Partiti politici

 

 

 

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Partiti politici

 

1. Il nome e la cosa

1.1 Verso una definizione 

Ci possono piacere o non piacere, possono godere di buona salute o, più probabilmente, mostrare svariati segni di crisi, tuttavia, è indubbio che i partiti politici costituiscono degli “oggetti” piuttosto familiari dell’ambiente politico degli uomini e delle donne che hanno vissuto nel ventesimo secolo. D’altra parte, appena si esce di poco dal senso comune, non diversamente da quanto accade ogni volta che dal linguaggio quotidiano si passa a codici linguistici più specializzati, siano quelli del linguaggio azione dei politici o quello del discorso riflessivo delle scienze sociali, diventa ben più difficile definire cosa sono e  a cosa servono. Nella prima parte del capitolo vorremmo provare a rispondere a questi due interrogativi. Per fare ciò cominciamo con il porre una distinzione tra una accezione “generalissima”, per così dire universale e perciò a-storica, e una accezione più “specifica” e circostanziata, potremmo dire storicamente situata, di partito politico.

Il primo significato,  più  ampio e generale, consente di cogliere, ad un livello quasi intuitivo, una regolarità della vita politica. In tutti i tempi e sotto tutti i sistemi politici esistono dei «raggruppamenti [più o meno] organizzati in vista della conquista e dell’esercizio del potere politico» (Duverger 1980, 254). Ovunque la sfera della politica abbia acquistato una certa densità organizzativa e stabilità, ovunque le funzioni politiche si sono differenziate al loro interno e rispetto ad altre funzioni sociali, là gli uomini hanno dato vita a degli “aggruppamenti” in lotta tra di loro per la partecipazione all’esercizio del potere politico. In questa dinamica elementare troviamo la dialettica cruciale dell’esperienza politica: quella tra associazione e dissociazione, tra unità e disunità, tra amici e nemici, tra integrazione e conflitto (Duverger 1971; Schmitt 1972; Sternberger 2001).

Questo significato esteso e primigenio di partito politico è già trasparente nella stessa etimologia del termine. Partito deriva dal latino partire, che vuol dire dividere, da cui il termine partizione. Partito sta, dunque, per “parte”, per qualcosa che è divisa dal tutto, per una “frazione” rispetto ad un intero. Ovviamente, possiamo parlare, e di fatto si parla, di “partiti” artistici, o filosofici o religiosi, ecc…, ma quelli che qui ci interessano sono le divisioni che solcano la sfera politica. Vale a dire, quei gruppi che lottano per il controllo della produzione delle decisioni vincolanti una collettività o, come si diceva, per il controllo del potere politico. L’azione elementare del “dividere” in politica ha, però, almeno altre due implicazioni importanti ai fini dell’inquadramento semantico del nostro oggetto.

In primo luogo, ogni “partizione”, ogni scomposizione in “parti”, attiva due processi fortemente correlati, ma che si sviluppano in direzioni opposte. Il primo, rivolto verso l’esterno, è diretto ad affermare e ad ottenere il riconoscimento dell’esistenza e l’individuazione delle singole parti in campo. Il che comporta un processo di costruzione di una qualche forma di identità collettiva. Il secondo processo, invece, è rivolto verso l’interno ed è destinato a rinsaldare la tenuta e l’integrazione del gruppo politico. Ciò avviene attraverso l’identificazione degli individui con la loro “parte” e la conseguente formazione di lealtà e solidarietà durature. A questa incessante dialettica tra interno-esterno, tra riconoscimento e appartenenza, si riferisce un altro termine che, come partizione, deriva dalla comune radice latina, cioè “parteggiare”. Il significato prevalente questa volta è quello di “prendere parte” con/per questi piuttosto che con/per quelli. Tale scelta di campo comporta un impegno materiale e morale, ma anche un coinvolgimento emotivo. Un impegno «determinato dal fatto che [si] condividono convinzioni ed interessi con [altre] persone alle quali ora [si] assicura la [nostra] solidarietà» (Walzer 2001, 83). Un impegno che viene suggellato dal riconoscersi in simboli, rituali e discorsi condivisi. Accreditamento e riconoscimento verso l’esterno, verso gli altri, ed identificazione verso l’interno, verso i nostri, rappresentano le due facce elementari dell’organizzazione e dell’azione politica. 

In secondo luogo, il discorso fatto fin qui implica anche una ben precisa relazione tra “parte” e “tutto”. La scomposizione di una comunità politica in parti tra di loro in competizione/conflitto presuppone l’esistenza di un tutto pluralistico che è passibile di scomposizione. Di più, di un tutto pluralistico che attribuisca valore e utilità alle divisioni. Come avverte Sartori (2000, 22) «quando sosteniamo che il dissenso e la diversità sono buone per il corpo sociale e per la città politica, il sottinteso è che la città politica è fatta, e anzi è bene che sia fatta, di parti. E quelle parti che chiamiamo partiti si sono affermate, storicamente, in forza di quel sottinteso». In sostanza, nell’idea di partito c’è implicita il rigetto della visione unanimistica dell’ordine sociale. Gruppi e partiti politici non sono più visti come un “male”, magari talvolta necessario. Questo giudizio negativo riguarda, invece, le fazioni, cioè quei gruppi che lottano per il potere con finalità esclusivamente di parte. Come affermava Bolingbroke (1733-34) per quanto il partito possa essere «un diavolo politico,  la fazione è il peggiore dei partiti» (cit. in Cotta 2002). Si deve a Hume (1742), invece, la prima classificazione dei partiti politici a seconda che essi derivano «dall’interesse», cioè sono razionali e pienamente giustificabili, «dall’atteggiamento passionale» (affection), o «da un principio astratto o speculativo». In particolare, sarebbero questi ultimi a caratterizzare i tempi moderni. Ma ben più importante, per il pensatore inglese «abolire tutte le distinzioni di partito può non essere praticabile, e probabilmente neanche desiderabile in un governo libero» (ibidem). Si comincia ad affermare, così, una visione positiva della dialettica parti-tutto. Il fazionismo ora non è più un esito “naturale” della presenza dei partiti sulla scena politica ma, al limite, è solo un esito patologico della loro azione.

Quanto detto fin qui coglie la dualità costitutiva dell’azione dei partiti, che possiamo rendere con il contrasto tra la logica dell’identità, che attiene a ciò che i partiti sono e dicono di essere, e la logica della competizione, relativa a ciò che i partiti fanno e alle relazioni che intrattangono tra di loro . La prima logica coglie la faccia espressiva, il loro costituirsi come «collettività identificanti» che rendono possibile il riconoscimento intersoggettivo e la stessa partecipazione. La seconda, invece, sposta l’enfasi sulla faccia strumentale della loro azione orientata da criteri utilitaristici e di negoziabilità degli obiettivi. Qualche breve precisazione è forse utile. In primo luogo, l’identità di un soggetto collettivo (il partito) costituisce non già un’entità monolitica, ma piuttosto un processo complesso di bilanciamento tra esigenze diverse e, in ultima istanza, delle stesse aspettative degli individui che in essa si riconoscono. Gli esiti di questo processo possono essere «sia la modificazione dell’identità dei singoli (nel caso estremo l’uscita dal gruppo), sia la modificazione dell’identità del gruppo stesso (nel caso estremo la dissoluzione dell’identità collettiva)» (Sciolla 1994, 504). In secondo luogo, l’equilibrio tra le due logiche è di tipo ciclico. Più esattamente, «le fasi di formazione dell’identità collettiva registrano l’intensificarsi della partecipazione e la crescente disponibilità della militanza. Una volta, poi, raggiunto l’obiettivo del riconoscimento dell’identità, quando gli obiettivi successivi possono essere conseguiti attraverso la negoziazione, la partecipazione tende a calare»  (Pizzorno 1983, 145) e con essa, anche, il peso dell’identità si fa meno cogente.

1.2 Il partito come fenomeno storico specifico.

Veniamo alla seconda accezione, più specifica e circostanziata, del nostro oggetto. Il riferimento, fatto nel paragrafo precedente all’affermazione di un’idea positiva del partito politico si sviluppa sul piano della storia delle idee (quando nasce e si afferma il “nome” nel senso in cui oggi lo intendiamo). Tuttavia, la “modernità” del partito va colta anche sul piano della storia delle forme organizzative della politica. Ciò è quanto faremo in questo e nel prossimo paragrafo.

Abbiamo già visto come questa evoluzione positiva del termine era presente in alcuni pensatori e filosofi inglesi del XVIII secolo. Ma probabilmente dobbiamo il salto definitivo al controrivoluzionario Burke (1770) che definì i partiti come «onorevoli connessioni di individui». O, più esattamente, come «un corpo di individui uniti per promuovere, attraverso i loro sforzi comuni,  l’interesse nazionale, sulla base di un principio che ha determinato la loro alleanza» (cit. in Cotta 2002, 32 e ss.). Certo il terreno in cui si muovono i partiti di Burke era ancora quello delle assemblee parlamentari e «della cerchia dei colti e degli “illuminati”» (Pombeni 1997, 69) e non ancora quello della società. Si trattava, come si dirà, di partiti di origine interna alle istituzioni. Il punto che, però, merita di essere richiamato è un altro. Parlare di «connessioni onorevoli», di partiti parlamentari o «statuali», implicava già riconoscere le trasformazioni che le forme di organizzazione della politica avevano subito in Occidente a partire dalla dissoluzione della società di “antico regime”. Come non concordare con il giudizio di Carlo Morandi (1997, 4; prima edizione 1945) per cui, nella forma in cui li conosciamo, i partiti «sono nati quasi ad un parto con i moderni diritti di libertà e con gli istituti che vi sono connessi. In Europa è la Rivoluzione francese che li tiene a battesimo: è in quelle lotte e nella crisi che durante il periodo napoleonico ha investito gli anciens régimes del continente ch’essi cominciano a precisarsi, ad assumere colore e vigore». 

Giunti fin qui, non ci resta che tirare le fila di quanto detto. I partiti nella loro forma moderna sono caratterizzati da un imprinting ben determinato: hanno una qualche organizzazione formale (sia pure discontinua), partecipano alla competizione elettorale, aspirano al governo e, come aveva messo in risalto Burke, nel fare ciò sviluppano un orientamento ideale comune. Questa definizione è, per così dire, morfologica. Coglie alcune caratteristiche dei partiti moderni. Dobbiamo a Weber (1986, 282) una definizione analiticamente più precisa: «per partiti si debbono intendere le associazioni fondate su una adesione (formalmente) libera, costituite al fine di attribuire ai propri capi una posizione di potenza all’interno di una comunità, e ai propri militanti attivi possibilità (ideali e materiali) per il perseguimento di fini oggettivi o per il raggiungimento di vantaggi personali, o per entrambi gli scopi». Ritroviamo nella definizione di Weber i principali elementi caratterizzanti il partito politico come fenomeno sociologico moderno. Li riportiamo di seguito a mo’ di dimensioni cruciali per l’analisi del nostro oggetto. Vi ritorneremo, inoltre, nella prossima sezione utilizzandoli come criteri ai quali ricondurre le prospettive di studio classiche sui partiti. 

1) L’elemento organizzativo ― dato dalla struttura formale associativa che tiene assieme i capi, la cerchia ristretta dei loro collaboratori e i membri con una funzione essenzialmente passiva; questo elemento ci ricorda che l’acquisizione del potere politico implica, anche, la «capacità [dei capi] di costruire e dirigere apparati organizzativi di partito» (Poggi 2001, 149).

2) teleologico ― i partiti sono orientati a realizzare obiettivi deliberati siano essi materiali (come per i partiti di patronato diretti ad acquisire posizioni di potenza per il leader e cariche amministrative per i militanti), o interessi specifici (partiti di ceti o di classe che perseguono coscientemente gli interessi delle loro basi sociali), o ideali (come per i partiti ispirati a una intuizione del mondo);

3) competitivo ― il partito moderno si presenta come un’organizzazione costituita per la raccolta dei suffragi e per la presentazione agli elettori di candidati e programmi che essi devono scegliere, così, attraverso i partiti, la partecipazione dei cittadini mira ad «influenzare e controllare la direzione» dello stato;

4) istituzionale ― i partiti politici in senso moderno sono possibili solo all’interno di uno stato di tipo liberal-democratico (ovviamente il riferimento è ai partiti “democratici”) che attraverso procedure costituzionali e il riconoscimento di diritti soggettivi fondamentali limita il potere. 

Non va dimenticato, poi, che dalla definizione di Weber si ricava che l’azione dei partiti si colloca tra gli strumenti della distribuzione della “potenza” in una comunità . Il partito che ottiene il successo elettorale (vote-seeking) traduce il suo credito politico in influenza sociale o, più precisamente «nella facoltà di emettere e far eseguire comandi pubblicamente validi» (Poggi 2004, 54). Ciò, di norma, avviene attraverso tre meccanismi di base (Blondel 1994): il controllo delle cariche pubbliche (office-seeking), la distribuzione delle risorse pubbliche (patronage) e la possibilità di indirizzare le decisioni e le politiche pubbliche (policy-seeking), i «comandi pubblicamente validi» di Weber. In questo modo i partiti diventano fattori di stratificazione sia organizzativa che sociale. Cioè, rendono possibile un accesso diseguale alle risorse politiche sia all’interno dell’organizzazione partitica che del più ampio sistema politico. Inoltre, nella misura in cui tale stratificazione tende a strutturarsi e a diventare durevole possiamo parlare di una vera e propria «forma di dominio».

1.3 A cosa servono i partiti.    

Nel tentativo di inquadrare e definire in prima approssimazione il nostro oggetto siamo partiti da un interrogativo elementare: cosa sono i partiti politici? Il che ci ha anche spinto a chiederci di rimando: quando e perché per la prima volta è apparso il “nome” (profilo concettuale) e la “cosa”  (profilo fenomenico). In realtà, rispondendo a queste domande abbiamo incrociato una questione complementare: a cosa servono i partiti? Con questo secondo interrogativo ci chiediamo cosa fanno, qual è la loro funzione o, da una prospettiva più critica, se è vero che sono diventati «ridondanti» (Daalder 2000). Non è nostra intenzione entrare nel merito dell’analisi funzionale. Qui, faremo riferimento alle funzioni dei partiti in senso debole, cioè non come espressione di una sistematica teorizzazione dei fenomeni politici e sociali (il funzionalismo), ma come una esigenza di inquadramento della realtà. Tuttavia, anche se in questi termini meno impegnativi, o almeno apparentemente tali, non dobbiamo dimenticare che il ragionamento funzionale è zeppo di “trappole” e di “fallacie” (sulle quali rinvio per una trattazione sintetica a Levy jr. 1994).

       Da quando si è cominciato a scrivere sui partiti, cercando di chiarirne la distintività rispetto alle fazioni, la prospettiva funzionale ha costituito un tassello saliente della riflessione. Il contributo forse più classico è quello di Bryce (1953; ed orig. 1921) che concludeva la sua analisi con l’affermazione della indispensabilità dei partiti per il funzionamento del governo rappresentativo. Questa indispensabilità, però, non è solo strumentale ma consiste nel tentativo di affrontare il problema della legittimazione politica lasciato senza soluzione dal processo di modernizzazione e di secolarizzazione della società occidentale (Pizzorno 1983). D’altra parte, l’analisi funzionale si è tradotta, spesso, nella stesura di cataloghi più o meno articolati di cose rilevanti che i partiti fanno o dovrebbero fare per il sistema politico . Tra i molteplici contributi mantiene ancora tutta la sua attualità quello elaborato, alla fine degli anni ’60, da Anthony King (1969). Secondo il politologo inglese le funzioni più importanti svolte dai partiti sono:

1. L’integrazione e la mobilitazione dei cittadini. L’azione dei partiti rende operativa nella mente e nei cuori dei cittadini (aderenti e simpatizzanti) l’idea di una più ampia comunità politica. Come suggeriva Otto Kirchheimer (1971, 188-189), i partiti fungono da «canali per integrare individui e gruppi nell’ordine politico esistente, o da strumenti per modificare o sostituire tale ordine (integrazione-disintegrazione)». In breve, avverte Pizzorno (1996, 983 e ss.), da un lato, i partiti «organizzano la partecipazione», il che implica un’attività di «socializzazione e di filtraggio» delle «informi domande che urgono dal basso». Dall’altro, attraverso l’elaborazione ideologica, favoriscono la costruzione «delle identità con le quali pretendono di farsi riconoscere».  

2. La strutturazione del voto. Vi rientrano tutte quelle attività definite genericamente di electioneering, e che hanno a che fare con la formazione degli orientamenti politici e delle opinioni degli elettori, con i processi di propaganda e di educazione, con la necessità di assicurare un collegamento tra candidati e partiti e con l’organizzazione delle campagne elettorali. Insomma, con la felice espressione di Bryce, in questo modo i partiti «producono ordine dal caos» o, nei termini di Morlino (1998; 2003), fungono da «ancore» del consolidamento dei regimi politici, in specie democratici.    

3. L’aggregazione degli interessi. Si riferisce alla nota funzione messa a fuoco da Gabriel A. Almond e Bingham G. Powell (1970), per cui i partiti trasformano le domande sociali e le richieste che sono state precedentemente “articolate” in alternative politico-programmatiche generali . Svolgendo tale funzione i partiti non si comportano come semplici «macchine banali», l’azione dell’aggregare implica sempre un mediare e regolare, una valutazione ed interpretazione. A monte questa funzione comporta, anche, l’esercizio di un ruolo di gatekeeper (di filtro) dei partiti rispetto ai gruppi. «Si tratta, più precisamente, del ruolo giocato dai partiti al governo e all’opposizione) o dal sistema partitico) nel controllare l’accesso dei gruppi di interesse e delle élite alle sedi decisionali e nello stabilire le priorità degli interessi rispetto alle diverse domande» (Morlino 2003, 160).      

4. Il reclutamento dei leader e del personale politico. Come conseguenza del processo di democratizzazione ― e, quindi, di elettoralizzazione ― i partiti hanno finito per controllare, in modo quasi esclusivo, i processi attraverso i quali si assegnano le posizioni di autorità, per tempi più o meno lunghi, in un dato sistema politico. Il monopolio di tale funzione è massimo rispetto alla selezione dei titolari di cariche elettive e, per lo più, anche delle cariche di governo, ma si presenta piuttosto esteso anche con riferimento ad un “paniere” più o meno ampio, a seconda delle epoche storiche e dei paesi, di cariche amministrative. La trasformazione dei partiti in selettorati rappresenta un formidabile passo avanti, non privo, però, di rischi esiziali, nella ricerca di forme di organizzazione della politica più democratiche.     

5. L’organizzazione  del potere di governo. Non tutti i repertori delle funzioni partitiche danno spazio a questo tipo di attività, eppure essa costituisce probabilmente un aspetto cruciale del funzionamento dei moderni sistemi politici democratici (e non). Innanzi tutto, perché i partiti svolgono una funzione «costituzionale» nel senso, ricordato da  Lowi (1999), di costituente, fondante, dello stesso regime democratico. Il che richiede, primariamente, la capacità di «canalizzare e socializzare il conflitto sul controllo del regime» (ibidem, 184) piuttosto che di definire le scelte del governare (le policies). In secondo luogo, perché i partiti assolvono ad importanti compiti procedurali o istituzionali. Il che implica che essi siano in grado di risolvere e di gestire i complessi problemi di coordinamento e di operatività impliciti nei rapporti inter-istituzionali ― a partire della fondamentale connessione tra esecutivo e legislativo (sistema di governo). 

6. L’influenza delle politiche pubbliche. Ci si riferisce alla capacità di problem solving dei partiti politici e, più in generale, di influenzare il processo di policy-making. Questa funzione, innanzi tutto, ha a che fare con la capacità di convertire gli impegni programmatici, rispetto ai quali si è chiesto il consenso degli elettori, in decisioni autoritative ― come previsto dalla cosiddetta «teoria del mandato». D’altra parte, è pur vero che il governo dei partiti è fortemente vincolato, sia da costrizioni interne al sistema politico (caratteri delle coalizioni, complessità politica e tecnica delle policies, ruolo della burocrazia, reazioni dei gruppi di interessi, ecc.) che esterne (influenza di decisioni sovranazionali, relazioni internazionali, trasformazioni economiche e sociali, globalizzazione, ecc.).       

Molti studiosi, piuttosto che procedere ad un’elencazione delle funzioni, hanno preferito imboccare un’altra strada che ha condotto alla messa a punto di criteri classificatori più stringenti. Gli sbocchi di questa diversa scelta metodologica sono stati principalmente due. Per un verso, si è cercato di stabilire un ordine di importanza tra le varie funzioni, il che ha portato ad individuare una funzione “minima”, o definiente, cioè senza la quale verrebbe meno la stessa possibilità di parlare di partito politico. In genere, per lo meno in un contesto democratico e pluralista, il riferimento è alla “funzione elettoralistica” (Sartori 1965, ora 2005; Epstein 1967). Parlare di una funzione “minimale” dei partiti significa sostanzialmente individuare il requisito funzionale che consente di discriminare i partiti politici da altre specie di attori politici, siano essi le fazioni del passato, i gruppi di pressioni, i movimenti sociali o le burocrazie. D’altra parte, una volta che i partiti politici vengono inquadrati sulla base di una attività svolta in maniera esclusiva, residua la necessità di distinguere le diverse specie di partiti. A tal fine può essere d’aiuto il ricorso a classificazioni funzionali più estese come quella di King. Il che, per esempio, ci permette di distinguere tra partiti di governo e partiti di opposizione, o tra partiti sociali (o di origine esterna) e partiti istituzionali (o di origine interna), e così via.

 Per l’altro, alcune soluzioni hanno “ridotto” le tipologie funzionali provando a compendiare le diverse funzioni in classi più generali, in genere costruendo delle dicotomie per così dire macro-funzionali. Di questo tenore è la distinzione tra funzioni di input e funzioni di output spesso ricorrente in letteratura. Su questa scia si può ricordare il contributo di Alessandro Pizzorno (1980, 13; si veda anche il contributo seminale di Pasquino 1980) che propone di distinguere tra funzione di «trasmissione della domanda», cioè di richieste di provvedimenti politici che sorgono in seno alla società e si indirizzano al sistema politico, e «esercizio della delega», il che indica «i modi attraverso i quali i partiti vengono delegati ad agire per la conquista di quei posti dai quali emetteranno i provvedimenti atti a soddisfare quelle domande di cui sono portatori». Di recente, Stefano Bartolini e Peter Mair (2001) hanno contrapposto una  funzione rappresentativa che include le tradizionali funzioni di articolazione, aggregazione degli interessi e formulazione delle politiche ― oggi in gran parte recessiva, ad una  funzione istituzionale o procedurale che comprende il reclutamento del personale politico, l’organizzazione e il coordinamento delle attività istituzionali relative al governo, al parlamento e ai loro reciproci rapporti, così come ai rapporti con le altre istituzioni che con esse interagiscono ― oggi sempre più rilevante. In particolare, la prima serie di funzioni assicura l’integrazione politica, mentre la seconda serie l’integrazione istituzionale. Ora, il punto cruciale per i due studiosi è che oggi i partiti continuano a disimpegnare l’attività di coordinamento ed integrazione istituzionale ma in un contesto di crescente delegittimazione in conseguenza del fatto che la loro capacità di controllo, organizzazione ed integrazione politica degli elettori e dei gruppi è stata in gran parte erosa. Nei termini proposti nel primo paragrafo, possiamo scorgere in questa dissociazione funzionale il dilemma tra logica della competizione ― per il controllo delle risorse istituzionali ― e logica dell’identità.

Il ricorso alla prospettiva funzionale è uno strumento abituale in mano ai politologi. Tuttavia, è opportuno seguire l’invito di King per cui occorre definire con estrema precisione e nel dettaglio le diverse funzioni e tenere conto della loro evoluzione storica e del loro adattamento alle condizioni del contesto. Non si deve pensare che tutti i partiti espletano tutte le funzioni, né che le funzioni siano in qualche modo astoriche. Al giorno d’oggi alcune sono manifestamente recessive mentre altre mostrano una crescente salienza (Ignazi 1996). Ad ogni modo è la ricerca empirica che ci può indicare quali funzioni siano stabili, in crisi o in espansione e soprattutto che ci deve dire quali sono le conseguenze non intenzionali, gli «effetti perversi» come direbbe Boudon (1983), associate all’espletamento di queste funzioni. 

Qui competizione sta per elettoralismo con il conseguente offuscamento delle differenze ideologiche tra partiti e lo sviluppo di strategie e di moduli organizzativi congruenti con questo obiettivo. Lo scongelamento degli elettorati nazionale ne rappresenta una del principali pre-condizioni.    

Vale a dire, la possibilità di un individuo o gruppo di imporre, in una relazione sociale, la propria volontà, anche, contro le resistenze degli altri attori coinvolti nella relazione. Le altre forme di distribuzione della potenza, oltre ai partiti, sono le “classi” e i “ceti”. Solo i primi, però, appartengono propriamente e direttamente alla sfera della potenza.

Fra tutte le possibili attività che svolgono i partiti qui ci interessano quelle che hanno rilevanza «sistemica».

In questa specializzazione funzionale sta la differenza tra partiti politici e gruppi di pressione.

 

Fonte: citazione per uso didattico estratta da http://scienzepolitiche.unical.it/bacheca/archivio/materiale/314/Scienza%20Politica/Partiti%20Politici.doc

Autore del testo: F. Raniolo

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