Pirandello Luigi

 

 

 

Pirandello Luigi

 

I riassunti, le citazioni e i testi contenuti in questa pagina sono utilizzati per sole finalità illustrative didattiche e scientifiche e vengono forniti gratuitamente agli utenti.

 

Pirandello Luigi

 

Pirandello, Luigi (Girgenti, oggi Agrigento 1867 - Roma 1936), scrittore italiano, uno dei massimi drammaturghi del Novecento. Anche se la sua fortuna critica è sempre stata molto controversa (soprattutto in Italia), Pirandello è uno dei pochi scrittori italiani contemporanei che abbia saputo conquistarsi una fama internazionale: non tanto per il premio Nobel (1934), quanto grazie allo straordinario numero di compagnie che ne mettono in scena i drammi in molti paesi del mondo.

Luigi Pirandello è considerato il più innovativo drammaturgo del primo Novecento. Con Sei personaggi in cerca d'autore (1922) inaugurò una trilogia dedicata al "teatro nel teatro", in cui la riflessione sulle strutture drammaturgiche diventa specchio dell'analisi sulle contraddizioni di quella che viene considerata la realtà. Analoghi temi vennero indagati nelle opere narrative di Pirandello, da Il fu Mattia Pascal (1904) a Uno nessuno e centomila (1926). Lo scrittore ebbe il premio Nobel per la letteratura nel 1934.

Le prime opere e i romanzI

Dopo aver esordito come poeta con Mal giocondo (1889), conseguì la laurea in filologia romanza all'Università di Bonn. In seguito si dedicò all'insegnamento della letteratura italiana, pubblicando nel 1894 le prime novelle, Amori senza amore. Nello stesso anno sposò Antonietta Portulano, che gli avrebbe dato tre figli. Nel 1901 pubblicò il suo primo romanzo, L'esclusa, che segna il passaggio dal modello narrativo verista allo stile "umoristico", cioè a una caratteristica mescolanza di tragico e comico, che da quel momento avrebbe caratterizzato la produzione pirandelliana. Nel 1903 lo scrittore si trovò improvvisamente in rovina e con la moglie in preda alla pazzia; risale a quest'epoca la stesura della sua migliore opera narrativa, il romanzo Il fu Mattia Pascal (1904). A questo seguirono altri romanzi, tra i quali spiccano I vecchi e i giovani (1913) e Uno, nessuno e centomila (1925-1926), che rappresenta per molti aspetti una specie di consuntivo ideologico finale.

 

Il teatro e le novellE

Soltanto intorno al 1910 Pirandello si decise ad affrontare anche le scene, pur avendo scritto fin dall'adolescenza testi teatrali. Dopo aver ottenuto un buon successo con Pensaci, Giacomino! e Liolà (entrambi del 1916), egli precisò i nuclei fondamentali della propria ispirazione con Così è (se vi pare) (1917) e Il giuoco delle parti (1918). Ma l'anno decisivo per la notorietà pirandelliana fu il 1921, quando, per la sua audacia sperimentale, il dramma Sei personaggi in cerca d'autore prima venne fischiato a Roma e poco dopo ottenne a Milano un clamoroso successo, che proseguì subito dopo in America e che continua tuttora. A questo seguì il successo della tragedia Enrico IV (1922), che consacrò definitivamente Pirandello fra i massimi drammaturghi mondiali. Fra le numerosissime opere teatrali dello scrittore agrigentino, è necessario ricordare la trilogia del "teatro nel teatro", composta, oltre che dai Sei personaggi in cerca d'autore, da Ciascuno a suo modo (1924) e da Questa sera si recita a soggetto (1930). La produzione novellistica pirandelliana, nucleo generatore dei suoi drammi, è raccolta nelle Novelle per un anno (1922-1937).

Pirandello è probabilmente l'autore che meglio rappresenta il periodo che va dalla crisi successiva all'unità d'Italia all'avvento del fascismo. Pochi come lui ebbero coscienza dello scacco subito dagli ideali del Risorgimento e dei complessi cambiamenti in atto nella società italiana. Sul piano letterario il suo punto di partenza fu, come per gran parte degli autori nati nella seconda metà dell'Ottocento, il naturalismo. Fin dal primo momento però l'oggetto privilegiato, o pressoché esclusivo, delle rappresentazioni pirandelliane non fu il mondo popolare bensì la condizione della piccola borghesia. Da questa prospettiva lo scrittore seppe sviluppare una corrosiva critica di costume, cogliendo in profondità la crisi delle strutture tradizionali della famiglia patriarcale.
La tragedia borghesE

Poiché però anch'egli apparteneva alla piccola borghesia, finì per assolutizzarne i dubbi e le sofferenze, che rappresentò come il segno di una condizione eterna di tutti gli esseri umani. D'altro canto fu proprio la direzione esistenziale e metafisica assunta dalla sua ricerca a portarlo molto vicino alle posizioni di alcuni dei più grandi scrittori europei di questo secolo. Paragonato, volta a volta, a Kafka o a Camus, a Sartre o ai drammaturghi del teatro dell'assurdo (Beckett, Ionesco), Pirandello è stato uno dei pochissimi scrittori italiani del Novecento capaci di raggiungere una fama mondiale: ancora oggi i suoi drammi sono, dopo quelli di Shakespeare, i più rappresentati in tutto il mondo.

Il mondo dell’apparenzA

Al centro della poetica pirandelliana, delineata nel saggio l'Umorismo (1908), sta il contrasto tra apparenza e sostanza. La critica delle illusioni va di pari passo con una drastica sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà: qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata all'inattingibile verità della vita, percepita come un flusso continuo, caotico e inarrestabile. In un mondo dominato dal caso e privo di senso, Pirandello conferisce alla letteratura il compito paradossale di mostrare l'inadeguatezza degli strumenti logico-linguistici di interpretazione della realtà. L'arte, espressione del dubbio sistematico, diventa così coscienza critica, dovere morale dello scrittore contro le mistificazioni e i falsi miti costruiti dagli scrittori del decadentismo, a cominciare da D'Annunzio.

 

D’Annunzio GabrielE

D'Annunzio, Gabriele (Pescara 1863 - Gardone Riviera, Brescia 1938), scrittore italiano. Frequentò a Prato il prestigioso Collegio Cicognani; giovanissimo, esordì con la raccolta di poesie Primo vere (1879), ben accolta dalla critica: finito il liceo giunse perciò a Roma preceduto da una certa notorietà negli ambienti culturali.

Romanziere, poeta e drammaturgo, Gabriele d'Annunzio fu una personalità di livello europeo nel panorama della cultura del primo Novecento. Con il suo romanzo Il piacere (1889) introdusse in Italia le novità del decadentismo e del simbolismo europei e la figura dell'eroe decadente.

La poesia degli esordI

Grazie a Edoardo Scarfoglio frequentò il mondo del giornalismo e fece vita di società, collaborando a varie testate (dal "Fanfulla della Domenica" alla "Cronaca bizantina", alla "Tribuna"). Come cronista mondano fu molto apprezzato dal pubblico, e la sua popolarità crebbe ulteriormente quando venne pubblicato il secondo libro di poesie, Canto novo (1882), che arricchiva il linguaggio carducciano, già utilizzato per la raccolta d'esordio, di una solare e corporea vitalità, sempre sorretta da un registro alto. Nel 1883 apparve Intermezzo di rime, attorno al quale si accese una polemica giornalistica per i temi trattati, giudicati scandalosi. Un sensualismo e un erotismo di chiara impronta decadente, che accosta figure squisite a immagini deformi e corrotte, pervade anche la raccolta Isaotta Guttadàuro ed altre poesie (1886), mentre con le Elegie romane (1892) D'Annunzio si riaccostò ai modelli classicisti di Carducci. Del 1893 è il Poema paradisiaco, che mostra toni ulteriormente smorzati e, con una più decisa apertura alle moderne esperienze europee, accoglie le suggestioni del simbolismo.

 

Dal piacere alle vergini delle roccE

Intanto D'Annunzio aveva dato avvio alla produzione in prosa. I racconti di questo periodo vennero pubblicati in seguito con il titolo Novelle della Pescara (1902), un libro in cui il verismo è sapientemente mescolato a una sensibilità decadente. Nel 1889 fu pubblicato il romanzo Il piacere: protagonista ne è Andrea Sperelli, un giovane aristocratico che ama l'eleganza e l'arte; il suo estetismo lo porta a trascurare la vita pratica a favore di un'egoistica e distruttiva idealizzazione dell'amore e della vita sotto il segno del bello, e così travolge non solo le sue amanti ma anche se stesso.

D'Annunzio cercò di trasferire il suo gusto estetizzante anche nella vita, coltivando l'eleganza e indulgendo al gesto clamoroso. Si sposò molto giovane, dopo una fuga d'amore, ed ebbe una vita sentimentale intensissima, costellata di numerose amanti. Adorava circondarsi di raffinate opere d'arte e conduceva una vita dispendiosa che lo portò a indebitarsi. Proprio per sfuggire ai debiti si trasferì nel 1891 a Napoli, dove rimase fino al 1894 mantenendosi soprattutto grazie alla collaborazione con il quotidiano della città, "Il Mattino".

Con il racconto Giovanni Episcopo (1891) e il romanzo L'Innocente (1892; da quest'opera il regista Luchino Visconti trasse un film nel 1976) D'Annunzio diede di nuovo prova di saper assorbire e rielaborare con straordinaria rapidità i più vari modelli espressivi. Qui è evidente l'influenza di Tolstoj e di Dostoevskij, mentre nelle Vergini delle rocce (1895) il riferimento ideologico è al filosofo Friedrich Nietzsche, anche se in D'Annunzio la figura del superuomo mantenne una forte componente estetizzante.

Le laudI

Le raccolte poetiche maggiori sono del 1903-1904: con i primi tre libri (Maia, Elettra, Alcyone) delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi si sarebbero misurati i poeti italiani delle successive generazioni. Soprattutto nel primo libro D'Annunzio, recuperando il mito greco, si autocelebra "poeta vate", eroe superomistico della rinascita dell'umanità, mentre con Alcyone, al quale appartengono le famosissime liriche La sera fiesolana e La pioggia nel pineto, viene ripreso il tema, già preannunciato nel Canto novo, dell'immedesimazione panica del poeta con la natura.

L’attività teatralE

Dal 1898 visse a Settignano (Firenze) nella villa La Capponcina, vicina alla residenza di un'ennesima donna amata, la celebre attrice Eleonora Duse, con la quale ebbe un'intensa relazione rispecchiata senza molto pudore nel romanzo Il fuoco (1900). La vicinanza della Duse fece sì che D'Annunzio intensificasse l'attività teatrale: durante la loro relazione scrisse nel 1899 La città morta e La Gioconda, ma il meglio del suo teatro è costituito dalle tragedie Francesca da Rimini (1901), La figlia di Iorio (1904) e La fiaccola sotto il moggio (1905).

D’Annunzio a fiumE

Gabriele D'Annunzio arringa i suoi legionari a Fiume nel 1920. Il poeta, ardente nazionalista e interventista, con un'ardita e storica "impresa" aveva occupato con un corpo di volontari la città nel settembre del 1919, istituendovi il comando del Quarnaro. Fiume era rivendicata dall'Italia ma il patto di Londra del 1915 l'aveva assegnata alla Croazia; in base al trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 fu dichiarata città libera ma D'Annunzio resistette alle risoluzioni dell'accordo e il governo italiano dovette intervenire per cacciare i legionari con la forza.

Le prose di memoriA

Nel 1910, quando i creditori riuscirono a sequestrargli la villa e gli arredi, D'Annunzio emigrò in volontario esilio in Francia, dove continuò a scrivere. Visse a Parigi quattro anni. Sin dalla fine dell'Ottocento aveva registrato appunti e ricordi, costituendo così la base per le prose raccolte nelle Faville del maglio (1928), la prima delle quali fu stampata sul "Corriere della Sera" nel 1911. In esse si esprime una vena memorialistica che culminerà nel Notturno (ultimato nel 1921), opera di uno scrittore non più "magnifico" ma ripiegato su se stesso, alla quale sarebbero seguite, nel 1935, le Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto.

Tornato in Italia nel 1915, tenne altisonanti e violenti discorsi a favore dell'intervento in guerra e si impegnò personalmente in ardite azioni belliche. Dal 1921 alla morte visse sul lago di Garda, a villa Cargnacco, trasformata progressivamente nel Vittoriale, una sorta di monumento a se stesso e a futura memoria: il luogo più elevato del parco ospita infatti il mausoleo che lo scrittore fece edificare per farvi riporre le proprie spoglie. In Italia, dove D'Annunzio fu celebrato come eroe e artista nazionale dal regime fascista, venne realizzata un'imponente edizione nazionale delle sue opere (42 volumi); nel 1937, già famoso anche all'estero, fu nominato presidente dell'Accademia d'Italia.

Il vivere inimitabilE

Nell'opera di D'Annunzio la vita dell'autore e la letteratura non solo si rispecchiano, ma l'esistenza privata diventa spettacolo per il pubblico, attirando sul poeta un interesse mai raggiunto da nessun autore italiano precedente e contemporaneo. In questo modo si spiega l'apparente paradosso per cui lo scrittore più popolare del tempo fu un artista aristocratico ed esclusivista. Un artista "inimitabile" anche grazie a gesta clamorose e avventurose come la Beffa di Buccari (incursione di MAS nella baia di Buccari, nel corso della quale D'Annunzio lanciò bottiglie che contenevano messaggi di scherno) e l'impresa di Fiume. Del resto, la modernità della sua sensibilità è provata da altri fatti: non solo D'Annunzio fu tra i primi a interessarsi di cinema, ma molti si rivolsero a lui per battezzare prodotti commerciali (la penna Aurora o il liquore Aurum), grandi magazzini (la Rinascente), fatti, questi, che denotano una precoce sensibilità “pubblicitaria”.

 

Svevo ItalO

Svevo, Italo Pseudonimo di Ettore Schmitz (Trieste 1861 - Motta di Livenza, Treviso 1928), scrittore italiano, la cui opera costituì un momento di passaggio tra le esperienze del decadentismo italiano e la grande narrativa europea dei primi decenni del Novecento. La coscienza di Zeno, in particolare, avrebbe influenzato la narrativa italiana degli anni Trenta e del dopoguerra.
Di famiglia ebraica, Svevo riuscì, grazie anche alle caratteristiche culturali di una città come Trieste, allora parte dell'impero austroungarico, ad assimilare una cultura mitteleuropea, che gli consentì di acquisire uno spessore intellettuale raro negli scrittori italiani del tempo. Al centro di questa sua formazione stanno da una parte la conoscenza della filosofia tedesca (soprattutto di Nietzsche e Schopenhauer) e della psicoanalisi di Freud e, dall'altra, l'interesse per i maestri del romanzo francese, da Stendhal a Balzac fino al naturalismo di Zola, e per i grandi narratori russi quali Gogol', Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij e Cechov. Svevo compì o approfondì queste letture nel tempo libero che gli lasciava il suo lavoro di impiegato in banca, iniziato nel 1880 dopo il fallimento della ditta paterna. Intanto collaborava come critico teatrale e letterario a "L'indipendente", giornale triestino sul quale nel 1890 comparve a puntate la sua novella L'assassinio di via Belpoggio.

 

Una vitA

La sua esperienza di impiegato gli ispirò la prima opera pubblicata in volume, Una vita (1892). Il romanzo, che portava in origine il titolo "Un inetto", è incentrato sul personaggio di Alfonso Nitti, incapace di adattarsi alle leggi e all'ambiente dell'ufficio e infine sconfitto dalla sproporzione tra le alte aspirazioni (la pubblicazione di una grande opera, il successo in società) e la sua inettitudine che gli impedisce di tradurre l'ideale in azione.

 

Senilità

Il romanzo successivo porta il titolo Senilità (1898), dove il riferimento non è al dato anagrafico bensì alla patologica vecchiaia psicologico-morale di Emilio Brentani. Questa seconda figura sveviana dell'"inetto" è circondata da altri personaggi che acquistano nuovo spessore rispetto al romanzo precedente: la sorella Amalia, malinconica e "incolore"; Stefano Balli, scultore di poca fama ma uomo energico nella vita e fortunato con le donne; e la procace, sensuale ed esuberante Angiolina. Emilio, letterato di scarso successo, prende a modello l'amico Balli e, nel tentativo di riscattare la mediocrità e il grigiore della propria vita, intreccia con Angiolina una relazione che si rivelerà fallimentare per l'incapacità di Emilio di tradurre in pratica la lezione dell'amico e per la tenacia con cui proietterà nella donna i propri sogni idealizzanti.

 

L'insuccesso dei primi due romanzi indusse Svevo a circa vent'anni di silenzio letterario, ma, nonostante le responsabilità imposte dalla sua nuova posizione di dirigente nella ditta di vernici del suocero, Svevo non cessò del tutto di coltivare la letteratura, come testimoniano alcuni suoi racconti: l'inizio della stesura della Madre, ad esempio, risale al 1910, sebbene il racconto sia stato pubblicato postumo, nel 1929, nella raccolta La novella del buon vecchio e della bella fanciulla; e prima del 1912 si colloca anche la scrittura di alcune delle prose brevi raccolte nel volume Corto viaggio sentimentale, pubblicato nel 1949.

Nel 1905 Svevo cominciò a prendere lezioni di inglese da James Joyce, con il quale intrecciò un'amicizia che si sarebbe rivelata feconda per il suo futuro percorso letterario. Joyce, che soggiornò a Trieste fino al 1915, lesse con entusiasmo le opere di Svevo (soprattutto Senilità) e lo incoraggiò a scrivere un nuovo romanzo. Svevo, da parte sua, poté leggere non soltanto le opere joyciane già pubblicate ma anche i manoscritti di quelle ancora in fase di stesura (certamente lesse Dedalus). Intanto, nel 1908, si era accostato all'opera di Freud, che gli avrebbe fornito altri fondamentali strumenti per scandagliare la "coscienza" del terzo inetto, Zeno Cosini.

Fu durante la prima guerra mondiale che Svevo cominciò a elaborare La coscienza di Zeno (1923), unanimemente considerato il suo capolavoro. In questo romanzo l'autore sviluppa un'analisi psicologica di straordinaria profondità e costruisce tecniche narrative modernissime, soprattutto per la tradizione del romanzo italiano. La prima pagina, scritta nella finzione letteraria dallo psicoanalista di Zeno, presenta la narrazione come un'autobiografia del paziente, una rievocazione del passato richiesta dal medico come tappa preliminare alla terapia analitica. Attraverso la rappresentazione interiore della nevrosi del protagonista e narratore, l'autore riesce a rendere la soggettività del pensiero e dei ricordi, in una narrazione che appare ormai quasi completamente svincolata dalle convenzioni realistiche ottocentesche. Ma la novità di Svevo sta anche nella sua dissacrante ironia, nella costruzione di un protagonista radicalmente antitragico e antieroico.

Furono Eugenio Montale e Joyce ad avviare la "scoperta" di Svevo, il primo pubblicando nel 1925 Omaggio a Italo Svevo sul periodico milanese "L'Esame" e il secondo parlando dello scrittore triestino agli amici Benjamin Crémiex e Valery Larbaud, che nel 1926 dedicarono a Svevo un numero della rivista parigina "Le Navire d'Argent". Tuttavia la fortuna critica ebbe consacrazione ufficiale un anno dopo la morte dello scrittore – avvenuta in un incidente automobilistico – con un numero speciale a lui dedicato dalla rivista fiorentina di letteratura "Solaria".

 

http://www.parrocchiapoggiosannita.it/documenti/utili/ITALIANO/Pirandello%20Luigi.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Pirandello Luigi

   Luigi  Pirandello 
  

Formazione culturale e concezione della vita


La crisi dell'uomo contemporaneo trova nell'arte di Luigi Pirandello un testimone e un interprete d'eccezione. Con la sua intensa e spregiudicata attività letteraria, rappresentata soprattutto dalla sua opera di narratore e di drammaturgo, Pirandello compì una spietata esplorazione della condizione dell'uomo del suo tempo, del suo smarrimento, della sua dissipazione morale, della sua disperata solitudine.

 L'attività più intensa del Pirandello si svolse in un momento particolarmente tormentato della nostra storia e cioè nel trentennio che va dal 1900 al 1930. Sono gli anni in cui si prepara la prima guerra mondiale: un periodo confuso non soltanto sotto l'aspetto politico e sociale, ma anche in quello letterario. Già negli ultimi decenni dell'Ottocento,nella letteratura e particolarmente nel teatro, si cominciò ad avvertire un senso di stanchezza e di amara delusione, che rispecchiava la situazione psicologica in cui si trovava la società borghese post-risorgimentale .Al Positivismo,che aveva esaltato l'intelletto umano come capace di costruire un nuovo mondo di felicità sociale e di grande progresso, subentra il Decadentismo  col suo gusto dell'ignoto e dell'inconscio, con le sue incertezze e le sue contraddizioni.
Pirandello può considerarsi, insieme al Pascoli e al D'Annunzio, il maggiore interprete della sensibilità espressa dal Decadentismo in Italia,proteso com'è ad analizzare i sintomi della inquietudine che travaglia l'anima moderna,smarrita nel mistero che ci avvolge, incerta del suo divenire, presa nella morsa di leggi inesorabili regolate da una natura per essa incomprensibile

In un mondo dove tutto è messo in discussione l'uomo si ritrova solo e deluso, senza fede e senza fiducia. Lo sbandamento delle coscienze si ripercuote anche nella letteratura. In questo clima spirituale nasce e si sviluppa l'opera di Pirandello, uno degli interpreti più espressivi dello squilibrio dello spirito contemporaneo e il maggior drammaturgo del nostro tempo. Evidenti, anche se esteriori soltanto, sono i legami dell'opera pirandelliana con l'esperienza verista. Nella prima produzione, e particolarmente nelle novelle, ritroviamo lo stesso ambiente piccolo-borghese, che richiama situazioni e modi del Verga, con una rappresentazione apparentemente impersonale di costumi e di personaggi, che vanno dai salfatari ai pescatori, dai contadini ai piccoli proprietari. Anche i personaggi di Pirandello sono dei poveri derelitti, dei "vinti" ,ma, a differenza di quelli verghiani, non sono dei rassegnati al loro destino, ma anime inquiete, tormentate, pronte alla ribellione, ossessionate dal desiderio di evadere non appena si accorgono di vivere una vita che non è la loro, perché essi sentono " la pena del vivere così ".Il dato realistico rimane indubbiamente il punto di partenza, il primo momento in cui l'autore prende contatto con la realtà umana, osservata come essa è;  proprio dalla osservazione delle " cose " egli sviluppa una più attenta meditazione, che tende ad andare oltre le apparenze, per penetrare nella condizione intima della vita di tanti individui e cogliere i contrasti tra l'essere e il parere. Per questo il Pirandello sposta la sua attenzione e il suo studio dall'ambiente all'individuo, allontanandosi sempre più dal naturalismo e dal verismo, per accogliere le istanze e le inquietudini proprie del decadentismo. La realtà gli appare come qualcosa di mutevole, di vario; nulla è certo, tutto è illusione, diversa da momento a momento e da individuo a individuo. L'uomo crede di essere uno, ma in realtà non è nessuno; per chi lo osserva è centomila, in quanto assume personalità diverse secondo il concetto degli altri. La nostra vera personalità, il nostro" volto "rimangono soffocati sul nascere da una maschera che gli altri ci impongono dall'esterno e in base alla quale noi viviamo; la società ci toglie ogni libertà con i suoi pregiudizi e le sue consuetudini, che finiscono per inaridire lo slancio vitale o per fare di noi personalità schematizzate,senza volto. Così conformato l'uomo non ha neppure la possibilità di conoscere se stesso e spesso si sente mosso nell'agire da forze misteriose, incontrollate, che provengono dal suo subcosciente: è la vita che pulsa e ribolle sotto la maschera nel tentativo di erompere. “Ciò che conosciamo di noi stessi - scrive Pirandello - non è che una parte di quello che noi siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza che sono veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente". E' a questo punto che nasce il dramma dell'individuo, nel momento cioè in cui egli si rende conto di vivere una vita che non è la sua e passa dal semplice "vivere" al "vedersi vivere". Una vita simile è "una molto triste buffonata; perché abbiamo in noi  la necessità di ingannare di continuo noi stessi, con la spontanea creazione di una realtà la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. Chi ha capito il gioco non riesce più ad ingannarsi; ma chi non riesce più ad ingannarsi ,non può più prendere né gusto né piacere alla vita". Da questa situazione tragica e dolorosa dell'individuo che inutilmente tenta di infrangere la "maschera" per scoprire il "volto" nascono le situazioni strane, assurde paradossali che si incontrano nell'opera del Pirandello e in particolare nel teatro. La impossibilità dunque dell'individuo e della società di fissare una verità assoluta, conduce l'uomo ad annaspare nel buio del mistero che l'avvolge, senza possibilità di raggiungere alcuna certezza. In Pirandello è sempre viva l'amarezza di dover constatare l'incomunicabilità degli uomini fra di loro, questo dover vivere così, estranei e sconosciuti l'uno all'altro, soli nel mondo, in un continuo, inappagato ed irrealizzabile desiderio di approdo alla vita altrui, di attacco con gli altri, di comprensione ripudiata. Nasce così l'incomprensione tra noi e coloro che ci stanno attorno, poiché ognuno parla un linguaggio diverso da quello degli altri, per cui è impossibile stabilire un colloquio.Incomunicabilità, solitudine, incomprensione, aridità sono i caratteri comuni a quasi tutti i personaggi dei drammi pirandelliani. Questa posizione di disgusto e di disprezzo del mondo e della vita umana porterebbe irrimediabilmente alla follia e al suicidio, se l'uomo non tentasse in qualche modo di reagire, di trovare una soluzione agli inquietanti interrogativi che la vita gli pone.
La vita
Luigi Pirandello nacque ad Agrigento nel 1867. Importanti furono gli anni dell'infanzia e della giovinezza: non solo per le prime esperienze culturali e per l'affiorare degli interessi per la letteratura e la poesia, ma anche per le esperienze umane e sociali(in un ambiente angusto condizionato da abitudini e convenzioni tradizionali)compiute in quei decenni di confusione politica e morale che seguirono all'unità d'Italia.  Intraprese gli studi universitari alla facoltà di lettere di Palermo per passare poi a quella di Roma e di Bonn, dove si fermò due anni laureandosi nel 1891. A Bonn Pirandello ebbe modo di venire a contatto con le più stimolanti esperienze della cultura contemporanea. In quel tempo egli non aveva ancora una chiara idea delle proprie attitudini e del proprio futuro: oscillava tra le ambizioni della ricerca scientifica e quelle poetiche, e non era insensibile alle tentazioni del giornalismo. Tornato a Roma tentò di inserirsi nella vivace società letteraria che in quello scorcio di secolo illustrava la capitale. Dominava D'Annunzio; ma Pirandello non fu sedotto dalle suggestioni del dannunzianesimo, anche se ne risentì qualche influenza ( Elegie renane, pubblicate nel 1895 ). Decisivo fu invece l'incontro con Luigi Capuana, il teorico e maestro del verismo italiano. A contatto con Capuana, Pirandello scopre e definisce la propria vocazione di narratore; avvicinandosi alla grande esperienza del verismo. Nel 1893 scrive il suo primo romanzo " L'esclusa " e nel 1894 pubblica il primo volume di racconti "Amori senza amore ". Nello stesso anno sposa la bella e ricca Antonietta Portulano, pure lei agrigentina. Ma la vita avrebbe riservato prove molto dure e amare ai due coniugi: nel 1897 un grave dissesto economico costringe la famiglia Pirandello a trasferirsi a Roma, dove Luigi insegna letteratura italiana all'Istituto Superiore di Magistero. Nell'ambiente romano, Pirandello prende consapevolezza del suo pensiero, soprattutto nel corso di una polemica antidannunziana, che si svolse nelle riviste il " Marzocco " e " La nuova antologia ".Intanto, nel 1903, cominciano ad apparire i primi sintomi del male che avrebbe afflitto la povera consorte distruggendo la felicità della famiglia Pirandello.Lo scoppio della grande guerra del 1914-18 e la prigionia del figlio Stefano ferito ed ammalato, avevano contribuito ad affliggere maggiormente lo scrittore, che già attraverso l'amara esperienza del dolore aveva consolidato la sua triste concezione del vivere nel mondo. Finita la guerra, Pirandello si immerse in un lavoro frenetico e senza soste, spinto dall'urgenza di insegnare agli uomini le "verità" da lui scoperte. Nascono i capolavori "Sei personaggi in cerca d'autore" ed " Enrico IV ",entrambi del 1921. Nel 1925 fonda la " Compagnia del teatro d'arte" con i due grandissimi ed insuperati interpreti dell'arte pirandelliana: Marta Abba e Ruggero Ruggeri, con i quali intraprende il giro d'Europa e delle due Americhe, mentre dappertutto crescono i consensi alla sua opera e la sua fama si leva altissima, consacrata nel 1934 dal premio Nobel. Nel novembre del 1936 si ammala gravemente di polmonite e poco dopo muore.
Pirandello narratore

Le opere narrative sono nella quasi totalità precedenti cronologicamente a quelle drammatiche ed in esse si pongono già tutti i motivi dell'arte e tutta quanta la concezione che Pirandello ebbe della vita. Novelle e romanzi sono i germi da cui prende avvio e successivamente si amplia la produzione teatrale. Le novelle sono state messe ingiustamente in ombra dalla grande accoglienza fatta nel mondo al teatro pirandelliano, in quanto questo ha una maggiore capacità di penetrazione e di comprensione a qualsiasi livello ed una maggiore forza di espansione. Uno degli aspetti peculiari dell'opera narrativa di Pirandello è la sicilianità, connaturata nell'amore aspro per la sua terra. Pirandello è animato da un bisogno sempre desto di dare carattere di simbolo alle figure che la realtà gli presenta, cosicché nella novella accade quasi sempre che realtà e simbolo convivano benissimo insieme, o meglio la realtà offra allo scrittore lo stimolo, lo spunto per rappresentare una "verità astratta". In Pirandello c'è in fondo una partecipazione alla vita dei suoi personaggi, una specie di "indiretta difesa dei vinti",non c'è lo sguardo staccato ed indifferente come potrebbe sembrare a prima vista: Pirandello è uno di loro, amareggiato dalla vita e convinto di essere pervenuto alla scoperta del significato di essa, senza miti e senza illusioni, pur se il cuore ne soffre. E' per questa scoperta che egli irride a quel mondo da cui proviene e da cui si è staccato, canzona le storte abitudini, i preconcetti di questi poveracci rimasti indietro nel cammino e ne sferza il modo di concepire la vita quando essa si rinchiude dietro le forme, perché vuole che gli uomini, compagni nel cammino impervio del mondo, se ne liberino ed intraprendano quella via per la quale egli si è già incamminato. Le novelle di Pirandello sarebbero dovute essere 365,quanti sono i giorni dell'anno, donde il titolo di "Novelle per un anno"; ma il disegno rimase incompiuto per la sopravvenuta attività teatrale, perciò ne rimangono 246,raccolte dall'autore in 15 volumi. La critica ha mostrato quasi sempre entusiasmo per Pirandello novelliere, ponendolo fra i più grandi cultori di questo genere letterario nella letteratura mondiale. Una così vasta produzione che nella sua varietà e complessità può ben definirsi una vera commedia umana appare un po' frammentaria, spezzata, bozzettistica: il difetto era evidentemente connaturato alla origine decadentistica della formazione culturale di Pirandello e alla essenza stessa della sua concezione della vita, secondo la quale la realtà si sbriciola, si frantuma, si scompone continuamente, senza una legge fissa e determinata per tutti e quindi senza una vera e propria unità di stile e di temi.
Pirandello come romanziere vale indubbiamente meno del Pirandello novelliere: l'indole dell'uomo e dello scrittore era più incline al rapido articolarsi e sciogliersi degli avvenimenti nel corto respiro della novella, anziché nel loro lento e minuto intrecciarsi nell'elaborata trama del romanzo. I temi dei romanzi sono sempre quelli dei drammi e delle novelle: il primo fu " L'esclusa" ,composto nel 1893-94. Si tratta della storia drammatica di una donna cacciata, "esclusa" dalla vita dei familiari perché accusata ingiustamente di aver peccato; sarà riammessa a casa quando invece avrà veramente peccato all'insaputa di tutti. L'ambiente è l'ottocento verghiano, il caso è già tipicamente pirandelliano, sia per il contrasto tra quel che è e quel che appare, sia per il motivo dell'esclusione dalla società. All'esclusa seguirono:" Il turno", " Il fu Mattia Pascal"," Suo marito", " I vecchi e i giovani", " Si gira", " I quaderni di Serafino Gubbio operatore", " Uno, nessuno e centomila". I romanzi pirandelliani non colgono figure rappresentative di tutta un'epoca o di un ambiente, ma si fondono su casi o avvenimenti singolari, perciò di quei romanzi non rimane nella fantasia del lettore nessun carattere, nessuna figura. Avviene così, com'è stato osservato dalla critica, che i romanzi di Pirandello non resistono ad una seconda lettura, perdendo d'interesse una volta conosciuta la trama della vicenda, come avviene con i romanzi gialli. Tuttavia notevole è la loro importanza dal punto di vista dello svolgimento dell'arte pirandelliana, in quanto essi segnano il più deciso allontanarsi dai modi del Verismo verso il Decadentismo, visibile nella tendenza di dare ai personaggi più rilievo simbolico che descrittivo, guardandoli più nel loro significato intimo, cioè in quello che essi vogliono e debbono rappresentare; inoltre nei romanzi appare per la prima volta il "monologo interiore", quel discorrere che fa il personaggio fra sé e sé, polemizzando, obiettando, contraddicendosi e giudicandosi, spesso sdoppiandosi.
Il fu Mattia Pascal
Dopo un primo momento in cui, sotto l'influenza del naturalismo e del verismo, Pirandello prende contatto con la realtà, constatando e prendendo atto del contrasto realtà-apparenza, lo scrittore passa alla ricerca delle cause di tale contrasto scavando nella psiche umana. Assurda è la pretesa dell'individuo di fissarsi in una "forma" . Da qui la ribellione, l'urto con il mondo e la società, che vorrebbero costringerci a stare al gioco, mentre noi ci sentiamo spinti alla libertà, a vivere secondo il nostro "contenuto" e non secondo la "forma" che gli altri ci impongono. Tale è la situazione che Pirandello ci presenta,per la prima volta, nel romanzo " Il fu Mattia Pascal" , che costituisce il fondamento di tutta la concezione pirandelliana della personalità.
Mattia Pascal è un modesto bibliotecario comunale di un paesino ligure,che vive una vita grama e incolore, oppresso dalla tirannia della moglie e della suocera. La sua natura timida e arrendevole rende più penosa la sua esistenza. Ma un giorno, dopo un ennesimo litigio, trova la forza di reagire e si allontana da casa. E' la ribellione di uno che finalmente prende coscienza della inutile e falsa vita che gli altri gli impongono. Dopo aver vagato di paese in paese, giunge a Montecarlo e con i pochi quattrini che possiede gioca al Casinò e vince una considerevole somma. Mentre è inebriato dalla improvvisa fortuna ,che lo ha trasformato in un uomo ricco, legge sul giornale la notizia della sua morte. Un uomo è stato trovato annegato in una gora e il cadavere, quasi irriconoscibile, è stato riconosciuto dai parenti come quello di Mattia Pascal. La notizia dapprima lo sconvolge, ma poi la sua fantasia si mette in moto : il caso lo ha reso finalmente libero e ricco; Mattia Pascal è morto: da questo momento egli potrà vivere una nuova vita sotto il nome di Adriano Meis. Si stabilisce a Roma in una pensione di via Ripetta, facendosi passare per un benestante. Ma ben presto si accorge dell'impossibilità di rifarsi una vita, di liberarsi dalle forme che la società impone a tutti. Infatti si innamora di Adriana , la figlia del proprietario della pensione, ma non può sposarla, perché Adriano Meis non figura in alcun registro di Stato civile; viene derubato e non può denunciare il furto; schiaffeggiato da un ospite della pensione, non può vendicare l'offesa con un duello. I contatti con gli altri diventano sempre più difficili, perché si comincia a diffidare di lui come di un fantasma. Egli si sente solo,smarrito, deluso, e l'equivoco delle due vite gli si rivela ancora più funesto della precedente situazione: " Ecco quello che restava di Mattia Pascal ,morto alla Stia: la sua ombra per le vie di Roma. Ma aveva un cuore ,quell'ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell'ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa ,ma per comprendere e pensare ch'era la testa di un'ombra, e non l'ombra di una testa". Per questo decide di "uccidere" Adriano Meis, deponendo, come testimonianza della sua seconda morte, il cappello e il bastone sul parapetto di un ponte del Tevere con accanto un biglietto di " Adriano Meis suicida". Riacquistata la forma di Mattia Pascal ,ritorna al paese, dove apprende che la moglie si è risposata ed è madre di una bambina . La legge gli consentirebbe l'annullamento di quel matrimonio , ma egli comprende che ormai non può più inserirsi nella vita degli altri; non gli resta che accettare la sua condizione di "escluso"; per questo si reca al cimitero e depone un mazzo di fiori sulla "sua" tomba : egli rimarrà "Il fu Mattia Pascal", perché così hanno voluto gli altri , che ormai non gli riconoscono altra personalità . Accetta in tal modo di vivere senza nome e senza volto , solo con sé stesso , oppresso dalla "pena del vivere così ".
Mattia Pascal ci insegna che non dobbiamo escluderci dal gioco della vita e che è necessario recitare giorno per giorno la nostra parte, se non vogliamo cadere in una solitudine senza speranza e senza conforto. Il romanzo , più che compiuta opera d'arte, è un documento interessante per l'impegno dello scrittore di chiarire la sua concezione di vita. Le situazioni del protagonista sono già di quelle che noi diciamo tipicamente "pirandelliane": la ribellione alla forma imposta dagli altri, il desiderio di liberarsi dall'equivoco per vivere la vera vita, lo sdoppiamento della personalità , l'amara constatazione dell'impossibilità di sfuggire all'assurdo gioco della vita , la solitudine a cui è destinato colui che si esclude dal mondo.
Uno, Nessuno e Centomila
Uno degli aspetti più caratteristici della concezione pirandelliana della vita è il relativismo, il principio cioè secondo cui "nulla è vero, nulla esiste, tutto è illusione creata da chi la pensa, o la sogna, e ciascuno se la crea e sogna a suo modo , e un'intesa tra la multiforme vanità di tutti questi sogni non è possibile".(S. D'Amico) Erroneamente l'uomo crede di essere "uno" e pretende che gli altri lo giudichino per quello che egli crede di essere; gli altri ci giudicano secondo l'opinione che essi hanno di noi e che è diversa da persona a persona , per cui diventiamo "centomila" agli occhi del mondo; in realtà nel continuo moto dello spirito, che partecipa della legge di perenne mutabilità a cui tutte le cose sono soggette, l'uomo non è "nessuno", perché nessuna di quelle maschere che egli si attribuisce o che gli altri gli impongono è quella vera e definitiva. E' questa la situazione che viene chiarita nel romanzo " Uno, nessuno e centomila", il cui protagonista , Vitangelo Moscarda, viene improvvisamente gettato nella più angosciosa ansietà per un motivo quanto mai futile : la rivelazione, fattagli dalla moglie , che il suo naso pende a destra , cosa di cui egli non si era mai accorto, ma che gli altri dovevano certamente aver notato. " Per gli altri che guardano da fuori - pensa Moscarda - le mie idee , i miei sentimenti hanno un naso. E hanno un paio d'occhi , i miei occhi , ch'io non vedo e ch'essi vedono. Che relazione c'è tra le mie idee e il mio naso? Per me , nessuna. Io non penso col naso , né bado al mio naso , pensando. Ma gli altri? Gli altri che non possono vedere dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso?" Dunque egli è uno per sé e uno per gli altri; ma se ognuno vede le cose a suo modo , allora vedrà anche lui a suo modo , per cui egli non sarà unico per tutti , ma uno per ognuno , e cioè centomila . E così ossessionato dall'ansia di conoscere la verità e contemporaneamente convinto che " una realtà non ci fu data e non c'è , ma dobbiamo farcela noi , se vogliamo essere" , il povero uomo finisce per impazzire , commettendo una serie di stranezze , finché non viene rinchiuso in un ospizio. Qui, senza personalità e senza nome , diventa veramente "nessuno", ma contemporaneamente si libera da quel rodio del pensiero che scava in noi e distrugge ogni certezza , alienandoci. Vivendo come le cose della natura , in cui non c'è contrasto tra forma e contenuto perché esse "sono come appaiono", il povero Moscarda ritroverà la sua pace interiore e il suo equilibrio.
Le opere teatrali.
L'attività teatrale di Pirandello significò per il teatro italiano una svolta decisiva ed esemplare;e tra le numerose sue commedie alcune raggiunsero e conservano il livello di autentici capolavori. Pirandello giunse al teatro per una profonda convinzione di ordine morale ; era convinto cioè che attraverso la rappresentazione scenica potesse rivelare meglio agli uomini le verità alle quali egli era dolorosamente pervenuto ; egli definì perciò " teatro dello specchio " tutta la sua opera, perché in essa si rappresenta la vita senza maschera, quale essa è nella sua sostanza e nella sua verità , lo spettatore, l'attore e il lettore vi si vedono come sono , come chi si guardi ad uno specchio, vi si osservano con ansia e con curiosità , spesso vi si vedono deformati dagli altri, appunto come un cattivo specchio deforma l'immagine fisica; allora si riconoscono diversi da come si erano sempre immaginati e ne restano amareggiati e preoccupati . L'attività teatrale si può dividere approssimativamente in tre fasi: una prima, che comprende le commedie scritte negli anni che precedettero e accompagnarono la prima guerra mondiale , commedie ispirate a motivi dialettali e ad ambienti isolani (Lùmie di Sicilia, 1910, Liolà, 1916); una seconda, la stagione più propriamente pirandelliana, in cui le commedie riflettono, su un registro di vasta dialettica e insieme di sofferta umanità , la cognizione pirandelliana del vivere (è la stagione dei capolavori , come Cosi è, se vi pare, Il piacere dell'onestà, Ma non è una cosa seria, Sei personaggi in cerca d'autore, Enrico IV, ecc.); la terza, in cui lo scrittore sembra avvertire l'esigenza di porre un argine allo scetticismo, al nichilismo, ricorrendo ad un simbolismo " spiritualistico ", ma con risultati poco persuasivi (La nuova colonia 1928; Lazzaro, 1929; I giganti della montagna). Il suo capolavoro, per giudizio concorde della critica, è giudicato la commedia " Sei personaggi in cerca d'autore " (1921), che è anche la maggiore opera del teatro italiano del Novecento. In essa Pirandello, riprendendo l'antico artificio del " teatro nel teatro ", dà la più complessa e riuscita rappresentazione della condizione umana quale gli si era venuta configurando e, insieme, del suo modo di intendere il rapporto tra l'arte e la vita. I sei personaggi che chiedono al capocomico di essere tratti dal limbo della loro condizione, di poter vedere rappresentato il loro dramma e che poi non si riconoscono negli attori che tentano di riviverlo, sono un po' la cifra di tutta l'arte pirandelliana in perenne contesa con l'infida, inafferrabile realtà , che sembra di continuo assoggettarla, ma ne resta in effetti profondamente lacerata. La fama di Pirandello drammaturgo venne a noi dagli stranieri. Per lungo tempo da noi non si comprese la carica innovatrice contenuta nel teatro pirandelliano, mentre dobbiamo riconoscere che fu quasi esclusivamente attraverso la sua opera di drammaturgo che l'arte di Pirandello, e con essa tutta la nostra letteratura, si inseriva finalmente con autorità nella grande letteratura europea e mondiale a noi contemporanea, come espressione di una civiltà umana grandissima . contemporaneo .
Lo stile
Pirandello fu il narratore più essenziale e concettuale, più schivo degli svolazzi e delle manifestazioni esibizionistiche e coreografiche, tutto inteso a rappresentare l'essenza delle cose, il "di dentro", quel che non appare fuori. Il suo è uno stile personalissimo, fatto di cose, orientato verso uno scopo preciso, senza scoperte ambizioni letterarie. Pirandello quando scrive lo fa con la naturalezza e la spontaneità di un colloquio fra amici. Non è raro il caso che egli tenda a trasferire e a piegare i termini della lingua dalla loro comune accezione ad un più intimo e nuovo significato, e cioè secondo la maniera degli scrittori e dei poeti contemporanei appartenenti al Decadentismo e volti all'analisi e alla interpretazione del subcosciente, intesi alla creazione di un linguaggio tutto proprio, capace di esprimere quasi singolari stati d'animo, che li caratterizzano. Quella naturalezza e singolarità di linguaggio appaiono a volte asprezza, facilità un po' grezza e frettolosa, specialmente quando il linguaggio si frantuma nella sottigliezza dell'analisi, scarnificandosi. Evidentemente lo scrittore siciliano predilige la prosa virile, lucida, protesa verso l'essenziale di ciò che si deve dire, la parola non fine a se stessa, ma espressione di un animus, di un giudizio, il linguaggio pungente e realistico, senza indugi oziosi e blandi compiacimenti linguistici, un linguaggio che mentre da un lato rivela nell'autore la padronanza perfetta del mezzo espressivo, dall'altro ne sottolinea la trepida commozione con vibrazioni poetiche e umane. Se il discorso pirandelliano è sempre concreto e muscoloso, tuttavia affiorano, in particolare nelle novelle, pagine poetiche e di abbandono fantastico. Ciò avviene soprattutto quando la vicenda è ambientata in Sicilia; in questi casi Pirandello è più loquace, più arioso, più divertito e il discorso si fa più sciolto, più immediato e non è raro il caso che egli, come Verga, trapassi e svari nel discorso indiretto conservando movenze e ritmi del discorso diretto. In questo stile narrativo, espressivo e senza retorica la moderna prosa italiana trova un esempio da proporsi e si riscatta da gonfiezze e da paludamenti formali e inutili. C'è forse da osservare, soltanto, come a volte questa prosa sia un tantino trasandata, condotta quasi senza eccessivo impegno da parte del narratore, più intento forse a seguire l'intreccio dei fatti che la loro rappresentazione e il loro manifestarsi a tradursi in parola, con una sintassi del periodo a volte un po' spezzata, più disposta alle rapide battute del dialogo che alla narrazione.
Nella prosa pirandelliana quelle vibrazioni poetiche e umane sono frequenti perché non c'è in lui la scarnita e spietata vivisezione dell'anima umana, ma la cordiale comprensione verso i suoi personaggi, creature doloranti e vive, incarnazione di una parte di se stesso, non simboli astratti. Perfino l'umorismo e il sogghigno hanno un attimo di perplessità, come se l'autore si fermasse pensieroso e rattristato sul destino dei suoi personaggi, di tutti gli uomini e suo. Quel fondo raziocinante, umoristico e polemico, nelle sue opere migliori è percorso da un pathos umano, da una fraterna comprensione che innalza l'opera a poesia. L'umanità di Pirandello e la sua pena per la condizione umana assumono un atteggiamento particolarissimo, chiuso, che stenta ad esprimersi, perché sono incapaci di liberarsi in canto, in catarsi lirica; si esprimono, invece, in un grido lacerante di denuncia e di condanna. Pirandello dissimula le sue lacrime con un sorriso triste, assai più accorato e accorante di qualsiasi pianto, la sua pietà si manifesta per il povero derelitto, l'uomo comune della vita di ogni giorno: gli eroi non hanno cittadinanza nella sua arte; il solo vivere la vita, così come la viviamo, è già di per sé atto di eroismo.
Un'arte così decisamente ancorata alla vita e così intensamente umana è per se stessa ricca di intrinseca moralità: essa tende cioè, in ogni sua espressione, a sferzare la vita perché la vuole migliorare.
I personaggi pirandelliani non sono né cinici, né perversi, ma hanno una loro nobiltà e trovano una loro forma di catarsi attraverso la sofferenza del vivere. In quest'arte spira un moralissimo desiderio di liberazione dai ceppi della finzione e dalle assurde costruzioni, in cui l'uomo ha imprigionato la sua anima: è necessario strappare la maschera che gli uomini si mettono, denunciare i loro travestimenti e ciò per il loro stesso bene, perché essi non sanno accorgersene; è una moralità intrinseca e non formalistica, posta aldilà di ogni apparenza, rivolta contro il fariseismo e l'ipocrisia che tiene alle apparenze. La moralità di Pirandello non si identifica e non coincide con alcun credo morale di una qualsivoglia religione rivelata e tradizionale, proprio per la impossibilità connaturata al mondo pirandelliano di poter ammettere una soluzione al vivere, di poter fissarsi in una forma definita.
L'umorismo
Di fronte alla constatazione di quello che è il vivere nel mondo Pirandello assume un atteggiamento di umana compassione verso gli uomini che sono sottoposti a questa inesorabile legge del loro destino e che inconsciamente si ingannano; ma avventa il suo feroce umorismo contro il destino che condanna l'uomo all'inganno e più ancora contro coloro che scioccamente si ingannano o mostrano di ingannarsi, accettando il giuoco e assumendo maschere, atteggiamenti falsi, insinceri, equivoci.
Pirandello è convinto che la condizione umana è triste, pessima, ma gli uomini si illudono o ingannano se stessi e allora lo scrittore li deride, li sferza, li smonta, mostrando il contrasto tra quel che essi sono e quello che vogliono apparire. Tutte le funzioni umane, tutte le creazioni del sentimento possono essere oggetto di umorismo, quando la riflessione, come un demonietto impertinente, smonta il congegno delle immagini e dei fantasmi creati dal sentimento e lo smonta per vedere com'è fatto, per scaricarne la molla e vedere tutto quanto il congegno stridere convulso e ridicolizzato. Pirandello si addolora del male che è nel mondo, ma non sa spargere su quel male una lacrima quasi temesse di scoprirsi debole e fragile come tutti gli altri, se ne mostra invece contrariato, offeso e deluso; la caratteristica dell'umorismo pirandelliano è forse la risata. Nessuno che abbia assistito ad una recita dei "Sei personaggi in cerca d'autore" dimenticherà mai quella sferzante risata alla figliastra, che scompare nella platea tra il pubblico, riassorbita dalla vita impietosa e cattiva, al cospetto delle larve evanescenti degli altri personaggi immersi nella penombra del teatro. Si pensi pure a quanto sia lacerante e risolutiva per Moscarda la risata di Dida in "Uno, nessuno e centomila". Pirandello beffardo e mefistofelico irride ironico alla presunzione degli uomini di voler credere che la vita sia così o così, di voler credere in determinate idee, tradizioni e leggi fisse. La risata si fa più crudele quando tende a smascherare posizioni preconcette e la finzione di coloro che non credono, ma mostrano di credere, che appaiono in un modo e sono in un altro. Pirandello si può forse considerare il più grande scrittore umorista della nostra letteratura.
Nel saggio "L'umorismo" Pirandello distingue il comico dall'umorismo. Il primo, definito come "avvertimento del contrario", nasce dal contrasto tra l'apparenza e la realtà. Nel saggio citato Pirandello ce ne fornisce un esempio:
«Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. "Avverto" che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto un "avvertimento del contrario"».
L'umorismo, invece, nasce da una considerazione meno superficiale della situazione:
«Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente, s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico»
Quindi, mentre il comico genera quasi immediatamente la risata perché mostra subito la situazione evidentemente contraria a quella che dovrebbe normalmente essere, l'umorismo nasce da una più ponderata riflessione che genera una sorta di compassione da cui si origina un sorriso di comprensione. Nell'umorismo c'è il senso di un comune sentimento della fragilità umana da cui nasce un compatimento per le debolezze altrui che sono anche le proprie. L'umorismo è meno spietato del comico che giudica in maniera immediata.

 

Fonte: http://www.istitutomontani.it/appunti/8/PIRANDELLO.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

Luigi Pirandello

(1867 – 1936)

 

                                                          
Ponydyelnik Anna 5°L


Il senso di inquietudine e di smarrimento, di incertezza che caratterizza la letteratura italiana del Primo Novecento, trova la sua espressione artistica e, in certo senso scientifica, nella vasta produzione narrativa e drammatica di Luigi Pirandello, nato ad Agrigento in Sicilia nel 1867, premio Nobel per la letteratura nel 1934 e morto a Roma nel 1936.
L’opera pirandelliana mira a rappresentare la complessità del dramma umano nel suo ritmo biologico ed esistenziale come si evince dalle numerose Novelle (confluite nella raccolta “Novelle per un anno”) e da “L’esclusa”. Quest’ultima segna, in modo particolare, il distacco dello scrittore dal Verismo alla cui oggettività sostituisce una visione personale della vita, in quanto ritiene che nulla esiste di vero e di oggettivo al di fuori dell’animo umano.
Marta Ajala, protagonista del primo romanzo “L’esclusa”, è una donna che viene cacciata di casa perché ritenuta adultera e poi riammessa in famiglia quando effettivamente, per varie circostanze, commette adulterio. E proprio in questo romanzo si rivelano i temi di fondo di tutta la produzione pirandelliana: 1) contrasto tra apparenza e realtà; 2) lo sfaccettarsi della verità in tante verità quanti sono coloro che presumono di possederla; 3) l’assurdità della condizione dell’uomo e della sua catalogazione (adultero, innocente, ladro, jettatore (il personaggio della “Patente”)), in una forma cristallizzata che soffoca la vita. Di questa assurdità che deriva sia dal caso che regna nelle vicende umane, sia dalle convenzioni sociali, che sono prodotto della storia, Mattia Pascal è un esemplare testimone.
Il brano “Una tragedia buffa” tratto dal romanzo “Il fu Mattia Pascal” evidenzia motivi e temi che, poi, saranno propri delle successive opere dello scrittore: il tema della famiglia, che diventa gabbia che imprigiona e determina infelicità, il tema della tragedia che si risolve in comicità ed umorismo, e infine il tema della crisi di identità che si evidenzia soprattutto quando Mattia si guarda allo specchio:

“…Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s’era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto suo. E scappai via, risoluto a non rientrare in casa, se prima non avessi trovato comunque da mantenere, anche miseramente, mia moglie e me.”

 



Allontanatosi dalla famiglia e dal paese, dopo un litigio con la moglie, Mattia Pascal va a Montecarlo ove vince una forte somma al gioco. Casualmente legge su un giornale una notizia di cronaca secondo la quale è stato ritrovato il cadavere di uno sconosciuto suicida cui è stata attribuita la sua identità. Mattia, uomo modesto e timido per natura, crede di poter trarre profitto da quella circostanza. Il caso sembra favorirlo per la seconda volta. Così pensa di potersi liberare dai condizionamenti sociali e intraprendere una nuova vita con nome mutato: Adriano Meis. Tuttavia i suoi sforzi sono vani. La società lo riavvolge nella sua tela. Adriano scopre che la vera identità per l’uomo è quella che gli riconosce la società. Privo di una identificazione anagrafica non può costruirsi una vita accettabile: gli manca la “forma”, e perciò non può denunciare un malfattore, né sposarsi. Decide così di fingere il suicidio del nuovo personaggio per tornare ad essere Pascal. Però, tornato a casa, trova la moglie risposata, mentre l’ambiente civile si è adattato alla sua assenza. Per lui non c’è più posto. E’ il fu Mattia Pascal che solo di tanto in tanto può portare dei fiori sulla propria tomba.
 

Adriano Meis si fa operare l’occhio strabico, convinto di poter ricominciare a vivere in maniera normale e in questo modo pensa di cancellare per sempre l’ultima traccia della sua identità. Viene assistito dal padrone di casa, il vecchio Anselmo Paleari, che cerca di dimostrargli , con un lungo ragionamento una concezione filosofica “speciosissima”, quella che il narratore chiama la “filosofia del lanternino”.

“E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna.
E per questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercè dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?”

Di conseguenza la constatazione del ruolo vincolante delle convenzioni e della impossibilità di uscirne provoca una situazione conflittuale tra l’uomo e la società. Invano l’uomo cercherà di realizzare pienamente se stesso, inutilmente cercherà il dialogo e la comprensione degli altri chiusi a loro volta nella loro gabbia e la vita associata si dissolve e le verità e le certezze, così dette oggettive, svelano la loro natura di costruzioni fittizie e convenzionali.

Pirandello definì “Uno, nessuno e centomila” il romanzo di scomposizione della vita, poiché tutta la narrazione mette in luce l’autodistruzione di una personalità consapevole della propria incapacità di chiudersi in una forma coerente e autentica, della falsità ineluttabile dei rapporti con altri e con se stessi. La crisi di Vitangelo Moscarda inizia quando sua moglie gli fa osservare che il suo naso pende verso destra, cosa a cui non aveva mai fatto caso.

“    “Che fai?”  mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
“Niente”, le risposi, “mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.”
Mia moglie sorrise e disse:
“Credevo ti guardassi da che parte ti pende.”
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
“Mi pende? A me? Il naso?”
E mia moglie, placidamente:
“Ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra.”

“Che altro?”
Eh, altro! Altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell’altra; e altri difetti…
“Ancora?”
Eh sì, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino più arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino. ”

 

La prima reazione del protagonista è il “proposito disperato” di conoscere quell’estraneo che è in lui, credendo in maniera sbagliata che esso sia solo uno per tutti. Il dramma si complica quando scopre di essere centomila non solo per gli altri, ma anche per se stesso. Inizia così per lui la crisi della sua personalità e del principio d’identità. Egli cerca di distruggere le falsi immagini di sé che sono negli altri e in lui stesso, ma non potrà farlo se non estraniandosi dal contesto sociale. Moscarda alla fine rinuncia all’ambizione di darsi una forma per lasciare che la vita viva in lui, senza la volontà di costruirsi, senza più sentimenti e memoria. Solo ora è felice, avendo rinunciato ad ogni pretesa d’identità, non riconoscendosi più nel proprio nome e vivendo completamente fuori di sé, vagabondo nel flusso della vita universale come un albero, una nuvola, il vento. E solo così egli si salva.
Da tutto ciò si evince che l’uomo è sempre un vinto, la cosiddetta personalità è un puro sogno, perché l’Io, costretto ad entrare in continuo rapporto con il mondo esteriore, non può mai definirsi, nella sua completezza, ma solo relativamente al singolo rapporto. L’uomo è uno, nel momento del singolo rapporto; è nessuno, quando si distruggerà per determinarsi in un altro rapporto; è centomila per questo suo farsi continuo; e se manca il rapporto con l’altro, l’uomo continua a costruirsi lo stesso, alimentando le illusioni, perché bisognoso di illudersi, per non vedersi quale esso è.

 

Comincia a scrivere presto per il teatro, ma in modo episodico. Solo durante la I Guerra Mondiale vi si dedica completamente, ottenendo dopo qualche anno, un clamoroso successo dovuto all’attualità del suo teatro che mette in discussione tutte le certezze tradizionali già duramente colpiti dagli strascichi della guerra appena finita, dal trionfo della rivoluzione sovietica, dai contrasti internazionali e dall’aggravarsi della crisi sociale. Il teatro, pertanto, è la logica evoluzione della sua arte. Numerosi sono i lavori teatrali (una quarantina raccolti insieme con il titolo di “Maschere nude”) che alludono alla duplicità di ogni personaggio costretto a svelare la propria dolorosa essenza rompendo la maschera che la società gli impone. “L’Enrico IV” e i “Sei personaggi in cerca d’autore”  sono le opere che meglio esprimono la sua concezione dell’arte e della vita.
In “Enrico IV”  il tema centrale è la pazzia: la lucida follia, tipica condizione del personaggio pirandelliano, cioè di colui che comprende la propria inconsistenza come persona. Il personaggio, aprendo la valvola della pazzia, si accorge che in lui vi coesistono due identità, quindi possiamo dire che nell’opera pirandelliana è presente il dramma della vita e del gioco delle parti, di cui ognuno, di volta in volta, è chiamato a svolgere ­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­un ruolo come ha fatto Enrico IV.

 Un giovane gentiluomo impersona l’imperatore Enrico IV in una cavalcata storica. Caduto dal cavallo perde il senno e per dodici anni si crede davvero l’imperatore. Quando rinsavisce scopre che la donna amata è diventata l’amante di un suo rivale, Belcredi. Decide così di fingersi ancora pazzo. Rivela la finzione alla donna che non ama più, mentre sente di essere attratto dalla figlia di lei, Frida, che riesce ad abbracciare. Scoperto dal Belcredi lo ammazza. D’ora in poi non potrà più abbandonare la finzione della follia.
 


Nei “Sei personaggi in cerca d’autore” invece si evidenzia un duplice dramma: quello dell’incomunicabilità e quello dell’incapacità di poter diventare personaggi.

 



Mentre una compagnia di attori sta provando il “Gioco delle parti”, irrompono d’improvviso sul palcoscenico sei persone. Sono dei personaggi nati dalla mente di un autore che, però, dopo averli creati, li ha rifiutati. Per questo i personaggi chiedono al capocomico di rivivere davanti a lui e agli altri attori la loro storia, nella speranza che egli prenda il posto dell’autore e li fissi per sempre in una forma definitiva. Ognuno presenta il suo dramma secondo il proprio punto di vista, senza poter trovare comprensione degli altri.
La loro storia di desolata miseria morale si viene tuttavia delineando ed esasperando in alcune scene e gesti conclusivi. Il Padre, dopo aver avuto un Figlio, induce la Madre ad andarsene con un altro uomo, capace, secondo la sua psicologia tortuosa, di comprenderla e amarla meglio di lui. Dalla nuova unione nascono tre figli: la Figliastra, il Ragazzo, la Bambina. Anni dopo, il Padre troverà la Figliastra, ancora in lutto per la morte del proprio padre, in una casa d’appuntamenti, e solo l’intervento della Madre troncherà sul nascere lo squallido rapporto. Si ricostituisce così la famiglia, su una base di reciproco rancore, di vergogna e d’incomprensione, che condurrà alla tragedia: la Bambina, lasciata incustodita durante una delle tante scenate domestiche, annega in una vasca, il Ragazzo si uccide, non potendo vivere in quella perversa atmosfera d’odio.
Terminata la rappresentazione, che è stata, in realtà, l’unico modo di vivere a loro concesso, sempre uguale e immutabile come un destino, i personaggi se ne vanno, mentre gli attori fuggono terrorizzati per la morte dei due ragazzi, dopo avere tentato, precedentemente, invano di rappresentare la loro parte, e il Capocomico riconosce la propria incapacità di realizzare il dramma.

La novità dell’opera consiste nell’impossibilità di mettere in scena un dramma, poiché ognuno è condizionato dalle proprie opinioni e dai propri sentimenti e perciò incapace, essendo relative le visioni individuali, di comprendere appieno quelle degli altri.
Questa opera è uno dei capolavori del teatro pirandelliano, anche dal punto di vista tecnico-strutturale, per il rifiuto della scena convenzionale e per l’eliminazione dello spazio teatrale, come spazio distinto da quello della realtà.
Da quanto espresso i personaggi pirandelliani non conoscono l’illusione e il loro autore li nutre più di angosce che di speranze. Essi si muovono in un universo problematico, che ammette la negazione, ma non impedisce loro la rivolta contro se stessi prima, che contro gli altri, perché non solo la realtà esterna all’uomo è contraddittoria e meschina, ma anche quella interna psichica e intellettiva.
Nasce così la teoria tipica della vita, come flusso continuo, inarrestabile, contraddittorio, relativo, che ripropone il drammatico contrasto tra vita e forma. La realtà è molteplicità di cui riusciamo a cogliere solo singole forme che pretendiamo di fissare. Tutto questo lo sanno bene i personaggi “in cerca d’autore” di Pirandello, i quali si sentono vivere ma non possono veder realizzata la loro condizione. Non bisogna pensare che il complesso delle idee, proprie dello scrittore, sia il frutto di una pura e personale elaborazione intellettuale; ma elementi molto complessi e storicamente individuabili hanno favorito la sua grande e unica personalità: vicende di vita privata e familiare, le condizioni civili della nazione, la tragica esperienza della follia della moglie, la considerazione e la sofferenza della crisi della società italiana prima, durante e dopo la guerra.
Infatti l’atteggiamento di Pirandello nei riguardi della vita, dell’uomo e del mondo può essere definito relativismo applicato alla conoscenza della verità, poiché non è possibile conoscere  la verità  per il semplice motivo che ne esiste una sola; quelle che si conoscono sono “tante verità”, tante quante sono gli individui che la cercano. La conseguenza del relativismo filosofico è il relativismo psicologico che è legato al cambiamento dei nostri stati d’animo a seconda degli ambienti e delle situazioni in cui ci troviamo. E così la continua diversità e il mutare degli stati d’animo favoriscono nell’individuo la frantumazione dell’Io nella speranza di ritrovare la propria identità.

A questa concezione della vita se ne collega una dell’arte, che Pirandello cerca di definire teoricamente in uno suo saggio “L’Umorismo” del 1908.  “Umorismo” per lui è il sentimento del contrario, cioè la compresenza del poeta e del critico nello stesso uomo. In un primo momento afferma Pirandello, di fronte a tanti casi della vita noi proviamo “l’avvertimento del contrario”, cioè la comicità. In effetti quando avvertiamo il contrasto tra l’essere e l’apparire, tra sostanza e forma, ridiamo.
Ma se siamo capaci di passare dall’avvertimento al sentimento del contrario, cioè se siamo capaci di vedere nello stesso tempo la maschera e il volto, l’esterno e l’interno dell’uomo, non ridiamo più. Tutto questo avviene, chiaramente, attraverso la riflessione. Ecco perché lo scrittore prova pietà per i suoi personaggi, vittime dell’assurdità della vita e prova per loro una dolorosa fraternità.
Il passo che meglio esprime ciò che Pirandello intende per umorismo e comicità è il seguente:
 



“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti di non si sa quale orribile manteca [pasta grassa usata come cosmetico], e poi tutta goffamente imbellettata [truccata con cipria e rossetto] e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così  come un pappagallo, ma che forse ne soffre e pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo cioè le rughe e la canizie [i capelli bianchi], riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima,perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza fra il comico e l’umoristico.”
 

 


In conclusione, non c’è una spiegazione valida per comprendere il male di vivere dei personaggi pirandelliani anche se lo scrittore attribuisce la responsabilità di tutte le catene che imprigionano l’uomo alla storia e al caso. Tale processo si manifesta in particolare nel romanzo “I vecchi e i giovani”, dove l’autore affronta il problema della società italiana in una dimensione storica. Infatti esso è incentrato sull’amara delusione post-risorgimentale, sul conflitto tra la vecchia generazione e la nuova, sul fallimento degli ideali di libertà e di rinnovamento.  
In nessun altro autore, più che in Pirandello, si può cogliere meglio il passaggio dal razionalismo all’irrazionalismo, in quell’attimo improvviso di creazioni capaci di rendere istante in cui il subconscio diventa conscio, in cui l’ignoto diventa noto.

 

Fonte: http://tesinepronte.perdomani.net/materiali/tesine/tesinecomplete/pirandello.doc

 

Pirandello Luigi

 

 

Visita la nostra pagina principale

 

Pirandello Luigi

 

Termini d' uso e privacy

 

 

 

Pirandello Luigi