi).

Alla luce della nuova disciplina, quando il distacco comporta un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore. Inoltre quando il distacco comporta uno spostamento del lavoratore di più di 50 chilometri, può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.

 

ATTENZIONE: non  confondere la fattispecie con l’istituto del trasferimento.

In base all’art. 2103 cod. civ. “…(il prestatore di lavoro) non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive…”.

Per unita produttiva si intende un’articolazione dell’impresa dotata di autonomia che è idonea a produrre beni e servizi.

Ho un datore di lavoro che possiede due unità produttive X e Y, cioè parti dell’impresa dotate di autonomia funzionale e produttiva (ad esempio, le filiali di una banca). Per potere trasferire un dipendente da X a Y devono sussistere ragioni tecniche, organizzative e produttive (vedi articolo precedente). Se non sussistono tali ragioni il trasferimento è nullo (art. 2103, comma 2, cod. civ.).

Il trasferimento del lavoratore ha le seguenti caratteristiche:

  1. definitivo: una volta che viene disposto il trasferimento dalla sede X alla sede Y il lavoratore non tornerà più alla sede X (il trasferimento è diverso dalla trasferta, la trasferta è uno spostamento temporaneo del lavoratore, per la trasferta possono non sussistere le esigenze tecniche, organizzative e produttive);
  2. mutamento topografico: deve esistere una distanza sufficientemente grande fra le due sedi, comunque tale distanza non è fissata, è il giudice a stabilire in via equitativa, di volta in volta, se la distanza è sufficiente. Maggiore è la distanza maggiore è il sacrificio per il lavoratore.

Se sussistono le ragioni tecniche, organizzative e produttive il datore di lavoro può trasferire senza il consenso del lavoratore, se il lavoratore non accetta il trasferimento è da considerarsi dimissionario.

Il problema sotteso dal discorso delle ragioni tecniche, organizzative e produttive vuol fare riflettere sulla possibilità del trasferimento disciplinare, cioè sulla possibilità di trasferire il lavoratore come sanzione disciplinare. A stretto rigore il trasferimento disciplinare sembrerebbe illegittimo perché non sussistono ragioni oggettive, ma soggettive; inoltre l’art. 7, comma 4, dello statuto dei lavoratori vieta che il datore possa adottare sanzioni disciplinari che comportano mutamenti definitivi. Oggi la giurisprudenza ha ammesso, in alcuni casi, il trasferimento disciplinare ed è previsto dal contratto di lavoro collettivo dei dipendenti (Enel).

Se c’è un trasferimento di sede non sono necessarie le ragioni tecniche, organizzative e produttive infatti l’iniziativa economica privata è libera (art. 41 cost.).

Nel caso in cui il trasferimento sia all’estero è necessario il consenso del lavoratore (legge speciale 387).

Se è il lavoratore stesso a richiedere il trasferimento allora non si applica l’art. 2103.

 

10. LAVORO A DOMICILIO E TELELAVORO

Lavoro a domicilio: un lavoratore è perfettamente integrato nel ciclo produttivo dell’impresa ma invece di lavorare nell’impresa lavora a casa.

Evidenziamo ora il fatto che il lavoro a domicilio e ben distinto dal lavoro domestico.

Per lavoro domestico si intende il lavoro di  maggiordomo, di donna delle pulizia, di cuoco ecc…

Il lavoro a domicilio è subordinato se sussistono 3 requisiti (l. n. 877/1973):

  • sussiste la subordinazione;
  • non può avere alle proprie dipendenze altri lavoratori né apprendisti (potrà avere familiari a carico e conviventi che lo aiutano);
  • deve essere inserito nel ciclo produttivo dell’impresa in modo continuativo ed esclusivo. (Cioè per solo un datore di lavoro)

I casi in cui non è concesso usufruire di lavoro a domicilio sono i seguenti:

  • lavoratore che maneggia sostanze pericolose;
  • l’impresa ha posto in essere riduzioni di personale (licenziamenti collettivi per giustificato motivo oggettivo) entro un anno;
  • quando l’imprenditore porta all’esterno macchinari che erano dentro l’impresa per fare lavorare lavoratori a domicilio.

Esiste l’obbligo di pagare il lavoratore a domicilio con il cottimo pieno (quindi a pezzo). Esistono particolari obblighi di documentazione del lavoratore a domicilio in sede d’azienda da parte dell’impresa (apposito registro).

Telelavoro: può essere (in taluni casi) una tipologia di lavoro a domicilio; in realtà con la parola telelavoro (TL) si intende solo la modalità con cui si svolge il lavoro. Nel caso venga svolto a casa propria, allora può diventare lavoro a domicilio subordinato.

 

I problemi del TL sono legati ai controlli che il datore di lavoro può esercitare sul lavoratore. Le linee guida che si possono individuare:

  • sorveglianza sull’operato del lavoratore;
  • indagini attinenti alla vita privata (politica, religione, sindacato) del lavoratore (art. 8 statuto lav.);
  • libertà sindacale del telelavoratore (in questo caso l’utilizzo di un elaboratore comporta un esercizio limitato dell’attività sindacale);
  • la materia sulla sicurezza del lavoro.

A queste problematiche è venuto incontro una disciplina del TL redatta in occasione di un accordo interconfederale del 1997, in cui si regolamenta il TL nella P.A. (nel mondo del “privato”, invece, la situazione è ancora in alto mare).

 

11. CATEGORIE, QUALIFICHE E MANSIONI

L’art. 96 delle disposizioni di attuazione del Codice Civile, prevede che il datore di lavoro, faccia sapere al lavoratore al momento dell’assunzione, quali sono la categoria e la qualifica che gli sono assegnate, in funzione delle mansioni per cui è stato assunto.

Per mansione intendiamo quell’insieme di compiti che il lavoratore deve svolgere nell’ambito dell’impresa.

L’esistenza di tante mansioni rende necessario il fatto suddividere in diversi raggruppamenti le mansioni che hanno il medesimo peso professionale (mansioni equivalenti); ogni gruppo prende il nome di qualifica (o livello).
In Italia esiste un inquadramento unico che comprende molti livelli: I livello, II livello, III livello… L’inquadramento unico è detto così perché comprende sia mansioni impiegatizie, che operaie, che mansioni proprie dei quadri.
Ovviamente, deve tenersi presente che oggi come oggi esistono mansioni impiegatizie meno importanti (e anche meno retribuite), di quelle operaie. Si pensi al diverso peso di un usciere (impiegato) e di un operaio estremamente specializzato.
All’interno di un livello, tuttavia, abbiamo un profilo omogeneo. Con l’inquadramento unico, si è soppesato il valore professionale di ogni mansione, aldilà dell’appartenenza ad un categoria. A questa concezione ci si è arrivati solo negli anni ’70.

Ma chi stabilisce l’inquadramento delle mansioni nei diversi livelli? E’ la contrattazione collettiva che, settore per settore, stipula l’inquadramento; per cui parlare di un III livello, necessita la conoscenza del CCNL (contratto collettivo nazionale di lavoro).

Il datore di lavoro, può attribuire al lavoratore una qualifica convenzionale, cioè “ti assumo per una mansione di III livello, ma siccome sei molto in gamba ti inquadro come IV livello”.
Nell’ambito lavorativo si incontrano anche mansioni promiscue (es.: un po’ III livello, un po’ IV ed un po’ V livello: in tali casi è opportuno verificare quale delle tre è prevalente sia in quantità sia in qualità, per poi deciderne la retribuzione appropriata).

Categorie (art. 2095 cod. civ.), inizialmente quelle legali (cioè previste dalla legge) erano tre: dirigenti, impiegati e operai.
Poi, nel 1985, con la l. n. 190/1985 è stata prevista una nuova categoria: quella dei quadri. Oggi, quindi, le categorie legali sono quattro.

A queste quattro categorie va aggiunta la categoria degli intermedi: è una categoria contrattuale, cioè prevista dai contratti collettivi. Per cui il nostro elenco diventa:

  • dirigenti;
  • quadri;
  • impiegati;
  • intermedi;
  • operai.

Chi dice che un lavoratore è un quadro, piuttosto che un operaio? Viene specificato dal CCNL del settore di appartenenza, il quale stabilisce che chi compie il tal lavoro, deve essere necessariamente un quadro, o un operaio, o un intermedio…

Dirigente: con il termine dirigente si intende colui che è in grado di sostituire l’imprenditore in tutte le sue funzioni (alter ego del datore di lavoro).

Nel caso particolare delle grandi aziende (S.p.A.) avremo tipicamente due figure ai vertici dell’impresa: l’imprenditore che investe i suoi capitali (e non ha incarichi operativi), e il dirigente che lavora all’interno dell’impresa con incarichi operativi.
La distinzione diviene necessaria poiché nel caso di piccole realtà si assiste al rapporto “titolare – dirigente” (il dirigente è subordinato al titolare), mentre nella grande realtà le parti saranno “CdA – dirigente” (il dirigente è subordinato al Consiglio di Amministrazione).

Nelle categoria dei dirigenti si possono ulteriormente classificare i grandi dirigenti, i medi dirigenti ed i mini dirigenti (ovvero non si ha l’omogeneità presente nelle altre categorie). Il dirigente è un soggetto caratterizzato da ampi poteri, da una elevata autonomia che persegue i macro-obiettivi dell’impresa (la giurisprudenza in materia di dirigenti punta su intensità e ampiezza dei poteri).

Il rapporto di lavoro dirigenziale è speciale: è sempre subordinato, ma con modalità diverse (non è soggetto a potere disciplinare, questo in base ad una sentenza dalla cassazione). Questo, però, vale solo per dirigenti apicali: i minidirigenti sono soggetti al potere disciplinare dei medi e dei grandi.

NOTA: è importante sottolineare la differenza fra minidirigente e pseudodirigente: questi è un quadro che lavora da quadro, ma che gli è stata riconosciuta convenzionalmente la qualifica dirigenziale, per poterlo retribuire da dirigente.
La mancanza di potere disciplinare sottintende che fra imprenditore e dirigente deve esistere un rapporto di fiducia reciproca; in ogni caso, tuttavia, i dirigenti sono soggetti ad una disciplina a sé stante: non hanno diritto a straordinario, non hanno l’obbligo di marcare il cartellino… Inoltre l’art.2 della l. n. 604/1966 sancisce il diritto da parte del dirigente di avere la comunicazione per iscritto del licenziamento. I contratti collettivi, poi, introducono anche per il dirigente un obbligo di motivazione del licenziamento.

Quadri: come si è detto, la categoria dei quadri, nasce soltanto nel 1985; questi sono soggetti che hanno funzioni direttive e di controllo (ma meno estese dei dirigenti), oppure svolgono funzioni altamente qualificate. La legge specifica chi sono i quadri (l. n. 190/1985, ovvero è la legge che ha disciplinato la categoria).

Impiegati ed operai: per trovare le fonti che definiscono gli impiegati e gli operai, è necessario risalire al Regio Decreto 1825 del 1924. I criteri di distinzione fra le categorie, sono due (criterio negativo, criterio positivo).

  • criterio negativo: è impiegato chi svolge attività intellettuale, ma non manuale; è operaio chi svolge attività manuale, ma non intellettuale;
  • criterio positivo: è impiegato chi collabora all’impresa (o meglio coopera nello svolgimento dell’attività produttiva), mentre operaio è colui che collabora nell’impresa (essere dentro a lavorare, meno importante).

Come distinguo chi è operaio da chi è impiegato? Ovviamente, anche in questo caso, sono i CCNL che provvedono ad individuare chi è operaio e chi è impiegato.

Intermedi: come si è accennato, è una categoria contrattuale relativa a  lavoratori con

  • mansioni superiori a quella degli operai;
  • incarichi che implicano particolare fiducia;
  • controllo su altri operai.

La creazione della categoria degli intermedi nasce dall’esigenza di avere figure non impiegatizie, ma più qualificate di un operaio.

Riassumendo, abbiamo uno schema di questo tipo:

  • dirigenti (sono determinati da: giurisprudenza, CCNL);
  • quadri (sono determinati da: l. n. 190/1985);
  • intermedi (sono determinati da: CCNL)
  • operai, impiegati (sono determinati da: legge, CCNL).

 

12. MOBILITA’ PROFESSIONALE

La mobilità professionale è disciplinata nell’art. 2013 cod. civ.: questo articolo regolamenta la mobilità professionale all’interno dell’impresa. La casistica prevede tre tipologie diverse di mobilità:

  • mobilità verticale ascendente;
  • mobilità verticale discendente;
  • mobilità orizzontale.

Nel caso (i), il datore di lavoro assume un III livello e poi in seguito lo utilizza per mansioni superiori (p.e. del IV livello). In tal caso, è necessario il consenso da parte del lavoratore (ovviamente questa situazione, per il lavoratore, comporterà responsabilità maggiori a fronte di un aumento di retribuzione).
Generalmente questa “promozione” vale per un periodo limitato nel tempo; essa diviene definitiva quando supera il periodo di 3 mesi (periodo massimo), ovvero il periodo eventualmente inferiore stabilito dai contratti collettivi e a condizione che il lavoratore non sia stato adibito a mansioni superiori per la sostituzione di altro lavoratore con diritto alla conservazione del posto (ad esempio una donna incinta).

Per quanto riguarda il caso (iii), abbiamo mansioni equivalenti, ovvero mansioni che comportano l’uso del medesimo bagaglio professionale. Il datore di lavoro può adibire a mansioni equivalenti senza chiedere il consenso del lavoratore. Potrebbe accadere, però, che mansioni equivalenti abbiano retribuzioni differenti. Come esempio, prendiamo la figura del ragioniere in banca, addetto allo “sportello”, il quale ha diritto ad una indennità di cassa. Se questo cassiere viene spostato all’ufficio titoli, si potrebbe porre il seguente problema: l’indennità di cassa va ugualmente pagata?

  • Il dibattito è ancora aperto, infatti l’art. 36 della costituzione, prevede che “il prestatore di lavoro, ha diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro svolto”. Si è affermato che se due lavoratori all’interno della stessa impresa svolgono la stessa quantità di lavoro, con la medesima qualità, allora a questi spettano la stessa retribuzione.
  • Se si condivide questa impostazione, allora, nel caso di spostamento del cassiere allo sportello titoli, l’indennità di cassa non può essere mantenuta, poiché avrei due impiegati allo sportello titoli con retribuzione differente. E’ necessario allora distinguere due tipi di indennità:
  • indennità espressive di una professionalità (ad esempi, l’indennità estero, se da un lato serve per retribuire il lavoratore per il maggior disagio derivante dal fatto di lavorare all’estero, per una parte sarà anche espressiva della capacità del lavoratore di lavorare all’estero, perché conosce la lingua straniera);
  • indennità modale (che attengono alle modalità di svolgimento della prestazione, ad esempio, indennità di cassa, indennità di sottosuolo, indennità frigo).
  • Le indennità espressive della professionalità rimangono; le indennità modali cadono.
  • Si tenga presente, però che a questa impostazione se ne contrappone un’altra, secondo la quale in caso di adibizione a mansioni equivalenti il lavoratore ha diritto a non subire alcuna diminuzione della retribuzione. Con la conseguenza che al cassiere spostato all’ufficio titoli andrebbe mantenuta l’indennità di cassa.

Tra le due impostazioni, peraltro, è forse preferibile propendere per la prima.

Il legislatore non parla di mobilità verticale in basso, poiché non l’ammette.

A tal proposito, però, esistono delle eccezioni. Le più rilevanti sono:

  • quando il lavoratore rischia il licenziamento per giustificato motivo oggettivo; in questo caso, tra la tutela del posto e la tutela della professionalità deve evidentemente prevalere la tutela del posto.
  • E’ evidente, peraltro, che laddove si proceda al licenziamento, la giurisprudenza prevede l’obbligo del repechage, nel senso che il d.d.l. può licenziare solo se non esistono altre mansioni (anche inferiori) cui adibire il lavoratore in esubero. In questa ipotesi il lavoratore adibito a mansioni inferiori perderà il diritto alla retribuzione precedente.
  • può inoltre essere adibito a mansioni inferiori il lavoratore che sia portatore di handicap, in caso di aggravamento delle proprie condizioni senza modificare però la retribuzione (v. collocamenti portatori di handicap).

Nota: Qualora vengano stipulati patti in contrasto con l’art. 2103 cod. civ. fra il datore di lavoro ed il lavoratore, questi sono dichiarati automaticamente nulli. Nel suddetto articolo si menziona anche il trasferimento, poiché in taluni casi può accadere che il trasferimento muti la professionalità del lavoratore. E’ importante ricordare che il trasferimento può avvenire in maniera unilaterale da parte del datore di lavoro per motivi tecnici e/o organizzativi. Il legislatore tutela comunque il lavoratore dichiarando nullo un trasferimento di carattere peggiorativo.

 

13. LA RETRIBUZIONE

La retribuzione è l’obbligazione più importante del datore di lavoro nei confronti del lavoratore; lo prevede l’art. 2094 cod. civ. e l’art. 36 della costituzione. In tali leggi vengono sanciti due principi fondamentali:

  • il principio di proporzionalità (rispetto al lavoro svolto);
  • il principio di sufficienza (rispetto al conseguimento di una vita dignitosa per se e per la propria famiglia).

Il punto (i) prevede che la retribuzione sia proporzionale alla quantità ed alla qualità del lavoro. Il punto (ii) sostiene che anche a prescindere dal principio di proporzionalità, il lavoratore ha diritto ad una retribuzione tale da garantire una vita libera e dignitosa per se e per la propria famiglia.
Diventa allora problematico stabilire gli standard di vita libera e dignitosa: una retribuzione di 2 milioni di lire per un single garantirà uno standard di vita diverso da quello offerto da una retribuzione di 2 milioni di lire con moglie e 6 figli a carico. In tal caso il divario esistente fra i regimi viene coperto dallo stato mediante l’utilizzo degli assegni familiari. Il quantum di sufficienza è stabilito, solitamente, dal giudice il quale per stabilire la cifra idonea, consulta il CCNL (ma può anche decidere diversamente).
Il principio di proporzionalità corrisponde al principio di corrispettività (retribuzione in cambio di lavoro); esistono, però, casi particolari in cui ho retribuzione in cambio di “non lavoro”  (ad esempio, ferie, malattie). Questo sta ad indicare che il principio di corrispettività è semplicemente una linea guida, ma non sempre è applicata.

Nota: in teoria il CCNL è applicabile solo se il lavoratore è iscritto al sindacato. Per quelli non iscritti, non dovrebbe essere applicato. Però sarebbe più equo che tutti potessero usufruire del CCNL (alla cui redazione partecipano i sindacati). Esistono, quindi, delle linee guida tali per cui la giurisprudenza prende decisioni nei confronti di tutti i lavoratori (iscritti o meno al sindacato).

La classificazione della retribuzione, il codice civile prevede 6 fasce retributive:

  • a tempo (retribuzione oraria, settimanale, mensile);
  • cottimo nelle seguenti forme:
  • cottimo a pezzo;
  • cottimo a tempo, in cui si misura il tempo necessario ad effettuare un pezzo del processo produttivo;
  • cottimo collettivo (a squadra);
  • cottimo individuale;
  • cottimo pieno (il lavoratore viene pagato interamente a cottimo, come è il caso del lavoratore a domicilio);
  • cottimo misto (pagati in parte con un numero di pezzi, in parte con un minimo fisso).
  • partecipazione agli utili (pagamento con una percentuale sugli utili aziendali): in questo caso all’atto dell’assunzione deve essere specificata la quota percentuale;
  • partecipazione ai prodotti (poco diffusa: ad esempio, nella pesca);
  • con provvigione (retribuzione “parametrata” al volume degli affari fatti concludere: tipici esempi sono il cameriere ed il rappresentante);
  • prestazione in natura (abbastanza diffusa soprattutto in ambito di qualifiche elevate; in questa categoria rientra l’auto aziendale, il telefonino a spese dell’azienda).

Per quanto riguarda i punti dal (ii) al (v) si tratta di incentivi per i lavoratori subordinati a lavorare di più. Il tutto va combinato con il principio di sufficienza: “se lavoro poco avrò diritto ad una sufficienza, se cado nel caso di insufficienza lavorativa, posso venire licenziato” (questo è il motivo per cui ormai più nessuna sottoscrive dei contratti di questo tipo).

Negli ultimi anni si è vista la nascita di nuove tipologie di retribuzione (formalizzate dai CCNL). Queste sono state aggiunte come nuovo stimolo per attirare/mantenere lavoratori particolarmente importanti. Un esempio in questo senso possono essere i cosiddetti fridge benefit, ovvero benefici aggiuntivi (telefonino aziendale, iscrizione al golf club…) tipicamente assegnati a dirigenti e quadri. Oltre al prestigio per l’azienda derivante dall’avere un dirigente al golf club, è possibile avere delle convenienze dal punto di vista fiscale (anche se negli ultimi anni il margine di convenienza si sempre più assottigliato).

Altri esempi di retribuzione differente dal tradizionale salario, sono gli accordi di produttività oppure gli accordi di redditività (anche se questi non sono stipulati singolarmente, ma collegialmente).

La struttura della retribuzione è particolarmente complessa.
Avremo una Retribuzione Normale Minima suddivisa in:

  • paga base (minimo standard);
  • scatti di anzianità.

Mentre, invece, la Retribuzione Globale suddivisa in:

  • Retribuzione Normale Minima;
  • elementi accessori suddivisi a loro volta in:
    • maggiorazioni (lavoro notturno, festivo);
    • integrazioni, ovvero:
      • ferie;
      • superminimi;
      • mensilità supplementari (tredicesima);
      • indennità;
      • indennità di Anzianità – TFR.

Superminimo: con il concetto di superminimo si intende una maggiorazione del livello minimo della retribuzione; se il CCNL prevede una retribuzione di 2 milioni per una certa categoria, il datore di lavoro può autonomamente decidere di dare 200.000 in più rispetto alla retribuzione definita dal CCNL.

Nasce però il problema dell’assorbibilità dei superminimi. Supponiamo la seguente situazione: un lavoratore è soggetto al passaggio dal III al IV livello; la retribuzione precedente era di 2 milioni più 200.000 lire di superminimo. Il nuovo inquadramento prevede una retribuzione mensile di 2.200.000 lire. I problemi che si pongono sono i seguenti: la retribuzione dopo il passaggio di livello, dovrà essere di 2.400.000? Se un domani il CCNL prevede un aumento, il datore di lavoro lo deve applicare, in virtù del fatto che adotta un superminimo? La risposta a questi problemi è nelle mani del datore di lavoro. E’ infatti suo compito far si che specifichi se intende far avvenire quello che è chiamato assorbimento, ovvero il superminimo operi da cuscinetto fra le variazioni della retribuzione base del CCNL e le retribuzioni in essere all’interno dell’impresa. Se il datore non specifica nulla, è sottinteso che l’assorbimento non viene praticato.

Esistono quattro requisiti essenziali per parlare di retribuzione:

  • corrispettività;
  • continuità;
  • obbligatorietà;
  • determinabilità.

Qualora venisse a mancare anche uno solo di questi requisiti, allora non è più corretto parlare di retribuzione. Il primo punto è abbastanza chiaro: avremo un corrispettivo in denaro a fronte di una prestazione lavorativa. Il secondo punto, invece, non è così immediato. E’ necessario dover distinguere tra “continuità” e “cadenza mensile”. La continuità non implica necessariamente che la retribuzione venga erogata con cadenza mensile, in quanto può essere erogata anche con frequenza semestrale o annuale. L’importante è che le scadenze concordate siano rispettate (la continuità è riferita a questo). Per quanto riguarda il terzo e quarto punto sono abbastanza chiari e non necessitano ulteriori spiegazioni.

 

14. DOVERI DEL LAVORATORE

 

In base all'art. 2104 cod. civ. sul lavoratore grava l'obbligo di diligenza e di obbedienza rispettivamente disciplinati dal primo e dal secondo comma di questo articolo:

  • il lavoratore deve osservare il requisito di diligenza, che deve soddisfare tre caratteristiche:
    • la diligenza deve essere adeguata alla natura del suo lavoro; infatti normalmente si richiede una “diligenza del buon padre di famiglia”, ossia del buon senso, ma questo è  impensabile nel diritto del lavoro (perché insufficiente);
    • deve seguire l'interesse dell'impresa (se pur con dei limiti);
    • deve seguire l'interesse superiore della nazione. Quest'ultimo punto, però, esiste solo in via formale ma nella pratica può  considerarsi abrogato.
  • il lavoratore deve osservare il dovere di obbedienza. In particolare, se la natura del lavoro del dipendente necessita di una coordinazione tra la sua attività  e quella degli altri per avere un prodotto integrato, il lavoratore è  obbligato a seguire le direttive al fine di raggiungere tale scopo.

La diligenza e l'obbedienza si possono considerare, più  che degli obblighi veri e propri, una sorta di modalità dell'attuazione dell'obbligo fondamentale (che è  quello di prestare l'attività  lavorativa).

Un obbligo completamente autonomo è , invece, quello sancito dall'art. 2105 cod. civ. e cioè  l'obbligo di fedeltà, il quale a sua volta comprende 3 obblighi:

  • non si possono trattare affari per conto proprio o di terzi che sono concorrenti al datore di lavoro;
  • non si possono divulgare notizie riservate (cioè  quelle attinenti alla produzione e all'organizzazione dell'azienda). La mancata osservanza di questo divieto ha conseguenze differenti a seconda della gravità: infatti se si tratta di una divulgazione colposa (ossia non intenzionale) il lavoratore andrà  incontro ad una sanzione amministrativa per risarcire l'azienda del danno causato, se è  dolosa (cioè  intenzionale) allora andrà  soggetto a sanzioni penali (rischio di galera);
  • non si possono usare (quindi non solo divulgare) notizie riservate al fine di recare pregiudizio al datore di lavoro.

Parentesi: l'obbligo di fedeltà  non deve confondersi con il patto di non concorrenza (disciplinato dall'art. 2125 cod. civ.). Infatti mentre il primo dura tutto il periodo della attività lavorativa, il secondo è  fatto per vincolare il lavoratore anche dopo la cessazione del rapporto. Per questo motivo mentre il primo è  unilaterale (obbligo), il secondo è bilaterale (patto) ossia ci vuole il consenso di entrambi le parti. Infine è doveroso aggiungere che questo patto non può avere luogo se non rispettando i seguenti requisiti:

  • limite d'oggetto: si deve esattamente specificare cosa il datore di lavoro vuole che il lavoratore non faccia e lo si deve vincolare solo a quell'oggetto specifico;
  • limite di luogo: non si può  impedire ad un disegnatore di ceramica di Sassuolo di far disegni in Francia;
  • limite di tempo: il patto non può avere durata superiore ai 5 anni per i dirigenti e ai 3 anni per gli altri;
  • il patto deve avere forma scritta (può essere ad esempio una clausola del contratto di lavoro).

Nessun vincolo è imposto sul momento della stipulazione del patto: esso dunque può essere fatto prima, durante o dopo l'attività  lavorativa.

 

15. POTERI DEL DATORE DI LAVORO

 

I poteri del datore di lavoro sono i seguenti:

  • potere direttivo: esplicitato in 3 profili importanti:
    • fondamento: si cerca di capire in cosa trova fondamento il potere direttivo. C'è  chi dice che sia insito nel contratto individuale, mentre altri dicono che necessario nell'organizzazione del lavoro. Accettare l'una o l'altra teoria porta a conseguenze molto diverse. Tuttavia questo discorso teorico, seppure molto importante per la giurisprudenza, esula dagli obiettivi del nostro corso;
    • contenuto: il datore di lavoro può dirigere l'attività del lavoratore il quale è obbligato a osservare le direttive a lui imposte dal datore stesso o dai suoi collaboratori che sono gerarchicamente superiore al lavoratore (art. 2104 cod. civ.);
    • limiti: è un discorso molto ampio e noi per esempio abbiamo già  visto che il datore di lavoro non può adibire a mansioni inferiori il lavoratore a meno di eccezioni molto particolari.
  • potere di controllo: anche qui abbiamo il fondamento, il contenuto (ovvio) e i limiti. In particolare ci preme approfondire i limiti di questo potere sanciti dagli articoli dello statuto dei lavoratori:
  • non si può vigilare attraverso guardie giurate (art. 2), questo al fine di evitare che il lavoratore venga intimorito;
  • il lavoratore vigilato deve sapere chi è  addetto a vigilarlo (art. 3);
  • non si possono usare impianti audiovisivi per vigilare i lavoratori (art. 4) e se li deve montare per motivi di sicurezza del lavoro, il datore deve accordarsi con le RSA (Rappresentanze Sindacali d'Azienda);
  • sono vietate le visite personali di controllo (ossia le perquisizioni) se non sono indispensabili per la tutela del patrimonio aziendale in relazione alla qualità  del materiale o dei prodotti o degli strumenti, e comunque devono essere fatte all'uscita del luogo di lavoro, attraverso sistemi di selezione automatica (onde evitare discriminazioni) e sempre salvaguardando la dignità  del lavoratore. Anche in questo caso è  fondamentale l'accordo con le RSA.
  • potere disciplinare: è  sancito dall'art. 2106 cod. civ.; il lavoratore può essere soggetto a provvedimenti disciplinari conservativi (rimprovero verbale o scritto, sospensione e multa) oppure estintivi (licenziamento) a seconda della gravità  dell'infrazione commessa. È  stato previsto questo potere per avvantaggiare il lavoratore: infatti nel diritto civile quando un contraente non adempie al contratto (o a una sua parte) quest'ultimo viene annullato. Dunque se si facesse così  anche nel diritto del lavoro, vedremmo licenziare un lavoratore anche per colpe lievi. Allora sono state introdotte le 4 sanzioni conservative e si userà  l'estintiva solo per colpe molto gravi. Ci sono anche limiti a questo potere e sono quelli scritti di seguito.

Limiti formali al potere disciplinare:

  • quello sancito dal principio di tipicità: per adottare una sanzione amministrativa è  necessario che questa sia stata tipizzata in precedenza su un codice disciplinare (che associa appunto le infrazioni ai provvedimenti). Questo codice è  spesso di fonte bilaterale ma in alcuni casi può anche essere di fonte unilaterale. Questo tipicamente è ammesso quando il datore decide di emanare un codice unilaterale personale che è  più favorevole al lavoratore di quello che prevede la legge;
  • il datore di lavoro deve affiggere il codice disciplinare in un luogo accessibile a tutti. Si è parlato anche di affissione virtuale (ad esempio in un sito), ma solo nel caso del telelavoro e comunque bisognerebbe fare in modo che il lavoratore appena entri nella finestra di lavoro si trovi davanti il codice disciplinare;
  • il datore di lavoro deve contestare (per iscritto e in maniera molto precisa) al lavoratore l'inadempienza prima di prendere provvedimenti disciplinari;
  • il datore di lavoro deve dare la possibilità  al lavoratore di difendersi. Il dipendente potrà  farlo in prima persona o attraverso il sindacato entro 5 giorni dalla contestazione.

Questi giorni sono stati fissati per dare la possibilità  al datore di lavoro di prendere provvedimenti a "mente fredda". Si ci domanda cosa dovrebbe accadere nel caso in cui il lavoratore per difendersi non sfrutta tutti e 5 i giorni; secondo alcuni si dovrebbero aspettare comunque lo scadere dei 5 giorni; secondo altri, invece, il datore è  legittimato a prendere eventuali provvedimenti a meno che il lavoratore non si riservi di presentare altre difese successivamente.

Limiti sostanziali al potere disciplinare:

  • non possono essere presi provvedimenti definitivi come ad esempio la retrocessione. È  invece ammesso il trasferimento disciplinare (anche se in passato non lo era);
  • non sono ammesse multe superiori a 4 ore di retribuzione. Tra l'altro le multe non se le tiene il datore, perchè quest'ultimo è obbligato a versare la trattenuta sullo stipendio del lavoratore in un fondo. Dunque la multa diventa solo uno strumento "punitivo" per il lavoratore ma non avvantaggia economicamente il datore;
  • non è  possibile sospendere il lavoratore per più  di 10 giorni;
  • non può considerare nella recidività una inadempienza sanzionata oltre il biennnio. Infatti la recidività è un parametro che misura con quale frequenza il lavoratore commette una o più  inadempienze e serve per stimare il peso del provvedimento da prendere. Dunque quando il datore deve giustificare un provvedimento potrà considerare la storia delle inadempienze del lavoratore escludendo, però, quelle più  vecchie di 2 anni;
  • infine è doveroso ricordare che i dirigenti sono esclusi dai provvedimenti conservativi.

Difesa del lavoratore: una volta che il datore di lavoro decide di adottare un provvedimento, il lavoratore può impugnare la sanzione davanti ad un collegio costituito da un suo rappresentante, un rappresentante del datore e un direttore del lavoro. Però ha tempo 20 giorni per scegliere questa strada e durante questo periodo il provvedimento è  sospeso.
Oppure può impugnare la contestazione in via giudiziaria (tramite ricorso) e ha tempo 5 anni durante i quali il provvedimento si applica (a differenza del caso precedente).
Esiste una terza alternativa che era partita come un tentativo facoltativo ma oggi è divenuto obbligatorio o meglio propedeutico alle precedenti due alternative. Si tratta del tentativo di concilio ossia ci si reca alla direzione provinciale del lavoro dove si attuerà  un processo conciliativo.

 

16. LICENZIAMENTI

 

La prima legislazione in materia di licenziamenti risale al 1942, anno di emanazione del codice civile, quando con l’art. 2118 del suddetto codice, al datore di lavoro era consentito licenziare liberamente il lavoratore purchè vi fosse il preavviso. Se poi vi era anche la giusta causa, allora non era nemmeno necessario dare il preavviso. Oggi tale forma di licenziamento è limitata ed applicabile solo a 5 categorie di lavoratori, categorie che compongono un’area lavorativa detta della LIBERA RECIDIBILITA’, di cui si parlerà in seguito.

Abbiamo visto che, ora,  la regola generale è  quella che il datore di lavoro può  licenziare solo se esiste una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo o oggettivo (requisiti sostanziali).

Un giustificato motivo oggettivo può aversi per ragioni d'impresa o per ragioni attinenti alla persona del lavoratore (in questo caso spesso rientra la sopravvenuta non idoneità  del lavoratore che è un effetto non dipeso dalla volontà del lavoratore, a differenza del motivo soggettivo che riguarda una grave inadempienza compiuta volontariamente dal lavoratore).

Oltre ai requisiti sostanziali (art. 1 l. n. 604) si aggiungono anche quelli formali (art. 2 l. n. 604): il licenziamento deve essere comunicato per iscritto; il lavoratore ha 15 giorni di tempo per richiedere i motivi del provvedimento (che saranno scritti su un foglio separato dalla lettera di licenziamento) e il datore di lavoro ha 7 giorni per rispondere a tale richiesta.

La mancata osservanza di uno dei requisiti di cui sopra, porta il licenziamento ad essere illegittimo. Tuttavia questo attributo non è di per sé molto significativo poiché  ci sono diversi gradi di illegittimità; il licenziamento può  essere:

  • nullo: l'ipotesi è quella del licenziamento discriminatorio oppure il licenziamento della lavoratrice madre, oppure per causa di matrimonio ed infine il licenziamento in frode alla legge;
  • inefficace: quando non si rispettano i requisiti formali (ad es. se si fa ricorso alla forma orale anziché scritta);
  • inesistente: è simile al caso precedente;
  • annullabile: quando non si osservano i requisiti sostanziali (ad es. manca la giusta causa od il giustificato motivo).

La conseguenza del licenziamento illegittimo varia a seconda dell'appartenenza del lavoratore ad una delle seguenti aree di tutela:

  • area della stabilità reale (anche nota come area della tutela forte ed introdotta dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori): in questa area si trovano quei lavoratori che sono alle dipendenze di un datore che rientri in una delle seguenti categorie:
    • datori di lavoro (imprenditori e non) che nell'unità produttiva occupano più  di 15 dipendenti oppure più di 15 dipendenti nelle unità dello stesso comune oppure più di 60 in ambito nazionale;
    • imprenditori agricoli che occupano in ciascuna unità più di 5 dipendenti o più di 5 sulle unità  dello stesso comune o più di 60 sul territorio nazionale;
    • datori di lavoro che hanno licenziato in maniera discriminatoria (solo per il caso specifico);
  • area della stabilità obbligatoria (anche nota come area della tutela debole ed introdotta dalla l.n. 604/66): in questa area sii trovano quei lavoratori che sono alle dipendenze di un datore che rientri in una delle seguenti categorie:
  • datori di lavoro (imprenditori e non) che nell'unità produttiva occupano fino a 15 dipendenti oppure fino a 15 dipendenti nelle unità dello stesso comune oppure fino a 60 in ambito nazionale;
  • imprenditori agricoli che occupano in ciascuna unità fino a 5 dipendenti o fino a 5 sulle unità  dello stesso comune o fino a 60 sul territorio nazionale;
  • organizzazioni di tendenza (organizzazioni senza fini di lucro che svolgono attività quali istruzione, religione, culto);
  • area della libera recidibilità: in questa area rientrano i seguenti lavoratori:
  • lavoratori domestici;
  • dirigenti;
  • lavoratori in prova;
  • lavoratori sportivi professionisti;
  • lavoratori ultra sessantenni che non optano per la pensione pur rientrando nei requisiti pensionistici.

E’ lecito chiedersi ora quali sono le categorie di lavoratori che devono, o meno, venire conteggiate nel computo dei lavoratori subordinati ad un certo datore di lavoro. Tale conteggio risulta essere di fondamentale importanza in quanto, in base ad esso, viene stabilito se ad un determinato datore di lavoro sia da applicare la legislazione relativa all’area della STABILITA’ REALE, ovvero della STABILITA’ OBBLIGATORIA. Per quanto riguarda l’area della LIBERA RECIDIBILITA’ non vi sono problemi in quanto essa è ben definita dalle 5 categorie che vi appartengono.
Oltre ai lavoratori subordinati “classici” (a tempo indeterminato), sono da conteggiarsi i lavoratori a tempo parziale, determinato e quelli con contratto di formazione e lavoro (CFL). Non devono invece essere conteggiati i lavoratori temporanei, con contratto di lavoro interinale o di apprendistato assunti a tempo parziale.
 
Vediamo ora area per area cosa prevede la legge a seconda del tipo di illegittimità del licenziamento.

    • Sia che siamo nel caso dell'annullabilità, della nullità o dell'inefficacia, si applica l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori e dunque il datore di lavoro è  obbligato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Per reintegrazione si intende che il lavoratore riprenderà  il posto esattamente dove era (senza trasferimenti) e il datore deve pagare al lavoratore tutto il tempo che non ha lavorato fino alla data della effettiva reintegrazione (dunque è come se non fosse mai stato licenziato). Inoltre il datore deve pagare anche tutti i contributi e comunque deve risarcire almeno 5 mensilità di retribuzione (però  quest'ultima regola si applica poco). In alternativa alla reintegrazione il lavoratore (e non il datore) potrà optare per un risarcimento pari a 15 mensilità (oltre ai contributi e alle mensilità del periodo in cui non ha lavorato).

 

    • Se non ci sono i requisiti sostanziali (quindi siamo nel caso di annullabilità) il datore di lavoro deve riassumere entro 3 giorni oppure risarcire il lavoratore con un importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità. A differenza di prima chi sceglie tra le due alternative è il datore e non il lavoratore. Inoltre per riassunzione si intende che, a differenza di prima, se il lavoratore va in causa (dopo il licenziamento) e vince rimarrà comunque scoperto il suo salario dal giorno in cui è stato licenziato al giorno in cui viene riassunto.
    • Non avendo vincoli di forma ne sostanziali, non ha senso parlare di annullabilità o di inefficacia del licenziamento (almeno in prima battuta). Nel caso di nullità  per motivi discriminatori, la gravità  del vizio è così elevata da giustificare anche in quest'area l'applicazione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Negli altri casi di nullità si applica quello che viene chiamato "regime della nullità del diritto comune": è un caso molto simile negli effetti alla nullità per cui il lavoratore percepirà i contributi e la retribuzione ma non c'è il risarcimento minimo delle 5 mensilità e non potrà optare per le 15 mensilità al posto della reintegrazione.

 

Al dire il vero si deve discriminare anche il caso di licenziamento disciplinare privo di vincoli procedurali. Trattandosi di un licenziamento disciplinare deve rispettare i requisiti formali per l'attuazione di un provvedimento disciplinare e dunque può avvenire per giusta causa o per giustificato motivo. Se è  per giusta causa (ad esempio, lavoratore che ruba) la motivazione del provvedimento è  talmente grave che si applica la sospensione cautelare: cioè il rapporto viene congelato per 5 giorni al fine di ascoltare la difesa del lavoratore ma quest'ultimo non lavorerà per quel periodo (a differenza della sospensione del provvedimento disciplinare). Se il datore non rispetta la forma (come accade molto frequentemente) dalla teoria si dedurrebbe un licenziamento nullo o inefficace. Tuttavia in una sentenza (Corte di Cassazione, 1994) si è deciso che un licenziamento di questo tipo è annullabile.
Per quanto riguarda il caso del licenziamento disciplinare privo di vincoli procedurali nell'area (iii) dobbiamo dire che fondamentali principi di uguaglianza impongono che anche per i lavoratori di quest'area si applichi l'articolo 7 dello statuto dei lavoratori. Tuttavia in questo modo non ha più  senso dire che in quest'area non ci sono vincoli sostanziali e formali. Si può osservare che anche se c'è  una giusta causa o un giustificato motivo conviene licenziare senza dare spiegazioni ma dando solo il preavviso. Se poi l'avvocato del lavoratore riuscirà a dimostrare la presunta disciplinarietà allora in teoria cadremmo nel caso del licenziamento in frode alla legge perché  non abbiamo applicato l'articolo 7. Tuttavia esiste una sentenza della cassazione in cui si è  stabilito che il datore debba pagare solo il preavviso.

 

 

 

Per concludere riassumiamo il paragrafo dei licenziamenti con la seguente tabella:

 

Area i

Area ii

Area iii

Annullabile

Art. 18 st. lav.

Art. 8 l. n. 604

-

Inefficace

Art. 18 st. lav.

Tutela di diritto comune

-

Nullo per discriminazione

Art. 18 st. lav.

Art. 18 st. lav.

Art. 18 st. lav.

Nullo per altri motivi

Art. 18 st. lav.

Tutela di diritto comune

Tutela di diritto comune

Licenziamento disciplinare privo di vincoli procedurali

Art. 18 st. lav.

Art. 8 l. n. 604

-

 

Tutela di diritto comune (che non va confusa con la tutela reale di cui all’art. 18 St. lav.): il licenziamento non ha efficacia interruttiva del rapporto. Di conseguenza, poichè il rapporto continua, il lavoratore ha diritto ad essere riammesso in servizio. Evidentemente non si tratterà di una reintegrazione ex art. 18. Ovviamente il lavoratore non avrà diritto di optare per le quindici mensilità. Ovviamente il lavoratore, pur avendo diritto al risarcimento del danno, non avrà diritto alla misura minima delle 5 mensilità di cui all’art. 18.

 

17. Impugnazione del licenziamento e dimissioni

Se viene intimato un licenziamento e il lavoratore ritiene che esso sia illegittimo, egli può impugnarlo. A questo proposito, l’art. 6 l. n. 604/1966 dispone che: “il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso”.

E’ consigliabile procedere all’impugnazione del licenziamento tramite RACCOMANDATA CON RICEVUTA DI RITORNO.

Il termine di cui al comma precedente decorre dalla comunicazione del licenziamento ovvero dalla comunicazione dei motivi ove questa non sia contestuale a quella del licenziamento.

Il termine di 60 giorni per l’impugnazione del licenziamento è un termine di decadenza. Ciò significa che il licenziamento, benché illegittimo, se non impugnato entro 60 giorni diventa definitivamente inattaccabile.

L’articolo prevede due modalità d’impugnazione una giudiziale e una stragiudiziale.

  • Impugnazione giudiziale: il lavoratore – per far dichiarare l’illegittimità del licenziamento medesimo – si rivolge direttamente al giudice. In questa prospettiva, allora, si farà assistere da un avvocato che farà un ricorso e dopo aver depositato l’atto in cancelleria, andrà dagli ufficiali giudiziari che notificheranno l’atto al datore di lavoro (entro 60 giorni dalla data del licenziamento) e riporteranno la ricevuta controfirmata.
  • Impugnazione stragiudiziale: deve essere effettuata entro 60 giorni con un qualsiasi atto scritto, ma senza dover fare immediatamente ricorso al giudice. In questo caso il lavoratore invia una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, ovvero una lettera raccomandata a mani.

Resta inteso, che – una volta compiuta l’impugnazione in sede stragiudiziale (non importa da chi sia mandata la lettera, se direttamente dal lavoratore o da un sindacalista delegato o dall’avvocato del lavoratore) – se il lavoratore intenderà far dichiarare dal giudice l’illegittimità del licenziamento, dovrà poi fare un ricorso giudiziale (ma si avrà ora il normale termine prescrizionale di 5 anni per compiere tale operazione).
Il datore di lavoro in questo tempo – se non vuole stare nell’incertezza per cinque anni – può richiedere una sentenza di mero accertamento (ma di solito si aspetta e basta).

Parlando dell’impugnazione stragiudiziale dobbiamo ricordarci il coordinamento con il decreto legislativo n. 80/1988 (tentativo obbligatorio di conciliazione). Quest’ultimo ha introdotto un tentativo obbligatorio di conciliazione che rappresenta una condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Ci si potrebbe chiedere se la convocazione davanti al collegio possa essere considerata un atto valido per l’impugnazione stragiudiziale. Su questo punto la giurisprudenza è divisa.

Decadenza (termini brevi) e prescrizione (termini più lunghi) sono due istituti che servono per porre un termine alla possibilità di esercitare un diritto da parte del titolare del diritto medesimo. Se il diritto non viene esercitato entro il termine (di decadenza o di prescrizione, che sia) allora si estingue.

Andiamo a vedere quali lavoratori si conteggiano per il calcolo della consistenza dimensionale, ai fini della normativa sui licenziamenti.

Possiamo distinguere tre categorie diverse.

  • categoria delle esclusioni espresse, di questa categoria fanno parte:
    • lavoratori temporanei;
    • apprendisti;
    • lavoratori a tempo determinato parziale;
  • categoria delle inclusioni espresse per disposizione legislativa, di questa categoria fanno parte:
  • lavoratori assunti con contratto di formazione lavoro;
  • lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale;
  • lavoratori per i quali è dubbio se debbano essere computati o no, di questa categoria fanno parte:
  • lavoratori a domicilio;
  • lavoratori a termine.

In questi ultimi due casi, la decisione, ovviamente, è lasciata al giudice, al quale spetterà stabilire se nel caso concreto i dipendenti in questioni vadano computati o no.

Precisazione: un lavoratore a tempo indeterminato parziale viene conteggiato per il tempo che lavora. Ad esempio, due lavoratori che fanno 4 ore vengono conteggiati come 1 che fa 8 ore.

Dimissioni: (atto unilaterale recettizio) in questo caso è il lavoratore a recedere dal contratto di lavoro. Per le dimissioni non esiste nessun obbligo di forma, però bisogna andare a vedere i contratti collettivi se prevedono una forma scritta. Non si hanno obblighi di sostanza: cioè non si deve avere la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo per dare le dimissioni. Si deve però riconoscere il preavviso.

 

Il preavviso, la cui durata viene stabilita in base all’anzianità e all’inquadramento del lavoratore, serve per tutelare la parte che subisce il recesso (il datore di lavoro deve trovare un altro lavoratore e il lavoratore deve trovare un altro lavoro).

Il lavoratore, quando dà le dimissioni, deve riconoscere al datore il preavviso. Il lavoratore, peraltro, può anche decidere di non andare a lavorare. Resta inteso però che in questo caso dovrà ugualmente pagare l’indennità di mancato preavviso. Per il calcolo di tale indennità si considerano TUTTE LE PROVVIGIONI DI TIPO CONTINUATIVO, ed è sempre possibile per il lavoratore MONETIZZARE il preavviso.
Come si è già ricordato, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia posto in essere un comportamento che costituisce una giusta causa di dimissioni, il lavoratore, potrà recedere in tronco e il datore dovrà pagare al lavoratore il preavviso.

Ad esempio, supponiamo che un lavoratore venga licenziato con due mesi di preavviso. Il licenziamento avrà efficacia tra 2 mesi, fino a quel momento si avrà normale rapporto di lavoro. Se il lavoratore si ammala, va in ferie o altro che abbia effetto sospensivo del preavviso, avendo il lavoratore diritto alla conservazione del posto di lavoro (ad esempio durante il periodo di malattia) il preavviso s’interromperà e riprenderà a decorrere quando il lavoratore tornerà a lavorare.
Il lavoratore può restare in malattia per tutto il periodo di comporto (solitamente di 10 mesi previsto dal contratto collettivo). Bisogna stare attenti che il lavoratore non cerchi di fare il furbo e il datore di lavoro potrà cercare di tutelarsi controllando che il lavoratore sia effettivamente malato, attraverso apposite visite di controllo.

Efficacia reale del preavviso: a volte il datore che licenzia con preavviso, preferisce che il lavoratore – durante il preavviso – non lavori ma rimanga a casa per tutto il periodo di preavviso. In questo caso il datore deve pagare l’indennità di mancato preavviso. In ogni caso, il rapporto di lavoro si estingue dopo il periodo di preavviso e se il lavoratore si ammala il preavviso viene lo stesso interrotto. Per questo si parla di efficacia reale del preavviso. Esso è considerato rapporto di lavoro a tutti gli effetti.
Il problema appena esaminato è oltrepassabile con la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro: lavoratore e datore si mettono d’accordo per far finire il rapporto di lavoro: essi stipuleranno un contratto con il quale mettono fine al rapporto. In questo caso non si ha preavviso, il rapporto si interrompe direttamente.

Altra ipotesi è quella delle dimissioni concordate o incentivate, dove il datore paga una indennità perché il lavoratore dia le dimissioni.

Se un licenziamento intimato nell’ambito della tutela reale è illegittimo e il giudice ordina la reintegrazione, si può obbligare forzatamente il datore a reintegrare (il che, giuridicamente, si esprime chiedendosi se l’ordine di reintegrazione sia coercibile)? Può pagare solo la retribuzione? Può non fare ne l’uno ne l’altro?
Vi sono 3 orientamenti sulla coercibilità dell’ordine di reintegrazione:

  • non è assolutamente coercibile;
  • l’ordine di reintegrazione prevede sotto-obblighi, alcuni dei quali coercibili e altri non coercibili;
  • si parla di coercibilità indiretta. (Se un giudice civile ordina la reintegrazione e il datore non reintegra esso – non adeguandosi alla decisione giudiziale - commette un reato).

 

18. Diritti indisponibili derivanti da norme inderogabili

 

Nell’ambito del nostro ordinamento sono previste norme che danno diritti ai lavoratori. Queste norme possono essere derogabili o inderogabili. Il fatto che una norma sia inderogabile, non comporta che il diritto sia indisponibile. I diritti indisponibili sono quelli che non possono essere oggetto di rinuncia da parte del lavoratore.Pertanto diritto indisponibile e norma inderogabile sono due concetti distinti.

Il tema in questione è estremamente complesso, perché costituisce il cuore pulsante del diritto del lavoro. In una prospettiva chiarificatrice, peraltro, in estrema sintesi potrebbe affermarsi che l’inderogabilità è caratteristica che riguarda la norma giuslavoristica. Mentre l’indisponibilità è caratteristica che riguarda il singolo diritto. Ora, come si è detto, le norme di diritto del lavoro sono tutte inderogabili. In particolare, l’inderogabilità attiene alla fase genetica, ossia alla fase in cui il diritto derivante da norma inderogabile entra a far parte del patrimonio del lavoratore. Una volta che il diritto è entrato a far parte del patrimonio del lavoratore, peraltro – ossia nella fase funzionale – il lavoratore può disporre del diritto. Esistono tuttavia dei diritti, che continuano ad essere indisponibili anche nella fase funzionale.

In quest’ambito rilevano due istituti: quello della rinunzia e quello della transazione.

Rinunzia: è quell’atto unilaterale con il quale un soggetto dismette un proprio diritto per motivazioni inconsce o consce non esternate.

Non gli è però concesso di rinunziare ad un diritto indisponibile altrimenti la rinunzia è nulla.

Transazione: è un contratto, con il quale “le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro. Con le reciproche concessioni si possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato l’oggetto della pretesa e della contestazione della parti”. (art. 1965 cod. civ.)

La transazione necessita di forma scritta (art. 1350 cod. civ.).

Art 1966 cod. civ.: “per transigere le parti devono avere la capacità di disporre dei diritti che formano l’oggetto della lite. La transazione è nulla se tali diritti per loro natura o per espressa disposizione di legge sono sottratti alla disponibilità delle parti”.

Di fatto queste ultime due norme regolano e disciplinano le transazioni sui diritti indisponibili.

In materia di diritto del lavoro quali sono i diritti assolutamente indisponibili? Essi sono:

  • diritti previdenziali;
  • diritto alla sicurezza sul lavoro;
  • diritto al riposo settimanale e ferie annuali;
  • diritto alla retribuzione sufficiente;
  • diritto di sciopero.

Tali diritti non possono essere oggetto di transazioni in qualunque sede esse avvengano.

Art 2113 cod. civ.: “le rinunzie e le transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art 409 cod. civ., non sono valide. L’impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro 6 mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima. Le rinunzie e le transazione di cui ai commi precedenti possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto (analogamente alle modalità di impugnazione del licenziamento) , anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà”.

Se non si parla di diritti indisponibili, per i quali è prevista la nullità della rinunzia e delle transazioni, si applica tale articolo che ne prevede l’annullabilità.

Un lavoratore che stipula una rinunzia ovvero una transazione invalida con il datore ha sei mesi di tempo per impugnarla altrimenti viene considerata valida. I sei mesi decorrono dalla fine del rapporto di lavoro o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste ultime sono successive alla cessazione del rapporto medesimo. Ciò consente al lavoratore di esercitare un proprio diritto (l’impugnazione della rinunzia o della transazione) anche quando il rapporto di lavoro è concluso, perché non sia condizionato dal timore reverenziale nei confronti del datore di lavoro. L’impugnazione deve essere fatta con un atto scritto giudiziale o stragiudiziale.

Per un datore di lavoro in queste condizioni sarebbe impossibile fare una qualsiasi rinunzia o transazione perché potrebbe essere impugnata anche dopo sei mesi dalla fine del rapporto. Il legislatore ha perciò posto dei limiti a questa tutela del lavoratore escludendo i casi in cui il lavoratore è considerato in una posizione abbastanza tutelata (assistito dal sindacato, oppure in sede giudiziale a seguito di una conciliazione o della direzione provinciale del lavoro) da considerare valida la rinunzia o la transazione.

Com’è ben comprensibile, l’art. 2113 cod. civ. rappresenta una norma di chiusura dell’intero impianto giuslavoristico.

 

19. QuietanzE a saldo e prescrizione

 

E’ uso invalso, quando s’interrompe il rapporto di lavoro, far sottoscrivere al lavoratore una quietanza a saldo. Secondo l’interpretazione prevalente in giurisprudenza ed in dottrina questo altro non è che una quietanza di pagamento e non una rinuncia ad ulteriori diritti che il lavoratore in quel momento potrebbe non avere tenuto in considerazione. La quietanza a saldo non è altro che una ricevuta di pagamento.
Tale quietanza sarebbe una rinuncia se fosse stata preceduta da pretese da parte del lavoratore e di trattative tra il lavoratore e il datore di lavoro.

La prescrizione estintiva è un istituto di diritto privato per il quale, un soggetto che ha un certo diritto e non lo esercita entro un certo termine, determina l’estinzione del diritto stesso. Si dice che tale diritto si estingue per prescrizione: esso non è più esercitabile.

La prescrizione può essere interrotta o sospesa. Ad esempio supponendo che io debba dei soldi a qualcuno, ho cinque anni di tempo per darglieli altrimenti il mio debito cade in prescrizione e non devo più restituirli. Il creditore da parte sua può tornare a chiedermeli (con atto scritto) e da quel momento riparte il conteggio della prescrizione, cioè se dopo quattro anno e mezzo me li torna a chiedere la prescrizione si interrompe e riparte da capo.
Nel diritto del lavoro, si ha la prescrizione di cinque anni per i crediti aventi natura retributiva, e di dieci anni per tutto ciò che non deve essere pagato a periodi fissi, ovvero per i crediti di natura risarcitoria.

La prescrizione presuntiva (diversa da quella estintiva) fa sì che si inverta l’onere della prova.
Tale prescrizione riguarda solo voci retributive ed ha termini più brevi della estintiva, infatti ha termini di un anno per retribuzioni periodiche corrisposte a periodi non superiore al mese e tre anni per periodo superiore.

Facciamo un esempio per chiarire: supponiamo che mi debbano dei soldi. Se chiamo in giudizio il mio debitore entro un anno, esso deve dimostrare di avermi dato i soldi. Se è già passato un anno sono io a dover dimostrare che non mi sono stati dati tali soldi.
Vediamo un altro esempio: il datore di lavoro che non paga una retribuzione ad un lavoratore, se viene chiamato in  giudizio entro un anno deve dimostrare che ha pagato, se  è già passato un anno è il lavoratore che deve dimostrare che non gli è stata pagata tale retribuzione.
Ciò però non è molto facile da dimostrare e la legge prevede un solo metodo per vincere la prova: il debitore deve confessare di non aver pagato. Il giudice in assenza dalla confessione presume che i soldi gli siano stati dati.

Le prescrizioni sono eccepibili solo da parte di chi se ne avvantaggia.
Ad esempio se un datore di lavoro viene chiamato in giudizio dopo un anno che è accaduto il fatto, esso può eccepire la prescrizione presuntiva dicendo che ha già dato i soldi e siccome è passato un anno è il lavoratore che deve dimostrare di non averli ricevuti, altrimenti il giudice non ne tiene conto. E’ così anche per la prescrizione estintiva: essa deve essere eccepita e deve essere fatto come prima cosa altrimenti il giudice non la tiene in considerazione.

La prescrizione non decorre necessariamente dal momento in cui il debito viene in essere, ma dal momento in cui cessa il rapporto di lavoro, perché il lavoratore potrebbe avere un timore reverenziale da parte del datore di lavoro.

Nel corso del rapporto di lavoro non decorre la prescrizione (siamo nel caso della stabilita’ obbligatoria, nella quale non sussiste un rapporto stabile).
Vi è però una eccezione a questa ultima affermazione: nel caso che un lavoratore rientri nell’area della stabilità reale. In quest’area, siccome la tutela del lavoratore è molto alta, la decorrenza della prescrizione si ha dal momento in cui matura il diritto, perché il lavoratore è protetto da un’eventuale ritorsione del datore di lavoro.

La differenza tra “Prescrizione” ed il termine “Decadenza” sta nel fatto che la prescrizione presenta termini lunghi mentre la decadenza presenta termini brevi.

E’ inoltre necessario aggiungere quali sono i crediti verso un lavoratore dipendente:
Impignorabilita’: non e’ possibile pignorare lo stipendio di un lavoratore in misura superiore ad un quinto dello stipendio.
Insequestrabilita’: il sequestro conservativo da parte del giudice puo’ essere al massimo di un quinto dei beni.
Incedibilita’: i crediti non possono essere ceduti ad un lavoratore oltre la misura di un quinto del debito nei suoi confronti.
Incompensabilita’ : se un lavoratore e’ debitore verso il d.d.l. di una certa somma, il d.d.l. non può trattenere lo stipendio del lavoratore per compensare tale debito, in misura superiore ad un quinto dello stipendio.

 

20. Sospensione dell'attività lavorativa

Nel diritto civile quando sorge l’impossibilità di adempiere ad un onere si ha la estinzione del contratto (art. 1256 cod. civ.). Se si applicasse questo principio al diritto del lavoro il datore potrebbe far cessare il rapporto in caso di impossibilità di adempiere alla prestazione.

Principi:

  • in caso di impossibilità sopravvenuta del lavoratore di fornire la prestazione il rapporto permane;
  • il lavoratore ha diritto alla retribuzione anche se non vi e' prestazione.

Vengono contemplati i seguenti casi (art. 2110 cod. civ.):

  • infortunio;
  • malattia;
  • gravidanza;
  • puerperio.

Si ha la sospensione del rapporto (si congela), si mantiene il diritto al posto(si conserva il posto di lavoro), alla retribuzione e tale periodo viene computato ai fini dell'anzianità.

Malattia: il datore ha diritto di recedere dal rapporto dopo un periodo stabilito dalla legge detto periodo di comporto quantificato dai contratti collettivi, ma normalmente fissato in circa 10 mesi.
Vi sono due tipologie:

  • comporto secco (con riferimento ad un unico episodio morboso);
  • comporto per sommatoria (durata somma dei vari episodi morbosi).

Per entrambe le tipologie si prevede un periodo di comporto massimo di 10 mesi.

Il comporto varia con l'anzianità di servizio del lavoratore.

Controllo delle assenze per malattia: (art. 5 dello statuto dei lavoratori) il datore di lavoro non può istituire dei medici di fabbrica, deve ricorrere a medici pubblici. Si ritiene (non è scritto) che questo principio valga anche per i test pre-assuntivi, laddove possa farli.

(Il test per l'Aids ha suscitato la controversia. C'è la l. n. 90/1935 che vieta al datore di fare accertamenti sullo stato di sieropositività del dipendente o del possibile dipendente. Nel 1994 la corte costituzionale è intervenuta: laddove il lavoratore svolga mansioni in cui potrebbe esser rilevante il rapporto con terzi, il datore può fare il controllo. La sentenza è eccessivamente ampia. La dottrina l'ha interpretata in modo restrittivo: bisogna guardare alla particolare esposizione della gente.)

I medici devono essere dell'INPS o dell'ASL iscritti ad apposito albo. Questi sono liberi di andare a visitare il lavoratore sia su richiesta dell’INPS che su quella del datore di lavoro.

Il lavoratore assente alla prima visita perde l'intero trattamento fino a 10 giorni (è possibile però giustificare l’assenza, ad esempio “ero al pronto soccorso”).
Vi e' l'obbligo di reperibilità del lavoratore nella fascia 10-12 e 17-19 (anche nella giornata di domenica). Il lavoratore per non incorrere nella sanzione deve preavvisare il datore se manca in tali fasce orarie (ad esempio per andare dal medico).
Il lavoratore assente alla seconda visita di controllo perde il trattamento fino al 50% (dove per trattamento si intende l'indennità' di malattia).

Il datore di lavoro in caso di assenza può intentare azioni disciplinari verso il lavoratore smascherato, arrivando in caso di recidiva specifica anche al licenziamento.
E’ poi da precisare che anche in assenza di visita di controllo, il datore di lavoro può contestare la malattia. Ad esempio un datore di lavoro, in una gita fuori porta, scopre, attraverso dei manifesti appesi ai muri della città, che un suo dipendente aveva nei giorni scorsi disputato un incontro di pugilato contro un atleta locale, attraverso successivi accertamenti, giunge a conoscenza che nella settimana precedente all’incontro il suo dipendente era assente dal lavoro causa malattia e che questa situazione si era verificata anche per incontri precedenti. E’ lecito da parte del datore di lavoro contestare la malattia, anche se non aveva richiesto una visita di controllo? E prendere dei provvedimenti disciplinari nei confronti del lavoratore?

Il medico pubblico emette un certificato, ma esso contiene un giudizio, non l'esatta certificazione di un fatto, quindi ha lo stesso valore del certificato del medico curante. In caso di disaccordo tra i due certificati sarà il giudice a decidere, disponendo – se necessario – una consulenza tecnica d’ufficio (CTU).
Il datore di lavoro può utilizzare agenzie investigative private per indagini in materia di malattia? Sì, dato che l'assenteismo e' un grosso problema.
Cosa succede se un lavoratore svolge attività per conto terzi durante la malattia? Ovviamente è vietato, ma per valutare il grado di responsabilità del lavatore bisogna verificare se l’attività svolta aggrava o no lo stato di malattia.
Ad esempio: lavoratore in malattia per una broncopolmonite che lavora come bigliettaio al palaghiaccio di sua moglie. Chiaramente in questo caso il lavoro aggrava la malattia. Mentre il lavoratore in malattia perché ha una dermatite, che va a fare il cassiere nel negozio di sua moglie, non aggrava lo stato di malattia.

Grazie alla l. n. 53/2000 e’ possibile ottenere un congedo dal lavoro nei seguenti casi:

  • parentali;
  • famigliari: 3 giorni di permesso retribuito in caso di decesso del coniuge o di un parente al massimo di secondo grado, e massimo 2 anni di congedo non retribuito;
  • per la formazione: i lavoratori che si trovano in particolari condizioni, o per completare la scuola dell’obbligo, o per completare un istituto superione o un’ università, hanno il diritto di chiedere un congedo di 11 mesi, più successivi congedi per la formazione.

Permessi per cure termali: oggi con la l. n. 412/1991, per poter usufruire del diritto alle cure termali sono necessari tre requisiti:

  • presenza dello stato patologico che - ai sensi del decreto ministeriale - possa trovare un vero beneficio nelle cure termali;
  • tempestività: ovvero c’è un urgente bisogno di queste cure;
  • prescrizione di un medico pubblico (medico dell’ASL).

Altre ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro sono le seguenti:

  • servizio militare: bisogna distinguere il richiamo alle armi dal servizio di leva.

       Per il servizio di leva si hanno i seguenti profili:

    • il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di  lavoro;
    • il periodo non è retribuito;
    • il periodo e' computato dell’anzianità di servizio.

              Per il richiamo alle armi:

  • conservazione del posto di lavoro;
  • computo del periodo nell’anzianità;
  • il periodo è retribuito.
  • lavoratore tossicodipendente: un lavoratore tossicodipendente ha la possibilità di sospendere il proprio rapporto di lavoro, laddove accetti di sottoporsi ad un programma terapeutico-riabilitativo. Tale sospensione ha una durata massima di 3 anni. Inoltre questo periodo di sospensione viene concesso anche ai famigliari del tossicodipendente, al fine di poterlo assistere.

In questo caso:

  • il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro;
  • il periodo non è retribuito;
  • il periodo non si computa nell’anzianità.
  • funzioni pubbliche elettive e cariche sindacali: un’ulteriore ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro è quella  per consentire al lavoratore di svolgere funzioni pubbliche elettive.

Nel caso di funzioni pubbliche elettive:

  • si ha diritto alla conservazione del posto di lavoro;
  • il periodo non è retribuito;
  • il periodo si computa ai fini dell’anzianità.

Nel caso di cariche sindacali si utilizzano permessi retribuiti o non retribuiti.

  • sospensione per congedi formativi: se ne parlerà più avanti.

 

21. LA TUTELA DELLA FORZA DEBOLE DEL LAVORO

 

Storicamente, con il termine forza debole del lavoro si è sempre inteso fare riferimento alle donne e ai minori.

Fino al 1918 c’erano veramente poche normative a tutela delle donne e dei minori. Nel 1934 è stata introdotta una legge per la tutela del periodo di maternità, prevedendo la sospensione dai lavori pesanti.
Con l’art. 37 cost. si è passati alla parità tra i sessi, ma non viene, però, ancora specificato il concetto di qualità di lavoro, in quanto deve essere a parità di mansioni, non a parità di quantità di lavoro.

Con la l. n. 7/1963 si arriva a dire che la donna non può essere licenziata in caso di maternità, ma anche questa non è una grossa tutela in quanto esistevano clausole di nubilato, messe a contratto, che davano la possibilità al datore di lavoro di licenziare la lavoratrice in caso di matrimonio; oppure venivano usate le dimissioni in bianco, ovvero dimissioni firmate ma non compilate.
Il legislatore ha allora introdotto una parte dove specifica il divieto di licenziamento in questo periodo (maternità) e, in caso di dimissioni, bisogna presentarsi alla Direzione Provinciale al fine della convalida.
Ovviamente vale sempre il licenziamento per giusta causa.

Peraltro, ci si accorge che non c’è ancora una vera e propria parità tra uomo e donna.
In questo contesto, nasce così la l. n. 903/1977 riguardante tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, che equipara veramente per la prima volta uomo e donna.

Art. 1: qui si trova una prima differenza tra discriminazione diretta e indiretta, ovvero posti di lavoro per solo uomini (o donne), oppure offerte di lavoro con particolari caratteristiche fisiche tali da scartare le donne a priori.
Inoltre non si limita alle sole discriminazioni sessuali. Infatti vi è menzionata una parte riguardante i corsi di formazione, in quanto questi devono essere offerti in modo equo a donne e uomini.
Uomini e donne devono, inoltre, avere le stesse possibilità di scelta delle mansioni. Ovviamente per certi tipi di lavori la donna può essere esclusa (lavori molto pesanti).
Fa comunque eccezione l’ambiente della moda e dello spettacolo.
Per quanto riguarda le mansioni, queste devono dare le stesse possibilità per il lavoro e la carriera.
Viene inoltre esteso il periodo massimo di lavoro delle donne che possono continuare a lavorare, nonostante la possibilità di pensionamento, fino all’età di lavoro dell’uomo.

Art. 5 (lavoro notturno): fino a questa legge le donne non potevano lavorare nelle ore notturne, a meno che non fossero dirigenti o donne delle pulizie, ma con la finanziaria del 1998, dopo un richiamo della comunità europea, viene data la possibilità del lavoro notturno anche alle donne, ma non in caso di maternità o di figli ancora piccoli.

Art. 6 (genitori adottivi): le lavoratrici che hanno adottato un bambino di età inferiore ai 6 anni, hanno diritto a 3 mesi di astensione obbligatoria.

Art 9 (assegni famigliari): ora gli assegni famigliari vengono percepiti anche dalle mogli.

Art. 11: pensione per i superstiti in caso di morte di un coniuge.

Art. 15: per i problemi di discriminazione è stata introdotta una procedura burocratica molto più rapida di una qualunque causa del lavoro. Infatti un pretore, in funzione di giudice del lavoro, deve deliberare entro 2 giorni.

Ora si è passati alla terza fase: pari opportunità.
Infatti la l. n. 903/1977 ha portato solo una parità formale, così con la l. n. 125/1991 si inizia a parlare di pari opportunità e di discriminazione nei confronti dell’uomo.

Art. 1: ha lo scopo di agevolare la donne al fine di portare una pari opportunità anche usando azioni positive.
Le azioni positive sono scelte aziendali al fine di portare le donne allo stesso livello degli uomini. Spieghiamo meglio il concetto di azioni positive con alcuni esempi: la direzione dell’Ericcson ha avuto stanziamenti per selezionare dal proprio organico un gruppo di donne con possibili capacità manageriali per un corso formativo. La Zanussi ha preso un gruppo di operaie dandogli la possibilità di organizzarsi i turni lavorativi a loro piacimento (flexing time). Comunque non ha funzionato! Inoltre ha istituito un comitato paritetico per consigliare alcune scelte aziendali.

Inoltre con questa legge si cerca di superare azioni o mansioni che precludano la parità, facendo riferimento agli orari di lavoro in modo da lasciare alla donna la possibilità di conciliare lavoro e famiglia.

Oltre che un’ulteriore specificazione delle discriminazioni dirette e indirette qui si parla anche di mobbing, ovvero l’oppressione del datore di lavoro nei confronti di un determinato lavoratore al fine di far dimettere quest’ultimo.
Art. 15: viene data la possibilità di sfruttare fatti statistici in caso di discriminazione. Per esempio il caso di una segretaria che non accetta le avance del capoufficio con il conseguente abbassamento del suo stipendio. Lei può utilizzare fatti statistici riguardanti il suo capoufficio per testimoniare la sua discriminazione.
Nel caso di ricorso o causa per discriminazione esiste un consigliere di parità, uno per provincia, con il compito di valutare lo stato di lavoro al fine di acquistare informazioni utili per il giudizio.

Tutta questa normativa è stata riformata 8 Marzo 2000, e riorganizzata in un testo unico nella l. n. 151/01:

Congedo di maternità: prima era obbligatoria, e veniva chiamata astensione obbligatoria per maternità, per i 2 mesi antecedenti il parto e i 3 mesi successivi, fatta eccezione per cause di salute, senza essere contemplata la possibilità di parto prematuro quindi la parziale perdita del periodo di astensione. Ora invece è previsto che la lavoratrice possa scegliere come meglio crede questo periodo di astensione, rimasto sempre di 5 mesi, salvaguardando comunque la sua salute e quella del figlio. Per esempio può iniziare l’astensione solo un mese prima del parto per avere a disposizione 4 mesi dopo la nascita del figlio. Viene comunque imposto il limite all’ottavo mese di gravidanza.

In caso di parto prematuro la lavoratrice ha diritto a fruire dopo il parto i giorni di assenza obbligatoria di cui non ha fruito prima del parto.
Durante la maternità la lavoratrice percepisce l’80% della retribuzione erogata dell’INPS.
Per la prima volta si parla di congedo di paternità: infatti se la madre è deceduta o è malata viene concesso il congedo al padre.

Astensione facoltativa per maternità: è un periodo di astensione che va fino al compimento dell’ottavo anno del figlio valido sia per la madre e che per il padre.

Prima servivano una serie di permessi per usufruire di questo periodo, ora è tutto più facile e si parla di congedi parentali (l. n. 53/2000).
E’ data la possibilità sia al padre che alla madre di astenersi dal lavoro per un periodo di 10 mesi dove ognuno di loro ha la possibilità di un massimo di 6 mesi.
Ma siccome non sono molti i lavoratori uomini che usufruiscono di questa possibilità nel caso che un uomo decida di prendersi 7 mesi consecutivi allora il periodo totale viene esteso a 11 mesi (solo 4 mesi per la madre).
Durante questo periodo la retribuzione è pari al 30% dello stipendio, pagata dall’INPS, se l’astensione è facoltativa. È fatta fino a 3 anni del bambino. Esistono comunque contratti che arrivano fino al 75% dello stipendio.
Il periodo di congedo parentale può essere utilizzato, però, fino al compimento di 8 anni del figlio, chiaramente dopo i primi 3 anni del figlio il periodo non è retribuito. A meno che la famiglia non abbia un reddito basso.
Questo congedo ha una protezione del posto di lavoro più forte delle ferie.
Data la lunghezza di questo periodo si sono previsti incentivi per l’assunzione a tempo determinato per la sostituzione dei lavoratori in congedo parentale, oppure la collaborazione di lavoratori autonomi.

Alle donne in gravidanza sono poi vietate mansioni come trasporto, sollevamento pesi e la lavoratrice deve essere impiegata in un'altra mansione possibilmente equivalente, altrimenti viene demansionata ma la retribuzione deve rimanere costante. Se non è possibile ridurre il rischio si verifica l’astensione anticipata dal 3° mese, in questo caso percepisce totalmente la retribuzione.

Diritto ad assentarsi per le malattie del figlio: esiste un’altra norma che dà la possibilità al padre e alla madre alternativamente di assentarsi per le malattie del figlio. Tali assenze sono retribuite.
Fino al terzo anno di età i genitori sono autorizzati a stare a casa per tutte le malattie del figlio. Dopo il terzo anno e fino all’ottavo ai genitori sono dati 5 giorni all’anno ciascuno. Inoltre la malattia del figlio interrompe le ferie del genitore.

Permessi per l’allattamento: per quanto riguarda il permesso per allattamento sia ha la possibilità di avere 2 ore giornaliere fino ad un anno di età del bambino (1 ora giornaliera in caso di orario inferiore alle 6 ore).

 

Nel caso di parto gemellare una volta si moltiplicava il periodo di allattamento per il numero dei gemelli, ma nel caso di un parto con molti gemelli la cosa diventava assurda, quindi si è uniformato il tutto ad un massimo di 4 ore giornaliere indipendentemente dal numero dei figli.
Ovviamente tutti questi permessi non sono sovrapponibili tra padre e madre, che quindi dovranno portare un certificato del proprio datore che testimoni la non sovrapposizione (siamo nel caso di lavoro subordinato per entrambi i genitori).
Per le lavoratrici madri valgono tutti i diritti di tutela del posto di lavoro già contemplati per il matrimonio fino ad 1 anno di età del figlio.

In sintesi, allora, l’attuale disciplina relativa alla tutela della maternità e della paternità, così come essa emerge dal combinato disposto delle ll. n. 1204/1971, n. 903/1977 e – da ultimo – n. 53/2000 (congedi parentali) prevede le seguenti garanzie:

  • divieto di licenziare la lavoratrice dall’inizio della gestazione fino ad un anno di età del bambino;
  • divieto di adibire la lavoratrice a lavori pericolosi, faticosi o insalubri, dall’inizio della gestazione fino a sette mesi di età del bambino;
  • diritto a permessi retribuiti per esami prenatali che si debbano svolgere durante l’orario di lavoro;
  • diritto all’assenza obbligatoria, da due mesi prima del parto (anticipabili o posticipabili) fino a tre mesi dopo il parto;
  • diritto all’assenza facoltativa, fino a 8 anni di età del bambino, per una durata di sei mesi massimi complessivi per ciascun genitore e 10 mesi massimi complessivi (come si è già detto al lavoratore padre sono dati in certe circostanze 7 mesi e, in questo caso il limite complessivo viene elevato ad 11 mesi);
  • diritto ai riposi retribuiti;
  • diritto ad assentarsi durante le malattie del figlio, fino all’età di 8 anni (secondo le indicazioni che si sono già dette).

Infine una tutela particolare spetta laddove il bambino sia colpito da grave handicap. In questo caso l’assenza facoltativa e i riposi giornalieri sono elevati a tre anni; e, in secondo luogo, dopo il terzo anno di vita del bambino, il genitore che assiste il bambino ha diritto a 3 gg. al mese di permesso retribuito.

Congedi per scopi formativi: un lavoratore che ha svolto per 5 anni il suo lavoro può richiedere un congedo a scopi formativi, per partecipare ad attività formative scelte dal lavoratore stesso per un massimo di 11 mesi. La scelta del corso può essere non inerente al lavoro. Ovviamente il periodo non è retribuito, ma c’è la conservazione del posto di lavoro.

Esiste la possibilità di percepire assegni a scopo formativo per lavoratori dipendenti o disoccupati.

 

22. TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO (TFR)

La disciplina del TFR è relativamente recente, risale al 1982 e deriva dalla l. n. 297/1982 che ha sostituito l'art. 2120 codice civile.
Prima del 1982 esisteva un istituto sostanzialmente analogo: il lavoratore percepiva l'indennità di anzianità.

L'indennità di anzianità era la somma che veniva pagata al lavoratore come premio di fedeltà, in particolare fino al ’66 se il lavoratore non dava le dimissioni e se il licenziamento non dipendeva per colpe del lavoratore, in seguito ad una legge uscita nel ’66 a tutti i dipendenti.

Criterio di calcolo, si fa distinzione tra impiegati e operai:

  • impiegati: viene considerato l'importo dell'ultima mensilità moltiplicato per il numero di anni di servizio;
  • operai: viene considerata una percentuale sull'ultima retribuzione, tale percentuale cambia in base al numero di anni di servizio.

Nel 1982, come già detto, è stata emanata la l. n. 297/1982 che ha sostituito l'istituto dell’indennità di anzianità con l'istituto del Trattamento di Fine Rapporto, con decorrenza 1 Giugno 1982.

Con decorrenza 1 Giugno 1982 significa che il lavoratore che termina di lavorare prima di tale data percepisce l'indennità di anzianità; il lavoratore che inizia a lavorare dopo tale data (1 Giugno compreso) percepisce solo il TFR; mentre chi ha iniziato prima del 1 Giugno 1982 e terminato (o terminerà) il rapporto di lavoro dopo tale data è fatto destinatario di un regime misto. Infatti il conteggio verrà fatto in base all'indennità di anzianità fino al 31 Maggio 1982, e in base al calcolo del TFR dal 1 Giugno in poi.

A differenza dell'indennità di anzianità il TFR è sempre dovuto al lavoratore indipendentemente da come cessa il rapporto di lavoro. Inoltre la quota di TFR va accantonata da parte del datore di lavoro anno per anno. Questa quota il datore di lavoro può anche investirla, a patto che siano investimenti a tasso sicuro e non siano quindi soggetti a erosione di capitale.

Il TFR ha la natura di retribuzione differita e da alcuni viene anche visto come un risparmio forzoso.

Criterio di calcolo: il TFR si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5.
Il valore di 13,5 è un indice fisso, su questo non può intervenire neanche il contratto collettivo anche se migliorativo.
Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua comprende tutte le somme, compreso l'equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese (richiamo al discorso che si è fatto sulla nozione omnicomprensiva di retribuzione).

In caso di sospensione della prestazione di lavoro per una delle cause di cui all'art. 2110 cod. civ. (infortunio, malattia, gravidanza, puerperio), nonché in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l'integrazione salariale deve essere computato nel TFR l'equivalente della retribuzione a cui avrebbe avuto diritto il lavoratore in casi di normale svolgimento di lavoro.

Per quanto riguarda le altre ipotesi di sospensione, non menzionate nell’art. 2110 cod. civ., bisogna distinguere a seconda che vi sia o no la retribuzione. Nell’ipotesi in cui non vi sia retribuzione (ad esempio, servizio di leva) tali periodi di sospensione si ritiene non diano diritto alla maturazione del TFR.

Indicizzazione del TFR: vi è un incremento fisso dell'1,5% al 31 dicembre di ogni anno della somma maturata (esclusa quella del corrente anno) e un ulteriore incremento di tale somma del 75% dell'aumento dell'indice dei prezzi accertato dall'ISTAT.

Richiesta di anticipo del TFR: è possibile richiedere anticipatamente il TFR? Si, ma a determinate condizioni specificate nel suddetto art. 2120 codice civile.
In particolare è possibile avere un'anticipazione solo se si sono maturati 8 anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro e in ogni caso l'anticipazione non potrà essere superiore al 70% del TFR maturato. Le richieste sono soddisfatte annualmente entro i limiti del 10% degli aventi titolo e comunque non oltre il 4% del numero totale di dipendenti.

Ad esempio: in un azienda lavorano 1000 persone, di cui solo 500 hanno diritto ad un anticipo del TFR; se tutti i 500 dipendenti chiedono l’anticipo, il datore di lavoro rispettando il 10% degli aventi diritto dovrebbe soddisfare 50 richiedenti, ma siccome non può eccedere il 4% del numero totale dei suoi dipendenti, cioè 40 persone. Il datore di lavoro soddisferà a 40 richieste.

Inoltre per poter richiedere l'anticipazione deve sussistere una delle seguenti necessità:

  • eventuali spese sanitarie per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche;
  • acquisto della prima abitazione per se o per i figli, documentato con atto notarile;
  • Formazione dei figli;
  • Partecipazione a iniziative di formazione continua.
  •  

L'anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto di lavoro e viene ovviamente detratta dal TFR corrisposto alla fine del rapporto di lavoro.

Tutela del TFR: come tutela del lavoratore è stato istituito un fondo di garanzia presso l’INPS che interviene a pagare il TFR nelle ipotesi di insolvenza del datore di lavoro ovvero nell'ipotesi di inutile esperimento dell'esecuzione forzata (pignoramento) promossa dal lavoratore. Ci deve però essere esecuzione forzata.


 
Il datore di lavoro non può prevedere la duplicazione del TFR anche se è migliorativo per il lavoratore.

 

23. RAPPORTI DI LAVORO SPECIALI

Parlare di rapporti di lavoro speciali implica due problemi:

  • quali sono i rapporti di lavoro generali;
  • quali sono gli elementi che determinano il rapporto di lavoro speciale.
  •  

Considereremo semplicemente come rapporto di lavoro generale quello di cui all'art. 2094 codice civile. Questo non perché la fattispecie di cui all’art. 2094 cod. civ. si ponga effettivamente in un rapporto di genere a specie rispetto alle altre fattispecie, ma semplicemente perché essa costituisce il modello più diffuso, vale a dire il modello socio-economico prevalente.

Se si accettano tali conclusioni, vediamo ora quali sono i due criteri alternativi tra loro per considerare un rapporto di lavoro speciale:

  • criterio quantitativo: è speciale il rapporto in cui vi è una deviazione quantitativa rispetto al rapporto generale, ad esempio, rapporto di lavoro dirigenziale, a tempo determinato, tempo parziale.

Usando questo criterio i rapporti di lavoro speciali sarebbero tantissimi. Sembra preferibile, allora, propendere per il seguente:

  • criterio qualitativo: sono quei rapporti in cui vi è una deviazione causale, cioè in cui vi è una deviazione nella causa del contratto. Utilizzando questo criterio rapporti di lavoro speciali sono:
  • apprendistato;
  • inserimento;
  • lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione (PA);
  • lavoro domestico;
  • rapporto di lavoro sportivo;
  • contratto di lavoro intermittente.

 

24. LAVORO PRESSO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

La disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (P.A.) è stata modificata dal dec. leg.vo n. 29/1993 e successive modificazioni.

In considerazione del diffuso malfunzionamento della P.A., l’allora Ministro Cassese decise di fronteggiare la situazione attraverso una riforma del pubblico impiego. Tale riforma prende il nome di privatizzazione - contrattualizzazione del pubblico impiego.

Prima del 1993 si parlava di pubblico impiego; dopo il 1993 è più corretto parlare di lavoro pubblico oppure di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

Prima del 1993 il pubblico impiego era disciplinato dal testo unico del 1957, che prevedeva per i dipendenti pubblici un complesso di norme assolutamente specifiche e sostanzialmente diverse da quelle del lavoratore privato. I profili che vi voglio proporre sono tre:

  • costituzione del rapporto;
  • contratti collettivi;
  • giurisdizione.

Costituzione del rapporto: fino al 1993 il rapporto di pubblico impiego si costituisce come un atto unilaterale di nomina: la P.A. investe  il lavoratore, dall’alto della sua posizione, dello status di dipendente pubblico; mentre il contratto di lavoro, che si fa nel  privato, sappiamo bene che è un atto bilaterale.

Contratti collettivi: i contratti collettivi venivano stipulati tra i rappresentanti dei datori di lavoro e i rappresentanti dei lavoratori, ma non avevano efficacia immediatamente precettiva, perché dovevano essere recepiti da un decreto del Presidente della Repubblica (d. p. r.): solo quando il contratto diventa un d.p.r. vincola tutti.

Giurisdizione: un impiegato, quando doveva far causa alla pubblica amministrazione, doveva rivolgersi al T.A.R. o al Consiglio di Stato.

Nel 1993, con il decreto legislativo 29/1993, si è deciso di applicare ai lavoratori pubblici le norme dei lavoratori privati. In particolare, i profili del cambiamento sono:

  • costituzione del rapporto: l’atto unilaterale di nomina si trasforma in un contratto di lavoro vero e proprio;
  • contratti collettivi: acquistano efficacia immediata ma non vengono applicati ai magistrati, al personale di polizia, ai militari...;
  • giurisdizione: il giudice amministrativo viene alleggerito di tutto il contenzioso, mentre viene appesantito il giudice civile (Tribunale – Corte d’appello – Corte di Cassazione).

In realtà, a monte di questo decreto legislativo c’è la privatizzazione, o meglio esso dà inizio ad un processo di privatizzazione: il dipendente pubblico è soggetto a tutte le norme che si applicano al dipendente privato. Bisogna però verificare se quelle norme siano compatibili con la natura particolare del lavoro pubblico: ci sono discipline che rimangono particolari, come le assunzioni. Nelle pubbliche amministrazioni si viene assunti solo attraverso un concorso disciplinato a norma di legge.
Ora c’é un testo unico, la legge n°165 del 2001 che riordina le norme precedenti e aggiunge poche modifiche. I soggetti della contrattazione collettiva sono: il sindacato dei lavoratori e l’A.R.A.N. (Agenzia RAppresentanza Negoziale delle P.A.). Il contratto collettivo “ può intervenire” nelle materie non soggette a norma di legge per le quali la dipendenza dal c.c. non sia stata esplicitamente affermata.

All’interno della P.A. vale un principio di pari trattamento per tutti i dipendenti a differenza di ciò che accade nel settore privato.

 

25. ALTRI RAPPORTI DI LAVORO SPECIALI

 

Ci sono rapporti in cui è prestata attività lavorativa ma in cui il legislatore interviene e dice che non si tratta di lavoro subordinato. Ad esempio:

  • tirocini formativi e di orientamento (stage);
  • piani per l’inserimento professionale dei giovani nelle aree ad alto tasso di disoccupazione;
  • piano straordinario per i lavori di pubblica utilità e per le borse di lavoro (rapporti con durata inferiore ai 12 mesi diretti ai giovani del Mezzogiorno).

In questi rapporti viene prestata attività lavorativa ma non si tratta di lavoro subordinato, così come sancito dal legislatore.

Stage (l. n.196/1997), implica tre soggetti:

  • un soggetto proponente;
  • un soggetto ospitante;
  • uno stagista;

e non si tratta, come si è detto, di lavoro subordinato.

Caratteristiche: non c’è retribuzione, la legge prevede l’assicurazione INAIL in caso di infortunio, e la durata non può oltrepassare i 12 mesi o 24 mesi nel caso di soggetto portatore di handicap.

La dottrina giuslavoristica si è chiesta se, data questa attività lavorativa soggetta al potere direttivo, il legislatore ha il potere di scorporare dalle fattispecie disciplinate le realtà di subordinazione qualificandola come non subordinazione. In altre parole, ci si è chiesti se, dati i parametri della subordinazione, il legislatore può definire come non subordinazione ciò che in realtà lo è. (rif. sentenza Corte Costituzionale 1994).
Nell’ipotesi fatta la Corte Costituzionale ha sancito che il legislatore non ha questo potere di qualificazione della fattispecie (il legislatore ha sostenuto una cosa in contrasto con la realtà, il giudice ha riconosciuto che la realtà si è mossa in senso diverso).

Di solito si pensa la formazione come anteriore o contestuale all’inizio del rapporto di lavoro. Si parla oggi piuttosto di formazione continua: modello che si è sostituito al precedente in una realtà tecnologica di enorme evoluzione dove il capitale umano – preponderante sul resto – risente di un’obsolescenza rapidissima. In questo modello la formazione entra stabilmente nelle cause del contratto, la cui causa si sposta nella direzione della causa mista.

La l. n. 53/2000 (in relazione ai congedi parentali), infatti, prevede anche:

  • congedi familiari: 3 giorni di permesso retribuito all’anno, per casi eccezionali (decesso o grave malattia di famigliare) o 2 anni di congedo non retribuito per grave malattia del famigliare;
  • congedi formativi: prima della l. n. 53/2000 c’era solo l’art.10 dello statuto dei lavoratori che prevedeva  garanzie per lo studente lavoratore: turni compatibili con la frequenza, permessi retribuiti per esami, riposo durante i turni settimanali. Ora si applica l’art. 7.
  •  

Ci sono due tipologie di congedi formativi:

  • congedi di formazione non retribuiti: possono essere presi dal lavoratore che ha prestato servizio per più di cinque anni presso la stessa azienda; la durata massima è 11 mesi per conseguire attestati di scuola dell’obbligo, lauree o diplomi, attività formative diverse da quelle proposte dal datore di lavoro;
  • congedi per la formazione continua: i lavoratori (occupati e non) hanno diritto di seguire il percorso formativo tutta la vita per accrescere e mantenere le proprie competenze professionali.

 

26. IL CONTRATTO DI LAVORO SPORTIVO

 

Rapporto di lavoro speciale disciplinato dalla l. n. 91/1981. Si applica agli atleti sportivi professionisti la cui prestazione è caratterizzata da onerosità e continuità dell’attività sportiva. Si tratta di lavoro subordinato speciale, data la particolarità dell’oggetto della prestazione.

La legge afferma che si configura come lavoro autonomo se

  • l’attività è prestata nell’ambito di una singola manifestazione sportiva;
  • la prestazione è inferiore nel complesso a 8 ore alla settimana ovvero 5 giorni al mese ovvero 30 giorni all’anno.

Questo tipo di contratto richiede la forma scritta ad substantiam.  La cessazione del rapporto è caratterizzata dal recesso ad nutum, secondo gli artt. 2118 e 2119 codice civile.

Non si applica l’art.7 dello statuto dei lavoratori alle sanzioni disciplinari (si distingue dunque tra illeciti contrattuali ed illeciti sportivi), né l’art. 13 dello statuto dei lavoratori: la società può mutare le mansioni e i ruoli senza problemi di sorta.

E’ prevista una regolamentazione specifica per il trasferimento (cessione del contratto), fattispecie per cui la l. n. 91 prevede una particolare indennità (appunto, indennità di trasferimento) – ritenuta poi illegittima con la sentenza Bosman unitamente alle regole con cui si limitava il numero di giocatori comunitari nell’ambito calcistico.

Ovviamente, non si applica al lavoro sportivo il patto di non concorrenza.

 

(aggiornamento 2003)

27. TRASFERIMENTO D’AZIENDA

                            
La materia del trasferimento d’azienda è stata recentemente innovata dal d. lgs. n. 18 del 2001, il quale – in attuazione di una direttiva comunitaria del 1998 – ha modificato l’art. 2112 del codice civile.
La nuova formulazione dell’art. 2112 c.c. definisce trasferimento s’azienda “qualsiasi operazione che comporti il mutamento della titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato, ivi compreso l’usufrutto o l’affitto di azienda”.
Quindi nonostante la terminologia utilizzata dal legislatore sia quella di trasferimento d’azienda, in realtà si fa riferimento al trasferimento di impresa privata o pubblica.

In considerazione del cambiamento, è prevista una serie di tutele per il lavoratore:

  • il rapporto di lavoro instaurato con l’alienante continua con il nuovo titolare con gli stessi contenuti che vi erano in precedenza;
  • vi è responsabilità solidale dell’acquirente e dell’alienante riguardo ai crediti maturati dal lavoratore durante il rapporto con l’alienante; non esistono infatti né beneficio né priorità di escussione, così che il lavoratore si possa rivolgere indifferentemente ad uno dei due;
  • obbligo di informazione e consultazione sindacale nel caso in cui nell’azienda siano occupati più di 15 lavoratori; ciò rientra fra i diritti di informazione del lavoratore, dove oltre all’obbligo principale costituito dalla retribuzione, per il datore ve ne sono altri accessori – ad esempio gli obblighi di informazione di origine legale o obblighi di informazione di origine contrattuale (contratti collettivi). Siamo nell’ambito della partecipazione dei lavoratori a questioni dell’impresa, cui è sovraordinato l’art. 46 della Costituzione.

Esistono vari livelli di partecipazione dei lavoratori a questioni dell’impresa:
I livello: obblighi di informazione;
II livello: diritto del lavoratore ad essere consultato, e il datore deve dargli la possibilità di parola;
III livello: diritto di controllo, il lavoratore deve avere la possibilità di controllare quali decisioni sono state prese dal datore;
IV livello: cogestione, la decisione viene presa insieme dalle due parti (positiva se occorre l’accordo di entrambe le parti, negativa se ci può essere diritto di veto da parte del lavoratore).

Ai lavoratori è riconosciuto il diritto di partecipare alla gestione dell’impresa, secondo i modi definiti dalla legge.

Questioni particolari si pongono nel caso dei contratti collettivi.

I suddetti principi non si applicano se il trasferimento riguarda aziende o unità produttive di cui il CIPI (organo pubblico) abbia accertato lo stato di crisi aziendale; in tal caso non tutti i lavoratori passano al nuovo titolare, non si applica il principio della conservazione; per gli esclusi si ha il diritto di precedenza nelle assunzioni fatte dal nuovo datore entro un anno di tempo. Se non c’è crisi invece tutti i lavoratori devono passare sotto la nuova gestione, e i datori di lavoro alienanti tendono così a incentivare  le dimissioni prima del nuovo trasferimento – per favorire il nuovo datore – con legge comunitaria 428/1990 che ha modificato l’art. 2112 cod. civ. recependo una direttiva comunitaria sui trasferimenti d’azienda.

 

28. CASSA INTEGRAZIONE GUADAGNI, LICENZIAMENTI COLLETTIVI
 



La cassa integrazione guadagni è un istituto nato per integrare i guadagni dei lavoratori in determinate situazioni di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa, ne esistono due tipologie: si è in presenza della tipologia ordinaria (CIGO) se sussistono i seguenti tre principi:
    • involontarietà del datore di lavoro di riduzione o sospensione;
    • temporaneità dell’intervento;
    • certezza della ripresa dell’attività lavorativa.

Essa assume caratteristiche particolari in base ai settori di applicazione che sono quello agricolo (in caso di calamità naturali), quello edile (in caso di mancato termine dei pagamenti) e quello industriale; tuttavia vi sono i seguenti aspetti generalmente validi:

  • i beneficiari sono operai, impiegati e quadri;
  • viene corrisposto l’80% della retribuzione;
  • la durata della CIGO è di 3 mesi, prorogabile di 3 mesi in 3 mesi fino ad un massimo di 12 mesi;
  • è finanziata sia dall’INPS, sia dal datore di lavoro (ddl).

L’altra tipologia è quella straordinaria (CIGS), la quale prescinde dai tre principi di quella ordinaria ed è attuabile nei casi di:

    • crisi aziendale di particolare rilevanza sociale;
    • fallimento;
    • grave crisi dell’occupazione conseguente al completamento di impianti industriali o opere pubbliche di grandi dimensioni.

Le caratteristiche generali sono:

  • la durata è da 12 a 24 mesi prorogabili;
  • la retribuzione è pari ai 2/3 del totale;
  • posso perderne il diritto se rifiuto un lavoro a retribuzione inferiore o se non partecipo a lavori di bene pubblico.

In alternativa alla cassa integrazione guadagni, seguendo il ragionamento per cui non ha senso mantenere in piedi rapporti di lavoro senza futuro, sono stati posti in essere i licenziamenti collettivi.
Per attuarli si attua la procedura di mobilità che deve concludersi in 45 giorni, prevede due fasi:

  • fase sindacale, il ddl deve inviare una comunicazione scritta alla RSA, alle associazioni di categoria e all’ufficio provinciale del lavoro indicando tra le altre cose i motivi di eccedenza di personale e i motivi della soluzione adottata. Entro 7 giorni dal ricevimento della comunicazione RSA e associazioni possono chiedere un esame congiunto tra le parti per ottenere un accordo sulle misure da attuare (accordo di mobilità).
  • fase pubblica, scatta se non si raggiunge un accordo a questo punto è il presidente della della direzione provinciale del lavoro che tenterà l’accordo; si profilano due situazioni:
    • accordo raggiunto: il ddl licenzia pagando 3 mensilità dell’indennità di mobilità;
    • accordo assente: il ddl licenzia pagando 6 mensilità.

I criteri oggettivi di scelta sono:

        • esigenze tecnico produttive, è il criterio principale, quelli seguenti sono usati se questo è insufficiente;
        • carichi di famiglia, si guarda il numero di persone a carico del lavoratore;
        • anzianità, si guarda l’anzianità di servizio e non quella anagrafica.

I tre criteri sono applicati senza discriminazione di sesso e senza considerare se uno sia disabile o meno: scelti i lavoratori questi riceveranno una comunicazione scritta di preavviso e inoltre l’elenco dei licenziati verrà comunicata alla direzione regionale del lavoro con tutti i dati relativi per l’iscrizione alle liste di mobilità. Il lavoratore che ritiene illegittimo il provvedimento lo deve impugnare entro 60 giorni. Le tipologie di illegittimità sono quella di licenziamento nullo se è violata la procedura di mobilità o avviene in maniera discriminatoria ed è annullabile se sono mal applicati i criteri di scelta.

Il primo tipo di licenziamento collettivo è quello per riduzione di personale, devono essere soddisfatti i seguenti requisiti:

    • requisito qualitativo: la causa del licenziamento è la riduzione o trasformazione di attività;
    • requisito quantitativo-temporale: almeno 5 licenziamenti in 120 giorni nell’unità di produzione.

Inoltre il datore di lavoro deve essere imprenditore e ci devono essere più di 15 dipendenti per la stessa unità produttiva o per unità produttive della stessa provincia.
Nel caso questi principi siano violati si può fare un licenziamento individuale plurimo per giustificato motivo oggettivo: si noti come la natura dei due licenziamenti sia della stessa natura!

Il secondo tipo di licenziamento collettivo è quello per messa in mobilità, per poterlo attuare viene sempre richiesto il requisito qualitativo. Lo strumento usato sono le liste di mobilità che hanno lo scopo di favorire il ricollocamento, in taluni casi sono previste anche delle indennità di mobilità in particolare per i lavoratori di un’impresa nel campo di applicazione della CIGS. Un lavoratore può anche essere cancellato dalle liste di mobilità se rifiuta di essere avviato ad un corso di formazione, rifiuta un lavoro o di partecipare ad opere di bene pubblico, non comunica all’INPS una sua prestazione occasionale, ecc.

 

Fonte: http://www.giordy.org/Uni/2a3p/Diritto%20del%20lavoro%20A%202004.doc

Sito web da visitare: http://www.giordy.org/

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