Parafrasi purgatorio

 

 

 

Parafrasi purgatorio

 

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Parafrasi Purgatorio – Canto I

 

La navicella dei mio ingegno, che lascia dietro di sé un mare così tempestoso (l'inferno), si prepara a una materia più serena (il purgatorio);

e canterò del secondo regno (dell'oltretomba) nel quale l'anima umana si purifica e diviene degna di salire al cielo.

Ma qui la poesia, che ha avuto finora per argomento la morte spirituale (dei dannati), riviva (trattando della vita spirituale di coloro che raggiungeranno la beatitudine), o sante Muse, poiché a voi ho consacrato la mia vita; e a questo punto si levi più alta la voce di Calliope (la maggiore delle nove Muse, rìtenuta dagli antichi l'ispiratrice della poesia epica; il nome, etimologicamente, significa « dalla bella voce »),

accompagnando il mio canto con quella melodia della quale le sciagurate figlie di Pierio, poi trasformate in gazze, avvertirono la superiorità a tal punto che disperarono di sottrarsi alla punizione che le attendeva.

Narra Ovidio (Metamorfosi V, versi 300 sgg.) che, avendo le figlie del re Pierio osato sfidare le Muse nel canto, furono sconfitte da Calliope e trasformate in piche. Anche nel Purgatorio Dante fa grande uso dei miti dell'antichità classica. Osserva il D'Ovidio: "nel simbolismo, che permetteva di veder sotto a quei fantasmi una verità leggiadramente velata, egli acquetava la sua coscienza di cristiano; e accarezzava con il immaginazione compiacente le belle favole, alle quali come poeta e come studioso dell'antichità teneva assai".
Nell'esordio del Purgatorio il Raimondi nota che il discorso del Poeta corre su un pìano retorico e su uno morale. " Il mar crudele che ci lasciamo dietro, non è soltanto il mare delle rime aspre e chiocce, il pelago della poesia di cui si parlerà più tardi nel Paradiso; ma è insieme l'acqua perigliosa che s'era intravista attraverso una comparazione nel primo canto dell'Inferno: ossia, come spiega il Convivio, il « mare di questa vita» che ogni cristiano ha da percorrere per giungere al suo «porto ». Ed è poi ancora lo stesso mare a cui pensa il lettore della Bibbia, ogni volta che ricorda la vicenda degli Ebrei fuggiti dall'Egitto: un mare-simbolo, che si converte in certezza di acque migliori, perché prefigura, come mistero della fede, l'idea del battesimo e, a un tempo, quella della vittoria di Cristo sulla morte."
Per quel che riguarda la tonalità di questo proemio, in esso si preannunciano quell'euritmia e quella delicatezza di sfumature che saranno caratteristici del canto. "La stessa proposizione ha un accento riposato e fidente, piuttosto che squillante: né inganni la lieve impennata, piuttosto verbale ed apparente che reale, dell'«alzar le vele», giacché essa sta come espressione asseverativa e non ortativa o iussiva... Non dice: tu, o ingegno, alza le vele, ma semplicemente: la navicella del mio ingegno alza le vele per correre ora acque più pacate e tranquille, quella navicella che lascia dietro di sé il mare crudele dell'inferno. Era mare, ed ora son solo acque; era vasto pelago, ed ora è navigazione per acque più chiuse e quiete." (Sansone)


Un tenero colore di zaffiro orientale (la più pura e splendente fra le varie qualità di zaffiri, secondo quanto attestano i Lapidari medievali), contenuto nella limpida atmosfera, pura fino al cerchio dell'orizzonte,

procurò nuovamente gioia ai miei occhi, appena uscii dall'aria infernale, che aveva rattristato la mia vista e il mio animo.

Per un poeta romantico come il Coleridge il cielo assumeva l'aspetto delI' "interno di un bacino di zaffiro". Dante è assai più preciso nel determinare le sue sensazioni; le sue metafore, pur radicate in un fondo analogico, non sono mai considerate in se stesse, in quanto pure intuizioni, attimi di felice contatto con una realtà più ricca dì quella che il linguaggio comune ci offre, ma si ordinano in una gerarchia razionale di significati. L'immagine del Coleridge può servire "a mostrare per contrasto come in Dante la gioia della scoperta sensitiva sia subito controllata dall'intelligenza: nella terzina, a parte il contrappunto allusivo-simbolico dello sfondo, interviene infatti, quasi a frenare ogni suggestione pittorica, il gusto didascalico della descriptio temporis con i tecnicismi di aspetto del mezzo e primo giro in corrispondenza di aggettivi affettivi come sereno e puro (Raimondi).

Venere, il bel pianeta che predispone all'amore, faceva gioire tutta la parte orientale del cielo, attenuando con la sua luce quella della costellazione dei Pesci, con la quale si trovava in congiunzione.

L'accenno al pianeta Venere, attraverso qualificazioni (bel... rider) che si riferiscono direttamente alla dea della bellezza e dell'amore, ha un significato allegorico, per cui l'amore paganamente celebrato dai poeti dell'antichità classica viene interpretato come una semplice, imperfetta prefigurazione dell'unico amore degno di questo nome: la carità cristiana. Nel Convivio (Il, V, 13) è detto: "...ragionevole è credere che li movitori... [del cielo] di Venere siano li Troni; li quali ... fanno la loro operazione, connaturale ad essi, cioè lo movimento di quello cielo, pieno di amore, dal quale prende la forma del detto cielo uno ardore virtuoso per lo quale le anime di qua giuso s'accendono ad amore, secondo la loro disposizione".

Mi volsi a destra, e diressi la mia attenzione al polo australe, e vidi quattro stelle che soltanto i primi uomini (Adamo ed Eva) videro.

Il cielo sembrava gioire delle loro luci intensissime: o luogo settentrionale spoglio, dal momento che ti è preclusa la possibilità di vederle!

Le quattro stelle splendenti nel cielo australe e che solo Adamo ed Eva, prima della loro cacciata dal paradiso terrestre (situato, per Dante, sulla sommità del monte del purgatorio) poterono vedere, simboleggiano le quattro virtù cardinali. Questo simbolo deve essere interpretato - secondo quanto scrive, sulla base di alcune osservazioni del Singleton, il Raimondi - nel senso che Dante rimpiange (oh settentrional vedovo sito) "una perdita irrimediabile, iscritta per sempre nella storia dell'uomo, per cui nessuno potrà mai far ritorno al paradiso terrestre con la stessa innocenza e la giustizia onde Dio aveva fatto dono nella persona di Adamo alla natura umana". Questo rimpianto "si colora di tristezza... e reca in sé, al fondo, la mestizia della condizione umana, della nostra umanità postedenica, necessariamente affaticata e corrotta, fuori per sempre della dolcissima felicità dell'innocenza.
Ed è perciò che il simbolo... trapassa in accenti umani che hanno la vibrazione della poesia" (Sansone).


Appena mi fui distolto dal guardarle, volgendomi un poco verso il polo boreale. nel quale l'Orsa Maggiore non era più visibile,

vidi vicino a me, solo, un vecchio, degno nell'aspetto di una riverenza tale, che nessun figlio è tenuto ad una riverenza maggiore verso suo padre.

Portava la barba lunga e brizzolata, simile ai suoi capelli, dei quali due ciocche scendevano sul petto.

A tal punto i raggi delle quattro stelle sante ornavano di luce il suo volto, che io lo vedevo (illuminato) come se davanti a lui ci fosse il sole.

Il veglio, sul cui volto convergono, quasi isolandolo "in una sacra oasi di luce". (Momigliano) i raggi delle quattro stelle che adornano e rendono santo il cielo australe, è Marco Porcio Catone Uticense (95-46 a. C.), strenuo difensore della libertà e delle istituzioni repubblicane in un periodo in cui, attraverso lotte sanguinose, maturavano in Roma quelle nuove forme di governo, imposte con la forza e basate sull'accentramento di tutti i poteri nelle mani di un singolo, che avrebbero condotto, con Augusto, all'impero. Si oppose in gioventù alla dittatura di Silla, poi, insieme con Cicerone, al tentativo eversore di Catilina; denunciò i pericoli insiti in una forma di governo, quale il primo triumvirato, tendente a sovrapporsi alle magistrature della repubblica. Nella guerra civile tra Cesare e Pompeo fu seguace di questo ultimo. Dopo la morte di Pompeo comandò un esercito di anticesariani in Africa. Sconfitto ad Utica, si diede la morte per non cadere prigioniero di Cesare e per non sopravvivere al crollo della libertà repubblicana.
Dopo avere, nel Convivio (IV, XXVIII, 15-19) e nella Monarchia (II, V, 15), manifestato la sua ammirazione per Catone, Dante pone questo pagano, suicida ed avversario dell'idea imperiale, quale custode del purgatorio, tra le anime alle quali è assicurata la beatitudine. Osserva l'Auerbach che questo avviene perché la "storia dì Catone è isolata dal suo contesto politico-terreno... ed è diventata figura futurorum [simbolo di cose future]. Catone è una « figura », o piuttosto era tale il Catone terreno, che a Utica rinunciò alla vita per la libertà, e il Catone che qui appare nel purgatorio è la figura svelata o adempiuta, la verità dì quell'avvenimento figurale. Infattì la libertà politica e terrena per cui è morto era soltanto umbra futurorum: una prefigurazione di quella libertà cristiana che ora egli è chiamato a custodire". Nel personaggio di Catone - scrive il De Sanctis - "vi è il savio antico, e qualche altra cosa ancora; il savio cristianizzato, sulla cui fronte il poeta ha versato l'acqua battesimale della nuova religione... Vi è dunque in quell'aspetto iI savio antico, ma qualche altra cosa ancora; vi è il paradiso, la grazia illuminante, le quattro mistiche stelle dei purgatorio, che comunicano splendore e vita alla calma de' suoi lineamenti, e lo fanno parere un sole". 
Già in Lucano, la fonte alla quale Dante ha maggiormente attinto per delineare i tratti fisici e morali del personaggio di Catone, la figura di questo seguace della dottrina stoica appare permeata di un sentire religioso in cui sono come presagiti alcuni dei più sublimi temi del messaggio cristiano. Nel momento in cui decide di prendere parte alla guerra civile, l'eroe di Lucano (Farsaglia II, versi 306-313) esclama: "E così piacesse agli dei del cielo e dell'inferno che sul mio capo si potesser raccogliere tutte le espiazioni. E, nuovo Decio, cadessi trafitto da ambe le schiere, ed io trapassato da tutte le aste stessi in mezzo a ricevere le ferite di tutta la guerra; e questo sangue redimesse i popoli, e questa morte redimesse tutte le corruttele romane" (traduzione del D'Ovidio). E quando il suo luogotenente Labieno lo esorta ad interrogare l'oracolo di Giove Ammone, Catone risponde che Dio non ha scelto le sterìli sabbie del deserto africano "per ricantare il vero a pochi, né lo ha sommerso in questa polvere. C'è forse una sede di Dio, fuorché la terra e il mare e l'aria e il cielo e la virtù ?... Giove è tutto quanto tu vedi, dovunque ti muovi".


«Chi siete voi, che seguendo una direzione opposta a quella del fiume sotterraneo (il ruscelletto di cui al verso 130 dei canto XXXIV dell'Inferno) siete evasi dal carcere eterno (l'inferno)?» disse, muovendo la sua veneranda barba.

« Chi vì ha fatto da guida ? o che cosa vi ha rischiarato il cammino, mentre uscivate dalle tenebre profonde che rendono sempre nera la voragine infernale?

A tal punto sono violate le leggi dell'inferno ? o in cielo é stato fatto un nuovo decreto, per cui, pur essendo dannati, giungete alla montagna da me custodita ? »

Nelle domande che Catone rivolge ai due pellegrini è stata indicata una espressione di sdegno (Scartazzini), di sbigottimento (Grabher), di stupore (Fassò). Il Mattalia scorge in Catone i "trattí psicologici del duro legalitatario, del sospettoso (non vogliamo proprio dir burocratico) custode del Regolamento". Simili caratterizzazioni tuttavia, per eccesso di realismo psicologico, non rendono conto della maestà della figura di Catone, dell'aura di miracolo che la circonda, del sovrannaturale che in essa si incarna. Rileva opportunamente il Sansone che "al fondo del suo domandare c'è il presentimento di qualcosa di provvidenziale che regga il viaggio dei due pellegrini", mentre il Raimondi, analizzando i versi 40-48, osserva: "Sono tutte domande le sue, come di persona sorpresa che voglia sapere e incalzi I'interlocutore; ma la didascalia delle piume oneste, che interrompe il discorso diretto quasi per indicare il tono della scena con un lontano riferimento, forse, alle lanose gote di Caronte, e più ancora le formule numinose e le antitesi gravi che affollano la sua apostrofe (da lucerna a profonda notte, da valle inferna a leggi d'abisso, da novo consiglio a dannati, venite alle mie grotte) rivelano che, interrogando Virgilio, Catone non mira a informarsi, quanto a provocare in chi gli sta davanti una presa di posizione che deve poi valere, in fondo, come una specie di abiura, di decisa rinunzia".

Virgilio allora mi afferrò,e mi fece inginocchiare e abbassare gli occhi in segno di riverenza, incitandomi a ciò con parole e con l'atto delle sue mani e con segni.

Poi gli rispose: « Non sono arrivato di mia iniziativa: scese dal cielo una donna (Beatrice), grazie alle cui preghiere soccorsi costui con la mia compagnia.

Ma poiché è tuo desiderio che la nostra condizione, quale essa è veramente, ti venga maggiormente chiarita, non può essere mio desiderio che questo (chiarimento) ti sia negato.

Costui non vide mai la morte (Sia quella corporale che quella spirituale; non morì cioè e non è dannato); ma a causa dei suoi peccati fu così vicino alla morte spirituale, che pochissimo tempo sarebbe dovuto trascorrere (perché egli la vedesse).

Come ti ho detto, fui inviato da lui per salvarlo; e non era possibile percorrere altra vìa che questa per la quale mi sono incamminato.

Gli ho mostrato tutti i dannati; ed ora intendo mostrargli quelle anime che si purificano sotto la tua giurisdizione.

Lungo sarebbe riferirti come l'ho portato fin qui: dal cielo scende una forza che mi aiuta a guidarlo per vederti e per ascoltarti.

Voglia tu dunque considerare benevolmente il suo arrivo: egli va in cerca della libertà, che è tanto preziosa, come sa colui che per essa rifiuta di vivere.

Tu lo sai, poiché in suo nome (per lei: la libertà) non fu per te dolorosa la morte a Utica, dove lasciasti il tuo corpo che il giorno della risurrezione dei morti risplenderà (con l'anima) di tanta gloria.


Nota finemente il Momigliano che nella terzina 73 "il discorso di Virgilio si accende e si fa, per un momento, inno: e l'inno si corona con la fiammeggiante immagine dì Catone splendente di gloria nel giorno della resurrezione, quando le anime riprendono il loro corpo (la vesta) : bastano a quest'apoteosi due parole: al gran dì, sì chiara".

Le leggi di Dio non sono state violate da noi; poiché costui è vivo, ed io non sono un dannato, assegnato a Minosse (e Minòs me non lega. la giurisdizione di Minosse inizia con il secondo cerchio dell'inferno; cfr. Inferno V, 4-15); ma provengo dal limbo, dove sono gli occhi pudichi

della tua Marzia, che nel sembiante ancora ti prega, o animo venerabile, che tu la consideri tua: per l'amore che ella ti porta accondiscendi dunque alla nostra richiesta.

Marzia, moglie di Catone e poi di Quinto Ortensio, dopo la morte di questi si rimaritò con Catone. Nel Convivio (IV, XXVIII, 13-19) Dante interpreta allegoricamente il ritorno di Marzia al suo primo marito, scorgendo in esso adombrato il ritorno dell'anima a Dio nel periodo della vecchiaia. Improntate a profondo affetto sono le parole che Dante fa rivolgere da Marzia al suo primo marito: "« Dammi li patti de li antichi letti, dammi lo nome solo del maritaggio »; che è a dire che la nobile anima dice a Dio: « Dammi, Signor mio, omai lo riposo di te; dammi, almeno, che io in questa tanta vita sia chiamata tua ». E dice Marzia: « Due ragioni mi muovono a dire questo: l'una si è che dopo me si dica ch'io sia morta moglie di Catone; l'altra, che dopo me si dica che tu non mi scacciasti, ma di buono animo mi maritasti »".

Lasciaci andare per i sette gironi del tuo dominio (il purgatorio): riferirò a lei, nei tuoi riguardi, cose gradite, se hai piacere di essere nominato laggiù».

Come quello di Catone, anche l'atteggiamento di Virgilio in questo episodio è stato generalmente interpretato su un piano angustamente psicologico, senza tener conto della dimensione allegorico-figurale che in esso si esprime. Il D'Ovidio è giunto addirittura a vedere in esso, con alquanto discutibile gusto, quello di "una buona istitutrice, che guida per mano alla signora incollerita la figlioletta colpevole e penitente". E' più che naturale che, considerando l'episodio da un tale punto di vista, sia sfuggito al critico il carattere religioso e rituale che il colloquio tra Catone e Virgilio riveste. Nel turbamento di Virgilio - osserva il Bigi - "Dante ha voluto significare l'atteggiamento della scienza o ragione umana di fronte alla sopraggiunta consapevolezza della nuova condizione di libertà: un atteggiamento complesso, in cui la sicurezza di possedere l'autorizzazione teologica per poter affrontare l'alto compito che attende l'anima penitente, non esclude il tentativo di ricorrere anche ai nobili ma qui inadeguati mezzi umani della parola ornata e affettuosa. Questo significato di Virgilio (su cui poco o nulla dicono i commentatori moderni) non sfugge ai commentatori antichi: e il Buti, a proposito dell'accenno di Virgilio a Marzia, osserva: "Si può notare che in questo finga l'autore che Virgilio parli a questo modo, per dare ad intendere che la ragione umana non apprende de le cose dell'altra vita se non come pratica in questa de le cose mondane ".

« Marzia mi fu tanto cara (piacque tanto alli occhi miei) mentre fui in vita » disse Catone allora, « che le concessi tutte le cose a lei gradite e da lei desiderate.

Ora che ella risiede al di là dell'Acheronte, non può più influire sul mio volere, in virtù di quella legge (che separa in modo netto gli spiriti dannati da quelli salvati) la quale fu stabilita quando uscii fuori dal limbo (insieme ai patriarchi dell'Antico Testamento; cfr., Inferno IV, versi 53-63).

Ma se una beata ti incita ad andare e ti guida, come tu dici, non occorre che tu mi lusinghi: ti sia sufficiente rivolgermi la tua richiesta in nome suo.

Dunque vai, e fa in modo di cingere costui di un giunco liscio e di lavargli il volto, in modo da cancellare da esso ogni sudiciume;

poiché sarebbe disdicevole, con l'occhio offuscato da qualcosa di torbido, presentarsi davanti al primo esecutore dei decreti di Dio, che è un angelo (di quei di paradiso; si tratta dell'angelo posto a custodia della porta del purgatorio; cfr. Purgatorio canto IX, versi 78 sgg.).

Questa piccola isola, nella sua parte più bassa, sulla spiaggia percossa dalle onde, è coperta tutt'intorno sull'umida sabbia da giunchi:

nessun'altra pianta, di quelle che portano rami con foglie o diventano rigide, può vivervi, poiché non asseconda (flettendosi) i colpi (delle onde).

Il vostro ritorno non avvenga poi da questa parte; il sole, che sta per sorgere, vi indicherà da che parte affrontare più agevolmente la salita del monte. »

Gran parte dei critici hanno veduto in Catone soltanto il guardiano rigoroso ed ìnflessibile, accentuandone indebitamente la severità e la rudezza. Valga per tutti il giudizio del Croce, per il quale Catone è "la figura in cui il Poeta attua uno dei lati del suo ideale etico: la rigida rettitudine, l'adempimento dell'alto dovere, che par che non possa adempiersi, né operare sugli altri affinché a lor volta lo adempiano, senza rivestirsi di una certa asprezza, senza l'abito ritroso e alquanto diffidente di chi vigila sempre su se stesso e sugli altri". Questa interpretazione « laica » del personaggio di Catone non tiene conto del progressivo interiorizzarsi e spiritualizzarsi della sua figura in questo secondo discorso che rivolge ai due pellegrini. Nota il Sansone che nella figura del veglia "la severità e rigidità del filosofo stoico appare attenuata di affettuosità e umana temperanza" e che, per quel che riguarda in particolare la terzina 97, Catone lascia trasparite nelle sue parole "una distanza dalle pure essenze divine, che, quasi Io agguaglia ai suoi due ascoltatori, e che distende ogni tensione e insieme riapre l'atmosfera dell'attesa e del prodigio.
Gli angeli sono quei di paradiso, creature di così alto privilegio che Catone non osa indicarle se non con una perifrasi". Poi, a poco a poco, il suo dire perde ogni residua asprezza: "l'accento è queto e quasi intimo, e la semplicità degli annunzi ribadisce la consuetudine del soprannaturale, nei modi che qui assume la condizione lirica del meraviglioso, cioè non nel rilievo, ma in una sua naturale misura".


Ciò detto si dileguò; ed io mi levai in piedi senza parlare, e mi accostai con tutto il corpo a Virgilio, e rivolsi a lui lo sguardo.

Egli cominciò a parlare: « Segui i miei passi: volgiamoci indietro, poiché da questa parte la pianura scende verso il suo orlo basso (la spiaggia) ».

L'alba trionfava dell'ultima ora della notte (l'ora mattutina è l'ultima delle ore canoniche della notte), la quale le fuggiva dinanzi, in modo che da lontano distinsi il tremolio della luce sul mare.

Più che nelle due altre cantiche, in cui riflette una condizione remota - nell'orrore delle tenebre o nel tripudio di una luce che non tramonta - da quella terrestre, e partecipa, fuori del tempo, di una certa astrazione, il paesaggio del purgatorio appare intimo, vibrante di umana trepidazione, penetrato di spiritualità. Le vicende della luce e del buio, che accompagneranno i due pellegrini nell'ascesa della montagna dell'espiazione, ne interpreteranno gli stati d'animo, ad essi docilmente accordandosi. Qui in particolare il "cielo notturno e sereno che via via si stenebra, è un maestoso e pensoso preludio dell'ascesa purificatrice a cui Dante si prepara" (Momigliano). Nella terzina 115 il gusto prezioso delle personificazioni - per cui l'apparire della luce si configura come una gioiosa vittoria di quest'ultima sulle tenebre debellate e messe in fuga - si risolve sul piano di una impressione direttamente ed intensamente rivissuta dalla memoria: il mare si annuncia di lontano attraverso la mobilità della luce che in esso si specchia. Nel tremolar della marina è la traduzione visiva della fiduciosa trepidazione dei due viandanti, il partecipe, beneaugurante consenso del creato alla speranza che li anima.

Noi avanzavamo nella pianura solitaria come colui che torna alla strada che ha smarrito, il quale ritiene che il suo cammino sia inutile finché non l'abbia ritrovata.

Quando fummo là dove la rugiada resiste, opponendosi, al sole e, per il fatto di essere in una zona dove spira un venticello, evapora poco,

Virgilio posò delicatamente entrambe le mani aperte sulla tenera erba: per cui io, che compresi lo scopo del suo gesto,

gli porsi le guance bagnate di lagrime: su di esse egli fece riapparire interamente quel colore (il mio colorito naturale) che l'inferno aveva occultato (con la sua caligine).

Il combattimento della rugiada col sole ripropone, sul piano di una maggior discrezione, quello trionfale e squillante dell'alba che mette in fuga le tenebre. Qui il calore tarda ad essere vittorioso; la rugiada mantiene intatta la sua freschezza, la sua forza purificatrice, perché Dante possa, con l'aiuto del maestro, detergersi degli orrori della notte trascorsa fra i dannati.

Giungemmo quindi sulla spiaggia deserta, che mai vide solcate le sue acque da qualcuno che sia poi riuscito a tornare indietro (Ulisse infatti, giunto in vista della montagna del purgatorio, naufragò).

Qui mi cinse come Catone aveva voluto: o meraviglia! infatti l'umile giunco ricrebbe tale quale egli l'aveva scelto (cioè schietto, liscio)

immediatamente, nel punto in cui l'aveva strappato.

Il giunco pieghevole e puro simboleggia l'umiltà; il suo istantaneo rinascere la fecondità di questa disposizione dell'animo, per cui un atto d'umiltà non si esaurisce in se stesso, ma dà origine ad altri atti d'umiltà.
Il sovrannaturale, ovunque presente nel canto, e al quale hanno alluso allegorie, simboli, riti, trova, nel miracolo dei giunco che ricresce, la sua conferma esplicita ed inequivocabile.


Fonte: http://digilander.libero.it/vasciarellipc/Parafrasi%20Divina%20Commedia%20(Purgatorio)/Purgatorio%20I.doc

autore non indicato nel documento di origine del testo

 

Canto I

 

Spiaggia del Purgatorio

Protasi e invocazione alle muse (vv.1-12)
Per navigare in acque più tranquille spiega le vele la navicella del mio intelletto, lasciando dietro di sé il mare tempestoso(crudele) [dell’Inferno]; e canterò di quel secondo regno[il Purgatorio], nel quale l’anima umana si purifica e diventa degna di ascendere al Paradiso(ciel).
Ma a questo punto la poesia dei morti risorga, o sante Muse, poiché io sono vostro; e qui Calliope si innalzi alquanto, accompagnando(seguitando) il mio canto con quel suono a causa del quale le misere Piche sentirono un colpo tale che disperarono [di potere ottenere] il perdono.[v.12]

 

     Il cielo dell’Emisfero Antartico (vv.13-27)
Un dolce colore di zaffiro orientale, che si raccoglieva nella calma limpidezza dell’aria(mezzo), pura fino all’orizzonte(primo giro), fece risorgere la gioia(diletto) per i miei occhi, appena(tosto) uscii dall’atmosfera infernale(morta) che mi aveva rattristato la vista(gli occhi) e l’animo.
Il bel pianeta che invita ad amare [Venere], faceva brillare(rider) tutto l’oriente, velando[con la sua luce] la costellazione dei Pesci, che le sorgevano dietro. Io mi volsi a destra e concentrai l’attenzione all’altro polo [antartico], e vidi quattro stelle che nessuno mai vide se non la prima gente [Adamo ed Eva]. Il cielo sembrava gioire della loro luce (fiammelle):oh emisfero settentrionale, mancante (vedovo) di questa luce, da quando sei stato privato della possibilità di vederle! [v.27]
Catone (vv.28-111)
Non appena distolsi lo sguardo dalle quattro stelle(quelle), volgendomi un po’ verso l’emisfero boreale, là dove l’Orsa Maggiore(Carro) era già scomparsa, vidi accanto a me un vecchio(veglio) solitario, degno di così tanta riverenza nell’aspetto(in vista), che maggiore non si deve da nessun figlio al padre. Portava la barba lunga e brizzolata(di pel bianco mista), simile ai suoi capelli, che gli scendevano sino al petto in due ciocche(doppia lista). I raggi delle quattro sante stelle(luci) gli adornavano(fregiavan) il viso della loro luce così tanto che io lo vedevo come se il sole fosse davanti a lui. “Chi siete voi che, attraversando controcorrente il fiume sotterraneo(cieco), siete fuggiti dalla prigione eterna [dell’inferno]?” disse egli, muovendo la veneranda barba (sacre piume). “Chi vi ha guidati, o chi vi ha illuminato(fu lucerna), a venir fuori dalla profonda notte che rende tenebrosa(nera) la valle infernale? Sono state forse(così) infrante(rotte) le leggi dell’inferno(abisso)? Oppure è stato dettato(mutato) in cielo un nuovo decreto(consiglio), in virtù del quale voi, benché dannati, potete giungere alle mie rocce (grotte)? [v.48]
Virgilio allora mi afferrò(mi diè di piglio), e con parole, con gesti(mani) e cenni mi fece abbassare in segno di reverenza(riverenti mi fe’) gli occhi e inginocchiare.
Poi gli rispose: “Non sono venuto qui di mia iniziativa: una donna scese dal cielo, e per le sue preghiere(prieghi) io aiutai costui con la mia compagnia. Ma poiché la tua volontà è che io ti spieghi meglio la verità sulla nostra condizione, non può essere che la mia volontà si neghi a te. Costui non conobbe mai la morte[corporale e spirituale](l’ultima sera) ma per i suoi peccati(follia) le fu così vicino(presso), che gli sarebbe rimasto ben poco tempo. Come ho detto, fui inviato a lui per salvarlo(lui campare); e non c’era altra via che questa per la quale mi sono avviato. Gli ho mostrato tutti i dannati; e ora ho intenzione di mostrargli quelle anime che si purificano sotto la tua custodia(balia). Come l’ho condotto fin qui, sarebbe lungo da spiegare; dall’alto scende una virtù che mi aiuta a condurlo a conoscerti e ad ascoltarti. Perciò ti sia gradito il suo arrivo: egli va cercando la libertà, tanto preziosa, come sa chi rinuncia(rifiuta) alla vita per lei. Lo sai bene tu, perché per lei non ti fu dolorosa(amara) la morte in Utica, dove hai lasciato il tuo corpo(la vesta) che risplenderà di luce il giorno del Giudizio Universale (gran dì). Non sono stati violati(guasti) da noi i decreti celesti, perché costui è ancora vivo e io non dipendo da Minosse; ma risiedo nel cerchio [Limbo] dove ci sono la tua Marzia dagli occhi puri, la quale ancora mostra di pregarti, o santo petto, di considerarla come tua [sposa]: per il suo amore soddisfa dunque il nostro volere. Lasciaci andare per i tuoi sette regni[del Purgatorio]; riferirò a lei cose gradite sul tuo conto, se permetti(degni) di essere ricordato(mentovato) laggiù.[v.84]
“Marzia piacque tanto agli occhi miei finché fui sulla terra”-  disse allora egli - “  che io feci tutte le cose gradite(grazie) che volle da me. Ma ora che si trova al di là dell’Acheronte(mal fiume) non può più commuovermi, a causa di quella legge che venne fatta quando io uscii(fora) dal Limbo. Ma se è una donna del cielo che ti muove e guida(regge), come dici tu, non c’è bisogno(mestier) di lusinghe: basta solo che mi richieda(richegge) in suo nome. Va dunque, e fa in modo di cingere costui con un giunco liscio(schietto) e di lavargli il viso, in modo che cancelli(stinghe) ogni sudiciume; poiché non è conveniente presentarsi dinanzi al primo angelo(ministro), di quelli del Paradiso, con l’occhio offuscato(sorpriso) da qualche caligine(nebbia). Questa isoletta [del Purgatorio] intorno nella sua parte più bassa(ad imo ad  imo), la giù dove è battuta dall’onda, produce(porta) dei giunchi sul molle e fangoso terreno(limo); nessun’altra pianta che mettesse foglie(fronda) o acquistasse un fusto ligneo(indurasse), vi potrebbe vivere, perché non si piega all’impeto(percosse) [delle onde]. Poi non ritornate per questo luogo; il sole, che ormai sta sorgendo, vi mostrerà dove salire(prendere) il monte per una via più agevole(lieve). Così scomparve; io mi rizzai in piedi senza parlare, e mi strinsi(ritrassi) a Virgilio.[v.111]

Rito di umiltà e purificazione (vv.112-136)
Egli cominciò: “Figliolo, segui i miei passi: torniamo indietro, poiché questa pianura di qua scende(dichina) verso la sua parte più bassa.” [v.114]
L’alba vinceva l’ultima ora del mattino, che si dileguava al suo arrivo(innanzi), così che da lontano ravvisai il tremolio del mare. Noi camminavamo per la solitaria pianura, come un uomo che ritorna alla strada smarrita, al quale sembra di procedere(ire) inutilmente fino a che non la raggiunga (ad essa). [v.120]
Quando noi giungemmo là dove la rugiada resiste(pugna) al sole e, perché si trova in un luogo(parte) dove, all’ombra(orezza), evapora(si dirada) poco, Virgilio pose delicatamente tutte e due(ambo) le mani  aperte(sparte)sull’erbetta: ed io, che compresi ciò che egli stava facendo, gli porsi le[mie] guance ancora segnate dalle lacrime(lagrimose): ivi mi rese tutto visibile (discoverto) il naturale(quel) colore [del viso] che la caligine infernale(l’inferno)  aveva nascosto. Giungemmo poi sulla solitaria spiaggia(lito), che non vide mai solcare le sue acque da qualcuno(omo) che poi sia riuscito a ritornare. Qui mi cinse [i fianchi con un giunco], così come piacque a Catone(altrui): oh cosa meravigliosa! Poiché l’umile pianta rinacque immediatamente là dove [Virgilio] la svelse, identica(cotal) a quella(qual) che egli scelse.[v.136]

 

Fonte: http://www.liceoodierna.it/default,htm/PURGATORIO%20PARAFRASI/Canto%20I.doc

 

autore non indicato nel documento di origine del testo

 

Divina commedia Purgatorio Parafrasi

 

Canto III

 

Antipurgatorio - Scomunicati: devono restare fuori dal Purgatorio per un periodo di tempo pari a trenta volte quello che vissero lontani dalla Chiesa.

 

Ripresa del cammino (vv.1-15

      Sebbene (avvegna che)  l’improvvisa(subitana) fuga facesse disperdere quelle anime(color) per la campagna in direzione del monte dove la giustizia di Dio(ragion) ci punisce(fruga) [per purificarci], io mi accostai al mio fedele compagno: e come avrei io potuto procedere(corso) senza di lui? Chi mi avrebbe condotto su per quella montagna? [v.6]
Mi sembrava che si sentisse rimordere(rimorso) dalla sua stessa coscienza(da sé stesso): o coscienza nobile e pura(netta), come un piccolo errore(fallo) è per te un grave rimorso! Quando i suoi piedi abbandonarono la fretta che menoma(dismaga) la dignità ad ogni atto, la mia mente, che prima era raccolta  in un solo pensiero(ristretta), si aprì(rallargò) ad intendere, piena di desiderio [di cose nuove], e drizzai gli occhi al monte(poggio) che [dalle acque] si eleva(dislaga) verso il cielo più alto. [v.15]

I Corpi aerei dei defunti  (vv. 16 - 45)
Dante viene scosso da un improvviso timore, vedendo, davanti a sé, solo l’ombra del proprio corpo. Ma Virgilio gli è vicino; non lo ha abbandonato: essendo puro spirito, lascia passare i raggi del sole, senza proiettare ombra; il suo corpo è sepolto a Napoli; ai morti rimane, misteriosamente, la facoltà di soffrire caldo, gelo e altri tormenti. Così vuole Dio, nei suoi disegni che all’uomo non è dato di svelare. Meglio accettare il dogma, senza indagare, per non finire come Aristotile e Platone nel Limbo!

La scheira degli scomunicati  (vv. 46 -102)
Noi arrivammo intanto ai piedi della montagna: quivi trovammo una roccia tanto ripida(erta) che invano le gambe sarebbero state volenterose di salire(pronte). Tra Lerici e Turbia le rovine più inaccessibili(diserta) e più diroccate(rotta) a paragone di quella roccia(verso di quella) sono una scala comoda e spaziosa. [v.50]
“Ora chissà da quale parte(man) la costa[del monte] si presenta meno ripida(cala)” disse il mio maestro, fermandosi, “ in modo che si possa salire chi non è fornito di ali?”
E mentre egli tenendo gli occhi(viso) rivolti a terra(basso) consultava la sua mente intorno al cammino, ed io guardavo verso l’alto(suso)  intorno alla roccia(sasso), dalla parte sinistra mi apparve una moltitudine(gente) di anime, che muovevano verso di noi i piedi, ma non pareva [che li muovessero], tanto() lentamente si avvicinavano.
“Alza i tuoi occhi, maestro,” dissi “ecco da questa parte, chi ci darà dei consigli, se tu non puoi trovare da te stesso la soluzione”. Allora guardò e con fare spigliato(piglio libero) rispose:”Andiamo verso di loro, poiché esse vengono adagio; e tu, figlio caro, rafforza(ferma) la tua speranza”.
Dopo che noi avemmo fatto circa(i’ dico) mille passi, quella schiera era ancora a una tale distanza quanto è quella necessaria  a un buon tiratore per lanciare un sasso con la mano, quando si appoggiarono(si strinser) tutti contro la superficie rocciosa(duri massi) dall’alta parete e stettero fermi e stretti[fra loro] come sta a guardare  chi  va dubitando. [v.72]
“O morti(finiti) in grazia di Dio(ben), o spiriti già eletti” incominciò[a dire] Virgilio, “per quella pace che io credo sia da voi tutti aspettata, diteci da che parte la montagna è meno ripida(giace), cosicché sia possibile salirla(andare in suso); poiché perdere tempo dispiace maggiormente a chi è saggio(chi più sa)” [v.78]
Come le pecorelle escono dal recinto(chiuso)  per una, per due per tre, e le altre se ne stanno timorose abbassando gli occhi e il muso; e ciò che fa la prima, fanno [anche] le altre andandole addosso  se una si arresta, docili(semplici) e mansuete(quete), e non conoscono il motivo(lo ‘mperchè); così io vidi allora(allotta) muoversi per venire i primi(la testa) di quella schiera(mandra) fortunata, con volti umili(pudica) e movimenti dignitosi(composita). [v.87]
Non appena(come) essi (color) davanti [a loro] videro interrotta(rotta)  per terra alla mia destra la luce[del sole]  in modo che l’ombra si proiettava(era) tra la mia persona(da me) e la roccia(grotta), restarono[stupìti] e indietreggiarono un poco(alquanto), e tutti gli altri che venivano dietro, fecero altrettanto, [pur] non conoscendone la causa. [v.93]
“Senza che voi me lo chiediate, io vi dichiaro(confesso) che costui che voi vedete è un uomo vivo(corpo uman); per questo  la luce del sole per terra è interrotta(fesso). Non vi meravigliate; ma state sicuri(credete) che egli cerca di salire(soverchiar) questa parete con l’aiuto della grazia(non  sanza virtù) che scende dal Cielo”. Così [disse] il maestro; e quella gente eletta(degna) rispose,  facendo segno con i dossi delle mani.“Tornate [indietro] e procedete quindi davanti[a noi]”  [v.102

Manfredi (vv.103-145)
E uno di loro cominciò a dire: “Chiunque tu sia, pur camminando, rivolgi [a me] lo sguardo: cerca di ricordare se mi vedesti mai nel mondo dei vivi(di là)”. Io mi volsi verso di lui e lo guardai fisso: era biondo, bello e di nobile aspetto, ma una ferita(colpo) aveva spaccato uno dei due cigli. 
Quando io ebbi cortesemente negato di averlo mai visto, egli mi disse: “Ora guarda”; e mi mostrò una piaga nella parte superiore(a sommo) del petto. Poi sorridendo disse: “ Io sono Manfredi, nipote dell’imperatrice Costanza; perciò ti prego affinché quando tu ritornerai(riedi) [sulla terra]  tu vada dalla mia bella figlia, madre di signori (onor) di Sicilia e d’Aragona , e le dica il vero, se [nel mondo] si dice altro. [v.117]
Dopo che il mio corpo(persona) fu ferito(rotta) da due colpi(punte) mortali, io, con contrizione(piangendo), mi affidai a Colui che perdona volentieri. I miei peccati furono orribili: ma l’infinità bontà [del Signore] ha braccia così grandi che accoglie(prende) chiunque(ciò che) si rivolge a lei. Se il vescovo(pastor) di Cosenza,  che fu messo da Clemente IV a caccia del mio corpo(di me), avesse allora considerato bene questo aspetto(faccia) [della misericordia] di Dio, le ossa del mio corpo starebbero ancora all’estremità(in co) del ponte, presso Benevento, sotto la custodia di un pesante(grave) mucchio di pietre(mora). Ora la pioggia le bagna e il vento le disperde fuori del regno[che fu mio], nei pressi del Verde (oggi Garigliano), dove egli le trasportò a luci spente. [v.132]
Per la scomunica dei papi(lor) non si perde l’amore eterno [di Dio] a tal punto che non lo si possa riacquistare(tornar), fino a quando la speranza è ancora viva(ha fior del verde). La verità è che chi muore fuori dalla comunità(in contumacia) della Santa Chiesa, anche se si pente all’ultimo momento(al fin), deve stare fuori(in fore) da questa montagna(ripa) [dal Purgatorio], trenta volte il tempo che egli è stato scomunicato(in sua presunzion), se questo decreto[divino] non viene accorciato dalle buone preghiere [dei viventi]. Ora(oggimai) vedi se puoi rendermi felice, rivelando alla mia buona Costanza in quale condizione(come) mi hai visto e anche questo divieto [di entrare nel Purgatorio]; poiché in questo regno(qui) si progredisce molto con le preghiere dei vivi(per quei di là) [v.145]

 

 

Federico, figlio di Costanza e Pietro III d’Aragona, nel 1296 divenne re di Sicilia.

Giacomo, successe al padre Pietro III sul trono d’Aragona.

 

Fonte: http://www.liceoodierna.it/default,htm/PURGATORIO%20PARAFRASI/Canto%20III.doc
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Divina commedia Purgatorio Parafrasi

 

Canto vI

 

Antipurgatorio. Secondo balzo - Spiriti: Negligenti nel pentirsi: Devono restare fuori dal Purgatorio per un periodo di tempo uguale a quello trascorso in vita.

 

Ressa delle anime che invocano suffragi (vv.1-24)
Quando il gioco della zara si divide(si parte), colui che perde resta addolorato, ripetendo le gittate(volte) [dei dadi] e rattristato s’illude di imparare,  la gente tutta se ne va col vincitore(l’altro); chi gli va davanti e chi lo prende di dietro, e chi dal fianco(lato) gli si raccomanda(li si reca a mente): egli non s’arresta, e ascolta(intende) questo e quello;  quello a cui  dà qualcosa(porge man), non si affolla(fa pressa) più; e così si difende dalla calca. In tale condizione mi trovavo io in quella turba numerosa, e rivolgendo il viso a loro, di qua e di là, e promettendo[suffragi] mi liberavo da essa.  [v.10]

     Benincasa da Laterina, Guccio dei Tarlati, Federico Novello, Gano degli Scornigiani, il conte Orso degli Alberti, Pier dalla Broccia, si accalcavano più degli altri. [v.24]

L’efficacia delel preghiere  (vv.25 - 57)
          Appena fui libero da tutte quelle anime(ombre) che pregarono soltanto che i vivi(altri) pregassero [per loro], sì che s’affretti(s’avacci) la loro purificazione(divenir sante), io cominciai [a parlare]: “ Mi pare che tu mi neghi, o mia guida(luce), esplicitamente(espresso) in un passo(alcun testo) [dell’Eneide] che la preghiera(orazion) possa piegare i decreti del cielo; e questa gente prega solo(pur) di questo: la loro speranza(speme) sarebbe dunque vana, o quel che tu hai detto non m’è ben chiaro(manifesto)?” [v.33]
Ed egli [rispose]a me: “La mia scrittura è chiara(piana);  e la speranza di costoro non è fallace (non falla), se si giudica con la mente sgombra da pregiudizi(sana); perché l’altezza(cima) del giudizio [divino]  non s’abbassa(s’avalla) per il fatto che l’ardor di carità(foco d’amor), compia in un solo momento(un punto) quell’espiazione(ciò) che deve soddisfare chi dimora(si stalla) qui [nel Purgatorio]; e là dov’io trattai(fermai) di questo argomento(punto), non si poteva espiare(non s’ammendava) il peccato(difetto) con la preghiera, perché la preghiera era disgiunta dal [vero] Dio. Tuttavia(veramente) non ti fermare davanti a un dubbio(sospetto) così arduo(alto), se non te lo dice quella che sarà(fia) luce tra la verità e il tuo intelletto: non so se intendi; io dico di Beatrice: tu la vedrai ridere felice di sopra, sulla vetta di questo monte[cioè: il Paradiso Terrestre]. [v.48]
Ed io [dissi]: “Signore, andiamo con maggiore fretta, perché io già non m’affatico più come prima, e vedi che il monte(poggio) proietta ormai la sua ombra”. Rispose: “ Noi cammineremo finché durerà il giorno, quanto più possiamo ormai; ma le cose stanno  in altro modo che tu non pensi(stanzi). Prima d’arrivar lassù tu vedrai sorgere il sole(colui) che già si nasconde(si cuopre) dietro il monte(della costa), così tu non rompi i suoi raggi (non fai più ombra come prima). [v.57]

         Sordello (vv. 58- 75)
Ma vedi là un’anima che tutta sola guarda verso di noi: quella ci insegnerà la via più breve(tosta)”. Venimmo a lei: o anima lombarda,  come te ne stavi altera e disdegnosa, e come era lento e dignitoso il movimento dei tuoi occhi! Ella non parlava, ma ci lasciava camminare, soltanto guardando come leone quando si riposa. Solo(pur) Virgilio si recò da lei, pregandola che ci mostrasse la strada(salita) più agevole(miglior); e quella non rispose alla sua domanda, ma ci chiese del nostro paese e della [nostra] vita; e Virgilio incominciava [a dire]: “Mantova…”,  quando l’anima, tutta raccolta(romita) in sé, sorse [dirigendosi] verso di lui dal luogo dove stava prima, dicendo: “O Mantovano, io sono Sordello, della tua terra!; e l’uno abbracciava l’altro.

Compianto sulla condizione dell’Italia (vv. 76- 151)
Ahi Italia serva, luogo(ostello) di dolore, nave senza nocchiero[metaf. : Imperatore] nella gran tempesta, non più signora(donna) di genti(province), ma luogo d’ogni turpitudine(bordello)! Quell’anima nobile[Sordello] fu così svelta (presta), soltanto a sentire il dolce nome(suon) della sua terra, a far festa al suo concittadino in Purgatorio(quivi); mentre(e ora) gli abitanti(vivi) tuoi non stanno in te senza guerra, e a vicenda(l’un l’altro), si dilaniano(si rode) quelli che le stesse mura e lo stesso fossato racchiudono [cioè: vivono nella stessa città].Esamina(cerca) lungo i litorali(prode) delle tue regioni costiere(marine), e poi contempla(guarda) le regioni interne(in seno), se qualche parte di te vive in pace. Che giova perché Giustiniano ti accomodasse la briglia se la sella è vuota? Senza il freno della legge(senz’esso) la vergogna sarebbe(fora) minore. [v.90]
Ahi gente di Chiesa che dovresti essere devota [solo a Dio], e lasciare sedere Cesare sulla sella, se ben comprendi ciò che Dio ti prescrive(ti nota), guarda come questa fiera[l’Italia] è diventata ribelle, perché non è più guidata dagli sproni[dell’Imperatore], dopo che tu prendesti in mano le redini(predella). O Alberto tedesco, che abbandoni l’Italia che è diventata ribelle(indomita) e selvaggia, mentre dovresti  guidarla(inforcar li suoi arcioni), il giusto castigo(iudicio) cada dal cielo(dalle stelle) contro la tua stirpe(sangue) e sia insolito(novo) e chiaro(manifesto), così che il tuo successore[Arrigo VII] ne abbia terrore(temenza)! [v.102]
Perché tu e tuo padre[Rodolfo d’Asburgo] avete sopportato(sofferto),  distolti(distretti) dalla cupidigia egli interessi della Germania(di costà), che il giardino dell’Impero[:l’Italia] restasse abbandonato(diserto). Vieni a vedere le lotte dei Montecchi e dei Cappelletti[di Verona], dei Monaldi e dei Filippeschi[di Orvieto], o uomo incurante: i primi(color) già  abbattuti(tristi), e i secondi col timore(sospetti)! Vieni, o crudele,  vieni , e osserva la condizione umiliata(la pressura) dei tuoi nobili [ghibellini], e provvedi ai loro guasti(magagne); e vedrai Santaflora com’è in decadenza(oscura)!  Vieni a vedere la tua Roma che piange, priva(vedova) [del suo Principe] e sola, e chiama giorno e notte. - Cesare mio, perché non mi guidi(m’accompagne)? - [v.114]
Vieni a vedere la gente quanto si ama! E se non ti spinge nessuna pietà di noi, vieni a vergognarti della tua fama. E se m’è lecito [chiederti] o sommo Giove che sei stato crocifisso per noi sulla Terra, [dimmi] i tuoi occhi giusti sono rivolti altrove? O è preparazione che nell’abisso[insondabile] della tua mente(tuo consiglio) tu  fai qualche bene totalmente(in tutto) scisso(lontano) dal nostro intelletto(accorger)? Perché le città dell’Italia sono tutte piene di tiranni, e ogni villano che si destreggia nei partiti(parteggiando viene) diventa un Marcello .[v.127]
Firenze mia, tu puoi esser contenta di questa [mia] digressione che non ti tocca, in grazia(mercé) del tuo popolo che si ingegna(si argomenta) [per non meritarsi tali accuse]. Molti [fuori di Firenze] hanno la giustizia in cuore, eppure essa si manifesta(scocca) tardi, affinché non venga  fuori senza ponderazione(consiglio); ma il tuo popolo l’ha sempre sulle punta delle labbra. Molti [fuori di Firenze] rifiutano gli uffici pubblici(lo comune incarco); ma il tuo popolo pronto(sollicito) risponde, senza essere stato chiamato, e grida: - Accetto la grave responsabilità( I’ mi sobbarco)! -  Ora rallegrati, perché ne hai ben motivo: tu sei ricca, tu [vivi] in pace, e tu [vivi] con senno! Se io dico la verità, i fatti(l’effetto) non lo nascondono. Atene e Sparta(Lacedemona), che crearono le antiche leggi e furono così civili,  fecero, per quanto riguarda la vita civile, ben poco(picciol cenno) in confronto a te(verso di te), che fai tanto sottili provvedimenti, che non arriva a metà novembre quello che tu crei(fili) ad ottobre. Quante volte, negli ultimi anni(del tempo che rimembre), tu hai mutato legge, moneta, uffici [pubblici] e modi di vita(costume) e rinnovato i tuoi cittadini!
E se ben ti ricordi e discerni con chiarezza(vedi lume),  vedrai te somigliante a quell’inferma che non può trovare riposo(posa) nel [suo] letto(piume), ma girandosi di qua e di là (con dar volta) s’illude di mettere riparo(scherma) alla sua sofferenza.


Gioco che si faceva con i dadi

L’imperatore Giustiniano fece raccogliere l’enorme materiale della legislazione e della giurisprudenza romana.

Lasciare all’Imperatore il governo civile del mondo.

Più che riferirsi a Claudio Marcello, o a qualche altro Marcello, vuol significare personaggio fazioso e ribelle.

Vuol dire : “Hai mutato l’aspetto della cittadinanza, ora esiliando, ora richiamando una parte dei tuoi cittadini, a  
seconda dell’alternarsi del predominio delle varie fazioni in lotta”.

 

Fonte: http://www.liceoodierna.it/default,htm/PURGATORIO%20PARAFRASI/Canto%20VI.doc

autore non indicato nel documento di origine del testo

 

Canto vI

 

Antipurgatorio. Secondo balzo - Spiriti: Negligenti nel pentirsi: Devono restare fuori dal Purgatorio per un periodo di tempo uguale a quello trascorso in vita.

 

Riassunto -  Le anime dei morti uccisi per violenza fanno ressa intorno a Dante per raccomandarsi a lui ed alle sue preghiere; Dante promette. Fra costoro vi sono: Benincasa da Laterina, Guccio dei Tarlati, Federigo Novello dei conti Guidi, Farinata Scornigiani, il conte Orso degli Alberti, Pierre de la Brosse.
Dante, finalmente libero dalla ressa di quegli spiriti, ricordando un verso dell’Eneide, che sembra negare l’efficacia della preghiera dei vivi per i morti, mentre questi spiriti vi confidano, ne chiede ragione a Virgilio. Questi spiega che si tratta di una contraddizione solo apparente, e invita Dante a chiedere poi spiegazioni più precise a Beatrice. Dante prega Virgilio di affrettare il passo per poterla raggiungere al più presto, ma questi lo disinganna, facendogli notare che ormai è già sera e il cammino è ancora lungo.
Avendo visto un’anima tutta sola in disparte, Virgilio si rivolge ad essa per chiedere la strada. Quest’anima che ha seguito con lo sguardo i due poeti, invece di rispondere chiede a sua volta chi siano e da dove vengano. Appena Virgilio ha pronunciato la parola “Mantova”, l’anima gli corre incontro e dichiarando di essere Sordello, suo compatriota, lo abbraccia con grande affetto.
Al ricordo di quell’abbraccio affettuoso tra due concittadini nel mondo dei morti, Dante non più personaggio, ma poeta nell’atto di scrivere, prorompe in una fiera apostrofe dell’Italia, serva e sede di vergogna, accusando i responsabili di tanto male: i papi che, trascurando le cose divine mirano al potere politico e, ancora di più, gli imperatori che trascurano il loro dovere disinteressandosi dell’Italia e di Roma. Rivolge, poi, la sua parola a Dio, chiedendo se tutto ciò non sia forse un segreto piano della Provvidenza per il bene futuro, che gli occhi degli uomini non possono assolutamente vedere.
Alla fine Dante rivolge la sua apostrofe a Firenze e in tono amaramente ironico e sarcastico denuncia la leggerezza e l’insipienza dei fiorentini, la volubilità e l’incostanza nei loro istituti politici e conclude paragonando Firenze a una grande ammalata i cui rivolgimenti interni non sono che il vano tentativo di render meno gravosi i suoi dolori.

principali figure retoriche


enjambement:
vv.13/14: da le braccia / fiere di Ghin di Tacco
vv.19/20: e l’anima divisa / dal corpo
vv.25/26: da tutte quante / quell’ombre
vv.58/59: posta / sola soletta
vv. 85/86: da le prode / le tue marine
vv.123/124: tutte piene / son di tiranni
vv.142/143: tanto sottili / provvedimenti

apostrofe:
v. 75: Ahi serva Italia, di dolore ostello
v.91: Ahi gente che dovresti esser devota
v.97: O Alberto tedesco ch’abbandoni
v.127: Fiorenza mia, ben puoi esser contenta

anastrofe:
v.25: libero fui
similitudini:
v.66: a guisa di leon quando si posa
v.148:  …somigliante a quella inferma

metafore:
v.86: …. e poi ti guarda in seno
v.90: e lasciar seder Cesare in la sella
v.95: per non essere corretta da li sproni,
v. 96: poi che ponesti mani a la predella
v.99: e dovresti inforcar li suoi arcioni
v.105: che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto
v.129: ….. giustizia in cuore, e tardi scocca
v.130:per non venir sanza consiglio a l’arco

 

sineddoche : (qui la parte per tutto):

 v. 96 : la predella (parte della briglia)

 

fonte: http://www.liceoodierna.it/default,htm/PURGATORIO%20ANALISI/ANALISI%20CANTO%20VI.doc

autore non indicato nel documento di origine del testo

 

Divina commedia purgatorio parafrasi

 

Canto vII

 

Antipurgatorio - valletta dei principi negligenti - Devono restare fuori dal Purgatorio per un periodo di tempo uguale a quello trascorso in vita.

 

Colloquio tra Virgilio e Sordello (vv. 1-39)
Dopo che le accoglienze cortesi(oneste) e liete furono ripetute parecchie volte, Sordello si trasse indietro e disse: “Voi chi siete?” - “Prima che al Purgatorio(a questo monte) fossero dirette  le anime degne di salire a Dio, le mie ossa furono sepolte da Ottaviano. Io sono Virgilio; e per nessun altra colpa(rio) ho perso il Paradiso se(che) non per mancanza di fede[cristiana]”Così rispose allora la mia guida(duca).
Come diventa(è) colui che vede davanti a sé una cosa improvvisamente(sùbita), per cui si meraviglia, [a tal punto] da credere o no [ai propri occhi], dicendo: “La cosa(ella) è vera .. non è vera…”  così sembrò Sordello(quel);  e poi abbassò gli occhi, ritornò verso Virgilio(lui) con atteggiamento umile, e gli abbracciò [alle ginocchia]  là dove  gli umili abbracciano [i potenti].  “ O gloria dei Latini, disse, per merito del quale(per cui) la nostra lingua mostrò le sue possibilità espressive(ciò che potea), o eterno onore(pregio) di Mantova(del loco ond’io fui),  quale merito o quale grazia ti mostra a me? Se io sono degno di ascoltare le tue parole, dimmi  se vieni dall’Inferno e da quale cerchio(chiostra)? . [v.21]
Virgilio rispose: “ Attraverso tutti i cerchi del regno del dolore, io sono venuto nel Purgatorio(di qua),  mi ha mosso una virtù celeste, e vengo insieme a lei. Non per aver fatto[male], ma per non aver conosciuto la fede cristiana(non fare) ho perduto [la possibilità] di vedere Dio(l’alto Sol) che tu desideri e che fu conosciuto tardi da me. Nell’inferno(là giù) esiste un luogo non rattristato(tristo) da sofferenze(martiri) ma solo da tenebre, dove i lamenti non risuonano come gemiti[di dolori](guai) ma sono sospiri [di rammarico]. In quel luogo sto con i bambini(pargoli) innocenti che furono afferrati(morsi dai denti) dalla morte prima che [col battesimo] fossero purificati(essenti) dalla colpa[del peccato originale]; lì io sto con le anime di coloro che (quei) non ebbero(si vestiro) le tre virtù teologali(sante) e senza vizi conobbero e praticarono tutte le altre virtù(tutte quante). Ma se tu sai e puoi farlo, dà a noi qualche indicazione(indizio) che ci consenta di arrivare più celermente nel punto in cui il Purgatorio ha il vero(dritto)inizio” [v.39]

Sordello spiega le legge della salita nel Purgatorio  (vv. 40 - 63)
Sordello rispose: “A noi non è fissato un luogo determinato; mi è consentito(m’è licito) muovermi verso l’alto ed intorno: perciò mi unisco a te come guida. Ma osserva come il giorno sta tramontando(dichina), e durante la notte non è possibile salire; perciò(però) è opportuno(bon) pensare ad un gradevole(bel) soggiorno. Da questa parte(qua) a destra ci sono delle anime isolate(remote), se tu me lo permetti, io ti condurrò da esse, e non senza piacere(diletto) potrai conoscerle(ti fier note).” [v.48]
“Come è possibile ciò?” fu risposto da Virgilio, “se uno volesse salire di notte, sarebbe ostacolato da altri, oppure non salirebbe(sarrìa) perché non potrebbe?”
E il buon Sordello tracciò(fregò) [una riga] col dito sul suolo, dicendo: “Vedi? Dopo il tramonto del sole non riusciresti a varcare neppure questa sola riga: e questo però perché nessun altra cosa darebbe impedimento(briga), a salire(ir suso)  se non l’oscurità della notte: questa, togliendo la possibilità(non poder) impedisce(intriga) la volontà. Con le tenebre (con lei)  sarebbe possibile tuttavia tornare verso il basso e camminare vagando intorno la costa, fino a quando l’orizzonte nasconde il giorno”. Allora Virgilio(il mio signor), quasi meravigliato(ammirando), disse: “Allora guidaci là dove tu hai detto che fermandoci(dimorando) si può avere piacere(diletto)” [v.63]
 
Sordello guida i Poeti in una valle  amena (vv. 64 - 90)
Ci eravamo allontanati(allungati) poco da lì(lici), quando io mi accorsi che il monte era incavato(scemo), così come sulla terra (quici)  i valloni li(=i monti)incavano. Sordello(quell’ombra
disse: “ Ci dirigeremo là(colà) dove la costa[della montagna] si raccoglie avvallandosi(face grembo di sé) e lì attenderemo il nuovo giorno”. Vi era un sentiero obliquo(sghembo) a mezzo tra  ripido(erto) e pianeggiante, che si condusse a fianco dell’avvallamento(lacca), là dove oltre la(più ch’a mezzo) metà[della costa] finisce(muore) l’orlo(lembo) [di esso]. [v.72]
L’oro e l’argento puri, la cocciniglia(cocco) e la biacca, il legno [pregiato proveniente] dall’India(indico), il limpido(lucido) colore azzurro (sereno), lo smeraldo fresco nel momento in cui si spezza (si fiacca), [tutti questi colori]  posti dentro a quella valle(seno) sarebbero vinti  dal colore dell’erba e dai fiori come il minore è vinto dal maggiore. Ma la natura in quel luogo(ivi) non aveva soltanto(pur) dipinto quei colori, dalla soavità di innumerevoli odori ne creava(vi facea) uno sconosciuto(incognito) e indistinto. Io vidi lì(quindi) sull’erba verde e sui fiori anime che sedevano e cantavano “Salve, Regina”, le quali a causa dell’avvallamento(per la valle) non si vedevano dall’esterno(di fuori). [v.84]
“Prima che il poco sole ormai tramonti(s’annidi)” - disse Sordello(‘l Mantoan) che ci aveva guidati(volti), - “non chiedetemi(vogliate) che io vi(conduca)guidi tra queste anime. Da questa piccola altura(balzo) voi potete distinguere i gesti e i volti di tutte le anime, meglio che se entraste(accolti) giù nella valle(lama). [v.90]

Sordello indica i principi  della  valletta (vv. 91 - 136)
      Colui che siede più alto e mostra nel suo atteggiamento(fa sembianti) di aver trascurato(negletto) il suo dovere(ciò che far dovea),  e non canta(non move bocca) come gli altri, fu l’imperatore Rodolfo[d’Asburgo], che avrebbe potuto sanare i gravi mali(piaghe) che hanno rovinato(morta) l’Italia, così che [essa] sarà risollevata(si ricrea) tardi da un altro [imperatore].
L’altro che nell’aspetto(ne la vista) lo conforta, regnò(resse) [sulla Boemia] la terra da cui nascono le acque che la Moldava(Molta) porta nell’Elba(Albia) e l’Elba nel mare: si chiamò Ottacaro, e da bambino(ne le fasce) fu di gran lunga migliore di suo figlio Vanceslao, ora che è uomo maturo(barbuto), che tengono soggetto(pasce) la lussuria e l’ozio.  [v.102]
E l’altro dal naso piccolo(quel Nasetto) [Filippo III l’Ardito] che sembra stretto a consigliare colui che ha un aspetto così benevolo, morì dopo essere stato messo in fuga(fuggendo) ed avere disonorato(disfiorando) i gigli [l’insegna della sua famiglia]: guardate là come si batte il petto!
Osservate l’altro che sospirando ha appoggiato(fatto.. letto) al palmo della mano la guancia. Essi sono il padre[FilippoIII] e il suocero[Enrico] del [re che è] male di Francia [Filippo il Bello]: conoscono la sua vita viziosa e corrotta, di lì deriva il dolore che tanto()  li trafigge(li lancia).
Quell’altro[Pietro III d’Aragona] che sembra così robusto(membruto) e che unisce il suo canto a quello dal grande(maschio) naso[Carlo I d’Angiò] ebbe l’animo pieno di ogni virtù; e se dopo di lui fosse rimasto a regnare(re) il giovinetto, che siede dietro le sue spalle, la virtù certo si sarebbe trasmessa da un sovrano all’altro(di vaso in vaso), il che non si può dire degli altri eredi; Giacomo e Federico hanno [ereditato] i regni[del padre], ma nessuno[dei due] possiede il meglio dell’eredità paterna(il retaggio miglior). Rare volte si trasmette(risurge) l’onestà umana [dei padri] attraverso i figli(per li rami); e questo vuole Dio(quei che la dà), affinché la si chieda(si chiami) a lui. [v.123]
Queste mie parole vanno riferite a quello dal grande naso(Nasuto) [Carlo I d’Angiò], per colpa [dei successori] del quale(onde) già soffrono i regni di Napoli(Puglia) e di Provenza. Il figlio(la pianta) [Carlo II d’Angiò] è tanto inferiore al padre(seme), quanto Costanza (figlia di Manfredi e vedova di Pietro III d’Aragona) si vanta ancora del marito, più di Beatrice[di Provenza] e Margherita[di Borgogna]. [v.129]
Osservate Arrigo d’Inghilterra, il re dalla vita semplice, che siede là in disparte(solo): questi ha nei suoi figli(rami) successori(uscita) migliori.
Colui che sta a terra tra costoro, ma più basso e guarda verso l’alto, è Guglielmo, marchese [di Monferrato], per la cui morte Alessandria e la guerra che ne è derivata(sua) fa soffrire(pianger) le regioni del Monferrato e del Canavese.


Forse si allude all’imperatore  Arrigo VII,  su  cui  Dante confidava  tanto  per  risollevare  le  sorti   dell’Italia.

 

http://www.liceoodierna.it/default,htm/PURGATORIO%20PARAFRASI/CANTO%20VII.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

 

Parafrasi Purgatorio – Canto XXIV

 

Il parlare non rallentava il cammino, né il camminare rendeva più lento il discorso; ma, pur conversando, andavamo speditamente, come una nave spinta da vento favorevole.

E le ombre, che sembravano cose più che morte, (guardandomi) attraverso gli occhi infossati si meravigliavano di me, essendosi accorte che io ero ancora vivo.

E io, continuando il mio discorso (interrotto alla fine del canto precedente), dissi: « Quell'anima (Stazio) sale al paradiso forse più lentamente di quanto non farebbe (se fosse sola), per amore di Virgilio.

Ma se lo sai, dimmi dov'è tua sorella Piccarda (di lei Dante parlerà nel canto IIl del Paradiso, versi 34 sgg.) ; e dimmi se, tra questa gente che mi osserva in questo modo, posso vedere qualche persona degna di nota ».

« Mia sorella, che non so se fosse più bella o più buona, è già trionfante in paradiso, lieta della sua corona di gloria. »

Domina, nell'esordio del canto, il senso di pietà, non di crudele indagine, che scaturisce dall'accostamento lievissimo, appena sfiorato nel discreto parean, del termine ombre a quello, trascurato e non ulteriormente definito, di cose, cui I'attributo rimorte, denso di riferimenti alla sorte delle anime dopo la cessazione della vita in terra conferisce una cadenza di stanca, rassegnata abdicazione del volere individuale a quello della giustizia divina che impone di espiare. I versi 5-6 acquistano un ulteriore rilievo per la contrapposizione della vita destinata a manifestarsi nei penitenti di questa cornice in una condizione dura ed ingrata (per le tosse delli occhi riprende il motivo delle anella sanza gemme, ribadito poi nell'apertura dell'episodio di Forese - ed ecco del profondo della testa -) alla vita piena, non ancora votata al macerarsi nell'espiazione, al dissolversi quasi caricaturale del rivestimento corporeo.
Altri temi ancora del canto precedente riaffiorano musicalmente in questo: la evocazione di una figura femminile santificata nella preghiera e nella privazione (per cui all'immagine di Nella fa qui riscontro quella di Piccarda, veduta tuttavia quest'ultima non sullo sfondo di angosce costituito per le anime buone dal vivere in terra, ma nella gloria del suo trionfo paradisiaco), la recisa condanna di un costume e di una prassi che hanno trasformato l'ordinato agire dei cittadini di Firenze nel disordine assurdo ove l'arbitrio e la sete di primeggiare di ogni singolo, non trovano più un freno che li imbrigli e li regoli volgendoli a buon fine, per cui la condanna degli usi delle stacciate donne fiorentine troverà in questo canto (versi 82-87) la propria naturale continuazione e conclusione nella profezia del destino che attende il superbo Corso Donati. Verrà ripreso anche il tema dell'amicizia fedele e ormai purificata da ogni scoria terrena, che detterà a Forese l'ansiosa, addolorata domanda del verso 75 (quando fia ch'io ti riveggia?) e determinerà, nella risposta di Dante, gli accenti accorati della sua sazietà di vivere.


Cosi disse prima Forese; poi soggiunse: « In questo girone non è proibito (anzi è necessario) indicare ciascuno per nome, dal momento che, per il digiuno, la nostra fisionomia è così consunta.

Costui » e lo mostrò col dito « è Bonaggiunta, voglio dire Bonaggiunta da Lucca; e quello dietro a lui, con la faccia cosparsa di screpolature più di tutti gli altri,

fu sposo della Santa Chiesa (ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia): fu di Tours, e col digiuno sconta le anguille del lago di Bolsena e la vernaccia ».

Bonaggiunta Orbicciani degli Overardi fu un rimatore lucchese, vissuto nella seconda metà del secolo XIII. Le sue creazioni, raffinate ma fredde, sono di carattere provenzaleggiante e forse per tale motivo Dante lo ha scelto per mettere in rilievo la positività della nuova poesia, quella che chiamiamo dolce stil novo (versi 55 sgg.), rispetto alla precedente scuola poetica.
Colui che ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia è Martino IV, pontefice dal 1281 al 1285. Nacque a Montpincé nella Brie, e fu tesoriere della cattedrale di Tours. Il Villani (Cronaca VII, 58) lo giudica come papa "magnanimo e di gran cuore ne' fatti della Chiesa", mentre i cronisti del tempo (fra cui in particolare F. Pipino nel suo Chronicon) riportano numerosi e divertenti aneddoti sulla golosità di questo pontefice, particolarmente ghiotto delle anguille del lago di Bolsena, " le quali sono le migliori anguille che si mangino... e faceale mettere e morire nella vernaccia e poi battere e meschiare con cacio e uova e certe altre cose".


Forese poi mi nominò a uno a uno molti altri; e tutti apparivano lieti di esser indicati col loro nome, tanto che per questo non vidi nessuno per disappunto rabbuiarsi in volto.

Vidi Ubaldino della Pila muovere invano i denti per la fame e Bonifacio che, insignito del bastone pastorale, fu pastore di molte popolazioni.

Ubaldino degli Ubaldini, appartenente alla potente famiglia toscana dei conti della Pila (nel Mugello), fu padre dell'arcivescovo Ruggieri (Inferno XXXIII, 14) . Morì intorno al 1291.
Bonifacio dei Fieschi, un ligure che fu arcivescovo di Ravenna dal 1274 al 1295. godette fama di ecclesiastico gaudente.


Vidi messer Marchese degli Argogliosi, che già ebbe agio di bere a Forlì con minor sete di qui, sebbene sia stato così grande bevitore da non sentirsi mai sazio.

Marchese degli Argogliosi, nato a Forlì, fu eletto podestà di Faenza nel 1296. Molti furono gli aneddoti fioriti intorno alle sue notevoli capacità di bevitore.

Ma come fa chi guarda più persone e poi mostra di stimare più l'una che l'altra, così feci io verso Bonaggiunta, che sembrava più degli altri desideroso di conoscermi.

Egli parlava sottovoce: e io potevo percepire qualcosa come "Gentucca" dalla sua bocca dove egli sentiva più viva la tortura della fame e della sete che in tal modo li consuma.

Io dissi: « O anima che sembri così desiderosa di parlare con me, parla in modo che io ti capisca, e parlandomi appaga il tuo e il mio desiderio ».

Egli cominciò a dire: « È già nata una donna, che non porta ancora il velo maritale, la quale ti farà piacere la mia città, nonostante di essa si dica tanto male (come ch'uom la riprenda).

I commentatori più antichi, fra cui il Boccaccio, consideravano Gentucca non un nome proprio, ma un termine significante all'incirca "gente biasimevole'", "da poco", basandosi sul giudizio negativo da Dante sempre espresso nei confronti dei Lucchesi (cfr. Inferno XXI, 41-42) . Solo in un secondo tempo, sulla base di un suggerimento del Buti, si pensò ad un nome di donna e si affermò che Dante si sarebbe innamorato di Gentucca durante un soggiorno a Lucca. Esiste infatti un documento lucchese del 1317 che parla di Gentucca Morla, la quale sposò un certo Bonaccorso Fondora. Tuttavia i versi 43-45 non permettono in alcun modo di pensare ad un vero e proprio amore, bensì ad un sentimento di gratitudine che in questo momento il Poeta esprime per la cortesia e l'amicizia con cui questa donna lo avrebbe accolto durante il suo soggiorno a Lucca, avvenuto probabilmente intorno al 1306 mentre il Poeta era ospite di Moroello Malaspina, o alcuni anni più tardi.

Tu te ne andrai di qui con questa profezia: se per le parole che io mormoro è sorto in te qualche dubbio, i fatti ti illumineranno più delle mie parole.

Ma dimmi se qui vedo in te colui che diede l'avvio ad una nuova maniera di poetare, offrendone il primo esempio con (la canzone) « Donne ch'avete intelletto d'amore" ».

Ad un poeta come Bonaggiunta, ancora legato ai modi della lirica provenzale (nata spesso priva d'ispirazione e costruita su modelli ormai diventati canonici secondo uno stile oscuro e complesso, anche se elegante), non poteva non interessare l'incontro con chi invece da quei moduli si era staccato per creare un nuovo mondo poetico e un nuovo stile: ciò avveniva attraverso la composizione della Vita Nova e in modo particolare con la creazione di quel gruppo di rime amorose in lode di Beatrice, delle quali la prima è appunto "Donne ch'avete intelletto d'amore". Il Poeta così afferma a proposito di questa canzone: "la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: "Donne ch'avete intelletto d'amore" (Vita Nova XIX, 2) .

E io gli risposi: « Io sono semplicemente uno (fra gli altri) che, quando avverto che l"amore mi parla, attentamente prendo nota, e cerco di esprimere fedelmente con le parole (vo significando) quello che esso detta dentro di me ». 

Dopo che il primo verso della canzone "Donne ch'avete intelletto d'amore" ha precisato l'argomento della nuova poesia - quello dell'amore (in un significato che trascende quello solamente erotico della poesia passata, per svolgersi su un piano morale-religioso) . Dante vuole sottolineare il carattere dell'ispirazione, che deve nascere solo dall'anima (e non dalle regole accettate da una scuola poetica, come spesso avveniva nella lirica provenzale), avendo come unica guida, anzi dittator (verso 59), l'amore: in tal modo viene impegnata tutta l'esperienza intima di un poeta, nonché la sua capacità di ricercare una forma espressiva adeguata alla profondità della materia.

Egli disse: « O fratello, ora finalmente conosco l'impedimento che tenne il notaio Giacomo da Lentini e Guittone d'Arezzo e me al di fuori del dolce stiI novo, che ora mi spiego.

Giacomo da Lentini lavorò nella curia di Federico II, morendo intorno al 1250. II suo nome viene ricordato in questo momento per indicare i rimatori della scuola siciliana, che si formò intorno alla metà del '200 alla corte di Federico II, prendendo a modello la lirica provenzale.
Guittone d'Arezzo, morto a Firenze nel 1294, viene considerato, nella storiografia letteraria, come poeta di transizione (di animo vigoroso, ma di stile elaborato) fra la scuola siciliana e quella del dolce stil novo, sviluppatasi in Toscana. Benché Dante ne sia stato influenzato nella sua giovinezza, lo giudica severamente, insieme con Bonaggiunta e altri rimatori toscani, in un passo del De Vulgari Eloquentia (I, 131 sgg.) e del Purgatorio (XXVI, 124-126). È chiaro che Dante vuole mettere in rilievo la differenza fra la vecchia poesia (quella provenzale, siciliana, di transizione) e la nuova (che ha tra i suoi esponenti, oltre all'Alighieri, Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Lapo Gianni), differenza di contenuto (quando Amor mi spira, noto) e di ispirazione (a quel modo ch'é ditta dentro vo significando). Il verso su cui la critica, soprattutto in sede storiografica, si è soffermata, è il 57, nel quale l'espressione dolce stil novo è stata poi scelta come nome indicativo di tutta la nuova corrente poetica (dopo che alcuni critici avevano avanzato l'ipotesi che stil novo fosse proprio di Dante e degli altri poeti e dolce stil novo fosse da riferirsi solo a Dante). Stil indica la poesia, novo la caratteristica della materia, dove l'amore diventa una forza di raffinamento e di ascesi spirituale verso Dio, dolce la musicalità dell'espressione, oltre che la delicatezza del contenuto che tratta d"amore.


Ora vedo bene come le vostre penne seguono con stretta fedeltà l'amore che detta, il che non accadde certamente alle nostre;

e chiunque si metta a considerare ancor più attentamente, tra l'uno e l'altro stile (il nostro e il vostro) non vede altra differenza oltre quella che abbiamo detto (quella cioè relativa all'argomento d'amore e alla sincerità dell'ispirazione)»; e tacque, come appagato.

L'episodio di Bonaggiunta Orbicciani da Lucca è stato fatto oggetto di esegesi accurata e ricca di svolgimenti da parte dei critici. Occorre tuttavia premettere che esso - ed in particolare la terzina 52 - è mantenuto in un clima di voluta imprecisione, in un'atmosfera la quale, mentre da un lato ne sfuma i contorni nell'indeterminato della profezia, insiste dall'altro nel sottolineare unicamente la qualità interiore del comporre poetico, lo spirito religioso di cui l'atto creativo deve informarsi. Osserva in proposito il Pellegrini che ognuno dei termini della terzina in esame presenta una notevole indeterminatezza lessicale. Nell'ambito di quest'ultima il "dittare" di Amore può essere con pari diritto inteso nel suo senso più comune ed immediato - al quale farebbe riscontro, da parte dello scrittore inteso come semplice scrivano, un mero registrare - quanto in un senso che fu proprio del Medioevo e che poi si è perduto (quello di un'attività più specificamente ristretta all'ambito della letteratura, per cui il "dittare", in questa accezione limitata, sarebbe proprio soltanto di coloro che sanno servirsi degli strumenti espressivi i quali sono stati fissati da una lunga tradizione retorica) ed equivarrebbe quindi ad "ornare con colori retorici". II termine noto d'altro canto potrebbe voler dire "tanto « scrivo » (in abbreviatura o no), ovvero « registro », «osservo», quanto «metto in musica» o « canto su note musicali »"; analoghe "alternative semantiche" presenterebbero all'analisi spira e significando, laddove l'intera sintassi dell'espressione e a quel modo ch'é ditta dentro vo significando sarebbe suscettibile di due divergenti letture, a seconda del valore transitivo o intransitivo attribuito al gerundio significando; l'esegesi corrente interpreta significando intransitivamente, ma niente vieterebbe, secondo il Pellegrini, d'intendere: "e a quel modo [cioè notando] vo significando ciò ch'egli ditta dentro". Le conclusioni cui questo critico perviene sono pertanto quanto mai caute, per non dire scettiche, circa la possibilità di interpretare in maniera univoca i versi 52-54 e, di riflesso, l'intero episodio di Bonaggiunta.
Lo studio del Pellegrini tuttavia, se costituisce un'introduzione efficace e quasi indispensabile all'analisi deil'episodio di Bonaggiunta, rischia - per eccesso di scrupolo e di cautela nella lettura di esso - di riuscire paralizzante per determinare il tono che la parola di Dante assume in questo passo, tono che ad una lettura, non ostacolata da remore critiche, risulta quanto mai evidente. Occorre a tale proposito osservare che tutte le interpretazioni miranti a trasformare il dialogo tra il protagonista e Bonaggiunta in uno scambio di battute più o meno velatamente polemiche finiscono con l'astrarre l'episodio di Bonaggiunta da quella che è la atmosfera mai smentita - se non nell'accensione dello sdegno politico, e quindi per motivi di ben altro peso che non quelli dai quali può scaturire una disputa fra poeti, una disquisizione intorno al rapporto fra ispirazione e resa stilistica nell'opera d'arte - dell'intera seconda cantica, laddove la tonalità che appare propria di questo passo rientra nel quadro di quella caratterizzante il Purgatorio. Costanti di questa tonalità sono, per quel che riguarda l'incontro fra Dante e le anime, un reciproco abdicare all'orgoglio ed agli accenti recisi, un festoso, perché spontaneo, manifestarsi della carità e della gentilezza.
Un retto avvio alla definizione in sede critica del significato di questa pagina può invece essere fornito da uno studio del De Negri, il quale mostra come il dialogo fra Dante e Bonaggiunta vada inserito in una serie di episodi del Purgatorio, nei quali, a proposito delle sue qualità di artefice della parola, Dante viene via via mettendo a sempre più severa prova se stesso l'uomo nuovo che in lui faticosamente, di cornice in cornice, matura la sua umiltà - di fronte al compiacimento che gli deriva dalla consapevolezza della propria eccellenza nel campo poetico. Gli elogi palesatigli da Casella nel canto II, non meno che alcune parole a lui rivolte da Oderisi da Gubbio nell'XI rappresentano per il protagonista della Commedia una pericolosa insidia, una vera e propria tentazione. Nel canto XXVI Dante, tessendo a sua volta gli elogi di Guido Guinizelli, abbandonerà d'altro lato ogni pretesa di superiorità sugli altri rimatori. In questo contesto tematico si inserisce naturalmente l'episodio di Bonaggiunta. In particolare, per quel che- riguarda i versi 52-54, il De Negri sostiene, in modo quanto mai convincente, che in essi Dante "esprime un intento deprecatorio (come di chi vuole sottrarsi ad una lode eccessiva ed immeritata)... Comincia con una formula (i' mi son un), mediante la quale declina ogni suo merito personale e toglie alla sua esperienza (che non è sua soltanto, ma di altri) ogni carattere di singolarità: e prosegue illustrandola con un'altra formula" la quale attribuirebbe al poetare dell'autore null'altro che "un compito subalterno di fedele e diligente registrazione". La medesima posizione del De Negri era stata in precedenza sostenuta nella monografia di uno studioso americano, lo Shaw, e nel commento del Sapegno. Quella dello Shaw risulta un'indagine assai accurata, condotta sul duplice binario di una caratterizzazione psicologica dei due dialoganti e di una interpretazione semantica delle loro parole, la quale mette in discussione più di un punto che sembrava ormai pacificamente acquisito all'esegesi tradizionale del passo. Tra l'altro, per quanto concerne l'issa con cui inizia il riconoscimento da parte di Bonaggiunta dei propri limiti nell'arte del comporre rime, il critico americano gli attribuisce non un valore esprimente l'immediato accorgersi (vegg io) di Bonaggiunta dei limiti della sua opera letteraria dopo la affermazione di Dante circa il "dittare" di Amore nell'animo, ma un'accezione assai più estesa, per nulla legata all'occasionale incontro tra i due poeti. Per lo Shaw infatti issa abbraccerebbe l'intero tempo trascorso da Bonaggiunta sulle balze del sacro monte, ribadendo in tal modo in lui quella qualità di veggente, quella lucidità di giudizio che caratterizza tutte le anime del purgatorio. In tono con l'esegesi dello Shaw si colloca quella, misurata ed attenta, del Sapegno, il quale, sempre in rapporto al controverso issa del verso 55, scrive: "Meglio che non: « adesso, dopo avervi udito », sarà da intendere: « adesso, che sono qui, nel purgatorio, libero da orgogli e polemiche terrestri, e meglio atto a giudicare secondo il vero ». Il carattere della poetica nuova si rivela a Bonaggiunta come una verità religiosa, in quanto egli è salito a una nuova vita spirituale; e si rende conto ora dell'importanza di quella poesia che celebra un amore inteso come rinnovamento interiore e fondamento di moralità".


Come gli uccelli (le gru) che svernano lungo il Nilo, talvolta formano in aria una schiera, poi volando più in fretta si dispongono in fila,

così tutta la gente che era lì attorno a noi, volgendo gli occhi in direzione del cammino, affrettò il suo passo, resa agile dalla magrezza e dal desiderio di espiare.

E come chi, stanco di correre, lascia andare i compagni, e così riprende il passo normale finché si calmi l'ansimare del petto,

così Forese lasciò andar oltre quella santa schiera, e procedeva dietro con me, dicendo: « Quando avverrà che ti riveda?»

Gli risposi: « Non so per quanto tempo vivrò ancora; ma certo il mio ritorno qui non sarà così prossimo, che io non anticipi prima col desiderio la mia venuta alla riva del purgatorio,

perché il luogo (Firenze) dove fui posto a vivere, ogni giorno più s'impoverisce d'ogni virtù, e appare avviato verso una miseranda rovina ».

« Orsù, fatti animo » egli disse, «perché io vedo il maggior colpevole trascinato dalla coda d'un cavallo verso la valle (l'inferno) dove le colpe non vengono mai rimesse.

Forese allude alla morte del fratello Corso, del quale non pronuncia il nome per un senso di pudore e orrore. Corso, uomo violento ed ambizioso, podestà a Bologna e altrove, fu tra i capi di parte nera a Firenze. Cacciato quando Dante era priore (1300) , tornò in Firenze alla venuta di Carlo di Valois e capeggiò i Neri nelle vendette contro i Bianchi. Aspirando alla signoria assoluta, si mise in contrasto con il suo partito e nel 1308 dovette fuggire dalla città, condannato come traditore: ma fu preso e, mentre veniva ricondotto a Firenze, presso San Salvi cadde da cavallo, e fu ucciso dai mercenari catalani della Signoria (cfr. Villani - Cronaca VIII, 96; Compagni - Cronaca III, 21) . L'accesa fantasia di Dante trasforma il fatto di cronaca, proiettandolo in un torbido alone di leggenda, dove Corso Donati viene trascinato all'inferno, come un traditore della patria, da un cavallo-demonio.

La bestia che lo trascina accelera la corsa ad ogni passo, e la sua velocità cresce sempre, finché lo percuote, e lascia il cadavere ignominiosamente sfigurato.

Non dovranno girare a lungo quelle sfere (cioè: non passeranno molti anni) », e alzò gli occhi al cielo, « prima che ti sarà manifesto quello che le mie parole non possono dire più chiaramente.

Ormai resta pure indietro; perché il tempo è prezioso in questo regno, e io ne perdo troppo procedendo così al passo con te ».

Come talvolta da una schiera di soldati a cavallo esce al galoppo un cavaliere, e corre per avere l'onore del primo scontro col nemico,

allo stesso modo si allontanò da noi Forese con passi più lunghi dei nostri; e io restai per via insieme con i due poeti, che furono così grandi maestri dell'umanità.

E quando Forese si fu allontanato davanti a noi, tanto che i miei occhi lo seguirono a stento, così come a stento la mia mente aveva seguito le sue oscure parole profetiche,

mi apparvero carichi di frutti e verdi di fogliame i rami d'un altro albero, e non molto lontani da me, essendomi io solo allora voltato verso quella parte.

Sotto l'albero vidi della gente alzare le mani, e gridare non so che cosa verso le fronde, quasi fossero bambinetti golosi e ingenui,

che pregano mentre colui che è pregato non risponde, ma tiene alto l'oggetto da essi desiderato e non lo nasconde, per rendere sempre più viva la loro brama.

Questa immagine così concreta, e tuttavia così percorsa da una trepida delicatezza, degnamente conclude l'incontro con le anime dei golosi, incontro sempre dominato dalla presenza di Forese. Infatti tutti i motivi che hanno definito, nel canto precedente, lo svolgersi della prima parte dell'episodio di Forese Donati vengono ripresi, in una non diversa disposizione tonale, nella sua seconda parte in questo canto. Così avviene ad esempio per il motivo che costituisce lo sfondo, non già indifferenziato ed amorfo, non già riconducibile, secondo un modulo crociano, a mere esigenze della cosiddetta "struttura", di questa pagina: la descrizione, dalla quale i temi dell'incontro tra i due amici naturalmente scaturiscono, della magrezza inimmaginabile in terra delle ombre dei golosi, Tale descrizione risulta nel canto XXIV meno evidenziata, meno analiticamente svolta che in quello precedente, per motivi inerenti alla disposizione fondamentale del Poeta di fronte alla materia trattata. La poetica di Dante è, infatti, una poetica dell'azione e dell'ascesi, non dell'indugio e della contemplazione ribadita ed ossessiva e disperante di questo o quel l'aspetto del reale. Dante non torna mai su un medesimo argomento senza che la riproposizione di quest'ultimo non sia motivata dalla necessità della narrazione, prima che da esigenze di musicalità e di armonia delle parti, prima cioè che da esigenze di stile Ecco perché nel canto XXIV il tema della magrezza dei golosi, spietatamente delineato in quello precedente (cfr. versi 22-33), appare soltanto accennato in balenanti scorci, come quello che compare in principio del canto (versi 4-5) - e che costituisce la conclusione del singolare esordio di questo, concepito, secondo quanto rileva il Gallardo, "come un inciso di carattere descrittivo tra le ultime parole dette da Dante alla fine del canto XXIII e la continuazione, che non presuppone alcuna interruzione, dei versi seguenti" - e quello, indiretto, ma altrettanto evidente che mostra per l'ultima volta le ombre del sesto girone (versi 106-111).

Poi quella gente si allontanò come disingannata; e noi ci avvicinammo subito al grande albero, che rifiuta di esaudire tante preghiere e lagrime.

«Passate oltre senza avvicinarvi: più in alto (nel paradiso terrestre) vi è un altro albero il cui frutto fu gustato da Eva, e quest'albero derivò da quello. »

Così parlava una voce nascosta tra le fronde; per questo Virgilio, Stazio ed io, tenendoci stretti, procedevamo lungo la parete del monte.

Diceva: « Ricordatevi dei maledetti Centauri, figli della nuvola, che, ebbri, combatterono contro Teseo con i loro petti umani ed equini;

I Centauri, figli di Issione e di Nefele (la nuvola cui Giove aveva dato le sembianze di Giunone), di natura equina nella parte inferiore del corpo, di natura umana in quella superiore (cfr. Inferno XII, 56 sgg.), sono qui ricordati per l'intemperanza dimostrata durante il banchetto per le nozze di Piritoo, re dei Lapiti, con Ippodamia: in preda ai fumi del vino, tentarono di rapire la sposa e le altre donne; ma furono vinti e in gran parte uccisi dai Lapiti guidati da Teseo (cfr. Ovidio - Metamorfosi XIII, 210-535).

e degli Ebrei che si mostrarono ingordi nel bere, e per questo Gedeone non li volle come compagni, quando discese dai monti contro i Madianiti ».

Il secondo esempio di gola punita ricorda un episodio biblico avvenuto durante la guerra degli Ebrei contro i Madianiti: Gedeone, il condottiero ebraico, per ordine di Dio scelse a combattere solo trecento soldati che, alla fonte di Arad, erano stati temperanti nel bere portando l'acqua alla bocca con la mano, ed escluse gli altri che si mostrar molli inginocchiandosi e tuffando le labbra nell'acqua per bere abbondantemente (cfr. Giudici VI, ll; VII, 25).

Cosi accostati a uno dei due orli della cornice passammo oltre, udendo ricordare esempi di golosità, seguiti sempre da tristi castighi.

Poi, distanziati un po' l'uno daIl'altro nella strada deserta, procedemmo oltre di ben mille passi e più, ciascuno meditando in silenzio.

Una voce improvvisa ci disse: « Che cosa state pensando voi tre così solitari?»; perciò io mi scossi come fanno le bestie giovani quando vengono spaventate.

Alzai il capo per veder chi fosse (colui che aveva parlato); e mai furono visti in una fornace vetri o metalli cosi fulgenti e incandescenti,

com'era l'angelo che io vidi mentre diceva: « Se gradite salire, è necessario svoltare qui; da questa parte va chi vuole andare verso la pace del cielo ».

Il suo aspetto mi aveva abbagliato la vista; e per questo io voltai (a sinistra) dietro ai miei due maestri, come un cieco che cammina seguendo la voce che ode.

E quale il venticello di maggio, che annuncia il prossimo albeggiare, si leva ed è olezzante, perché tutto impregnato del profumo dell'erba e dei fiori,

tale fu il vento che sentii colpirmi in mezzo alla fronte, e sentii distintamente muoversi l'ala, la quale fece sì che l'aria odorasse d'ambrosia.

E udii dire: « Beati quelli ai quali splende tanta grazia, che il piacere della gola non eccita nel loro petto un desiderio eccessivo,

provando sempre fame soltanto della giustizia! »

L'angelo della temperanza parafrasa e adatta ai golosi una parte della quarta beatitudine: "Beati qui esurtunt... iustitiam": "Beati quelli che hanno fame... di giustizia" (Matteo V, 6), già applicata agli avari (cfr. Purgatorio XXII, 4-6).


Fonte: http://digilander.libero.it/vasciarellipc/Parafrasi%20Divina%20Commedia%20(Purgatorio)/Purgatorio%20XXIV.doc

 

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