Sillogismo aristotelico significato e teorie

 

 

 

Sillogismo aristotelico significato e teorie

 

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Il sillogismo

 

Il filosofo greco Aristotele, nella sua opera Organon, espone i principi del ragionamento logico, ossia le regole per creare nuove conoscenze a partire da alcuni dati acquisiti.  Nella sezione intitolata Primi Analitici egli introduce il sillogismo, un particolare tipo di argomentazione, che permette di trarre una conclusione da due premesse.  Ecco come Aristotele stesso introduce la trattazione:

“Occorre dire, anzitutto, quale oggetto riguardi ed a quale disciplina spetti la presente indagine, che essa cioè riguarda la dimostrazione e spetta alla scienza dimostrativa; in seguito, bisogna precisare che cosa sia la premessa, cosa sia il termine, cosa sia il sillogismo, quale sillogismo sia perfetto e quale imperfetto; dopo di ciò, si deve definire che cosa sia, per un qualcosa, l’essere contenuto o il non essere contenuto nella totalità di un qualcos’altro, e che cosa intendiamo per venir predicato di ogni oggetto, oppure di nessun oggetto.
La premessa, ordunque, è un discorso che afferma o che nega qualcosa rispetto a qualcosa. Tale discorso, poi, è universale, o particolare, o indefinito. Con discorso universale intendo quello che esprime l’appartenenza ad ogni oggetto o a nessun oggetto; con discorso particolare, intendo quello che esprime l’appartenenza  a qualche oggetto, o la non appartenenza a qualche oggetto; con discorso indefinito intendo quello che esprime l’appartenenza o la non appartenenza, a prescindere dalla forma universale o dalla forma particolare, per esempio il discorso, secondo cui i contrari sono oggetto della medesima scienza, oppure il discorso, secondo cui il piacere non è bene.”

Possiamo tradurre la distinzione tra universale e particolare nel moderno linguaggio della teoria degli insiemi.
Un esempio di discorso universale è la frase “Tutti gli  uomini sono mortali”:si tratta di un’enunciato della forma:

(" x Î U) (x Î M),

che si legge: ogni elemento dell’insieme degli uomini, è anche elemento dell’insieme dei mortali. Aristotele, in realtà, intende la relazione di appartenenza in maniera contraria: non come appartenenza di un elemento (uomo) ad un insieme di oggetti accomunati da una proprietà (mortali), ma come appartenenza di una proprietà (mortalità) ad un elemento (uomo). La differenza è solo formale, non concettuale: Aristotele esprime, cioè, lo stesso concetto, però inverte l’ordine ed il significato delle parole. 

Un esempio di discorso particolare è: “Socrate è mortale”, che, in simboli, si scrive come
x Î M.

Nel linguaggio di Aristotele, la proprietà  considerata appartiene non ad una universalità di elementi (tutti gli  uomini), bensì ad un elemento particolare di tale universalità (l’uomo Socrate).

Aristotele considera particolare anche un discorso del tipo “Qualche uomo è buono”, che, nel linguaggio insiemistico, assume la forma:

($ x Î U) (x Î B),

corrispondente a: esiste un elemento appartenente all’insieme degli uomini che appartiene anche l’insieme dei buoni.

Nel sillogismo aristotelico ogni premessa è formata da due termini, uno è l’oggetto(Socrate), l’altro è il predicato(mortale). Essi appaiono sempre legati dal verbo è oppure dalla sua negazione non è.

Sulla base delle diverse possibili  relazioni esistenti tra i termini che compongono le due premesse, Aristotele distingue vari tipi di sillogismo, detti figure.

Un esempio di sillogismo della prima figura, noto come sillogismo del filosofo,  è:

Premessa: Tutti gli uomini sono mortali.
Premessa: Ogni filosofo è un uomo.
Conclusione:  Ogni filosofo è  mortale.

I termini sono: A = mortale, B = uomo, C = filosofo. Aristotele li chiama, rispettivamente, primo termine, termine medio, termine minore.Il primo termine ed il termine minore vengono anche chiamati estremi.
In questo tipo di sillogismo la conclusione trae origine dal seguente ragionamento: 

“Orbene, quando  tre termini stanno tra di essi in rapporti tali, che il minore sia contenuto nella totalità del medio, ed il medio sia contenuto, o non sia contenuto, nella totalità del primo, è necessario che tra gli estremi sussista un sillogismo perfetto. […] In effetti, se A si predica di ogni B, e se B si predica di ogni C, è necessario che A venga predicato di ogni C.”

Il sillogismo resta valido se la seconda premessa anziché essere universale, è particolare, come nell’esempio seguente:

Premessa: Tutti gli uomini sono mortali.
Premessa: Socrate è un uomo.
Conclusione:  Socrate è  mortale.

Se una delle relazioni di appartenenza viene sostituita da una relazione di non appartenenza, può, invece,  diventare impossibile trarre una conclusione.  Aristotele porta il seguente esempio:

Premessa: Ogni animale è un uomo.
Premessa: Nessun uomo è un cavallo.

Ragionando sul piano puramente logico, non è consentito dedurre che ogni cavallo è un animale.  Il sillogismo non sussiste nemmeno nel caso seguente:

Premessa: Nessuna scienza è una linea.
Premessa: Ogni linea è un’unità.

Anche qui è impossibile trarre la conclusione, naturale, che nessuna scienza è un’unità.

Aristotele chiama il primo esempio un sillogismo perfetto, mentre gli altri due sono sillogismi imperfetti:

“Il sillogismo […] è un discorso in cui, posti taluni oggetti, alcunché di diverso dagli oggetti stabiliti risulta necessariamente, per il fatto che questi oggetti sussistono. Con l’espressione “per il fatto che questi oggetti sussistono” intendo dire che per mezzo di questi oggetti discende qualcosa, e, d’altra parte, con  l’espressione “per mezzo di questi  oggetti discende qualcosa” intendo dire che non occorre aggiungere alcun termine esterno per sviluppare la deduzione necessaria. Chiamo dunque sillogismo perfetto quello che oltre a quanto è stato assunto non ha bisogno di null’altro, affinché si riveli la necessità della deduzione, e chiamo invece imperfetto il sillogismo che esige l’aggiunta di uno o parecchi oggetti, i quali sono bensì richiesti necessariamente dai termini posti alla base, ma non sono stati assunti attraverso le premesse.”

Per meglio chiarire il significato della frase in grassetto,  creiamo ad hoc un ulteriore esempio:

Premessa: Tutti i delfini sono mammiferi.
Premessa: Tutti i mammiferi marini sono intelligenti.

Non possiamo, come vorremmo, dedurre che i delfini sono intelligenti, perché la prima premessa non stabilisce che i delfini sono mammiferi marini: noi sappiamo che ciò è vero, ma questo, dal punto di vista delle regole del sillogismo, è irrilevante.

A conferma del carattere essenzialmente insiemistico del sillogismo aristotelico, il matematico e scrittore inglese Charles Lutwidge Dodgson - più noto con il nome di Lewis Carroll, con cui firmò il racconto fantastico Alice nel paese delle meraviglie -  lo ripropose come un gioco da effettuare su di un tabellone suddiviso in vari rettangoli, molto simile ad un sistema di diagrammi di Venn.  Ecco come esso viene predisposto per risolvere il sillogismo sul filosofo:

 

 

Il quadrato esterno è l’universo del discorso, l’insieme di  tutti gli esseri viventi.
Il riquadro interno rappresenta l’insieme dei mortali, la cornice esterna l’insieme degli immortali. La metà superiore del quadrato rappresenta l’insieme dei filosofi, quella inferiore il resto dell’umanità. Le metà destra e sinistra del quadrato, infine, rappresentano, rispettivamente, l’insieme degli  uomini e quello dei restanti esseri.
In questo modo, ogni termine del sillogismo corrisponde ad una certa regione del tabellone, mentre un’altra regione corrisponde alla negazione del termine stesso.
Dalla sovrapposizione delle regioni scaturisce la seguente suddivisione logica:
 



 

 

 

Le premesse vengono registrate ponendo un gettone nelle regioni dichiarate vuote, che appariranno colorate. 
 

 

 

 

 


Il gettone 1 traduce la prima premessa: è vuota la regione degli uomini immortali. Il gettone 2 traduce la seconda premessa: è vuota la regione dei filosofi non uomini. Se ne evince che è vuoto il quadrante che abbiamo bordato di rosso, che rappresenta l’insieme dei filosofi immortali.

Il sillogismo, oltre che dal punto di vista insiemistico, può essere letto in termini di operatori logici. Il sillogismo sul filosofo diventa allora un enunciato della forma

[(p Þ q) Ù (q Þ r)] Þ (p Þ r)                    (*)

dovele lettere rappresentano proposizioni elementari, e precisamente:

p = “x è un filosofo”
q = “x è uomo”
r = “x è mortale”

Il senso del sillogismo, in fondo, è questo: se il fatto di essere un filosofo implica il fatto di essere un uomo, ed il fatto di essere un uomo implica il fatto di essere mortale, allora il fatto di essere un filosofo implica il fatto di essere mortale. 

L’enunciato logico (*) è la traduzione di una  delle regole su cui si regge il sistema logico formale correntemente usato in matematica. Si tratta, in pratica, di uno dei principi di ragionamento corretto  (regola d’inferenza) che è lecito impiegare nelle dimostrazioni. È la conseguenza di due assiomi,  che corrispondono alle formule

p Þ (q Þ p)

 

e

[p Þ (q Þ r)] Þ [(p Þ q) Þ(p Þ r)]

 

 

La notazione impiegata in (*) è quella  attualmente utilizzata nella maggior parte dei testi. A titolo di curiosità, riportiamo la scrittura ideata  nell’Ottocento da Frege:

 

 

 


Il sillogismo aristotelico rimarrà per tutto il Medio Evo il pilastro portante della logica. Molti autori, tra cui Severino Boezio, vi dedicheranno interi trattati. 
Galilei, pur non contestandone  l’ineccepibile rigore, gli riserverà un ruolo del tutto secondario nell’indagine scientifica, considerandolo incapace di fornire  quelle nuove conoscenze che, pur fondandosi sulla ragione, non possono fare a meno dei dati provenienti dall’esperienza sensoriale.

È inutile aggiungere che la logica aristotelica, con tutti i suoi principi, di cui il sillogismo è solo una manifestazione,  rispecchia il comune buon senso.  La matematica moderna ci insegna, però, che esistono mondi astratti, costruiti con la mente, e detti sistemi formali, in cui valgono altri modi di ragionare.

 
Il sillogismo secondo Eulero

Il sillogismo secondo Boole

 

http://www.dm.uniba.it/ipertesto/logica/sillogismo.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Sillogismo aristotelico significato e teorie

 

Cenni di logica

Il termine "logica" è familiare a chiunque e nel nostro linguaggio viene usata come sinonimo di "ragionevole", "giusto", "scientifico". Il significato più tecnico della parola ci dice che la logica è quella disciplina che mostra quali sono gli elementi e la struttura dei nostri ragionamenti e sotto quali condizioni essi risultano corretti. Lo studio della logica serve allora per distinguere i ragionamenti corretti da quelli scorretti, ma ciò non vuol dire, ovviamente, che solo chi ha studiato la logica è in grado di ragionare bene, anche se è più probabile che ragioni correttamente, se non altro perché sarà maggiormente avvertito delle innumerevoli trappole nascoste nei linguaggi che noi usiamo e dei paradossi a cui possono condurci modi scorretti di ragionare su un problema. La logica è perciò un aiuto prezioso per correggere i nostri vizi mentali e discorsivi, per imparare a condurre un ragionamento in modo rigoroso e senza uscire dall'argomento.
L'inferenza- Non ogni tipo di discorso suscita un esame logico. A originare la ricerca logica sono tipi di ragionamento e di discorso in cui si cerca o si richiede la dimostrazione di qualcosa. Gli studiosi di logica adoperano, per riferirsi a qs tipo di discorsi, il termine di inferenza. L'inferenza è un ragionamento attraverso il quale, sulla base di una o più premesse, una determinata proposizione viene affermata come conclusione. Le proposizioni che entrano nelle inferenze possono essere vere o false (in ciò si distinguono da altri tipi di enunciati, come per es. le esclamazioni, i comandi, le interrogazioni che non possono essere né veri né falsi e perciò né affermati né negati). Le proposizioni che possono essere vere o false possono essere affermate o negate. Esempi:


alcuni greci sono empi

Maria ama Giovanni

 ê                                                                          ê


Alcuni S sono P

A ama B

Le lettere usate stanno in luogo di nomi comuni o propri, ovvero in luogo di termini. I nomi che figurano come termini possono essere anche delle locuzioni complesse (es."studente di filosofia da sei mesi") ma, nonostante l'ampiezza, non possono tuttavia mai essere proposizioni; essi sono invece le parti più piccole con le quali le proposizioni vengono composte.
La deduzione- Una inferenza possiede una sua struttura: si compone di una conclusione e di una o più premesse, considerate prove o ragioni per accettare la conclusione data. Si chiama inferenza immediata, quella inferenza in cui la conclusione è tratta da una sola premessa; l'inferenza mediata è invece quella in cui la conclusione viene tratta da una prima premessa attraverso la mediazione della seconda (es. il sillogismo  aristotelico). Le inferenze si possono distinguere in due tipi: deduzioni e induzioni. In una inferenza deduttiva le premesse garantiscono in modo assoluto la conclusione. Esse, in altre parole, contengono tutto ciò che è necessario per giungere alla conclusione.  Aristotele identifica  la deduzione con il sillogismo consistente nel derivare da due premesse una conclusione logicamente necessaria. Il compito della logica deduttiva è quello di chiarire la natura della relazione tra premesse e conclusioni, così da permettere di distinguere tra inferenze valide e invalide. Validità e invalidità sono proprietà solo delle inferenze, mai delle singole proposizioni. Viceversa verità e falsità possono essere predicati solo di proposizioni, mai di inferenze. Per Aristotele infatti la verità può essere intesa come la corrispondenza di un proposizione con la realtà di cui essa parla. Così un'inferenza può contenere solo proposizioni false e nondimeno essere valida, ad es.:
PREMESSE     1°premessa     Tutti i ragni hanno sei zampe
2°premessa    Tutti gli animali a sei zampe hanno le ali
CONCLUSIONE   dunque      Tutti i ragni hanno le ali
Reperire le premesse e controllare la loro verità o falsità è compito della scienza, la logica si occupa invece delle relazioni tra proposizioni che determinano la correttezza o la scorrettezza dei nostri ragionamenti. La logica deduttiva tratta dunque dei principi dell'inferenza valida.
La dimostrazione- Dimostrare una proposizione significa inferirla in maniera valida, a partire da premesse vere. Nell'età greca possiamo individuare tre tipi di discorso in cui si richiedono argomentazioni di tipo dimostrativo: la matematica, la filosofia e i ragionamenti di ogni giorno. Storicamente, le prime ricerche logiche furono influenzate dalle matematiche che apparivano il modello più convincente di dimostrazione scientifica. In filosofia, a partire da Parmenide, si sviluppò una tradizione interessata a due tipi di argomentazione: quella dimostrativa, positiva e costruttiva, e quella  confutatoria, critica e negativa. Attraverso lo studio di qs procedimenti la filosofia greca acquistò sempre più consapevolezza delle regole formali che presiedono al ragionamento. Già con i presocratici, si affermò la convinzione che il pensiero logico si origini dalle discussioni ordinarie. I primi passi della logica come disciplina si ebbero quando si cercò di estrarre dai ragionamenti comuni ritenuti validi un principio generale applicabile a tutti i ragionamenti validi.
I problemi della logica antica- I principali temi oggetto di studio nell'antichità si possono raggruppare in tre classi di problemi:

  • analisi di errori logici e di paradossi che insorgono in determinate situazioni teoriche e linguistiche,
  • problemi inerenti lo studio della deduzione e, più in generale, dei ragionamenti validi (Aristotele),
  • problemi inerenti l'analisi del linguaggio e del concetto di significato (Platone e Aristotele)

Il problema dell'errore- Gli studiosi di logica hanno a lungo studiato il problema dell'errore, senza giungere tuttavia a una classificazione completa dei modi in cui gli uomini nei loro ragionamenti possono giungere a sbagliare: difficile risulta infatti definire e riconoscere i modi e le strutture formali di un'argomentazione errata, individuare l'errore logico. Le prime importanti analisi delle fallacie sono costruite come giochi linguistici sull'ambiguità del verbo "essere", quale lo aveva inteso la scuola eleatica. Per la dottrina parmenidea, il discorso falso è quel discorso che dice il "non essere" (che dice cioè "ciò che non è"). Ma poiché per gli Eleati il "non essere" non è né pensabile né dicibile, o si parla dicendo il vero, oppure non si dice nulla, cioè si tace. Se si accetta questo ragionamento, diventa tuttavia impossibile fornire una spiegazione del fatto che gli uomini, nei loro discorsi, errino. Inoltre, poiché ogni nostro giudizio che afferma che "qualcosa è qualcos'altro" deve per forza al contempo dire che questo "qualcosa" <non è il suo contrario> (per es., dicendo che <Socrate è mortale> diciamo contemporaneamente che <Socrate non è immortale>), noi in questo modo finiamo per reintrodurre il "non essere", cadendo così in contraddizione. Se si accetta l'eleatismo, l'unico modo veritativo e non contraddittorio di parlare finisce per essere quello di dire solamente "che è", relegando tuttavia in questo modo ogni possibile predicato del nostro discorso nella sfera dell'opinione e dell'errore. Il linguaggio vero si riduce così a pura tautologia ( dal greco tautò, "lo stesso", e logos, "discorso": proposizione in cui vi è identità tra il soggetto e il predicato e che risulta quindi per forza sempre vera, es. < l'uomo è l'uomo>, <il cane è il cane>) vuota di contenuto. Viene così minata alla base la possibilità stessa del linguaggio e della conoscenza. Furono soprattutto i socratici minori della scuola di Megara a portare alle estreme conseguenze questo atteggiamento, ideando una serie di paradossi, attribuiti dalla tradizione a Eubulide, allievo di Euclide, attinti nella loro struttura argomentativa dai celebri paradossi dialettici di Zenone, con l'obiettivo di mettere radicalmente in dubbio la possibilità di costruire discorsi validi.
Il paradosso- La parola "paradosso" deriva dal greco parà, "contro", e doxa, "opinione", e significa <contrario all'opinione comune>. Un paradosso è dunque un'affermazione contraria a quanto ci si aspetta o all'opinione comunemente accettata. Il termine viene spesso usato con significati diversi: esso può indicare sia affermazioni che sembrano vere ma che invece contengono una contraddizione, sia affermazioni che sembrano contraddittorie ma che invece sono vere, sia infine argomentazioni valide che portano tuttavia a conclusioni contraddittorie o almeno sorprendenti. Naturalmente non tutti i paradossi sono fallaci; alcuni sono ragionamenti corretti, che implicano però nozioni contrarie all'intuizione. In questi ultimi, le conclusioni sono vere ma sembrano contrarie al senso comune. Solitamente i paradossi sono molto ambigui e le loro soluzioni mettono in luce la molteplicità di significati e di interpretazioni che è possibile dare al nostro linguaggio ordinario. Occupandosi di paradossi, è dunque necessario essere attenti alle ambiguità, alle indeterminatezze e ai circoli viziosi in cui è possibile cadere. Nato con la filosofia greca, l'interesse per i paradossi  si affievolì con l'inizio dell'epoca cristiana, per poi ricrescere durante il Rinascimento e soprattutto dalla seconda metà dell'Ottocento in poi, quando la loro riconsiderazione giocò un ruolo importante negli sviluppi della logica e della matematica. Oggi alcuni paradossi, come per es. quelli di Zenone, sono di fatto matematicamente risolti; altri conservano un valore prevalentemente retorico; altri ancora infine -per es. quello del mentitore- sono tuttora studiati dalla matematica e dalla logica più recenti.
I paradossi, in quanto conducono ai limiti del pensiero, abituandoci a problemi insoliti, sono molto più che  semplici giochi intellettuali. Essi hanno un  ruolo importante nella storia del pensiero, spesso anticipando gli sviluppi delle scienze: i paradossi di Zenone diedero origine all'idea matematica delle serie infinite convergenti.

 

http://www.liceogioia.it/EspDidattiche/Multimedia/Infinito/modulo/documenti/Cenni%20di%20logica.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

PEIRCE: DEDUZIONE INDUZIONE ABDUZIONE

LA DEDUZIONE SI CONTRAPPONE ALL’INDUZIONE
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deduzione = processo che, muovendo da premesse, per rigorosa necessità passa
a una proposizione che ne è la necessaria conseguenza.
(il sillogismo aristotelico è la tipica forma in cui si attua il ragionamento per deduzione)

Sillogismo = ragionamento composto di tre proposizioni (la premessa maggiore, la premessa minore e la conclusione) concatenate in modo che la conclusione è ricavata dalla premessa maggiore con la mediazione della premessa minore.

Aristotele ha fondato la teoria del sillogismo, che per lui è il tipo perfetto del ragionamento deduttivo e ha come caratteristica essenziale quella di provare la connessione necessaria tra alcune proposizioni opportunamente poste. Tale connessione consente di inferire alcune affermazioni da altre non identiche ad esse.

La struttura tipo del sillogismo è costituito da due proposizioni assunte come premesse e da una conclusione. Le due premesse sono legate tra loro da un termine comune (medio) che mette in relazione i due estremi.

Esempio di Sillogismo:

  • Tutti gli uomini sono mortali

 

  • Socrate è un uomo
  • Socrate è mortale

 

Il medio è “uomo” e gli estremi sono “mortale” e “Socrate”

La forza probante di un tale ragionamento deriva dalla necessità che

ciò che è detto o negato dell’universale

deve valere anche per il particolare in esso incluso
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LA DEDUZIONE SI CONTRAPPONE ALL’INDUZIONE

 

induzione è il processo per cui il pensiero attraverso l’osservazione di più casi particolari

giunge a formulare principali generali o leggi

 

Abduzione = tipo di sillogismo in cui la premessa maggiore è certa

e la premessa minore semplicemente probabile

se ne può trarre quindi una conclusione solo probabile non certa

Aristotele ne ha dato come esempio il sillogisma seguente:

la scienza può essere insegnata premessa maggiore certa

la giustizia è una scienza premessa probabile

dunque la giustizia, se può essere insegnata, è una scienza

L’abduzione è un ragionamento rischioso perché implica un salto logico “piuttosto” ardito.

Il meccanismo dell’abduzione è in gioco ovunque ci sia interpretazione.

 

http://www.matteoverda.com/documenti/Semiotica/Ponzio%20e%20Volli/Peirce%C2%A0abduzione.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

ARISTOTELE:Nel I sec. a.C. Andronico da Rodi, decimo scolara, cioè caposcuola, della scuola aristotelica, pubblicò la prima edizione “critica” degli scritti di  Aristotele. Da allora il corpus è stato tramandato nella forma e nella successione datagli da Andronico.
Il peso che  Aristotele ha avuto nel pensiero occidentale è quindi legato a quelle opere. Egli, però,, ha scritto molto più di quanto ci sia pervenuto e, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, la storiografia filosofica si è notevolmente impegnata per ricostruire le  caratteristiche delle opere andate perdute e con esse il processo di formazione del suo pensiero.
Queste ricerche, e il dibattito che ne è conseguito sono molto importanti per la comprensione del pensiero aristotelico, che può apparirci in una luce diversa da quella in cui è stato vissuto per circa due millenni nella storia della filosofia occidentale; ci sembra quindi giusto darne conto, anche se in maniera sommaria.

 

1 ARISTOTELE E PLATONE

Aristotele è la seconda colonna che, insieme a Platone, sorregge il complesso edificio della filosofia occidentale. Gli altri filosofi che abbiamo incontrato e quelli che incontreremo più avanti possono avere rappresentato delle “pietre di fondazione”, come Parmenide e la scuola Pitagorica, o dei “pilastri di sostegno” come Anassagora o Socrate, oppure delle “minacce alla stabilità dell’edificio” come i sofisti e alcuni esponenti delle cosiddette scuole socratiche; ma le linee di forza fondamentali della costruzione convengono su Platone e Aristotele. Profondamente diversi l’uno dall’altro – per la tradizione addirittura contrapposti -, essi risultano alla fine complementari. E’ noto l’affresco di Raffaello raffigurante la Scuola di Atene in cui i due filosofi sono rappresentati in atteggiamenti opposti , la mano di Platone rivolta al cielo, quella di Aristotele rivolta verso la Terra, mentre procedono affiancati nella stessa direzione. La contrapposizione tra i due, cioè l’elaborazione da parte di Aristotele di una dottrina completamente diversa da quella platonica, è il frutto di un processo assai complesso. Aristotele entrò nella scuola di Platone, l’Accademia, all’età di 17 anni (367) e vi rimase per vent’anni, fino alla morte del maestro (347), collaborando all’attività della scuola anche come insegnante. In questo lungo periodo di permanenza nell’Accademia e di convivenza con Platone, egli elaborò, prima, una forma personale di platonismo e, quindi, una sua propria dottrina originale.
La quasi totalità degli scritti aristotelici sono andati perduti (ne restano solo pochi frammenti).

 

Il sistema
Abbiamo visto che anche la filosofia di Platone, nonostante la sua preoccupazione di non fossilizzare in una struttura rigida un’attività dinamica come il pensiero, ha assunto nella tradizione le caratteristiche di un sistema.
Dagli scritti di Aristotele che conosciamo risulta invece, subito, una forte tendenza a dare al sapere una sistemazione organica e ordinata. La presentazione del suo pensiero come sistema filosofico perfetto è sembrata pertanto rispondente alla logica interna alla stessa riflessione aristotelica.
La perdita cui abbiamo accennato di gran parte degli scritti aristotelici e il fatto che si siano salvate le cosiddette opere sistematiche, i trattati, ha contribuito alla formazione e alla fortuna di questa immagine di Aristotele.

 

Il discepolo dell’Accademia: l’”Aristotele perduto”
La ricerca e il dibattito iniziati durante al seconda metà del secolo scorso, cominciando dai frammenti delle opere perdute, hanno permesso di mettere in discussione il rapporto di Aristotele con Platone. Partendo da quel dibattito, un grande storico tedesco della filosofia, Werner Jaeger, ha pubblicato, nel 1923, a Berlino, un’opera dal titolo Aristotele.Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale. Lo Jaeger rifiuta l’immagine tradizionale di Aristotele, condizionata dalla concezione scolastica della sua filosofia, che la riduce ad un rigido “schematismo concettuale”, e cerca di ricostruire la genesi del suo sistema filosofico attraverso una evoluzione che parte dalla sua ventennale presenza all’Accademia e che, pertanto, non può essere priva di elementi di platonismo.
Alcuni degli scritti aristotelici di questo periodo sono in forma di dialogo. Da quanto resta dell’Eudemo, del Protrettico e del dialogo Su la filosofia può cogliere un progressivo allontanamento di Aristotele dalla dottrina del maestro. Anche l’uso del dialogo, come forma espressiva, che rimanda mediamente a Platone assume, all’interno della produzione filosofica di Aristotele, un significato completamente diverso.

 

Scritti essoterici e scritti acroamatici.
La forma del dialogo compare nelle opere, destinate alla pubblicazione, che  Aristotele scrisse nel periodo dell’Accademia: ad esse, definite discorsi essoterici, rimanda lo stesso filosofo in molti degli scritti che ci sono rimasti. Il tipo di argomentazione di questi scritti è molto diverso da quello usato nelle opere sistematiche prodotte da Aristotele quando è a capo della sua propria scuola, il Liceo o Peritato: mentre le prime hanno un linguaggio semplice e chiaro, e soprattutto partono dall’opinione comune, le seconde, dette acroamatiche, contengono l’insegnamento di Aristotele ai suoi discepoli e sono evolte con metodo rigorosamente dimostrativo.
Le opere sistematiche di Aristotele che ci sono pervenute fanno tutte parte degli scritti acroamatici, mentre i frammenti appartengono a quelli essoterici.
Questa situazione delle fonti, che si è determinata fin dall’antichità, può essere spiegata con la dispersione della biblioteca di Aristotele, in vero e proprio naufragio letterario, ed ha comunque fortemente influenzato la conoscenza successiva del pensiero aristotelica, favorendo quella concezione scolastica della sua filosofia di cui parla Werner Jaeger, basata sulla convenzione, già presente nei commentatori più antichi che le opere essoteriche, scritte prevalentemente in forma dialogica, avessero un carattere non scientifico.
E’ però molto difficile pensare che le opere nel periodo dell’Accademia non abbiano avuto una funzione essenziale nella formulazione del pensiero aristotelico. Lo stesso Aristotele, quando nelle opere che ci sono pervenute, rimanda ai discorsi essoterici, sottolinea spesso il carattere esauriente delle argomentazioni ivi contenute. Ma è anche chiaro che dalle opere acroamatiche (le uniche che conserviamo) emerge una nette rottura di Aristotele con la dialettica platonica: una separazione dal maestro, le cui radici però possono affondare nei lunghi anni di frequentazione della scuola platonica e avere trovato espressione già in qualcuno degli scritti essoterici.

 

Il rifiuto della dialettica

La contrapposizione nel dialogo serve a Platone per sottolineare  da un lato il carattere dinamico della ricerca del vero e dall’altro le contraddizioni della realtà, all’interno della quale convivono e sono unificati gli opposti: l’opposizione viene proprio risolta dalla dialettica della partecipazione.
Platone riconduce tutto il reale all’unità del Mondo delle  Idee, esaltando al tempo stesso la molteplicità di quel mondo: con il “parricidio di Parmenide” sembra aver conciliato l’inconciliabile.
Aristotele viene, invece,  elaborando una concezione della realtà in cui l’inconciliabile non può essere conciliato: gli enti più diversi stanno l’uno accanto all’altro in un rapporto armonico, ma non possono negarsi reciprocamente.
Per Platone l’ordine del mondo sensibile è frutto dell’opera del Demiurgo che lo ha modellato a imitazione e somiglianza delle Idee e del mondo sensibile; l’organizzazione razionale del mondo può essere colta immediatamente dalla ragione umana.
Aristotele non mette in discussione al razionalità del mondo, l’identità di razionale e reale, ma, aggiunge,  essa è immediata solamente in Dio: solo il pensiero divino può abbracciare  in una visione d’insieme l’armonia razionale dell’universo.
La realtà del mondo, come si presenta ai sensi e alla mente dell’uomo, non è immediatamente riconducibile all’unità: intorno a noi si manifestano opposizioni reali, non dialettiche. Nell’opposizione tra acqua e fuoco, o l’acqua spegne il fuoco o il fuoco fa evaporare l’acqua: il fuoco non può essere acqua e l’acqua non può essere fuoco. Solo attraverso l’osservazione e la riflessione sui dati e sulle regole che da essa si ricavano è possibile conoscere la realtà, le sue leggi e la conseguente armonia dell’universo.


2 L’ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE
La filosofia - come abbiamo detto più volte – nasce dall’esigenza di conoscere il Tutto, ma il Tutto, fino ad Aristotele, era considerato un’unità, che eventualmente, come accade nel pensiero platonico, può assumere in sé la molteplicità; la filosofia, come l’antica sapienza, è l’espressione della totalità del sapere, dell’unità della conoscenza. La conoscenza è una ed è conoscenza di tutto.
Aristotele riconosce che la realtà, il Tutto, si presenta a noi in maniera frammentata: è solo diversificando gli strumenti della conoscenza, dando vita a scienze particolari, che sarà quindi possibile cogliere i diversi aspetti della realtà. Per noi, abituati a confrontarci con una moltitudine di scienze suddivise in discipline sempre più specializzate, la cosa può sembrare ovvia, ma ai suoi tempi, Aristotele opera una vera e propria rivoluzione: il suo grandissimo interesse per la biologia, ad esempio, sarebbe stato impensabile in tutti i filosofi che lo hanno preceduto.
Molte delle sue opere che ci sono pervenute, e che, come abbiamo visto, coincidono con i temi dell’insegnamento del suo Liceo, sono dedicate a quelle che noi oggi chiameremmo “scienze naturali” e affrontano molteplici argomenti, dalla meteorologia all’insonnia.
Ma la conoscenza del Tutto non può nascere solo dallo studio della jusis, intesa come natura sensibile; ad essa si devono aggiungere : la ricerca delle cause prime e dei principi che regolano il Tutto (Aristotele chiama questo settore di ricerca filosofia prima); uno studio che porti alla conoscenza e alla conoscenza e alla pratica del Bene e della giustizia (l’etica); l’analisi delle azioni e dei comportamenti degli uomini nella loro vita sociale (la politica); lo studio delle produzioni umane (la poetica).
Gli aspetti della realtà sono quindi innumerevoli e a ciascuno di essi corrisponde una scienza; ma, a differenza di quanto accade oggi, quando uno studioso si applica a una sola scienza e, ancora di più, a un aspetto particolare di una sola scienza, Aristotele si occupa di tutte le scienze e per ciascuna di esse cerca di individuare il metodo migliore.
Le scienze, prese nel loro insieme (l’enciclopedia delle scienze) forniscono la conoscenza del Tutto, ma perché questa conoscenza sia unitaria e non contraddittoria è necessario che tutte le  scienze abbiano una struttura comune, parlino la  stessa lingua.
Aristotele si impegna anche nella ricerca di questa struttura e di questo linguaggio: il risultato sono le sue opere di logica.

3 LA LOGICA
Gli scritti di logica non precedono cronologicamente le altre opere sistematiche, ma, anche seguendo la disposizione di Andronico da Rodi che li ha posti all’inizio della sua edizione delle opere di Aristotele, riteniamo opportuno esporne preliminarmente il contenuto, perché in essi troviamo la descrizione del metodo che il filosofo segue in qualsiasi tipo di ricerca,  sia essa rivolta agli aspetti particolari del mondo fisico, sia che miri all’individuazione dei principi primi della realtà. Aristotele tratta della logica nelle opere raccolte sotto il nome comune di Organon (strumento) e, per alcuni principi, nella Metafisica.
La logica pone le condizioni della conoscibilità del reale, condizioni cui deve sottostare il soggetto che conosce, sia rispetto a se stesso sia rispetto all’oggetto da conoscere.
La logica garantisce la conoscenza del reale attraverso la dimostrazione della veridicità delle singole asserzioni. All’intuizione platonica della Verità si sostituisce la dimostrazione: con Aristotele il mito è definitivamente bandito dalla filosofia.

 

I principi della logica aristotelica

Quelli che la storia della filosofia tramanda come principi fondamentali della logica aristotelica sono impliciti in tutte le opere raccolte nell’Organon, ma trovano una formulazione esplicita anche nella Metafisica.
L’Essere è, il Non - essere non è. Aristotele accetta pienamente l’antico principio di Parmenide: a uno stesso soggetto non si possono attribuire due predicati contrari. Questo è il principio di non contraddizione che si può formulare anche come A non è non – A. Se attribuisco a uno stesso soggetto due predicati opposti (A è A, A è non – A) una delle due affermazioni è sicuramente falsa. Aristotele scrive: “è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e nella medesima relazione. […] E’ impossibile, infatti, supporre che la medesima cosa sia e non sia”.
Il principio del terzo escluso afferma che dato un soggetto e attribuito ad esso un predicato, questo, rispetto al soggetto, può essere solo affermato o negato; non esiste una terza possibilità, tertium non datur. Aristotele scrive: “Ma non è neppure possibile che ci sia qualcosa di intermedio tra due enunciati contrari, bensì di un’unica cosa è necessario affermare o negare un unico predicato, qualunque esso sia”.
Nella tradizione dei manuali è indicato anche un terzo principio che Aristotele non formula mai in maniera esplicita, ma che si ricava abbastanza facilmente da quanto egli afferma, confutando gli errori di chi nega il principio di non contraddizione. Ogni ente è identico solo a se stesso. Questo principio espresso nella formula A = A, è alla base di ogni linguaggio: è necessario infatti che una parola significhi sempre la stessa cosa. Ogni termine - scrive Aristotele -  ha un suo significato e un solo significato.

 

La logica della proposizione

Quando parliamo emettiamo suoni dotati di senso; alcune di questi suoni sono espressioni semplici o elementari, non possono cioè essere scomposti senza perdere senso o significato. I nomi,come  uomo, sono un esempio di queste espressioni. Esistono inoltre espressioni complesse, ognuna delle quali non è un accostamento di espressioni semplici, ma un insieme unificato, come quando diciamo, ad esempio, l’uomo corre. Un’espressione complessa è una proposizione.
Per una vera proposizione, cioè un discorso dichiarativo (apofantico), è sempre necessario un verbo in grado di produrre  una asserzione che può essere dichiarata vera o falsa. Questi sono gli unici discorsi che interessano Aristotele e la sua logica. Ce ne sono alcune che non sono vere proposizioni, come i desideri e le preghiere, perché non possono essere veri  o falsi.
Nella proposizione il verbo mette in relazione un soggetto con un predicato: ha la duplice funzione di predicare qualcosa di un soggetto, cioè di fornirgli un predicato, e di assicurare il legame tra i due. Per mettere in evidenza questa doppia funzione del verbo, Aristotele consiglia di  scomporlo sempre in copula e predicato: le espressioni l’uomo passeggia e l’uomo è passeggiante  hanno lo stesso identico significato, ma nella seconda è messa in evidenza la struttura della proposizione (soggetto, copula e predicato). Quindi tutte le proposizioni di cui si interessa la logica possono essere ridotte alla formula, usata da Medioevo in poi, S è P (Soggetto + è + Predicato).
Ma, sostiene Aristotele, esistono diversi modi di predicare (in greco kategorein), cioè di mettere in relazione soggetto e predicato, ed elenca dieci di questi modi, appunto le dieci categorie: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, essere in relazione, avere, agire, patire.
Lo stesso Aristotele fornisce esempi molto chiari: “Orbene, per esprimerci concretamente, sostanza è, ad esempio uomo, cavallo; quantità è lunghezza dei due cubiti,  lunghezza di tre cubiti; qualità è bianco, grammatico; relazione è doppio, maggiore; luogo è nel Liceo, in piazza; tempo è ieri, l’anno scorso; essere in una situazione è si trova disteso, sta seduto; avere è porta le scarpe, si è armato; agire è tagliare, bruciare; patire è venir tagliato, venir bruciato”.
Definendo le caratteristiche della proposizione, cioè di un discorso che asserisce qualcosa, e, quindi, i vari modi in cui questo discorso si può presentare, Aristotele fornisce uno strumento essenziale per rispondere all’istanza originaria della filosofia: scoprire, conoscere la Verità. La nostra conoscenza si manifesta attraverso le proposizioni del tipo S è P, che si possono riferirsi sia ai dati immediati e sensibili come questo vino è dolce sia alle affermazioni più astratte e universali come l’Essere è uno e immutabile.
La via per la ricerca della Verità parte, quindi, dalla possibilità di sapere se ciascuna proposizione e vera o falsa.
Le proposizioni sono di due specie: affermazione (apòphansis) e negazione (katàphasis), che si escludono a vicenda.
Aristotele, oltre alla diversificazione fondamentale S è P attraverso le categorie, cioè in riferimento al tipo di relazione che il verbo stabilisce tra soggetto e predicato, indica altre differenze che emergono tra le proposizioni se ci si riferisce al soggetto, che può universali (tutti, nessuno) o particolari (qualcuno). Inoltre ciascuna proposizione – come abbiamo visto – può essere affermativa o negativa.
Dalla combinazione di questa quattro possibilità risultano quattro tipi di proposizioni, che i logici medievali sintetizzano nella seguente tabella:

               A ­­– Universale affermativa: ad esempio, ogni uomo è giusto.

 

               E – Universale negativa: ad esempio, nessun uomo è giusto.

                       I – Particolare affermativa: ad esempio, qualche uomo è giusto.
O – Particolare negativa: ad esempio, qualche uomo non è giusto.

Per concludere il discorso sulle proposizioni resta da vedere quali possono essere le relazioni delle proposizioni tra loro, cioè come è regolata la loro opposizione.
Nelle Categorie Aristotele analizza l’opposizione relativa ai termini.
Nel De interpretatione estende l’analisi dell’opposizione alla proposizione, ricavandone le possibili situazioni. L’interpretazione del passo non è semplice, può quindi essere utile ricorrere alla schematizzazione del cosiddetto Quadrato di Psello (o “quadrato dell’opposizione), dal quale risulta che due proposizioni opposte possono essere contrarie, contraddittorie, subcontrarie e subalterne.
Le contrarie e le contraddittorie non possono essere entrambe vere, ma mentre le contrarie possono essere entrambe false, per le contraddittorie vale il principio del terzo escluso: una deve essere necessariamente vera e l’altra necessariamente falsa.
Le subalterne possono essere entrambe vere o entrambe false.
Le subcontrarie possono essere entrambe vere, ma non entrambe false.
Una volta in possesso degli strumenti per giudicare la veridicità e la falsità delle proposizioni, si può rendere in esame l’insieme di più proposizioni che costituisce il ragionamento.

 

                        


Induzione e deduzione

 

Il ragionamento è una concatenazione di proposizioni attraverso la quale, partendo da alcune premesse, è possibile arrivare a una conclusione: “i felini sono carnivori, il gatto è un felino, il gatto è un carnivoro”, oppure, “il mio gatto è carnivoro, il tuo gatto è carnivoro, il gatto di Aristotele è carnivoro, i gatti (cioè il genere gatto) sono carnivori”.
Questi due tipi di ragionamento seguono procedimenti completamente diversi: nel primo caso la premessa è di tipo generale  e le conclusioni sono di tipo particolare; nel secondo la premessa è particolare e le conclusioni sono di tipo generale (rispetto alla premessa).
Il processo che va dal generale al particolare prende il nome di deduzione, mentre quello che va dal particolare al generale si chiama induzione.

La logica del ragionamento
Al centro dell’analisi del ragionamento troviamo la struttura forse più nota della logica aristotelica, il sillogismo.
Come per la proposizione, il ragionamento che interessa maggiormente ad Aristotele è il ragionamento dimostrativo, in grado di produrre asserzioni che possono essere dichiarate vere o false.
Il sillogismo è il procedimento attraverso il quale si realizza la dimostrazione, si garantisce cioè la verità delle conclusioni.
Il sillogismo è un tipico ragionamento deduttivo; è costituito da due premesse (una maggiore e una minore) e da una conclusione. Le premesse hanno un termine comune detto termine medio che consente di legarle tra loro e di collegare la premessa maggiore alla conclusione. Negli Analitici primi Aristotele sintetizza così la struttura del sillogismo: “se A è predicato di ogni B, e se B è predicato di ogni C, necessariamente A sarà predicato di ogni C”. Un esempio chiarificatore è fornito dallo stesso Aristotele: “Poniamo che A indichi caduta delle foglie, che B indichi possesso di foglie larghe, che C indichi vite. In tal caso, se A appartiene a B (tutte le piante che hanno le foglie larghe perdono infatti le foglie), e se B appartiene a C (dato che ogni vite ha le foglie larghe), senza dubbio A appartiene a C, ossia ogni vite perde le foglie. Il medio B è la causa”.
La validità del sillogismo, cioè di un ragionamento, dipende dalla correttezza del suo procedimento, ma la validità del ragionamento non comporta necessariamente la verità delle conclusioni, che dipende in maniera determinata dal valore di verità delle premesse.
Proprio partendo dal valore di verità delle premesse (e quindi dalla possibilità di stabilire la verità delle conclusioni) Aristotele, nei Topici, suddivide i sillogismi in tre varietà: dimostrativi, dialettici, eristici.
Ma quando, negli Analitici, espone la struttura del sillogismo, egli tralascia questa tripartizione e mette in evidenza il carattere formale del procedimento, la cui correttezza può essere stabilita a prescindere dal contenuto: se tre proposizioni, qualunque esse siano, sono collegate tra loro secondo la regola del sillogismo, il ragionamento è corretto.
Dopo aver isolato l’aspetto formale del pensiero attraverso l’individuazione delle condizioni che rendono valido un ragionamento, vediamo che, anche per Aristotele, Vero e Reale sono inseparabili: il sapere, cioè la conoscenza della Verità, si raggiunge attraverso un ragionamento formalmente corretto, il sillogismo, applicato a contenuti reali.
La formulazione formale del sillogismo diventa strumento di conoscenza quando ai simboli A,B e C si sostituiscono i termini delle proposizioni. A questo punto è necessario che le proposizioni che costituiscono le premesse siano vere e per Aristotele si pone il problema di stabilire che, ad esempio, la proposizione “tutto ciò che ha le foglie larghe perde le foglie” è vera. In altri termini, il problema è quello di costruire le premesse.
La verità delle premesse di un sillogismo non può essere raggiunta attraverso il metodo sillogistico, deduttivo, perché ciò darebbe vita a un circolo vizioso. Se la verità delle conclusioni di un sillogismo è frutto di una dimostrazione, quella delle sue premesse non può essere dimostrata. Non resta che la via del ragionamento induttivo: le premesse del sillogismo sono giustificate dall’induzione e quindi dall’esperienza sensibile.
L’induzione (epagoghè) è tipica del sapere empirico, che trae conclusioni o formula ipotesi generali da una serie di osservazioni ed esperienze sensibili particolari: è il procedimento usato dalla medicina, dalla biologia, dalle scienze naturali in genere, destinate ad applicazioni pratiche.
Induzione e deduzione, entrambe essenziali, concorrono alla formazione della conoscenza: noi impariamo “o per induzione o mediante dimostrazione” – scrive Aristotele – e senza le sensazioni, dalle quali parte l’induzione, è impossibile qualsiasi scienza.
L’induzione per essere formalmente valida deve derivare da una enumerazione completa, ma essa realizzabile solo per gruppi limitati di oggetti, quelli che Aristotele chiama generi; non lo è invece per gruppi il cui numero di oggetti sia illimitato e che Aristotele chiama specie.la verità delle premesse di un sillogismo non può essere garantita quindi esclusivamente dall’induzione.
A questo punto Aristotele introduce un nuovo strumento della conoscenza, l’intuizione intellettuale, destinato a fare da ponte tra i limiti dell’esperienza sensibile, base dell’induzione, e il carattere universale e necessario delle premesse da cui parte la deduzione.
Anche senza una enumerazione completa, attraverso l’analisi di un numero limitato di oggetti, l’intelligenza (nòesis) riesce  ad astrarre e intuire l’essenza di quegli oggetti, l’universale. Attraverso questo processo possiamo cogliere l’universale: quando mi viene incontro Callia – scrive Aristotele – io percepisco l’oggetto singolo, l’uomo Callia, ma la sensazione può volgersi all’universale, per cui io intuisco l’uomo.

 

L’importanza della logica aristotelica

 

La logica di Aristotele, che egli chiama analitica, assolve a due funzioni essenziali:

  • studia e descrive in maniera analitica le operazioni formali de pensiero e del linguaggio (che per Aristotele sostanzialmente coincidono) e quindi pone le condizioni per la conoscenza del Vero. Sotto questo aspetto è stata riconosciuta valida fino al XIX secolo;
  • rappresenta il linguaggio comune a tutte le scienze, quindi è strumento di unificazione del sapere: scienza senza un oggetto proprio, ha per oggetto tutte le scienze. In questo senso la logica di Aristotele non ha una carattere puramente formale, ma entra in rapporto con il reale e contribuisce a svelarne la struttura razionale.

L’episème, la conoscenza di ciò che permane, trova nella logica aristotelica uno strumento formidabile per affermarsi.

4 LA NATURA: LA FISICA, LA BIOLOGIA E LA PSICOLOGIA
La conoscenza è un processo complesso che nasce da un movimento ascendente (l’induzione) e da uno discendente (la dimostrazione, o deduzione o inferenza); tra loro però resta una sorta di vuoto, dal momento che l’induzione non può garantire in maniera assoluta la verità delle affermazioni universali, che costituiscono le premesse da cui parte il procedimento deduttivo. Aristotele pensa di superare questo vuoto con un “salto” (l’astrazione e l’intuizione intellettuale) che lega tra loro i due movimenti. Un modo, questo, per legare il mondo del divenire al mondo dell’Essere e fare così di Essere e divenire una sola realtà. Non trattandosi certamente di un legame “forte” e incontrovertibile, nella storia della filosofia successiva, anche e soprattutto nell’aristotelismo, esso è stato spesso trascurato o dimenticato, e ha fatto sì che la natura, il mondo del divenire e dei dati sensibili, il terreno proprio dell’induzione, si sia trovato spesso a perdere ogni legame con il mondo dell’Essere, che tornava in tal modo  a contrapporsi ad esso.
Per Aristotele, invece, quel ponte gettato tra il mondo della materia e quello dello spirito impone lo studio accurato del mondo sensibile, perché non può esistere scienza senza la sensazione.

La natura
La natura si caratterizza per il movimento: essa è il mondo del divenire, della generazione. Quando si studia la natura “non vale la pena di demolire ogni dottrina” che si è occupata di essa, come l’identificazione parmenidea della natura con il Non-essere o il pluralismo atomico di Democrito: lo studio della natura può, in quanto tale, prescindere dallo studio dei principi primi e limitarsi all’analisi di ciò che è intrinseco alla natura stessa, il movimento.

La fisica
La fisica è lo studio del movimento in quanto caratteristica essenziale della natura (physis).
Il movimento (o moto) di cui si occupa Aristotele va inteso in una accezione più vasta di quella usata dalla fisica moderna: esso è riconducibile al concetto stesso del divenire. Per Aristotele sono in movimento tutte le trasformazioni della natura: un seme che diventa pianta, come un sasso che rotola giù per un pendio.
Tutte le cose della natura hanno in sé “il principio del movimento e della quiete, alcune rispetto al luogo, altre rispetto all’accrescimento e alla diminuzione, altre rispetto all’alterazione”. Le cose artificiali (ad esempio un letto o un mantello) non hanno in se alcuna tendenza alla trasformazione: esse cambiano solo in quanto sono di legno, di lana, o di altri elementi naturali.

Fonte: http://riappunti.net/filosofia/aristotele/ARISTOTELE_2.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

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