Romanzo inglese del 700

 

 

 

Romanzo inglese del 700

 

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti. Se vuoi saperne di più leggi la nostra Cookie Policy. Scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie.I testi seguenti sono di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente a studenti , docenti e agli utenti del web i loro testi per sole finalità illustrative didattiche e scientifiche.

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Romanzo inglese del 700

 

Ian Watt

 

IL REALISMO

E LA FORMA DEL ROMANZO

 

Molte questioni generali cui si sono interessati gli studiosi della narrativa degli inizi del diciottesimo secolo non hanno ancora avuto risposte del tutto soddisfacenti. Il romanzo è una forma letteraria nuova? E se supponiamo, come generalmente avviene che lo sia, e che sia stato iniziato da Defoe, Richardson e Fielding, in cosa differisce dalle narrazioni in prosa del passato, da quelle della Grecia, ad esempio, o del Medioevo o della Francia del dicias­settesimo secolo?  E quale può essere la ragione di queste differenze e la causa per cui apparirono in un certo tempo e luogo?

Problemi di tali dimensioni non sono mai di facile rispo­sta e sono particolarmente difficili nel nostro caso perché Defoe, Richardson e Fielding non costituiscono una scuola letteraria nel senso normale.  Le loro opere mostrano così pochi segni di mutua influenza e sono di così diversa natu­ra che, a prima vista, parrebbe che la nostra curiosità sul sorgere del romanzo sia destinata ad appagarsi di insoddi­sfacenti risposte basate sui concetti di "genio" e "accidente", le facce di Giano dei vicoli ciechi della storia letteraria. Non possiamo, naturalmente, eliminarli ma l'utilizzo che ne possiamo fare è ben scarso.  Questa ricer­ca, dunque, prende un'altra direzione: supponendo che l’apparizione dei nostri primi tre romanzieri durante una sola genera­zione non sia stato mero "accidente" e che i loro "genio" non avrebbero potuto creare la nuova forma se le condizioni del tempo non fossero state favorevoli, cerche­remo di scoprire quali siano state queste favore­voli condi­zioni e in che modo Defoe, Richardson e Fielding ne be­neficiarono.

Per questa ricerca, dobbiamo partire con una ipotesi di lavoro definitoria delle caratteristiche del romanzo: una definizione sufficientemente ristretta da escludere tipi pre­cedenti di narrativa e ampia abbastanza da potersi appli­care a tutto ciò che normalmente viene posto nella catego­ria del romanzo. I romanzieri stessi non ci aiutano molto in un tale compito. E' ben vero che sia Richardson sia Fielding si consideravano gli iniziatori di un nuovo modo di scrivere e ritenevano che esistesse una frattura tra le loro opere e la narrativa precedente, ma essi, come pure i loro contemporanei, non hanno fornito una definizione delle caratteristiche del nuovo genere: non possiamo neppure etichettare la diversa natura della loro narrativa con un nome nuovo poiché il termine novel (romanzo) non entrò nell'uso che verso la fine del diciottesimo secolo.

Aiutati da una più ampia prospettiva, gli storici del ro­manzo sono riusciti a fare assai di più nell'individuare le caratteristiche salienti di questo genere. In sintesi, la defi­nizione di "realismo" ha caratterizzato la distinzione dalla narrativa precedente.  Riguardo a questa definizione, che accomuna scrittori altrimenti diversi ma simili nell'essere "realistici", una prima riserva comporta una richiesta di ul­teriori spiegazioni, se non altro perché, senza una qualifica più precisa, può implicare che tutti i precedenti scrittori e le precedenti forme letterarie si basassero sull'irrealtà.

Dal punto di vista della critica letteraria, la principale as­sociazione del termine "realismo" è con la omonima scuola francese. Réalisme fu probabilmente usato per la prima volta come termine estetico nel 1835, per denotare la vérité humaine di Rembrandt in quanto opposta alla idéalité poétique della pittura neoclassica e fu più tardi consacrato come termine specificamente letterario con la fondazione nel 1856 di Réalisme, una rivista diretta da Duranty.

Sfortunatamente gran parte dell'utilità della parola venne ben presto persa durante le polemiche contro­versie riguar­danti i soggetti "triviali" e il supposto immoralismo di Flau­bert e dei suoi successori.  Ne derivò l'uso di "realismo" come antitesi di "idealismo" e tale uso, in effetti un riflesso della posizione presa dagli avversari dei Realisti francesi, ha influenzato molti degli studi critici e storici sul romanzo. La preistoria della forma "romanzo" è stata così descritta come qualcosa di continuo rispetto a tutte le forme precedenti di narrativa che rappresentavano la vita comune. Così la storia della matrona di Efeso è "realistica" perché mostra l'appetito sessuale più forte del dolore vedovile, e il fabliau o la storia picaresca sono "realistici" perché motivi economici o carnali hanno la preminenza nello spiegare il comportamento umano.  Secondo questa stessa premessa implicita, i romanzieri inglesi del diciotte­simo secolo insieme ai francesi Furetière, Scarron e Lesage ven­gono considerati il momento conclusivo di tale tradi­zione. Così, il "realismo" dei romanzi di Defoe, Richardson e Fielding viene a essere associato al fatto che Moll Flanders è una ladra, Pamela una ipocrita e Tom Jones un fornicatore.

Quest'uso del termine "realismo" ha tuttavia un grande di­fetto: quello di oscurare la caratteristica probabilmente più distintiva del romanzo. Se il romanzo fosse realistico sempli­cemente perché vede la vita nei suoi aspetti più spiacevoli, esso sarebbe semplicemente un romance capovolto . In effetti esso cerca di ritrarre tutte le varietà dell'esperienza umana e non solamente quelle che si adat­tano a una particolare prospettiva letteraria: il realismo del romanzo non consiste nel tipo di vita che esso presenta ma nel modo in cui la presenta.

Ciò è ovviamente assai vicino alla posizione dei rea­listi francesi, i quali affermavano che i loro scritti differivano da ritratti dell'umanità più lusinghieri offerti da chi seguiva codici etici, sociali e letterari affermati da tempo poiché erano il prodotto d'una analisi della vita più spassionata e scientifica.  Non è affatto chiaro che questo ideale di obiettività scientifica sia desiderabile e, certamente, non può essere realizzato ma, nondimeno, è assai significativo che, durante il primo sforzo del nuovo genere di diventare criticamente conscio dei propri scopi e metodi, quello cioè tentato dai realisti francesi, emergesse il problema che il romanzo solleva con più forza di ogni altra forma letteraria: quello della corrispondenza tra opera letteraria e realtà da essa imitata. Si tratta di un problema essenzialmente epistemologico e sembra dunque probabile che la natura del realismo del romanzo, sia quello del primo Settecento sia quello più tardo, possa essere chiarificata con l'aiuto di coloro che si occupano professionalmente di analisi dei concetti, i filosofi.

 

Si sa che il realismo moderno inizia con l'affermazione che la verità può essere scoperta dall'individuo mediante i sensi e ha le sue origini in Descartes e Locke, ricevendo poi formulazione piena in Thomas Reid verso la metà del diciottesimo secolo.  Ma l'opi­nione che il mondo esterno è reale e che i nostri sensi ce ne danno una fedele descri­zione non aiuta certo molto di per sé a capire il realismo letterario: poiché quasi ognuno in ogni epoca è stato, in un modo o nell'altro, costretto a giungere a una tale conclu­sione riguardo al mondo esterno dall'esperienza, la lettera­tura è sempre stata, in certa misura, soggetta a questa inge­nuità epistemologica. Inoltre, i caratteri distintivi dell’ epistemologia realista, e le discussioni collegate, sono per la maggior parte troppo specializzati per influire sulla letteratura.  Ciò che nel realismo filoso­fico è importante per il romanzo è assai meno speci­fico: è piuttosto un at­teggiamento generale di pensiero realistico, i metodi usati nell'investigazione e il tipo di problemi sollevati.

L'atteggiamento generale del realismo filosofico è stato critico, antitradizionalista e innovatore; il metodo si è ba­sato sullo studio dei particolari dell'esperienza da parte del singolo investigatore che, almeno idealmente, è libero dagli assunti del passato e dalle credenze tradizionali. Par­ticolare importanza è stata data, inol­tre, alla semantica, cioè al problema della natura del rapporto tra parole e realtà. Tutte queste caratteristiche del realismo filosofico hanno analogie con altrettante caratteristi­che del romanzo, analo­gie che portano la nostra attenzione sul tipo di corrispon­denza tra vita e letteratura che si è affermato nella narrativa in prosa dopo Defoe e Richardson.

 

a) Un genere senza modelli canonici. "Originale".

La grandezza di Descartes consistette principal­mente nel suo metodo, nella sua determinazione a non ac­cettare nulla sulla fiducia.  Il suo Discours de la méthode (1637) e le Méditations (1641) influenzarono molto il mo­derno as­sunto secondo il quale il persegui­mento della veri­tà è di natura esclusivamente indivi­duale, indipendente logica­mente dalla tradizione e, invero, più facile da raggiun­gere prescindendo da questa.

Il romanzo è la forma letteraria che più pienamente ri­specchia questo orientamento individualista e innova­tore. Le forme letterarie precedenti avevano rispec­chiato la ten­denza generale della cultura in cui erano sorte a conside­rare la conformità alle pratiche tradizio­nale come la princi­pale prova di verità: le trame dell'epoca classica e rinasci­mentale, ad esempio, erano basate su storie del passato o su favole e i meriti dell'autore erano largamente misurati in base al decoro letterario raggiunto, decoro dipendente ap­punto dall’accettazione del modello. Codesto tradizionali­smo letterario fu per la prima volta e più completamente sfidato dal romanzo, il cui criterio fondamentale era la ve­rità in relazione all'esperienza individuale che è sempre unica e, quindi, nuova. Il romanzo appare così il logico veicolo letterario di una cultura che, negli ultimi secoli aveva insistito, cosa che non era mai avvenuta in prece­denza, sul valore dell'originalità, sì che il romanzo non po­teva ricevere nome più appropriato nella lingua inglese, novel appunto.

Non è motivo di pregio per il romanzo l'essere, in alcun senso, l’imitazione d'altra opera letteraria: la ragione di tale differenza sembra risiedere nel fatto che compito primo del romanziere è dare l'impressione di riprodurre fedelmente l'esperienza umana; di conseguenza, il conformarsi a qualsi­voglia tradizione formale non può che danneggiare il risultato. L'addebito spesso mosso al romanzo d'essere senza forma rispetto, ad esempio, alla tragedia o all'ode discende, con tutta probabilità da quanto detto sopra e, cioè, la povertà delle convenzioni formali del romanzo è il prezzo pagato per il suo realismo.

E, tuttavia, l'assenza di convenzioni formali nel romanzo appare di minore importanza se paragonata al suo rifiuto di trame tradizionali. Il problema della trama non è così semplice e il grado di originalità o di non originalità non è mai facile da determinare: nondimeno un confronto, sia pur sommario e generico, tra il romanzo e le forme precedenti di narrativa mostra una importante differenza. Defoe e Richardson sono i primi grandi scrittori della letteratura inglese che non hanno derivato le loro trame dalla mitologia, dalla storia, dalla leggenda o dalla letteratura precedente.  In questo sono diversi da Chaucer, da Spenser, da Sha­kespeare, da Milton ecc., i quali, come gli scrittori di Grecia e di Roma, usarono abitualmente intrecci tradizionali facendo ciò, in ultima analisi, poiché accettavano l'assunto culturale dei loro tempi secondo il quale la Natura è in sé completa e immutabile e, quindi, la sua descrizione, sotto forma di iscrizioni, di leggende, o di resoconti storici costituiva un repertorio definitivo dell'esperienza umana.

Questo punto di vista continuò ad aver corso sino al dician­novesimo secolo durante il quale, ad esempio, gli avversari di Balzac usavano deriderlo a causa della sua preoccupazione per la realtà contemporanea per essi effi­mera.  Ma, al tempo stesso, dal Rinascimento in poi, vi fu una tendenza crescente a sostituire l'espe­rienza individuale alla tradizione collettiva come arbi­tro definitivo di realtà.  Questa transizione costitui­sce una parte importante dello sfondo culturale in cui maturò il romanzo.

E' significativo che la tendenza in favore dell'origina­lità abbia trovato la sua prima decisa espressione per la prima volta in Inghilterra e nel secolo diciottesimo; la stessa pa­ro­la "originalità" acquistò il suo significato moderno in quel tempo, tramite un capovolgimento semantico che è parallelo a quello accaduto al termine "realismo". Dalla convinzione medievale nella realtà degli uni­versali, "realismo" è venuto a denotare una credenza nella perce­zione individuale della realtà tramite i sensi: nello stesso modo, il termine "originale" che, nel Medioevo, si­gnificava "esistente dall'inizio" venne a signifi­care "non de­rivato da altro, indipendente, di prima mano" e, al tempo in cui Edward Young nelle sue memorabili Coniectures on Original Composition del 1759, salutava Richardson come "genio sia morale che originale", la parola poteva essere usata eulogisti­camente nel senso di "nuovo o fresco in ca­rattere o stile".

L'uso di trame non tradizionali nel romanzo è una preco­ce e probabilmente indipendente manifestazione di questa tendenza. Quando Defoe, ad esempio, iniziò a scrivere racconti tenne in poco conto le teorie critiche allora domi­nanti che ancora sostenevano l'uso di trame tradizionali, permet­tendo invece alla sua narrazione di fluire sponta­neamente da ciò che egli sentiva che i suoi personaggi avrebbero plausibil­mente potuto fare. Così facendo, egli iniziò una nuova e importante tendenza nella narrativa e, cioè, la totale subordi­nazione della trama al modello della "memoria" autobiografi­ca, un'asserzione di sfida del pri­mato dell’esperienza indivi­duale nel romanzo tanto impor­tante quanto il cogito ergo sum di Descartes lo era stato in filosofia.

Dopo Defoe, Richardson e Fielding continuarono, in modi diversi, ciò che doveva divenire la prassi abituale del romanzo, l'uso cioè di trame non tradizionali, inte­ra­mente inventate o basate parzialmente su avveni­menti con­tempo­ranei.

 

b) Universale e individuale.

Molte altre cose, oltre alla trama, dovevano cam­biare nella tradizione della narrativa prima che il ro­manzo po­tesse esprimere la presa individuale della realtà così com­piutamente come il metodo di Descartes e di Locke aveva permesso al pensiero di scaturire dai dati immediati della coscienza. Anzitutto, gli attori e la scena delle loro azioni dovevano essere posti in una nuova pro­spettiva letteraria: l'intreccio doveva avere come attori delle persone partico­lari in circo­stanze particolari invece che, come in passato, dei tipi umani generali in situazioni determinate dalle con­venzioni letterarie.

Questo mutamento letterario fu analogo al rifiuto degli universali e all’enfasi sui particolari che caratte­rizza il rea­li­smo filosofico. Aristotele avrebbe potuto essere d'ac­cordo con l'assunto principale di Locke che sono i sensi che "inizialmente lasciano entrare singole idee e ammobi­liano la stanza vuota",  ma avrebbe insistito che lo studio dei particolari singoli era di scarsa importanza in sé poiché l'uomo doveva ribellarsi al fluire senza senso delle sensa­zioni e raggiungere la conoscenza degli universali che soli costituivano la realtà ultima e immu­tabile. E' questa enfasi generaliz­zatrice a dare una certa unità al pensiero occiden­tale al di sopra di altre differenze e, quando, nel 1713, il Phi­lonous di Berkeley affermava che "è massima general­mente accettata che tutto ciò che esiste è particolare", esponeva l'opposta tendenza che dà al pensiero moder­no, dopo Descartes, una certa unità di prospettiva e di metodo.

Le nuove tendenze filosofiche e le corrispettive carat­teri­stiche formali del romanzo erano così, ancora una volta, in opposizione alle idee letterarie dominanti.  La tradizione critica del primo Settecento era infatti ancora dominata dalla forte predilezione classica per il genera­le e l'univer­sale, soggetto prescritto alla letteratura restando quod sem­per quod ubique ab omnibus creditum est Tendenza, questa, partico­larmente pronunciata nei neoplatonici, da sempre sosteni­tori dei romance, e che divenivano sempre più importanti nella critica letteraria e nell'estetica.  Shaftesbury, ad esem­pio, nel suo Essay on the Freedom of Wit and Hu­mour del 1709, espresse con molta enfasi la scarsa stima per questa scuola di pensiero favorevole al particolare nella letteratura e nell'arte: "La varietà della Natura è tale da di­stinguere ogni cosa che essa forma con un peculiare carat­tere originale che, se osservato ri­goro­samente, farebbe ap­parire il soggetto dissimile da qualsiasi altro. Tale effetto il buon poeta e il buon pittore cercano accuratamente di evi­tare.  Essi rifuggono dalla minuzíosità e temono la singo­larità.".Egli così continuava: "Il semplice pittore di facce ha invero poco in comune col poeta; ma, come il semplice storico, egli copia ciò che vede e minuziosamente riproduce ogni caratteristica o segno distintivo"; e concludeva con sicurezza che "tale non è il caso per uomini d"ingegno e invenzione".

Nonostante Shaftesbury, tuttavia, una opposta ten­denza estetica in favore della particolarità doveva affermarsi pre­sto, in gran parte come risultato dell'applicazione ai pro­blemi letterari dell'approccio psicologico di Hobbes e Locke.  Lord Kames fu probabilmente il più deciso esponente di questa tendenza dichiarando, nei suoi Elements of Criticism (1762), che "i termini astratti e generali non hanno buoni effetti in alcuna composizione volta a divertire, poiché è solo dagli oggetti particolari che si possono formare immagini". Contrariamente alle opinioni correnti, Kames giunse a sostenere che il fascino di Shakespeare risiedeva nel fatto che "ogni cosa nelle sue descrizioni è particolare, come avviene in natura".

Sotto questo aspetto, come sotto quello dell'originalità, Defoe e Richardson iniziarono la direttiva letteraria tipica del romanzo assai prima che questa potesse appoggiarsi a una teoria critica. Non tutti possono essere d'accordo con Kames che "ogni cosa" nelle descrizioni di Shakespeare è particolare ma la partico­larità delle descrizioni è sempre stata considerata tipica della maniera narrativa di Robinson Crusoe e di Pamela. La prima biografa di Richardson, Mrs. Barbauld, invero, ne descrisse il genio in termini che hanno continuato ad apparire nella controversia tra generalità neoclassica e particolarità realistica. Sir Joshua Reynolds espresse la sua ortodossia neoclassica preferendo "le idee grandi e generali" della pittura italiana alla "verità letterale... e esatta minuziosità nei dettagli della natura modificati dall'accidente" della scuola olandese mentre i realisti francesi, si ricorderà, prediligevano la vérité humaine di Rembrandt in opposizione alla idéalité poétique della scuola classica.  Mrs. Barbauld individuò con esattezza la posizione di Richardson nella controversia scrivendo che egli aveva "l'accuratezza di finitura di un pittore olandese... soddisfatto di produrre effetti con un lavoro paziente e minuzioso". Sia egli che Defoe, in effetti, poco si curavano dello sprezzo di Shaftesbury e, come Rembrandt, si accontentavano di essere "semplici pittori di facce e storici".

Il concetto di particolarità realistica in letteratura è in qual­che modo troppo generale per essere suscettibile di dimostra­zioni concrete: per offrire tali dimostrazioni biso­gna prima stabilire la relazione della particolarità realistica con alcuni aspetti specifici della tecnica narrativa.  Due di tali aspetti sembrano avere speciale rilevanza in questo contesto: la caratterizzazione e la presentazione dell'am­biente.  Il romanzo si distingue sicuramente dagli altri ge­neri e dalle precedenti forme di narrativa per l'attenzione prestata normalmente sia all'individualizzazione dei perso­naggi sia a una detta­gliata presentazione dell'ambiente.

 

c) Definire l'individuo. L'uso dei nomi propri.

Filosoficamente l’approccio particolarizzante ai perso­naggi si risolve nel problema di definire l'indivi­duo.  Dopo che Descartes aveva dato estrema impor­tanza ai pro­cessi di pensiero che avvengono nella coscienza indivi­duale, i problemi filosofici connessi all'identità personale ricevet­tero grande attenzione.  Locke, Bishop Butler, Ber­keley, Hume e Reid discus­sero l'argomento e la controver­sia raggiunse perfino le pagine dello Spectator.

Il parallelo tra la tradizione del pensiero realistico e le innovazioni formali dei primi romanzieri è, sotto que­sto aspetto, ovvio: filosofi e romanzieri diedero mag­giore at­tenzione all'individuo particolare di quanto si facesse prima.  Tuttavia, anche la grande attenzione che il romanzo dà alla particolarizzazione dei personaggi è un problema così vasto che noi lo considereremo solo in uno dei suoi più semplici aspetti: il modo, cioè, in cui il romanziere ti­picamente indica la sua intenzione di presentare un perso­naggio come individuo dandogli un nome come quelli che gli individui hanno nella vita ordinaria.

Logicamente il problema dell'identità individuale è stret­tamente legato allo status epistemologico dei nomi propri poiché, nelle parole di Hobbes, «i nomi propri evocano una co­sa sola, gli universali una qualsiasi di molte». I nomi propri hanno esattamente la stessa funzione nella vita sociale, essendo l'espressione verbale della particolare identità di ogni singola perso­na.  In letteratura, tuttavia, questa funzione dei nomi propri si affermò pienamente solo col romanzo.

Anche nelle precedenti forme letterarie i personaggi ri­cevevano ovviamente, un nome proprio ma il tipo di nomi usati mostrava che l'autore non cercava di presentare i suoi personaggi come entità completamente individualizzate. I precetti della critica classica e rinascimentale sostenevano l'uso in letteratura di nomi storici o tipici.  In ambo i casi, questi nomi pongono il personaggio nel contesto di un vasto insieme di aspettative formatesi principalmente sulla letteratura del passato e non sulla vita contemporanea. Perfino nella commedia, i cui personaggi non erano nor­mal­mente storici ma inventati, i nomi dovevano essere "caratteristici", come ci dice Aristotele, e la tendenza ri­mase questa per lungo tempo dopo l'emergere del roman­zo.

I tipi precedenti di narrativa in prosa tendevano pure a usare nomi propri caratteristici o non particolari e irreali­stici in qualche modo: nomi che, come quelli usati da Ra­belais, Sidney o Bunyan, denotano qualità particolari o, come quelli di Lyly, Aphra Behn o Mrs. Manley, portano con sé connotazioni straniere, arcaiche o letterarie che escludono ogni suggestione della vita reale e contemporanea. L'orientamento principalmente letterario e conven­zionale di questi nomi propri è ulteriormente confermato dal fatto che normalmente ve n'era solo uno - Mr. Badman o Euphues - mentre la gente nella vita ordinaria ha nome e cognome.

I primi romanzieri, dunque, ruppero in modo significativo con la tradizione e nominarono i loro personaggi in un modo tale da suggerire che dovevano essere considerati come individui particolari nel contesto sociale contemporaneo.  L'uso dei nomi propri in Defoe è casuale e talvolta con­traddittorio ma assai raramente egli dà nomi convenzionali o di fantasia.  La possibile eccezione, Roxana, è uno pseu­donimo pienamente spiegato nel libro e la maggior parte dei perso­naggi principali, da Robinson Crusoe a Moll Flanders, hanno nomi o pseudonimi completi e realistici. Richardson continuò in questa pratica ma fu più attento e diede a tutti i suoi personaggi principali e persino alla maggioranza di quelli secondari sia un nome che un cognome. Egli fronteggiò anche un problema minore ma non privo di importanza per il romanzo, quello di dar nomi sottilmente appropriati e suggestivi che suonino tuttavia realistici. Le connotazioni romanzesche di Pamela sono così controllate dal comune cognome Andrews. Sia Clarissa Harlowe che Robert Lovelace hanno nomi appropriati in molti sensi e, invero, quasi tutti i nomi propri di Richardson, da Mrs. Sinclair a sir Charles Grandison, suonano autentici e sono al contempo adatti alle personalità di chi li porta.

Fielding, come fu osservato da un critico contempo­raneo anonimo, battezzò i suoi personaggi «non con nomi fanta­stici e altisonanti ma tali che, sebbene abbiano talvolta qualche riferimento al personaggio, hanno una connotazione più moderna. Nomi come Heartfree, Allworthy e Square sono certamente versioni modernizzate del nome tipico sebbene siano credibili: persino Western o Tom Jones suggeriscono fortemente che Fielding, era attento sia al tipo generale che all'individuo particolare». Questo non è contrario alla presente argomentazione, perché si sarà cer­tamente d'accordo sul fatto che la pratica di Fielding nel dar nomi ai personaggi, oltre che il modo di ritrarli, si distacca dal normale trattamento di questi elementi nel romanzo.  Non che, come s'è visto nel caso di Richardson, non vi sia posto nel romanzo per nomi propri in certo senso appropriati al personaggio, ma questa appropriatezza non deve essere tale da impedire la principale funzione del nome, quella di simboleggiare il fatto che il personaggio deve essere considerato come se fosse una persona particolare e non un tipo.

Vi è persino qualche indizio che Fielding, in modo simile ad alcuni romanzieri contemporanei, prendesse i nomi dei suoi personaggi principali a caso da un elenco stampa­to di contem­poranei e, infatti, tutti i cognomi sopra elencati si trovano nell'elenco degli abbonati all'edizione in folio del 1724 della Hístory of His Own Time di Gilbert Burnet, che sappiamo esser stata posseduta da Fielding.

Comunque sia, è certo che Fielding fu consapevole e si adeguò al costume iniziato da Defoe e Richardson di usare nomi propri contemporanei.  Malgrado tale costume non sia stato sempre seguito da alcuni dei romanzieri del tardo Settecento, come Smollett e Sterne, fu in seguito riconosciuto come parte della tradizione della forma romanzo. Quando il Romanziere rompe con questa tradizione, lo fa per distruggere la fede del let­tore nella realtà letterale del personaggio.

 

d) Individuo e tempo.

Locke aveva definito l'identità personale come una identità di coscienza attraverso la durata nel tempo: l'individuo è in contatto con la sua identità in progresso tramite la memoria di pensieri e azioni passati. Questo porre l'origine dell'identità personale nel repertorio dei suoi ricordi si ri­trova in Hume: «Ove non avessimo memoria, non avrem­mo nozione alcuna del concetto di causa e, conseguente­mente, di quella catena di cause ed effetti che costituisce il nostro essere o persona.»  Questo punto di vista è caratte­ristico anche del ro­manzo: molti romanzieri, da Sterne a Proust, hanno preso a oggetto l'esplo­razione della perso­nalità definita come interpenetrazione di passato e presente autoco­scienza.

Il tempo è una categoria essenziale in un altro con­nesso ma più esterno approccio al problema della definizione dell'indivi­dualità di ogni oggetto.  Il "principio di indivi­duazione" di Locke era quello dell’esistenza in un partico­lare locus nello spazio e nel tempo poiché, come scrisse, "le idee divengono generali quando vengono separate dalle circostanze di tempo e di luogo", così che divengono par­ticolari solo quando ambedue queste circostanze sono specificate. Nello stesso modo i personaggi del romanzo possono essere individualizzati solo se posti sullo sfondo di un partico­lare tempo e di un particolare ambiente. Sia la filosofia che la letteratura della Grecia e di Roma furono pro­fondamente influenzate dall'idea platonica che le Forme o Idee sono le realtà ultime dietro agli oggetti concreti del mondo temporale. Queste forme erano concepite come fuori dal tempo e immutabili e questo rifletteva il postu­lato di base di quelle civiltà che nulla avveniva o poteva avvenire il cui fondamentale significato non fosse indi­pendente dal fluire del tempo. Questa pre­messa è diame­tral­mente opposta alla visione del mondo che si è affer­mata dal Rinasci­mento in poi e che consi­dera il tempo, non so­lamente dimen­sione cruciale del mondo fisico, ma anche forza che plasma la storia individuale e collettiva dell'uomo.

Abbiamo già considerato un aspetto dell'importanza che la dimen­sione temporale assume nel romanzo e, cioè, la sua rottura con la tradizione di usare storie fuori del tempo per dimo­strare verità morali immute­voli. L’intreccio del romanzo si distingue pure da quelli della narrativa prece­dente tramite l'uso di espe­rienze passate come cause dell'azione presente: una connessione causale operante nel tempo sostituisce l'uso precedente di camuffamenti e co­incidenze e questo dà al romanzo una struttura assai più coesiva. Ancor più importante è, forse, l'effetto sulla ca­ratteriz­zazione dell’insistere sui processi temporali, il cui esempio estremo e più ovvio è il flusso di coscienza che pretende di essere una citazione diretta di quanto avviene nella mente indivi­duale sotto l'effetto del flusso temporale. In generale, co­munque, il romanzo si è interessato più di qualunque altro genere allo sviluppo dei personaggi du­rante il tempo. In­fine, la descrizione dettagliata delle oc­cupazioni d'ogni giorno che si trova nel romanzo dipende dal suo potere sulla dimensione temporale. Come ha os­servato T. H. Green, molto della vita umana tende a sfug­gire alla rappre­sentazione letteraria a causa della sua len­tezza e la stretta somi­glianza del romanzo alla complessità dell'espe­rienza quotidiana dipende direttamente dal suo impiego di una misurazione temporale assai più minuziosa e precisa di quelle precedentemente impiegate nella narra­tiva.

Il ruolo del tempo nella letteratura antica, medievale e ri­nascimentale è chiaramente diverso da quello che si ha nel romanzo. La restrizione dell'azione della trage­dia in venti­quattro ore, ad esempio, la celebre unità di tempo, è in realtà una negazione dell'importanza della dimensione temporale nella vita umana: poiché, in accordo con la vi­sione del mondo classica centrata su universali fuori del tempo, implica che la verità sull'esi­stenza possa essere dispiegata pienamente sia nello spazio di un giorno come nello spazio di una intera vita.  Le famose personificazioni del tempo come carro alato o tristo falciatore rivelano una simile prospettiva: focalizzano l'attenzione non sul fluire del tempo ma sul fatto suprema­mente fuori del tempo della morte e i1 loro ruolo è quello di superare la nostra co­scienza della vita quotidiana per preparare a far fronte all’eternità.  Ambedue queste personificazioni, in effetti, assomi­gliano alla dottrina dell'unità di tempo in quanto sono fondamentalmente astoriche e quindi egualmente rappresentative dell'assai minor importanza accordata alla dimensione temporale nelle forme letterarie prece­denti il romanzo.

Il senso del passato storico in Shakespeare, ad esempio, è assai diverso da quello moderno.  Troia e Roma, i Plan­tageneti e i Tudor non sono abbastanza lontani nel tempo da essere differenti dal presente o tra di loro.  In ciò Sha­kespeare riflette la sua età: era morto da trent'anni quando la parola "anacronismo" apparve per la prima volta nella lingua inglese ed era ancora assai prossimo all’opinione medievale che, qualunque fosse il periodo, le ruote del tempo producevano sempre gli stessi ed eternamente ap­plicabili exempla.

Questa visione astorica si associa a una sorprendente man­canza di interesse per l'ambientazione temporale nei suoi termini più ristretti ed è questa mancanza di interesse che ha determinato lo schema temporale, sia di Sha­kespeare che della maggior parte dei suoi prede­cessori da Eschilo in poi, che ha messo in imbarazzo i loro futuri cu­ratori e critici.  L'attitudine verso il tempo delle forme nar­rative precedenti il romanzo è molto simile: la sequenza degli eventi si dispiega in un astrat­to continuum di tempo e spazio che dà ben poca importanza al tempo in quanto fattore che influisce sulle relazioni umane.

Presto, tuttavia, il moderno senso del tempo cominciò a permeare di sé molte aree di tensione. Nel tardo Settecento vi fu il sorgere di uno studio più obiettivo della storia e, quindi, di un sentimento più profondo delle differenze tra passato e presente. Nello stesso momento Newton e Locke presentavano una nuova analisi del processo tem­porale che apparve come un più lento e più meccanico senso di durata isolato in modo abbastanza preciso dal cogliere la caduta di una mela o la successione dei pensieri nella mente.

Questi nuovi interessi sono riflessi nei romanzi di Defoe.  La sua narrativa è la prima a presentarci una pittura della vita individuale vista nell'ampia prospet­tiva del processo storico e, insieme, in prospettiva più ravvicinata che mo­stra tale processo sullo sfondo dei pensieri e delle azioni più effimeri.  E’ vero che i tempi dei suoi romanzi sono talvolta contraddit­tori in se stessi e non coerenti col prete­so ambiente storico presentati, ma il semplice fatto che sorga questa obiezione è un riconoscimento del modo in cui i personaggi siano percepiti dal lettore come salda­mente radicati in una dimensione temporale.  Al contrario, non potremmo fare seriamente delle obiezioni di questo genere riguar­do alla Arcadia di Sidney o al Pilgrim's Pro­gress nei quali la realtà del tempo non è abbastanza evi­dente da permettere la percezione di discrepanze.  In Defoe tale realtà è invece evidente. Nei suoi momenti migliori, riesce a convincerci completamente che quanto narra sta accadendo in un particolare posto e in un tempo definito e la nostra memoria dei suoi romanzi poggia largamente su questi momenti della vita dei suoi perso­naggi resi vivida­mente reali. Questi momenti sono legati assieme in modo non organico, ma sono tali da dare una convincente pro­spettiva biografica.  Si ha un senso di identità personale che sussiste per tutta la durata e viene tuttavia mutata dal flusso dell'espe­rienza. Questa impressione è ancor più forte e piena­mente realizzata in Richardson: egli fu atten­tissimo nel collocare tutti gli eventi narrati in una sequenza tempo­rale mai prima di allora così dettagliata: ogni lettera contiene descrizioni minuziosissime col giorno della setti­mana e, spesso, l'ora. E ciò funziona come una specie di cornice obiettiva per i dettagli temporali ancor più precisi del contenuto delle lettere stesse: siamo infatti informati che Clarissa morì alle sei e quaranta del pomeriggio di giovedì, sette settembre. L'uso della forma epistolare da parte di Richardson induceva nel lettore un sentimento di partecipazione effettiva all'azione in modo che fino ad allo­ra non aveva prece­denti quanto a completezza e intensità. Egli sapeva, come scrisse nella prefazione a Claris­sa, che erano le «situazioni critiche... insieme a ciò che possiamo chiamare descrizioni e riflessioni istantanee» quelle che attiravano maggiormente l'attenzione, e in molte scene il ritmo della narrazione era rallentato da de­scrizioni minu­ziose fino ad avvicinarsi a qualcosa di molto simile all'esperienza reale. In tali scene Richard­son otten­ne, nel romanzo, quello che la tecnica del primo piano di Griffith ottenne nel film: aggiunse, cioè, una nuova di­mensione alla rappresentazione della realtà.

Il problema del tempo fu affrontato da Fielding, nei suoi romanzi, da un punto di vista più esterno e tradi­zionale; in Shamela si prese gioco dell'uso del tempo presente da parte di Richardson:

«Io e la signora Jervis siamo appena andate a letto e la porta è aperta; se venisse il padrone - ohibò! Lo sento che si avvicina alla porta.  Vedete che scrivo al presente, come dice il parroco Wil­liam.  Beh, è a letto tra noi due...»

In Tom Jones indicò la sua intenzione di essere molto più selettivo di Richardson nel trattare la dimensione del tempo:

«Intendiamo... piutto­sto seguire il metodo di quegli scrit­tori che si industriano a scoprire le rivoluzioni dei paesi, invece di imitare gli sto­rici noiosi e voluminosi che, per preservare la re­golarità delle vicende, si riten­gono obbli­gati a riempire altrettante pagine coi dettagli di mesi ed anni in cui nulla di rimar­chevole accadde di quante ne de­dicano a quelli in cui le più grandi scene sono state recitate sul palcoscenico dell'umanità.»

 Nondimeno, Tom Jones introdusse un'inte­ressante innovazione nel trattamento narrativo del tempo. Sembra che Fielding abbia usato un almanacco, simbo­lo della dif­fusione di un senso obiettivo del tempo da parte della stampa. Con poche eccezioni, quasi tutti gli eventi narrati in questo romanzo sono cronologicamen­te realistici non solo in se stessi, ma in relazione al tempo che il viag­gio dalla West Country a Londra sarebbe durato in realtà e persino riguardo a conside­razioni esteriori come le fasi della luna e la cronologia della ri­bellione giacobita del 1745, anno in cui si sup­pone avvenga l'azione del roman­zo.

 

e) L'uomo nel suo ambiente fisico. Descrivere gli spazi.

In questo contesto, come in molti altri, lo spazio è il neces­sario correlato del tempo. Logicamente il singolo caso particolare è definito in rapporto alle due coordinate dello spazio e del tempo. Psicologicamente, come notò Coleridge, la nostra idea del tempo «è sempre mescolata all'idea di spazio». Le due dimen­sioni sono invero insepa­rabili sotto molti aspetti pratici come è suggerito anche dal fatto che le parole "presente" e "minuto" possono essere ri­ferite ad ambedue le dimensioni mentre l'introspezione ci mostra che non possiamo facilmente visualizzare un parti­colare momento dell'esistenza senza collocarlo anche in un contesto spaziale.

Il luogo era tradizionalmente vago come il tempo nella tragedia, nella commedia e nel romance.  Sha­kespeare, come ci dice Johnson, «non aveva riguardo per distinzioni di tempo o luogo»; e l'Arcadia di Sidney era altrettanto vagamente localizzata quanto i limbi boemi del palcosce­nico elisabettiano. E' vero che nel romanzo picaresco e in Bunyan vi sono molti passi descrittivi vividi e particola­reggiati ma pur sempre incidentali e frammentari. Defoe sembra così esser stato il primo scrittore inglese a "visualiz­zare", per così dire, comple­tamente ciò che nar­rava come se fosse avvenuto in un ambiente reale.  La sua attenzione alla descrizione d'ambiente è ancora intermit­tente ma oc­casionali vividi dettagli rafforzano le continue impli­cazioni di ciò che narra e ci fa considerare Robinson Crusoe e Moll Flanders molto più intensamente colle­gati ai loro ambienti di quanto avvenisse con i perso­naggi della narra­tiva precedente.  Questa solidità di ambientazione si nota di più nel modo di trattare da parte di Defoe di oggetti mobili nel mondo fisico: in Moll Flanders si contano capi di biancheria e pezzi d'oro e l'isola di Robinson è piena di memorabili arti­coli di vestiario e di utensili.

Richardson, che anche sotto questo aspetto occupa il po­sto centrale nello sviluppo della tecnica del realismo nar­rativo, portò il processo più oltre. Vi sono poche descri­zioni di scene naturali ma considerevole atten­zione è data agli interni. Le residenze di Pamela nel Lincolnshire e nel Bedfordshire sono abbastanza reali come prigioni; abbia­mo una descrizione dettagliatissi­ma di Grandison Hall; e le descrizioni in Clarissa anticipano l'abilità di Balzac nel rendere l'ambienta­zione di un romanzo forza operante e pervasiva così il palazzo Harlowe diviene un ambiente fisi­co e morale terribilmente reale.

Fielding è, ancora una volta, distante dal gusto del parti­colare di Richardson.  Non ci dà descrizioni com­plete di interni e le frequenti descrizioni di paesaggi sono molto convenziona­lizzate. Nondimeno, Tom Jones presenta il primo castello gotico nella storia del romanzo, e Fielding è altrettanto attento alla topografia delle azioni quanto alla cronologia: di molti dei luoghi dell'itinerario percorso da Tom Jones verso Londra abbiamo il nome, e la esatta col­locazione, di altri è implicata in vari altri modi.

In generale, dunque, sebbene nel romanzo settecente­sco non vi sia nulla di simile ai capitoli iniziali di Le rouge et le noir o del Père Goriot che indicano imme­diatamente l'importanza data da Stendhal e Balzac all'ambientazione per un quadro totale di vita, non vi è dubbio che la ricerca della verosimiglianza portò Defoe, Richardson e Fielding a «collocare l'uomo interamente nel suo ambiente fisico», che costituisce per Allen Tate l'abilità distintiva della forma romanze­sca. E la considerevole misura del loro successo in questa impresa non è irrilevante nel differenziarli dai pre­cedenti scrittori di narrativa e nel giustificare la loro impor­tanza nella tradizione della nuova forma.

 

f) Dire le cose come accadono. Un linguaggio non-letterario.

Le varie caratteristiche tecniche del romanzo de­scritte sopra sembrano tutte contribuire al persegui­mento di uno scopo che il romanziere condivide col filosofo, produrre qualcosa che pretende di essere un resoconto au­tentico di esperienze effettive di individui.  Questo scopo implica altri tipi di rottura con la tradi­zione oltre a quelle già men­zionate.  Forse la più impor­tante è l'adattamento dello stile della prosa allo scopo di dare un'aria di comple­ta autenti­cità e anche ciò è strettamente connesso a uno dei punti metodologici fondamentali del realismo filosofico.

E' interessante notare come alcuni degli "abusi dei lin­guag­gio" specificati da Locke (ad esempio, il lin­guaggio figurato) siano stati una caratteristi­ca regolare dei romance e siano assai più rari nella prosa di Defoe e Richardson.

La precedente tradizione stilistica nella narrativa non ri­guardava principalmente la corrispondenza tra parole e cose ma le bellezze estrinseche che si potevano aggiungere alle descrizioni e alle azioni mediante l'uso della retorica. L'Aethiopica di Eliodoro aveva fonda­to e stabilito la tradi­zione di una eccessiva elaboratezza di stile nei romance greci, e la tradizione era continuata nello stile ricercato di John Lyly e Sidney e nella concet­tosità elaborata di La Cal­prenède e di Madeleine de Scudéry.  In tal modo, anche se i nuovi scrittori di narrativa avevano rifiutato la vecchia tradizione di mesco­lare poesie alla loro prosa, tradizione che era stata seguita perfino in narrazioni completamente dedicate alla rappresen­tazione della vita "popolare" come il Satyricon di Petronio, vi sarebbe pur stata una forte aspet­tativa letteraria nei loro confronti a usare il linguaggio co­me fonte di interesse per sé e non come puro medium refe­renziale.

In ogni caso, la tradizione critica classica non sapeva in generale che farsene delle semplici descrizioni realistiche che un tale uso del linguaggio implica.  E faceva dell'ironia il nono numero del Tatler (1709) quando presentava la Description of the Morning di Swift come opera in cui l'autore «seguiva una via perfettamente nuova, descri­vendo le cose come accado­no».  L'assunto implicato dei critici e degli scrittori colti era che l'abilità di un autore si vedeva non nella precisione con cui questo faceva corri­spondere parole a oggetti ma nella sensibilità letteraria con cui il suo stile rifletteva il decoro linguistico appropriato al soggetto trattato. E’, dunque, naturale che ci si debba rivolgere a scrittori non appartenenti ai circoli alla moda per trovare i primi esempi di una narrativa scritta in una prosa che si limita a un uso quasi esclusivamente descrit­tivo e denota­tivo del linguaggio. Naturale, anche, che Defoe e Richard­son fossero attaccati da molti dei più colti scrittori del tempo per il loro modo di scrivere goffo e spesso impro­prio.

I loro intenti fondamentalmente realistici richiede­vano, ovviamente, qualcosa di molto diverso dai modi della prosa letteraria del tempo. E’, quindi plausibile che si debba considerare la rottura di Defoe e Richard­son con i canoni accettati dello stile in prosa non come una casuale deforma­zione ma come il prezzo da pagare per ottenere immediatezza e aderenza del testo a quanto viene descritto.  In Defoe, questa aderenza è principal­mente fisica, in Richardson è emotiva, ma in am­bedue si sente che lo scopo esclusivo dell'autore è far sì che le sue parole co­munichino l'oggetto in tutte le sue par­ticolarità concrete, costi quel che costi in ripetizioni, paren­tesi o verbosità. 

Si incontra qui una curiosa antinomia. Da un lato, Defoe e Richardson, applicando senza compromessi il punto di vista realista al linguaggio e alla struttura della prosa, si impedi­scono il conseguimento di altri valori letterari.  Dall'altro lato, in Fielding, le virtù stilistiche tendono a in­terferire con la sua tecnica di romanziere poiché una evi­dente selettività di visione distrugge la credenza del lettore nell'autenticità del rapporto o, al minimo, sposta la sua attenzione dal contenuto del rapporto all'abilità dello scri­vente. Sembra così esserci una qualche inerente contrad­dizione tra gli antichi e durevoli valori letterati e la tecnica narrativa del ro­manzo.

Che ciò possa esser vero è suggerito da un paragone con la narrativa francese. In Francia, l'atteggiamento critico classico, con la sua enfasi su eleganza e conci­sione, non fu messo in di­scussione sino al romantici­smo.  Forse par­zialmente per questa ragione, la narra­tiva francese dalla Princesse de Clèves alle Liaisons dangereuses rimane al di fuori della tradizione princi­pale del romanzo. Malgrado tutta la sua acutezza psicologica e tutta la sua abilità lette­raria, la si sente troppo artefatta e raffinata per essere au­tentica.  In ciò Madame de La Fayette e Choderlos de Laclos sono all'opposto di Defoe e Richardson la cui ten­denza a diffondersi in particolari tende ad agire come ga­ranzia di autenticità di ciò che raccontano, che riportano e la cui prosa tende esclusivamente verso quello che Locke definì come lo scopo più appropriato del linguaggio, «tra­smettere la conoscenza delle cose» e i cui romanzi nel loro insieme non pretendono di essere niente di più di una tra­scrizione della vita reale nelle parole di Flau­bert, le réel écrít.

Sembra dunque che la funzione del linguaggio sia molto più referenziale nel romanzo che in altre forme letterarie e che il genere si basi più su una presenta­zione esauriente che su una elegante sintesi.  Ciò potrebbe sicuramente spiegare perché il romanzo sia il genere più traducibile, perché molti grandi romanzieri, da Richardson e Balzac a Hardy e Dostojewski, spesso scrivano senza eleganza e talvolta persino male, e perché il romanzo abbia un minor bisogno di commen­tari storici e letterari in quanto le sue convenzioni formali lo obbligano a fornire le sue proprie note a piè di pagina.

 

Abbiamo descritto le principali analogie tra il reali­smo in filosofia e in letteratura e non ne discuteremo oltre. Que­ste analogie non sono rigidamente esatte: la filosofia è una cosa e la letteratura un'altra. E neppure queste analogie presuppon­gono che la tradizione realista in filosofia sia stata la causa del realismo del romanzo. Che qualche in­fluenza vi sia stata è assai probabile, specialmente tramite Locke il cui pensiero influenzò ovunque il clima d'opi­nione del diciottesimo secolo.  Ma, se una relazione causa­le di qualche impor­tanza esiste, essa è probabilmente molto meno diretta: i mutamenti nella sfera filosofica e nella sfera letteraria devono essere visti come manifesta­zioni parallele di un più vasto cambiamento della civiltà occidentale che, dal Rinascimento in poi, ha sostituito la visione del mondo unitaria del Medioevo con una visione molto diversa basata, essenzialmente, su un insieme di in­dividui in sviluppo ma senza una programmazione, ognu­no avente particolari esperienze in particolari circostanze di tempo e di spazio.

Il nostro problema è tuttavia di dimensioni più limitate e consiste nel definire la misura in cui l'analogia col realismo filosofico aiuta a isolare e definire il modo narrativo tipico del romanzo. E questo, si è suggerito, è la somma delle tecniche letterarie tramite le quali l'imitazione della vita umana del romanzo segue le procedure adottate dal reali­smo filosofico nei suoi tentativi di accertare e comunicare la verità. Queste procedure non sono limitate alla filoso­fia e tendono, in effetti, a essere seguite ogni qual volta si studi la relazione di qualunque rapporto con la realtà. Il modo di imitare la realtà del romanzo può quindi essere sintetizzato ugualmente bene nei termini delle procedure di un altro gruppo di specialisti in epistemologia, la giuria di un tribunale. Le loro aspettative e quelle del lettore di romanzi coincidono in molti punti: ambedue vogliono conoscere "tutti i particolari" di un dato caso, tempo e luogo dell'avvenimento e rifiutano di prestare fiducia a chiunque si chiami Sir Toby Belch o Mr. Badman o, peggio ancora, a una Cloe che non ha cognome e che è "comune come l'aria"; si aspettano che i testimoni raccontino la storia "con le loro parole". Una giuria, infatti, ha quell' "atteggiamento circostan­ziato verso la vita" che è tipico del romanzo.

Il metodo narrativo mediante il quale il romanzo esprime l'atteggiamento circostanziato verso la vita può essere de­finito realismo formale. E diciamo formale perché il ter­mine realismo non si riferisce qui ad alcun proposito o dottrina letteraria particolare ma solamente a un insieme di procedure narrative che vengono usate così spesso nel ro­manzo e così ra­ramente in altri generi da poter essere con­siderate tipiche del primo.  Il reali­smo formale è l'espres­sione di una premessa che Defoe e Richardson accettavano in un senso molto letterale, la premessa o convenzione fondamentale che il romanzo è un rapporto autentico e completo su una esperienza umana e ha quindi l’obbligo di soddisfare i suoi lettori fornendo loro dettagli sulla perso­nalità degli attori e sulle circostanze di tempo e luogo delle loro azioni, dettagli presentati usando il linguaggio in modo am­piamente referenziale.

 

Il realismo formale è, come le norme sulle testimonianze, solo una convenzione e non vi è alcuna ragione per soste­nere che un rapporto sulla vita umana presentato in tal modo debba essere più vero di un rapporto che segua le diverse convenzioni di altri generi. L'aspetto di totale au­tenticità del romanzo autorizza, invero, confusioni su que­sto punto e la tendenza di alcuni realisti e naturalisti a di­menticare che una accurata trascrizione della realtà non porta necessariamente a produrre un'opera vera o di dure­vole valore letterario ha la sua parte di responsabilità nell'antipatia per il realismo e le sue opere che oggi è dif­fusa.  Tale antipatia, tuttavia, può anche promuovere con­fusioni critiche e portarci nell'errore opposto: certe man­chevolezza della scuola realista non devono oscurare il fatto che il romanzo in generale, in Joyce come in Zola, usa quei mezzi letterari che qui abbiamo chiamato realismo formale.  Non dobbiamo neppure dimenticare che, mal­grado il realismo formale sia so­lamente una convenzione, ha alcuni vantaggi come tutte le convenzioni letterarie. Vi sono importanti differenze nella misura in cui diverse forme letterarie imitano la realtà e il realismo formale del romanzo permette una più immediata imitazione dell'espe­rienza individuale in un contesto di tempo e luogo di quan­to avvenga attraverso altre convenzioni. Di conse­guenza, le convenzioni del romanzo chiedono meno parte del pubblico di altre convenzioni letterarie e questo spiega perché la maggioranza dei lettori negli ultimi due secoli ha trovato nel romanzo la forma letteraria che soddisfa mag­giormente i loro desideri di una stretta corrispondenza tra vita e arte. Ma questa corrispondenza non si limita a ren­dere popolare il romanzo: produce an­che distinte qualità letterarie che vedremo più avanti.

In senso stretto, è chiaro che Defoe e Richardson non hanno "scoperto" il realismo formale: lo hanno sola­mente applicato assai più completamente di quanto non si fosse fatto prima di loro. Omero, ad esempio, come osservò Carlyle, possedeva una stupefacente «chiarezza di visione» che si manifesta in de­scrizioni «dettagliate, ampie, con una cura amorosa per l'esattezza»: descri­zioni, cioè, del tipo di quelle che abbondano nelle loro opere. Vi sono molti pas­saggi nella narrativa succes­siva, da L'asino d'oro a Aucas­sin et Nícolette, da Chaucer a Bunyan, in cui personaggi, azioni e ambiente sono presentati in modo particolareg­giato e autentico quanto i romanzi del Settecento. Ma vi è una diffe­renza importante: in Omero e nelle narrazioni ci­tate passaggi di questo tipo sono relativa­mente rari e ten­dono a spiccare nel testo. La struttura letteraria globale non era coerentemente orientata verso il realismo formale e specialmente l'intreccio, normalmente tradi­zionale e spesso altamente improbabile, era in diretta contrad­dizione col realismo.  Perfino scrittori che apertamente professa­vano scopi realistici, come molti nel Seicento, non li per­seguirono sinceramente. La Calprenède, Richard Head, Grimmelshausen, Bunyan, Aphra Behn, Furetière, solo per menzionare qualche nome, ad esempio, affermarono tutti che le loro narra­zioni erano "assolutamente vere" ma tali afferma­zioni non convincono più di quelle simili che si trovano nella maggior parte delle opere agiografiche del Medioevo. Lo scopo della verosimiglianza non era stato assimilato in modo tale da provocare un completo rifiuto delle convenzioni non realistiche del genere.

Per motivi che vedremo nel prossimo capitolo, Defoe e Richardson erano indipendenti in modo senza prece­denti da quelle convenzioni letterarie che avrebbero potuto in­terferire col loro scopo principale e persegui­rono una veri­tà letterale in modo molto più completo. Di nessuna nar­razione anteriore a Defoe Lamb avrebbe potuto scrivere in termini simili a quelli usati per Richardson da Hazlitt: «è come leggere i verbali di un tribunale».

Che ciò sia un bene in sé è discutibile; Defoe e Richard­son non sarebbero all'altezza della loro reputa­zione se non avessero altri e maggiori pregi.  Nondi­meno è fuor di dubbio che lo sviluppo di un metodo narrativo capace di creare tali impressioni è la manife­stazione più cospicua di quella mutazione della narra­zione in prosa che chiamiamo romanzo e l'importanza storica di Defoe e Richardson di­pende quindi princi­palmente dalla subitaneità e dalla completezza con cui crearono il minimo comun denomina­tore del genere romanzo, cioè il realismo formale.

 


Novel: romanzo, narrazione fittizia in cui personaggi e azioni 'realistici' sono presentati in una trama più o meno complessa; romance: narrazione in cui prevale l'elemento fantastico, l'attenzione è rivolta alla trama piuttosto che ai personaggi e c'è un interesse predominante per il suspense e le complicazioni narrative (N.d.T.).

= ciò che sempre e dovunque è creduto da tutti.

Lovelace = senza amore; in Sinclair si noti la radice sin = Peccato; in Grandison sí noti la radice grand = grande, splendido, celebre (N.d.T.).

Heartfree = cuorlibero; Allworthy = degno assai; Square = quadrato ma anche robusto o leale, onesto (N.d.T.).

Platone non afferma specificamente che le Idee sono al di fuori del tempo ma tale nozione, che risale ad Aristotele (Metafisica, libro XII, cap. 6), è alla base di tutto il sistema di pensiero con cui le Idee sono associate.

Toby Belch = Tobia Rutto; Mr. Badman = Uomo Cattívo.  E’, un riferimento all'opera Life and Death of Mr. Badman (1680) del famoso predicatore J. Bunyan (N.d.T.).

 

Fonte: http://quattrosecoli.files.wordpress.com/2012/07/watt-il-romanzo-inglese-del-700.doc

Autore del testo: Ian Watt

Parola chiave google : Romanzo inglese del 700 tipo file : doc

 

Romanzo inglese del 700

Trame di romanzi del '700

 

 

Lettere persiane - romanzo epistolare di Montesquieu (1721)

È la corrispondenza che due persiani immaginari, il gran signore Usbeck e il suo giovane amico Rica, venuti in Francia tra il 1712 e il 1720, scambiano con i loro amici orientali. Dopo il primo stupore di fronte alla civiltà europea i due viaggiatori cominciano ad analizzare con arguzia i costumi, in particolare quelli francesi: futilità dei begli spiriti che passano il loro tempo al caffè, vanità dei cortigiani costretti a correre da un luogo all'altro, civetteria delle donne che, benché vecchie, credono ancora di poter sfruttare il loro fascino, ignoranza dei magistrati. La loro satira non risparmia nemmeno le istituzioni: l'Académie française, la giustizia, il sistema finanziario, la monarchia assoluta e il suo «gran mago» Luigi XIV e l'«altro gran mago», il papa, «incensato per abitudine». A mano a mano che la loro riflessione si approfondisce, discutono anche di problemi più generali: divorzio, schiavitù, demografia, forme di governo. Ma queste lettere propongono anche un intreccio riguardante le sorti del serraglio lasciato da Usbeck in Oriente. Durante la sua assenza, le donne, lasciate alla custodia di un eunuco negro, si ribellano e gli ordini, sempre più rigorosi, mandati da Usbeck non fanno che irritarle maggiormente. La favorita Roxane, che sembrava rimasta fedele al padrone assente, diventa l'animatrice del complotto. Ma, sapendosi perduta, scrive, prima di avvelenarsi, una lettera ad Usbeck (l'ultima del libro) che è un'appassionata apologia della libertà.

 

Moll Flanders - romanzo di Daniel Defoe (1722)

Il romanzo si presenta come l'autobiografia, datata 1683, di una anziana signora che, dopo aver condotto una vita tumultuosa, ora «intende dedicare quel che le resta da vivere a una sincera penitenza». Moll Flanders è figlia di una ladra che l'ha messa al mondo nella prigione di Newgate e che è stata deportata in Virginia dopo la sua nascita. Moll cresce allevata da una balia e, alla sua morte, da una famiglia aristocratica che la adotta. Cresciuta d'età, si innamorano di lei due fratelli, figli della famiglia adottiva. Moll ricambia l'amore per il maggiore e ne diviene l'amante, ma questi è un uomo di sentimenti leggeri e non ha nessuna intenzione di sposarla. La ragazza finisce per sposare il più giovane, pur senza amarlo. Dopo cinque anni, il primo marito e secondo uomo di Moll muore, lasciandole due figli (che scompaiono subito dal racconto, affidati alla famiglia del padre). Ossessionata dal pensiero del denaro e dalla paura di cadere in miseria, Moll Flanders usa con spregiudicatezza e capacità imprenditoriale il principale strumento di guadagno che possiede: il suo corpo. Nel corso di intricate vicende, Moll passa attraverso altri quattro mariti (due la abbandonano perché hanno guai con la giustizia, da un altro fugge lei quando si avvede che è un suo fratellastro, l'ultimo muore) e un buon numero di amanti, e mette al mondo altri sei figli (che vengono regolarmente dati a balia e spariscono dal romanzo). Dopo la morte del quinto marito, ormai in età un po' troppo matura per attrarre nuovi possibili mariti, Moll inizia la sua carriera di ladra, che esercita con successo in mezzo alla folla e ai ricchi negozi di Londra, finché viene arrestata. Nel carcere di Newgate, incontra il suo quarto marito, che attende il processo come brigante di strada. La legge prevede che gli imputati possono evitare il processo accettando la deportazione nelle colonie americane, e così fanno Moll e suo marito, diventando ricchi piantatori in Virginia.

 

Lady Roxana - romanzo di Daniel De Foe (1724)

Beleau, figlia di profughi protestanti francesi, sposa giovanissima un birraio di Londra che poi, costretto alla fuga per bancarotta, l'abbandona nella miseria più nera e con cinque figli. La donna diventa l'amante del suo padrone di casa e, affidati i figli alla carità altrui, lo segue in Francia. Ereditati i suoi beni, diventa una spregiudicata cortigiana - Lady Roxana - e grazie a tresche lucrose giunge alla ricchezza. Si sposa allora con un solido mercante olandese, ma la sua tranquillità è insidiata da una figlia che ne ha scoperto l'identità. Interviene in suo aiuto la fedele e perversa servetta Amy e la figlia scompare, forse assassinata. Ma il marito scopre la verità; poco dopo muore, lasciandola quasi in miseria. Imprigionata per debiti, Roxana muore pentita dei suoi peccati.

 

Manon Lescaut - romanzo dell'abate Prévost (1731).

La Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut è uno dei lunghi racconti contenuti nelle Memorie di un uomo di qualità ritiratosi dal mondo. La celebrità del romanzo superò ben presto quella dell'intera opera e già nel 1753 veniva pubblicato a parte. Ad Amiens, il diciassettenne Des Grieux incontra Manon Lescaut, che i genitori vogliono chiudere in convento perché «troppo incline al piacere». Se ne innamora, interrompe gli studi di filosofia e fugge con lei a Parigi. Ma Manon, irresistibilmente attratta dal denaro, lo tradisce con un finanziere. Des Grieux, deluso, segue i consigli dell'amico Tiberge ed entra con lui nel seminario di Saint-Sulpice. Là lo ritrova Manon, che non ha difficoltà a riconquistarlo. Per assecondare l'avidità di Manon, Des Grieux cerca guadagni nel gioco. Ma Manon, aiutata dal fratello, trova un altro ricco protettore; Des Grieux gli sottrae l'amante e il denaro che egli le aveva dato. I due vengono arrestati. Des Grieux riesce ad evadere e a liberare Manon. Riprendono la vita di stratagemmi fino al giorno in cui l'ultimo protettore imbrogliato li fa nuovamente arrestare. Su istanza del padre di Des Grieux, Manon viene condannata alla deportazione in Louisiana. Ma Des Grieux, liberato, la segue a New Orleans. Da lì i due amanti devono fuggire dopo un duello con il figlio del governatore, ma nella fuga attraverso il deserto Manon muore. Des Grieux, affranto, viene ricondotto in Francia dal fedele Tiberge che ne aveva seguito le tracce fino in America.

 

Pamela - romanzo epistolare di Samuel Richardson (1741).

Pamela, figlia di contadini e cameriera di una nobile signora, sua benefattrice, si trova esposta dopo la morte della padrona ai tentativi di seduzione del figlio di lei, il gaudente conte di Belfart. Gli resiste, pur non essendo insensibile alle sue attenzioni: a poco a poco, anzi se ne innamora, senza per questo rinunciare a difendere la propria virtù. Finalmente il giovane lord, commosso dalle lacrime della giovane, si redime. Innamoratosi anch'egli profondamente, conduce Pamela all'altare.

 

Julie o la nuova Eloisa - romanzo epistolare di Jean Jaques Rousseau (1761).L'azione si svolge in Svizzera, sulle rive del lago Lemano. Attraverso la corrispondenza tra Julie d'Etanges, il suo precettore Saint Preux e la cugina di Julie, Claire, si delinea la storia di una passione. Saint Preux si è accorto di amare l'allieva e vorrebbe rinunciare all'incarico di precettore: ami infatti il padre di Julie acconsentirà a farle sposare un uomo senza fortuna e senza nobiltà. Ma anche Julie lo ama, invano ammonita dalla saggia Claire. Dopo un tentativo di separazione, Saint Preux si stabilisce a Meillerie, sui monti, di fronte alla cittadina di Julie e i due giovani si incontrano segretamente. Claire stessa richiama Saint Preux. Un inglese, Lord Bomston, col quale Saint Preux si è legato di stretta amicizia, cerca di perorare la causa di Julie presso suo padre, la cui reazione è però tanto violenta da costringere Saint Preux a partire. Julie, passato qualche tempo, accetta, col consenso di Saint Preux, il marito propostole dal padre, M de Wolmar, che l'ama da tempo. A Clarens, accanto al marito, Julie è serena. Nascono due figli. M. de Wolmar invita Saint Preux a vivere con loro. Dopo una lunga lotta per non soccombere alla passione Saint Preux parte. Interviene però un incidente: durante una passeggiata il figlio di Julie cade nel lago. La madre si butta nell'acqua, lo salva, ma si ammala gravemente. Richiamato da Claire, Saint Preux accorre e, prima di morire, Julie gli chiede di rimanere nella sua casa per occuparsi dell'educazione dei suoi figli.

 

Vita e opinioni di Tristram Shandy - romanzo di Laurence Sterne (1760-67).

L'opera, in nove volumi, è incompiuta e si arresta sulla fanciullezza del piccolo Tristram. Manca una trama vera e propria trattandosi, più che di una vicenda, del quadro, umoristico e svagato, di una famiglia e delle persone che entrano in contatto con i suoi componenti: il padre di Tristram, il bizzarro e ingegnoso Walter; la madre, gentile, tranquilla e un po' ottusa; lo zio, Toby, ex ufficiale dell'esercito, candido e mite come mai ci si aspetterebbe data la sua professione (famoso l'episodio in cui, tormentato da una mosca, se ne sbarazza senza ucciderla, dicendo che il mondo è abbastanza grande per tutti e due); il suo valletto Trim, ex caporale e invalido di guerra, a lui devotissimo, e progettista, insieme a Toby, di fortezze ideali; la vedova Wadman, che ama Toby e non si stanca di femminili invenzioni per farsi riamare; e il parroco Yorick, che si distingue per ingenuità e umorismo insieme, due qualità che, congiunte, gli procurano vari nemici. Muore prematuramente e sulla sua tomba verrà incisa la famosa esclamazione di Amleto: «Ahimè, povero Yorick!». Molti episodi sono per l'autore un pretesto per esporre deliziose digressioni sui più disparati argomenti, che dimostrano la vastità delle sue letture e l'originalità del suo pensiero.

 

Jaques il fatalista - romanzo di Denis Diderot (pubblicato a puntate tra il 1773 e il 1775).

Jaques viaggia a cavallo col suo padrone attraverso la Francia, conversando con lui. Si sono incontrati per caso e vanno alla ventura. Jaques racconta al padrone la storia della sua vita e dei suoi amori. Ma il suo racconto è interrotto da singolari contrattempi, dagli interventi del padrone  e dalle digressioni dello stesso Jaques sulla libertà, il destino, la provvidenza, tutte tendenti a dimostrare che ciò che accade all'uomo sulla terra «sta scritto lassù». Tra le picaresche avventure nelle quali incorrono i due viaggiatori c'è quella del furto del cavallo del padrone: ne comprano un altro da un viaggiatore di passaggio, e l'animale li porta dritto a delle forche, per fortuna senza occupanti. Si scopre poi che era il cavallo del carnefice di una città vicina. Una delle più lunghe digressioni è costituita dal racconto, fatto dall'ostessa di una locanda in cui Jaques e il suo padrone hanno preso alloggio, sulla perfida Mme de Pommeraye che, per vendicarsi del marchese des Arcis che non l'ama più, gli fa sposare una cortigiana. Alla fine del viaggio, il padrone uccide in duello un suo rivale in amore e Jaques viene arrestato al suo posto. Liberato, egli ritrova il padrone e Denise, la ragazza che ama. La sposa e insieme si sforzeranno «di creare discepoli a Zenone e a Spinoza».

 

La monaca - romanzo di Denis Diderot (1780 - 83).

Scritto nel 1758 e basato su un autentico caso giudiziario, è steso sotto forma di memoriale. Suzanne Simonin è stata costretta dalla famiglia, sia per interesse, sia perché essa è frutto di una relazione adulterina della madre, a entrare in convento. Dopo il noviziato, essa rifiuta però di prendere i voti finali. Torna a casa, ma le coercizioni familiari la convincono a entrare nel monastero di Longchamps dove, dopo la morte della buona e saggia madre de Moni, Suzanne viene maltrattata dalla nuova madre superiora. Decide allora, grazie all'interessamento dell'avvocato Manouri, di appellarsi alla legge. Perde però il processo e viene mandata ad Arpajon, dove è l'ignaro oggetto delle deliranti, morbose attenzioni della badessa. Morta costei, Suzanne riesce a fuggire dal convento e comincia a guadagnarsi la vita come stiratrice. Qui si interrompe il romanzo.

 

Le relazioni pericolose - romanzo epistolare di P.A.F. Choderlos de Laclos (1782).

Il visconte di Valmont, cinico seduttore, ha deciso di conquistare l'austera M.me de Tourvel. Confida il suo progetto alla marchesa di Merteuil, sua ex amante e sua emula in libertinaggio. Sarà lei a guidare a distanza le avventure di Valmont, imponendogli di rispettare il codice libertino. Lo consiglia innanzitutto di sedurre la giovane Cécile Volanges, appena uscita dal convento dove è stata educata e promessa a un uomo di cui la marchesa si vuole vendicare. Ma Cécile respinge con orrore le proposte del libertino e, intanto, si innamora del giovane Danceny. Grazie però ad alcuni stratagemmi Valmont riesce a sedurre sia Cécile sia M.me de Tourvel. Ma poiché la marchesa lo obbliga a interrompere quest'ultima relazione, Valmont scrive una lettera di rottura a M.me de Tourvel, nella speranza di riottenere i favori della sua ex amante. La lotta tra i due libertini è ormai inevitabile e la marchesa rivela a Danceny la relazione tra Valmont e Cécile. I due si battono a duello e Valmont muore. La marchesa si ammala di vaiolo, a causa del quale rimane sfigurata, e si isola dalla società. M.me de Tourvel e Cécile si ritirano in convento. M.me de Tourvel morirà poco dopo.

 

Paolo e Virginia - romanzo di J. H. Bernardin de Saint-Pierre (1787).

Nella remota Ile de France (Isola Mauritius) due giovanetti, Paolo e Virginia, si amano sin dall'infanzia: lontano dai  pregiudizi e dagli artifici della civiltà, essi vivono nella felicità più innocente. La semplicità della vita dell'isola si riflette anche nell'amicizia che lega la madre di Virginia, la nobile M.me de La Tour, a quella di Paolo, Margherita, una contadina bretone, dal tempo in cui si trovavano ambedue giovani sole e in miseria nell'isola. Una dispotica e ricca zia chiama improvvisamente Virginia in Francia per darle un'educazione, ma la fanciulla rifiuta il mondo parigino e si dispera, rimpiangendo l'amore e la felicità perduti. La zia si convince a farla ritornare nell'isola. Ma, imbarcatasi, proprio quando sta per toccare la sua terra, Virginia muore in un naufragio proprio sotto gli occhi atterriti di Paolo. Paolo e le due madri non sopravvivono al dolore.

 

Fonte: http://quattrosecoli.files.wordpress.com/2012/07/trame-di-romanzi-7001.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

 

 

Visita la nostra pagina principale

 

Romanzo inglese del 700

 

Termini d' uso e privacy

 

 

 

Romanzo inglese del 700