Nietzsche e la psicoanalisi

 


 

Nietzsche e la psicoanalisi

 

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Nietzsche e la psicoanalisi

 

La psicologia di Nietzsche e il suo influsso nella Psicoanalisi

La psicoanalisi ha ormai compiuto un secolo e malgrado tutte le crisi che ha subito, continua a esistere e ad influire notevolmente in molti campi della cultura, tra i quali, e non in ultimo posto, la religione e la sua cura animarum. Purtroppo, non sempre è conosciuta, nemmeno tra quelli, religiosi o laici, che si occupano professionalmente della psicologia, lo sfondo filosofico e spirituale che ha sostenuto le sue origini. Tra questi troviamo Friedrich Nietzsche. Per questo crediamo che l’argomento che ci proponiamo di esporre in questa sede sia centrale, non solo per capire quello che avviene in importanti scuole della psicologia contemporanea, ma anche in filosofia, in teologia ed in altri aspetti della cultura occidentale contemporanea. La brevità, che ci impone il limite di tempo, ci costringe a trascurare importanti temi e argomenti, su cui si fondano le nostre affermazioni.

1) La psicologia del profondo di Nietzsche

La psicologia, “signora di tutte le scienze”

Per cominciare, bisogna collocare la psicologia di Nietzsche nell'insieme del suo pensiero filosofico. Dobbiamo ricordare che il nostro autore considera che la verità è pura finzione, poiché ha soppresso la cosa-in-sé (compresa la “volontà” schopenhaueriana), lasciando sussistere soltanto il mondo fenomenico. Per questo, la sua psicologia non può essere una disciplina teoretica, che si limiti a contemplare passivamente la realtà, come di solito fa l’antropologia filosofica, ma uno strumento per operare una profonda trasformazione nella cultura. L’idea centrale è quella di una “transvalorazione (Umwertung) di tutti i valori”. L’intenzione di Nietzsche è di superare il modo cristiano e moderno di giudicare, soprattutto in campo morale, e accettare il mondo come divenire puramente immanente, senza nessuna unità di misura esterna (Dio, le idee, la cosa-in-sé). In funzione di tale scopo di transvalorazione, la psicologia svolge il ruolo distruttivo dell’immagine che gli uomini hanno di loro stessi.

Non è assolutamente necessario, sia detto tra noi, sbarazzarci (...) dell’“anima” e rinunziare a una delle più antiche e venerande ipotesi (...). Ma la strada per nuove forme e raffinamenti dell’ipotesi anima resta aperta: e concetti come “anima mortale” e “anima come pluralità del soggetto” e “anima come struttura sociale degli istinti e delle passioni” vogliono avere, sin d’ora, diritto di cittadinanza nella scienza.

La sua meta finale sarà porre di manifesto che il cristianesimo, e la morale sorta da esso, hanno come esito la malattia. I cristiani, e più in generale gli europei, sarebbero dei malati mentali, dei nevrotici. Dimostrare questo è il fine che Nietzsche si prefigge (e certamente nel suo pensiero il fine ha un ruolo non trascurabile) quando sviluppa le sue analisi psicologiche.

La psicologia di Nietzsche vuol essere, esplicitamente, una "psicologia del profondo" che diviene la “signora di tutte le scienze”. Siamo davanti ad una "svolta psicologica" con delle conseguenze molto importanti. La psicologia diviene "la strada per i problemi fondamentali".

Mai fino ad oggi un più profondo mondo della conoscenza si era dischiuso a navigatori e avventurieri temerari, e lo psicologo che in tal modo “compie il sacrificio” (...) potrà per lo meno pretendere che la psicologia sia nuovamente riconosciuta signora delle scienze, al servizio e alla preparazione della quale è destinata l’esistenza delle altre scienze. La psicologia infatti è ormai di nuovo la strada per i problemi fondamentali.

Non è quindi un’antropologia filosofica teorica, come abbiamo già detto, ma una “fisio-psicologia” delle pulsioni, soprattutto della volontà di potenza, cioè una vera e propria psicologia del profondo.

Tutta quanta la psicologia è rimasta sino ad oggi sospesa a pregiudizi e apprensioni morali: essa non ha osato scendere nel profondo. Concepirla come teoria evolutiva della volontà di potenza, come io la concepisco: - questo non è stato da nessuno neppure sfiorato col pensiero (...). Una peculiare fisio-psicologia deve lottare contro le resistenze incoscienti poste nell’animo dell’indagatore, essa ha il “cuore” contro di sé.

In realtà, non c’è soltanto “una” volontà di potenza, ma una molteplicità di centri di potere, in lotta reciproca, all’interno dello stesso individuo: “L’uomo è una pluralità di forze che sono ordinate secondo una gerarchia, sicché ci sono elementi che comandano (...). Il concetto “individuum” è falso”. Anzi, quante più contraddizioni portiamo in noi, più ricchi siamo, e più possibilità creative abbiamo.


L’annulazione dell'
individuo, il corpo e il Selbst

Una caratteristica del pensiero psicologico nietzschiano è la derivazione “dal basso” di tutte le realtà dell’anima. Anche ciò che sembra più spirituale ed elevato, sia la filosofia che la religione, è soltanto il sintomo di una determinata costituzione psicofisica della quale non si ha coscienza. Per questo Nietzsche spera in una nuova generazione di "medici filosofi", che sappia analizzare le trasformazioni e sublimazioni inconsce dei bisogni fisiologici e degli istinti in ideali e pensieri.

L’inconsapevole travestimento di necessità fisiologiche sotto il mantello dell’obiettivo, dell’ideale, del puro-spirituale va tanto lontano da far rizzare i capelli (...). Dietro i supremi giudizi di valore, da cui fino a oggi è stata guidata la storia del pensiero, sono nascosti fraintendimenti della condizione corporea, sia da parte d’individui sia di classi o di razze intere. E’ legittimo ravvisare in tutte quelle ardite stravaganze della metafisica, specialmente nelle sue risposte alla domanda sul valore dell’esistenza, in primo luogo e sempre i sintomi di determinati corpi (...) tali affermazioni o negazioni (...) costituiscono (...) per lo storico e lo psicologo indici tanto più apprezzabili, in quanto sintomi, come si è detto, del corpo, del suo riuscire bene o male, della sua pienezza, potenzialità, dominio di sé nella storia, oppure invece delle sue inibizioni, stanchezze, scadimenti, del suo presentire la fine, del suo volere la fine. Sono ancora in attesa che un medico filosofo, nel senso eccezionale della parola – attento al problema della salute collettiva di un popolo, di un’epoca, di una razza, dell’umanità -, abbia in futuro il coraggio di portare al culmine il mio sospetto e di osare questa affermazione: in ogni filosofia non si è trattato fino a oggi, di “verità”, ma di qualcos’altro, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita...

Con tutto questo, afferma Nietzsche, la nozione di “individuo” si mostra sbagliata. Non c'è soggetto, non c'è io. Se vogliamo possiamo parlare di "Es" , “esso”, a condizione di non intenderlo in modo sostanzialistico, ricadendo così nell'interpretazione cristiano-morale, che cerca un responsabile del divenire.

Per quanto riguarda la superstizione dei logici, non mi stancherò mai di tornare a sottolineare un piccolo, esiguo dato di fatto (...) che un pensiero viene quando è “lui” a volerlo, e non quando “io” lo voglio; cosicché è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto “io” è la condizione del predicato “penso”. Esso pensa: ma che questo “esso” sia proprio quel famoso vecchio “io” è, per dirlo in maniera blanda, soltanto una supposizione, un’affermazione, soprattutto non è affatto una “certezza immediata”.

Il (Selbst) , in realtà, è fuori dalla coscienza, siamo governati dal di fuori. “Il corpo.e la sua grande ragione” governano l’io come uno strumento.

‘Io’ dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa ancora più grande, cui tu non voi credere, - il tuo corpo e la sua grande ragione. Essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’. (...)
Strumenti e giocattoli sono il senso e lo spirito: ma dietro di loro sta ancora il Sé [Selbst]. Il Sé cerca anche con gli occhi dei sensi, ascolta anche con gli orecchi dello spirito.
Sempre il Sé ascolta e cerca: esso compara, costringe, conquista, distrugge. Esso domina ed è il signore anche dell’io.
Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto – che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo.


2) Il periodo postcristiano, la morte di Dio e l’eterno ritorno

A Nietzsche non importa, in fondo, se questo modo di rappresentare l’anima sia vero o non lo sia. Secondo lui, la verità non esiste. Non sarebbe che una menzogna che ha perso coscienza di essere menzogna. Quello che è importante, invece, è che la "finzione" sia “utile”. Il criterio di utilità è la non ostilità nei confronti della vita, cioè della volontà di potenza e delle lotte che la volontà di potenza genera. L’unica cosa che esiste, è questo mondo, il fluire costante, l’autocreazione e autodistruzione, e il conflitto delle interpretazioni antagoniche del mondo. Poichè il conflitto, la guerra, forma parte essenziale della realtà; anzi meglio, è la realtà stessa. Il motore del divenire corrisponde a questa dialettica fondamentale, come direbbe Hegel. E questa dialettica si sviluppa oggi ad un livello più complesso ed elevato. Perciò, questa teorizzazione dell'anima e dell’inconscio non ha la pretesa di verità, ma è uno strumento in mano del “cacciatore delle anime”, dello spirito della transvalorazione.

Il cristianesimo, con il suo presunto disprezzo della sessualità e della crudeltà, i due aspetti fondamentali, creativo e distruttivo, della volontà di potenza, è il nemico principale della vita, benché abbia reso la vita più interessante, sublimando il conflitto ad un livello spirituale. In effetti, secondo Nietzsche il cristianesimo, o la volontà di potenza attraverso il cristianesimo, ha prodotto una spiritualizzazione del conflitto, e questo è considerato da lui come qualcosa di positivo. Perché Nietzsche non vuole tornare al periodo premorale dell'umanità, ma arrivare a una tappa essenzialmente postmorale, che presuppone il cristianesimo come momento astratto. Per essere postmorali, si ha bisogno della morale, perciò, afferma Nietzsche, gli immoralisti (come definì il nostro a chi segue la sua dottrina) non vogliono la totale distruzione della Chiesa, perché hanno bisogno di essa, come il peccato ha bisogno della legge. La Chiesa ha prodotto delle contraddizioni (vg. i gesuiti e la democrazia) che hanno reso più interessante la vita (che si alimenta della contraddizione) e che hanno acuito la mala coscienza, sino a limiti insospettati.

Nella sua opera psicologica fondamentale, La genealogia della morale, che fu oggetto di discussione nelle sedute del mercoledì dell’Associazione Psicoanalitica nel 1908, Nietzsche psico-analizza il cristianesimo, e lo mina nella sua essenza. Lo scopo di Nietzsche è dimostrare che il cristianesimo, e l’occidente da esso formato, è nichilismo (passivo) e malattia del corpo e dell’anima. La genealogia spiega quest’idea, mettendo in luce le radici nascoste e inconsce delle concezioni fondamentali del cristianesimo, come la separazione tra buono e cattivo , la coscienza morale, ecc. Queste radici sarebbero, secondo Nietzsche, le pulsioni che il cristianesimo stesso condanna, soprattutto la crudeltà.

Nietzsche considera come origine della “coscienza di colpa” l’introiezione della crudeltà e del risentimento. Così nascerebbe il soggetto, nel senso cristiano-moderno del termine, e cioè dalla scissione, prodotta da una pressione culturale esterna, all’interno di un insieme di pulsioni in contraddizione. Questo sarà ripreso esplicitamente da Freud, nella sua teoria del Super-io, che ha due volti: l’ideale dell'io e la coscienza morale. Il responsabile di questo sarebbe il “sacerdote ascetico” , che avrebbe bisogno della malattia per poter redimere, e creerebbe quel organismo di controllo interiore che sarebbe, appunto, la coscienza morale. La Chiesa è per Nietzsche una specie di manicomio, pieno di malati della mente, che sono il risultato del cristianesimo e della morale da esso derivata.

Il cristianesimo ha necessità della malattia, pressappoco allo stesso modo in cui per la grecità è necessaria una sovrabbondanza di salute – rendere malati è la vera riposta intenzione dell’intero sistema procedurale salvifico della Chiesa. E la Chiesa stessa – non è essa il manicomio cattolico come ultimo ideale? – L’uomo religioso, come la Chiesa lo vuole, è un tipico décadent; il momento in cui la crisi religiosa s’impadronisce di un popolo è caratterizzato ogni volta da epidemie nervose; il “mondo interiore” dell’uomo religioso è analogo al “mondo interiore” dei sovreccitati e degli esauriti, al punto da confondersi con esso; gli stati “supremi”, che il cristianesimo ha tenuti sospesi sull’umanità come valore di tutti i valori, sono forme epilettoidi – la Chiesa ha santificato in maiorem dei honorem soltanto pazzi o grandi impostori... Mi sono permesso una volta di definire l’intero training cristiano della penitenza e della redenzione (...) una folie circulaire prodotta metodicamente, come è naturale, su un terreno già preparato, vale a dire, fondamentalmente malaticcio.

L'archetipo dei cristiani malati sarebbe, secondo lui, lo stesso Gesù.

Il tipo “Gesù”...
Gesù è esattamente l’opposto di un eroe: è un idiota. Si senta la sua incapacità di intendere una realtà: egli si muove nel giro di cinque o sei concetti da lui prima uditi e a poco a poco capiti (cioè falsamente) – in essi ha la sua esperienza, il suo mondo, la sua verità – il resto li è estraneo. Dice parole che tutti adoperano, ma non li intende come tutti, capisce solo i suoi cinque o sei sfuggenti concetti. Che i veri e propri istinti virili – non solo quelli sessuali, ma anche quelli della lotta, della fierezza, dell’eroismo – non siano mai maturati in lui, che sia un ritardato e sia rimasto infantilmente nell’età puberale: ciò fa parte del tipo di certe nevrosi epilettoidi.

La terapia di Nietzsche, che ci porterebbe alla “grande salute”, è però per pochi eletti. Non tutti sono chiamati a scoprire queste verità inconsce ed essere i "filosofi del futuro". Si deve accettare l’innocenza del divenire, l’eterno ritorno dell’uguale, che in fondo è accettare una vita infernale, e fare “esperienza” del bene e del male. Questo suppone non solo prendere coscienza passivamente della “morte di Dio” ma realizzarla attivamente. Chi sopravvive a questo deserto gelido, si trasforma in legislatore, creatore di valori. Come ciò avvenga lo spiega lui stesso, nel IV libro della "Gaia Scienza", come la rivelazione di un demone.

Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e sucessione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo attimo e io stesso. (...) Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immane, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un dio, e mai intesi cosa più divina!”


3) Nietzsche e la psicoanalisi

Nietzsche e la psicologia

Come abbiamo detto, il pensiero di Nietzsche è stato molto influente in diversi ambiti della cultura. Uno di questi è stato la psicologia. Noi ci occuperemo qui in particolar modo della psicoanalisi. Ma prima faremo un accenno agli psicologi non psicoanalisti. Fra loro, fortemente influenzati da Nietzsche ci sono, ad esempio, Ludwig Klages, uno dei pionieri della caratterologia tedesca, creatore della grafologia, il quale si riconosce esplicitamente come continuatore di Nietzsche. A sua volta, furono influenzati da Klages autori molto importanti, come Hans Prinzhorn e Philipp Lersch. Inoltre, molti autori del gruppo di scuole esistenzialistiche e fenomenologiche hanno fortemente recepito l’ispirazione di Nietzsche, in particolare Karl Jaspers e Ludwig Binswanger, i quali lo considerano una delle loro fonti principali.

Per quanto riguarda la psicoanalisi, ci occuperemo del suo fondatore, Sigmund Freud e del disidente Carl G. Jung.


Freud e Nietzsche

Il rapporto di Freud con Nietzsche si può considerare da due punti di vista fondamentali: storico e dottrinale.

a) Dal punto di vista storico, si deve accenare in primo luogo alla relazione di Freud con la filosofia. Diversamente di quanto lo stesso Freud ha detto molte volte, l’influsso della filosofia nella sua formazione intellettuale è stato di capitale importanza. Attraverso il suo epistolario giovanile, sappiamo che ha letto Feuerbach, Strauss e Aristotele, che tradusse Stuart Mill, e che frequentò i corsi di Brentano. Sotto l’influsso di quest’ultimo, pensò seriamente di iscriversi alla Facoltà di Filosofia e intraprendere il dottorato, ma alla fine questo desiderio non si realizzò.

Nietzsche fu uno dei filosofi letti da Freud, per lo meno sin dall’età di 17 anni. Il suo grande amico, Joseph Paneth, conobbe il filosofo personalmente. Un altro amico, Sigfried Lipiner , fu riconosciuto da Nietzsche esplicitamente come suo discepolo. Con questi due amici, Freud creò un giornale di filosofia d’ispirazione materialistica, che durò però pochi mesi. Più avanti, nel 1908, quando la psicoanalisi era già stata fondata, La Genealogia della morale e la malattia mentale di Nietzsche furono argomento delle sedute psicoanalitiche del mercoledì. Nel 1911 Alfred Adler, chi considera causa della nevrosi un’eccessiva volontà di potenza, si separò definitivamente da Freud. Nel 1912, dopo il congresso psicoanalitico tenutosi a Weimar, durante il quale un gruppo fece una visita a la sorella del filosofo, Elisabeth, si avvicinò al movimento psicoanalitico Lou Andreas-Salomé, amica e discepola di Nietzsche. Molti dei seguaci di Freud tentarono di stabilire dei rapporti tra il maestro e il filosofo tedesco (ad esempio il giovane Binswanger , Otto Gross , Otto Rank e Arnold Zweig). Lo stesso Freud presenta qualche volta Nietzsche come precursore intuitivo della psicoanalisi.

b) Dal punto di vista dottrinale, l’influenza di Nietzsche su Freud si può vedere in molti temi, alcuni dei quali abbiamo già accennato (l’inconscio, l’Es, l’origine della coscienza morale, la rimozione, ecc.). Un tema basilare comune a entrambi i pensatori è la derivazione dell’alto dal basso. Tutto quello che sembra nobile e puro, non sarebbe altro che una sublimazione delle pulsioni. Anzi, il cristianesimo e la morale della civiltà occidentale sono la causa principale della nevrosi, come afferma chiaramente Freud; si può vedere, ad esempio, La morale sessuale civile e la nervosità moderna (1908). Nelle Cinque conferenze sulla psicoanalisi (1909), si trova questo brano, che ci ricorda la concezione nietzschiana dei cristiani nevrotici ed esauriti: “La nevrosi sostituisce nella nostra epoca il convento nel quale solevano ritirarsi tutte le persone che la vita aveva deluso o che si sentivano troppo deboli per affrontarla.”

Negli scritti di maturità Freud applica il metodo genealogico di Nietzsche all’analisi della cultura, specialmente della religione. Così, in Totem e Tabù, Freud analizza l’origine della religione cattolica e dell’Eucaristia, e li fa derivare dalla sua celebre ipotesi sull’assassinio del primo padre.

Nel mito Cristiano il peccato originale dell’uomo è indubbiamente un’offesa contro Dio Padre. Ora, se Cristo libera gli uomini dal peso del peccato originale sacrificando la sua stessa vita, ci costringe a concludere che questo peccato fu un assassinio. Secondo la legge del taglione, profondamente radicata nella sensibilità dell’uomo, un assassinio può essere espiato soltanto col sacrificio di un’altra vita; il sacrificio di sé ci fa risalire alla colpa di avere versato sangue altrui. E se questo sacrificio della propria vita conduce alla riconciliazione col Dio Padre, il crimine da spiare non può essere altro che l’uccisione del padre.
In tal modo, nel cristianesimo, gli uomini ammettono, come più apertamente si potrebbe, la colpevole azione commessa nella notte dei tempi, dal momento che la completa espiazione di essa è ora trovata nella morte sacrificale dell’unico Figlio. La riconciliazione con il padre è tanto più profonda perché, contemporaneamente a questo sacrificio, ha luogo la rinuncia totale alla donna, a causa della quale ci si era ribellati. Ma a questo punto anche la fatalità dell’ambivalenza reclama i sui diritti. Con la medesima azione che offre al padre la massima espiazione possibile anche il figlio raggiunge lo scopo dei suoi desideri contro il padre. Diventa egli stesso Dio accanto, anzi propriamente al posto del padre. La religione del Figlio si sostituisce a quella del Padre. Il segno di questa sostituzione viene richiamato in vita l’antico pasto totemico in forma di Comunione, nella quale la schiera dei fratelli consuma la carne e il sangue del Figlio, non più del Padre, e con questo atto si santifica e identifica con Lui. Il nostro sguardo persegue attraverso il trascendere dei tempi l’identità del pasto totemico col sacrificio degli dei umani incarnati e con l’Eucaristia cristiana e riconosce in tutte queste solennità la conseguenza del crimine che ha tanto oppresso gli uomini e del quale tuttavia essi dovettero andare tanto superbi. Ma la Comunione cristiana è in fondo una nuova eliminazione del padre, una ripetizione dell’azione da espiare.

Alla fine della sua vita in L'uomo Mosè e la religione monoteistica, il "maestro di Vienna" riprende questo argomento. Il crimine primigenio, che la tradizione giudeo-cristiana miticamente ha chiamato "peccato originale", tende a ritornare alla coscienza dell'umanità. Il cristianesimo supera come religione il monoteismo giudaico, perché ammette l’uccisione di Dio.

Solo una parte del popolo ebraico accettò la nuova dottrina. Coloro che la rifiutano si chiamano ancor oggi Ebrei. (...) Dalla nuova comunità religiosa, che oltre a Ebrei aveva raccolto Egiziani, Greci, Siriaci, Romani e in fine anche Germani, toccò loro sentirsi rivolgere il rimprovero di aver ucciso Dio. Espresso distesamente questo rimprovero suonerebbe: “Non vogliono accettare per vero di aver ucciso Dio, mentre noi lo ammettiamo e siamo lavati da questa colpa”. E’ facile vedere quanta verità si nasconda dietro questo rimprovero. Quanto a perché gli Ebrei non riuscirono a prender parte al progresso implicito nella confessione, per deformata che fosse, del deicidio, la sua spiegazione costituirebbe l’oggetto di un indagine apposita.

Certo, questa confessione dell’uccisione di Dio nel cristianesimo è mascherata, non del tutto svelata. Perciò, invece di manifestarsi chiaramente alla coscienza, appare sotto la forma di sintomi, cioè come nevrosi.

Nonostante tutte le approssimazioni e anticipazioni nel mondo circostante, fu nello spirito di un ebreo, Saulo di Tarso, il quale come cittadino romano s’era dato il nome di Paolo, che per la prima volta si fece strada la nozione: “Siamo così infelici perché abbiamo ucciso Dio Padre”. Ed è ben comprensibile che egli non poté cogliere questo frammento di verità che nella veste delirante della nuova novella: “Siamo redenti da ogni colpa dacché uno di noi ha sacrificato la sua vita per assolverci”. In questa maniera di esprimersi era naturalmente taciuta l’uccisione di Dio (...).

Freud sembra considerare sé stesso come un nuovo San Paolo o Mosé , che porta la coscienza dell'umanità verso una nuova era (postcristiana). La finalità della psicoanalisi è, in fondo, fare riaffiorare nella coscienza questo crimine originale, non come il cristianesimo, nel quale questa “verità” apparirebbe sotto forma di sintomo e allucinazione, ma a un livello superiore. In questo modo, la psicoanalisi supera il cristianesimo, perché, mentre nel cristianesimo il “ritorno del rimosso” produrrebbe dei sintomi nevrotici ossessivi, soprattutto negli atti liturgici, nella psicoanalisi si verificherebbe la presa di coscienza, e i sintomi sparirebbero. In fondo, è portare a compimento la morte di Dio nella coscienza, che sarebbe “l’azione suprema” (Goethe).


Jung e l’esperienza nietzschiana del bene e del male

In Jung, l’influenza di Nietzsche non è minore, anzi, è più esplicita. La sua terapia consiste nel compiere il processo d’individuazione , e superare l’io cosciente, che sarebbe soltanto un aspetto limitato di una realtà più ampia alla quale si appartiene, che lui chiama con il termine di Nietzsche (Selbst), rappresentato attraverso l’immagine archetipica della quaternità, che è sintesi degli opposti. Così come in Freud l’io è un giocattolo nelle mani dell'Es, nella teoria di Jung l’io è sottomesso a forze possenti e autonome nascoste nell’inconscio.

Mettere una persona davanti alla propria ombra equivale a mostrarle anche ciò che in essa è luce. Chi ha fatto questa esperienza, chi nel giudicare sta a mezza strada tra gli opposti, sente inevitabilmente cosa s’intenda con il proprio . Chi percepisce contemporaneamente la propria ombra e la propria luce, vede sé stesso dai due lati e, in tal modo, raggiunge il centro.
È questo il segreto dell’atteggiamento orientale: la contemplazione degli opposti rivela all’uomo orientale la natura della maya che presta alla realtà un carattere illusorio. (...) L’introspezione ci fa dire: “Io sono colui che dice il bene e il male”, e ancor meglio: ‘Io sono colui per mezzo del quale è detto ciò che è bene o male. Colui che è in me, che pronuncia i principia, si serve di me per esprimersi. Egli parla attraverso me” (...) In tedesco adoperiamo a questo fine la parola Selbst [Sé], in opposizione al piccolo Io.

A questo si arriva attraverso l’assunzione dell’inconscio nel conscio, che è l’unione di razionale e irrazionale, bene e male. Jung considera questo il vantaggio del vero protestante , cioè di avere la possibilità di arrivare all’autentico fondo del reale attraverso la malattia della mala coscienza, senza l’ausilio della confessione cattolica.

Il protestante è solo, alla mercé di Dio; non c’è per lui né confessione, né assoluzione, né possibilità alcuna di un opus divinum propiziatorio. Egli deve sopportare da solo il peso dei suoi peccati e non è mai troppo sicuro della grazia divina, la quale per mancanza di un appropriato rituale si è resa inaccessibile. A questo deve la coscienza protestante di essere diventata così vigile, e questa cattiva coscienza ha preso la spiacevole proprietà di una malattia insidiosa, procurando agli uomini una condizione di disagio. Ma si offre così al protestante un’occasione unica di acquistare coscienza del peccato in misura quasi irraggiungibile alla mentalità cattolica, poichè nella Chiesa cattolica la confessione e l’assoluzione sono sempre pronte a equilibrare una tensione troppo forte. Ma il protestante è abbandonato alla sua tensione, che, continuando, rende sempre più acuta la coscienza. La coscienza, e particolarmente la cattiva coscienza, si può considerare un dono del cielo, una vera grazia quando serve ai fini di una più profonda autocritica. Come attività introspettiva e discriminatrice l’autocritica è indispensabile per ogni tentativo di comprendere la propria psicologia. [...] Il pungolo della cattiva coscienza ci srpona anzi a scoprire cose delle quali non avevamo coscienza, e in questo modo possiamo oltrepasare la soglia dell’inconscio e renderci conto dell’esistenza di quelle forze impersonali che fanno del singolo uno strumento inconscio dell’assassino in grande che è nell’uomo. Un protestante che sopravviva alla perdita completa della sua Chiesa rimanendo ugualmente protestante, cioè un uomo di fronte e Dio e senza difesa, e non più protetto da mura o da comunità, si trova nelle condizioni di spirito che sole danno luogo a un’esperienza immediata.

L’archetipo della quaternità supera l’astrazione del bene (Trinità), propria dell’“anima bella”, con l’inclusione in essa del male. È ancora l’esperienza del bene e del male di Nietzsche, e del peccato originale, che, secondo loro, toglierebbe le catene alle energie della psiche. Questo è proprio il nocciolo della psicologia di Jung.

 


4) L’influsso di Nietzsche e la psicoanalisi nel mondo cristiano

Il tema, come si può capire, è molto importante, soprattutto perché oggi le scienze umane, e in particolare la psicologia, sono entrate a far parte della vita quotidiana di tanti cristiani, ma anche negli studi teologici e nella formazione di molti seminaristi e religiosi , e, se non conosciamo le basi teoriche di molte scuole di psicologia, non capiremo neanche le loro conseguenze pratiche sull’esistenza cristiana. Per vedere un esempio dell'assimilazione da parte del mondo cattolico delle idee di Nietzsche, Freud e Jung sul carattere patologico della morale cristiana, leggiamo i seguenti brani del noto psicoanalista Albert Görres.

Gli psicoterapeuti conoscono per esperienza le cosiddette nevrosi ecclesiogene, vale a dire le nevrosi condizionate da una educazione ecclesiastica, che costituiscono un folto gruppo nel numero ancor più grande dei 'danneggiati dal Vangelo'.
Ci sono tanti individui, per i quali il Vangelo, così come è proposto e spiegato dalle Chiese e capito dagli uditori, non è divenuto un nutrimento e una medicina, bensì una sostanza indigeribile o addiritura un veleno. Esistono non pochi suicidi ecclesiogeni, angosce, depressioni, depravazioni, sviluppi errati ancora peggiori ecclesiogeni.

Il cristianesimo, secondo questo psicoanalista ispirato da Nietzsche, condanna la natura dell'uomo e le sue tendenze. Ad esempio, l’aggressività.

Altre sentenze di Gesù le troviamo spaventose, anzi distruttive. Così, ad esempio, il divieto radicale dell'agressione (Mt 5, 22): “Chiunque si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice a suo fratello: stupido, sarà sottoposto a sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geena”. Pur astraendo della contraddizione che riscontriamo tra queste affermazioni e il comportamento di Gesù, nonché l'aggressività di molti testi e precetti dell'Antico Testamento, siamo inquietati dall'ingiunzione di dover per così dire inaridire una metà del nostro patrimonio biologico naturale, cioè la capacità di prender parte energicamente alla lotta per l'esistenza. E questo, così almeno ci sembra, non è possibile. Coloro che vogliono essere troppo buoni e pacifici il collerico Jahvé li lascia cadere nelle mani degli psicoterapeuti. L'evitare in maniera essagerata l'aggressività non rende buoni, ma falsi, ipocriti e malati.

Tra queste tendeze, anche la sessualità.

Poche righe dopo il divieto dell'aggressione troviamo di nuovo una richiesta, che ci sembra rendere impossibile un rapporto umano e ragionevole con la nostra sfera istintuale: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, già ha commesso con lei adulterio nel suo cuore”. E quasi ciò non bastasse, ecco Paolo rincaricare la dose e pretendere che gli uomini non debbono possedere le loro mogli in maniera passionale come i pagani (Mt 5, 28; 1 Ts 4,4).

Il carattere soprannaturale della vocazione cristiana, che nel pensiero tradizionale, dai Padri a san Tommaso, è considerato come un invito a abbandonarsi nelle mani di Dio, che porta a compimento la nostra perfezione è, invece, messo sotto accusa come antinaturale. Il problema sarebbe che "l'invito di Gesù: 'Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste' (Mt 5, 48) supera ogni misura umana. Esso”, dice Görres, “sembra fatto apposta per avvelenare la vita con sentimenti permanenti di fallimento e di colpa" . Alla fine il cristianesimo viene concepito in prospettiva dialettica, perchè il bene e il male sarebbero complementari: "Il messagio del cristianesimo ricco di tensioni corrisponde al messaggio dialettico della realtà" . Bisogna trovare un compromesso tra "Dioniso e il Crocifisso", come direbbe Nietzsche.
I testi parlano da soli. Ci sembra evidente la chiara contraddizione tra il vero cristianesimo e queste teorie, radicalmente anticristiane. Crediamo, per tanto, molto pericolosa la sua asunzione da parte dei cristiani e dei teologi. Rimandiamo ad un’altra occasione la critica di queste impostazioni, e la presentazione di un'autentica psicologia cristiana. Per finire, ci sembrano opportune le parole di Edith Stein, una vera e autentica psicologa del profondo, perché mistica:

Costituirebbe un lavoro specifico esaminare una buona volta la storia della psicologia sotto questo profilo, per scoprire in quale rapporto stia – nel singolo ricercatore e nella corrispondente epoca – l’atteggiamento assunto nella vita di fede e la relativa concezione dell’anima.

 

Fonte: http://www.hafricah.net/public/appunti/nietz-psicologia-psicanalisi.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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Nietzsche e la psicoanalisi

 

Eterno ritorno

L'eterno ritorno dell'uguale, più spesso detto soltanto eterno ritorno, in senso generale caratterizza tutte le ontologie circolari, come quella stoica, per cui l'universo rinasce e rimuore in base a cicli temporali fissati e necessari, ripetendo eternamente un certo corso e rimanendo sempre se stesso.
In senso più specifico l' eterno ritorno è uno dei capisaldi della filosofia di Friedrich Nietzsche. Il ragionamento che sta dietro al semplice - ma spesso incompreso - concetto di Nietzsche è il seguente:
In un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte.
Ad esempio, tirando infinite volte tre dadi a sei facce, ognuna delle 216 combinazioni potrà comparire infinite volte.
Questa chiave di lettura risulta chiara dalla lettura di un passo dei Frammenti Postumi risalente al 1881, mentre è più criptico ed ermetico nei relativi riferimenti in La gaia scienza (1882) e in Così parlò Zarathustra (1885).
Nel caso specifico del discorso esistenziale, Nietzsche fa notare che (essendo le "cose del mondo" di numero finito, e il tempo infinito) anche nella vita umana questo concetto è applicabile: ogni evento che possiamo vivere, l'abbiamo già vissuto infinite volte nel passato, e lo vivremo infinite volte nel futuro. La nostra stessa vita è già accaduta, e in questo modo perde di senso ogni visione escatologica[2] della vita. In Così parlò Zarathustra Nietzsche mostra come il comprendere questo punto sia fondamentale nel processo di crescita spirituale che porta all'Oltreuomo. La caratteristica fondamentale dell'Oltreuomo sta proprio nella sua capacità di non pensare più in termini di passato e futuro, di principii da rispettare e scopi da raggiungere, ma vivere "qui e ora" nell'attimo presente.

L'eterno ritorno ne La gaia scienza

« Che accadrebbe se un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione [...]. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!". Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: "Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina"?[5]. Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: "Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?" graverebbe sul tuo agire come il pensiero più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun'altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? »

L'eterno ritorno nel Così parlò Zarathustra

« "[...] proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia.

"Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine.
Questa lunga via fino alla porta e all'indietro: dura un'eternità. E quella lunga via fuori della porta e avanti è un'altra eternità.
Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l'un contro l'altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: "attimo".
Ma, chi ne percorresse uno dei due sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?".
"Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo".
[...] Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta?
E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l'una all'altra, in modo tale che questo attìmo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque anche se stesso?
[...] E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti non dobbiamo tutti esserci stati un'altra volta? e ritornare a camminare in quell'altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via non dobbiamo ritornare in eterno?".
Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi. E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare.
Non avevo già udito una volta un cane ululare così? Il mio pensiero corse all'indietro. Sì! Quand'ero bambino, in infanzia remota: allora udii un cane ululare così. [...]
D'un tratto mi trovai in mezzo a orridi macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna.
Ma qui giaceva un uomo! E proprio qui! il cane, che saltava, col pelo irto, guaiolante, adesso mi vide accorrere e allora ululò di nuovo, urlò: avevo mai sentito prima un cane urlare aiuto a quel modo?
E, davvero, ciò che vidi, non l'avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca.
Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e lì si era abbarbicato mordendo.
La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava invano! Non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: "Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!", così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me buono o cattivo gridava da dentro di me, fuso in un sol grido. [...]
Voi che amate gli enigmi!
Sciogliete dunque l'enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario tra gli uomini!
Giacché era una visione e una previsione: che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire? Chi è il pastore, cui il serpente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l'uomo, cui le più grevi e le più nere fra le cose strisceranno nelle fauci?
Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido: e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente; e balzò in piedi.
Non più pastore, non più uomo, un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!
Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa.La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora! »

L'eterno ritorno nei Frammenti Postumi

« La misura della forza del cosmo è determinata, non è “infinita”: guardiamoci da questi eccessi del concetto! Conseguentemente, il numero delle posizioni, dei mutamenti, delle combinazioni e degli sviluppi di questa forza è certamente immane e in sostanza “non misurabile”; ma in ogni caso è anche determinato e non infinito. È vero che il tempo nel quale il cosmo esercita la sua forza è infinito[7], cioè la forza è eternamente uguale ed eternamente attiva: fino a questo attimo, è già trascorsa un’infinità, cioè tutti i possibili sviluppi debbono già essere esistiti. Conseguentemente, lo sviluppo momentaneo deve essere una ripetizione, e così quello che lo ha generato e quello che da esso nasce, e così via: in avanti e all’indietro! Tutto è esistito innumerevoli volte, in quanto la condizione complessiva di tutte le forze ritorna sempre »

 

Volontà di potenza

Il concetto di volontà di potenza (Wille zur Macht in tedesco), insieme a quello di superuomo, a quello dell'eterno ritorno e a quello della trasvalutazione di tutti i valori, è un concetto caratteristico della filosofia di Nietzsche. Esso è stato teorizzato in particolare nell'opera La volontà di potenza. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori, raccolta postuma di frammenti riuniti in modo arbitrario dalla sorella di Nietzsche, la quale ne condizionò in tal modo l'interpretazione portando al fraintendimento di quest'opera in ottica razzista e autoritaria.
Il concetto, mutuato probabilmente da Spinoza e da alcuni saggi di Emerson, come "Potenza" (Power, 1860), viene menzionato per la prima volta in Così parlò Zarathustra, per poi essere ripreso, almeno a margine, in quasi tutte le opere successive. Esso si rifà inoltre alla centralità della volontà nella filosofia di Schopenhauer, intesa come volontà di vita che si afferma al di là e al di sopra di ogni rappresentazione, nei singoli viventi, e che va convertita in noluntas, o non-volontà, mediante una sorta di percorso ascetico ispirato allo spiritualismo orientale.
La volontà di potenza è la volontà che vuole sé stessa, ovvero la volontà come perpetua trascendenza e rinnovamento dei propri valori. La volontà di potenza non si afferma dunque come desiderio concreto di uno o più oggetti specifici, ma come il meccanismo del desiderio nel suo stesso funzionamento incessante: esso vuole, continuamente, senza sosta, il suo stesso accrescimento, ovvero è pulsione infinita di rinnovamento. È evidente in tal senso il nesso profondo che lega il tema della volontà di potenza con quello del superuomo e dell'eterno ritorno: è caratteristico del superuomo, infatti, poter assumere su di sé con leggerezza tutto il peso di questa volontà creatrice, accettando e affermando nel contempo l'inesorabile ripetizione dell'attimo creativo, che soggiace alla teoria dell'eterno ritorno.

Apollineo e dionisiaco

Nietzsche mostra di interpretare la civiltà greca non tradizionalmente sulla base della calma grandezza e della nobile semplicità, così come aveva predicato il padre putativo del neoclassicismo, Winckelmann; e tale suo approccio nei confronti della Grecità si rivela nell'ambito dell'interpretazione del fenomeno tragico, che per Nietzsche è il più emblematico nella prospettiva della cultura greca, da lui definito come un qualcosa che agli occhi degli Ateniesi assumeva il significato di una festa eccezionale e lungamente attesa.
Secondo Nietzsche, l'animo dell'ateniese che assisteva alla tragedia aveva in sé qualcosa di quell'elemento originario da cui la tragedia era scaturita, ossia la componente dionisiaca. Essa viene interpretata come una forza metafisica originaria della Natura, come un impulso primaverile, che porta con sé il gioco con l'ebbrezza e la soppressione del principium individuationis; il risultato è dunque un saldo legame tra uomo e uomo, e anche tra uomo e Natura, la cui forza plasmante fa sì che ogni individuo partecipi dell'Uno-Tutto e diventi esso stesso opera d'arte.
Il dramma attico appare dunque come un culto naturalistico che, presso i popoli dell'Asia aveva il senso del più crudo scatenamento di bassi istinti, configurandosi come vera esperienza orgiastica e animalesca, in grado di spezzare nel contingente tutti i vincoli sociali, ma che nell'arte greca assume uno sviluppo differente mediante l'interazione dell'artista apollineo.
L'apollineo nel merito della tragedia greca incarna la componente formale-razionale; egli è il dio del sogno e l'arte apollinea è il gioco con il sogno, è il momento della rappresentazione della realtà e come tale implica una sorta di limitazione misurata, una forma di libertà dagli impulsi più selvaggi, portando con sé quella saggezza e quella calma peculiarmente ascrivibili alla sua solarità e alla sua essenza di dio plastico: con tali caratteristiche Apollo interviene dunque sul suo oppositore con il suo intelligente senso della misura, in maniera tale che esso non si accorga di andare in giro semiprigioniero.
È l'impronta del dio di Delfi a serrare nelle catene della bellezza l'istinto dirompente della divinità dell'ebbrezza. L'estasi dello stato dionisiaco determinerebbe una momentanea fuga dal mondo della realtà consueta che, riemergendo nuovamente alla coscienza, verrebbe sentita come nausea.
Nella consapevolezza del risveglio dall'ebbrezza si vedrebbe, secondo Nietzsche, tutto l'orrore e l'assurdità dell'esistenza umana, verso la quale si nutrirebbe disgusto.
In tale contesto si chiarisce dunque il fine precipuo dell'apollineo, la cui intenzione non è quella di reprimere o soggiogare l'istanza dionisiaca, bensì di sublimarla trasformando le sensazioni di nausea e orrore per l'assurdità dell'esistenza umana in rappresentazioni con cui sia possibile convivere; il sublime diventa infatti la rappresentazione dell'orrore, mentre il comico si configura come liberazione artistica del disgusto per il carattere assurdo della vita umana.
La tragedia greca è dunque un gioco con l'ebbrezza, ma non l'essere completamente divorati da essa, e se è allora che nell'attore si riconosce l'uomo dionisiaco, è pur vero che esso viene riconosciuto come uomo dionisiaco messo in scena; è in merito a ciò dunque che Nietzsche coglie il fine più alto della cultura apollinea nell'esigenza etica della misura.
Il grande merito riconosciuto da Nietzsche al dramma attico è quello di far convivere l'uomo con la chiara consapevolezza della nullità della sua esistenza, mostrata così come essa è, ma all'interno di una sorta di specchio trasfigurante.

Oltreuomo

Il concetto di oltreuomo (in tedesco: Übermensch) viene introdotto dal filosofo Friedrich Nietzsche. Benché in italiano sia soprattutto noto con il termine superuomo, la traduzione più coerente con il concetto di übermensch è, secondo molti studiosi oltreuomo;[senza fonte] chiarificando, peraltro, la congettura per cui l'oltreuomo è un uomo potenziato, laddove egli rappresenta invece l'uomo che va oltre i propri limiti. È una figura ideale, capace di riconoscere i propri limiti, e che, attraverso l'uso della conoscenza e del pensiero filosofico, li trascende superando in questo modo se stesso.

Esistono alcune concezioni diffuse, ma ritenute inesatte, su questa figura: in particolare che corrisponda all'ideale di razza pura del nazismo, oppure che sia affine ai supereroi dei fumetti. In realtà l'oltreuomo di Nietzsche è un ideale traguardo evolutivo della specie umana, senza particolari connotazioni biologiche, né tantomeno soprannaturali. Il pensiero di Nietzsche mira alla creazione di valori liberamente scelti dall'uomo e non a un potere legato alla discriminazione razziale.
Il superomismo, ossia l'atteggiamento di attesa di tipi umani superiori, non è stata comunque una novità assoluta introdotta da Nietzsche. Per esempio, già un autore amato da Nietzsche, Ralph Waldo Emerson, ispirandosi al culto degli eroi di Thomas Carlyle, parlava di una variegata serie di figure umane idealizzate come i "grandi uomini", gli "uomini rappresentativi", "il Poeta", il "Pensatore" il "semidio" ma anche l'uomo della potenza e della sovrabbondanza vitale, che Emerson chiamava plus man nel saggio Potenza. Probabilmente l'übermensch nietzschiano è stato mutuato da quest'espressione.[senza fonte]
Nella sua opera Così parlò Zarathustra (Also sprach Zarathustra) Nietzsche spiega i tre passi che l'essere umano deve seguire per divenire superuomo (uomo del superamento):

possedere una volontà distruttiva, in grado di mettere in discussione gli ideali prestabiliti;

superare il nichilismo, attraverso la gioia tragica e il recupero della volontà di potenza;

perpetrare e promuovere eternamente il processo di creazione e rigenerazione dei valori sposando la nuova e disumana dimensione morale dell' "amor fati", che delinea un amore gioioso e salubre per l'eternità in ogni suo aspetto terribile, caotico e problematico.

 

Maschera

Nietzsche e la sua filosofia hanno accompagnato per mano tutto questo secolo, con le loro contraddizioni, ma anche con le loro acute disillusioni e intuizioni. Il suo aspetto critico del costume e delle ipocrisie della mentalità tradizionale ci pone di fronte ad un atteggiamento di smascheramento della realtà da parte del filosofo. Proprio per questo, buona parte del discorso nietzscheano riguarda implicitamente la maschera.  Durante la sua opera viene espressa sotto forma di finzione, illusione, verità divenuta favola, in generale, rapportarsi dell'uomo col mondo dei simboli.
La maschera può essere sostanziale filo conduttore, perché sin dalle opere giovanili, nell'elaborazione di questo problema, Nietzsche va delineando i teoremi della sua filosofia. Da sempre questo, rappresenta il problema tra essere e apparenza, l'impossibilità di raggiungere uno stato di coincidenza assoluta tra essenza e coscienza, tra natura e spirito.
Nietzsche si pone nei confronti di questo problema innanzitutto in qualità di filologo, realizzando pienamente gli obbiettivi della filologia nei confronti dell'antichità classica, assumendola dunque come modello in vista di una critica sul presente. L'equilibrio della classicità, la sua perfezione di forma, il bilanciamento dei suoi contenuti sono stati sempre simbolo di coincidenza tra interno ed esterno, tra cosa in sé e fenomeno. Proprio grazie al suo sguardo critico e ad un primo segno di accordo con le teorie Schopenhaueriane, il filologo trova che non solo non vi è adeguazione reciproca tra essere e apparire, ma oltretutto si fa strada in lui la convinzione che il classico stesso sia una forma di reazione difensiva all'impossibilità oggettiva di questa coincidenza. 
Così i caratteri di equilibrio ed armonia, compiutezza e perfezione formale, risultano essere soltanto una maschera, apparenza di una cosa in sè che soffre di profonde dilacerazioni, e cambia il suo ruolo diventando peculiare configurazione dell'inevitabile divergenza tra le due nature della realtà. Nasce così un modo di vedere il mondo classico scisso nei suoi due volti, apollineo e dionisiaco. Ne La nascita della tragedia Nietzsche comincia a considerare infatti anche la natura più oscura delle cose e, sempre nel contesto della classicità, individua gli elementi di squilibrio che si contrappongono alla perfezione ed al rigore ellenico. C'è l'introduzione di una chiave di lettura dualitaria della grecità, che N. scorge già in Natura, espressione di due impulsi dell'anima.
Il dionisiaco, dunque, che scaturisce dalla forza vitale e dal senso caotico del divenire, si esprime artisticamente nella musica. L'apollineo, che scaturisce da un atteggiamento di fuga di fronte al flusso imprevedibile degli eventi, si esprime artisticamente nelle linee armoniche dell'arte plastica e dell'epopea.
N. modifica profondamente il contenuto della nozione di classico, poiché riconosce l'apparente equilibrio nell'apollineo solo come una particolare forma di maschera che l'antica civiltà greca si era costruita per distrarre se stessa da un lato grigio e sempre presente che veniva formalmente rifiutato. Una maschera per nascondersi dall'origine dionisiaca della sensibilità greca, portata a scorgere ovunque il dramma della vita e della morte, e gli aspetti orribili e assurdi della crudele vicenda dell'essere. L'apollineo dunque nasce per N. nel tentativo di sublimare il caos nella forma, esorcizzare la mancanza di certezze e rendere accettabile la vita.
Gli stessi dèi olimpici nient'altro sono per lui, che una trasposizione degli uomini mitico-ideale, nata per superare la paura della dolorosa caducità dell'essere-uomo. 
Divise inoltre secondo questa nuova chiave di lettura il mondo ellenico in tre periodi:

- la Grecia presocratica, nella quale dionisiaco e apollineo vissero separati ed opposti

- il periodo della tragedia attica, apollineo e dionisiaco, si armonizzarono fra di loro dando origine a capolavori sublimi, nella grande tragedia greca convissero infatti musicalità e forma

- ed infine un terzo periodo nel quale con l'avvento di Euripide scompare dal teatro la figura dell'eroe a favore dell'omuncolo, e con Socrate il mondo prende ad essere visto tramite il pallido ideale della ragione in una visione serena e misurata lasciando decadere il sentimento tragico. 

Come già detto, in qualità di studioso dell'antichità, si pone nei suoi confronti con un atteggiamento che sintetizza i tre da lui analizzati: monumentale, archeologico e critico, specialmente utilizzando il primo di questi, che tende a continuare a cercare esempi e modelli nel passato per la vita presente. E' di fronte a questi modelli, seppur criticati, che la vita presente si caratterizza come decadenza. Decadenza come mancanza di un'unità di stile. N. vede l'uomo del suo tempo avvolto da una globale incoerenza tra forma e contenuto, da cui ogni forma risulta poi a tale uomo e al filosofo che osserva nient'altro che travestimento.
Specificatamente nella Nascita della tragedia,  la maschera è attribuita al dolore e alla sofferenza stessa dell'uno primordiale, della volontà, in pieno accordo o quasi con la teoria di Schopenhauer.
Più avanti, il pensiero di questo travestimento verrà riformulato, esso non sarebbe qualcosa che ci appartiene naturalmente, ma si assumerebbe deliberatamente in vista di qualche scopo, o da qualche bisogno. Nell'uomo moderno il travestimento viene assunto per combattere uno stato di paura e di debolezza. La malattia storica, cioè la consapevolezza del carattere diveniente delle cose, ha reso l'uomo incapace di creare la storia, per via dell'insicurezza delle proprie decisioni e il terrore di assumersi responsabilità storica. 

Cristianesimo

Nietzsche si colloca fuori dai principali movimenti filosofici dell'epoca, quali il romanticismo e il positivismo, anche se nella sua opera si possono riscontrare elementi romantici. Egli sostiene di non essere un uomo ma una dinamite, poiche' si sentiva come il distruttore di tutto cio' che e' razionale e di tutti i valori. Quella di Nietzsche, va considerata una filosofia della crisi poiche', con la distruzione di tutti i valori egli vuole giungere ad un mondo senza trascendenza; egli infatti nei suoi scritti critica soprattutto Platone, che ha introdotto l'idea di trascendente.
Nietzsche, nella “Nascita della tragedia, parte dalla distinzione fra spirito Dionisiaco ed Apollineo ovvero il contrasto fra caos e forma ed istinto e ragione, ovvero le coordinate di fondo dello spirito Greco.
Il Dionisiaco, forza vitale e divenire, l'ebbrezza continua, si esprimeva nel mondo Greco nella musica, mentre l'Apollineo, atteggiamento di fuga di fronte agli eventi imprevedibili della vita, si esprimeva nella scultura e nell'epopea. Lo spirito apollineo e' rappresentato dalla figura di Socrate, mentre l'apollineo da quella di Calli. Nietzsche insiste sul carattere originariamente Dionisiaco dei Greci portati a scorgere ovunque il dramma della vita e della morte. Per Nietzsche la tragedia nasce appunto dalla fusione fra lo spirito Dionisiaco e Apollineo (Sofocle ed Eschilo) ma col passare degli anni, nell'arte successiva l'Apollineo trionfa sul Dionisiaco (Euripide). Particolarmente duro e' il giudizio di Nietzsche su Socrate visto come il campione dello spirito Apollineo, che con il suo intellettualismo astratto ha dato avvio alla decadenza del popolo greco. Per Nietzsche Dioniso e' il simbolo dell'esaltazione entusiastica della vita e del mondo. Non rappresenta, come lo spirito Apollineo, un atteggiamento di rassegnazione al dolore della vita ma, al contrario, un'accettazione totale di essa nell'insieme dei contrari che la caratterizzano il che, a detta di Nietzsche, puo' trasformare il dolore in gioia. Nell'accettare lo spirito Dionisiaco Nietzsche propone un rinnovo della tavola tradizionale dei valori. Non piu', infatti, valori di rinuncia, ma passioni che dicono si alla vita e al mondo. Da qui la polemica contro la morale ed il Cristianesimo. Nietzsche, infatti, mette in discussione la morale stessa cercandone in primo luogo la genesi psicologica. Secondo Nietzsche la morale discende dalla presenza in noi delle autorita' sociali. Nel mondo classico la morale di tipo cavalleresco e' improntata su valori vitali (la morale dei signori) ma con l'avvento del Cristianesimo si passa ai valori di antivitalita' ovvero di abnegazione e sacrificio (morale degli schiavi). Il passaggio da una morale all'altra si ha a causa della divisione in caste: la casta dei guerrieri (aristocratici) che coltivava le virtu' del corpo e la classe dei sacerdoti (i farisei) le virtu' dello spirito il risentimento dei sacerdoti porta all'inversione della tavola dei valori: al corpo e all'orgoglio si sostituiscono lo spirito e l'umilta'. Questo porta alla nascita del Cristianesimo che inibisce gli impulsi dell'esistenza con il peccato e il senso di colpa che porta l'uomo alla repressione e all'auto tormento.
Nietzsche a questo punto propone quindi una nuova tavola di valori a misura dell'esistenza terrena e di corpo dell'uomo, basata sull'accettazione totale dello spirito Dionisiaco della vita. A questo punto Nietzsche popone la sua teoria piu' famosa: la morte di Dio. Dio e' morto in quanto lo hanno ucciso gli uomini. Per Nietzsche, infatti dio e' il simbolo della prospettiva antivitale e antimondana dell'uomo, che pone il suo stesso essere fuori da se, personificando le certezze dare un senso alla sua vita. L'uomo costruisce quindi Dio per sopportare la durezza della vita, quindi esso non rappresenta altro che una fuga dal mondo e dalla vita stessa. Nietzsche non tenta di confutare filosoficamente la non esistenza di Dio, affermando che esso e' menzogna, mera espressione della paura dell'uomo di fronte alla vita. La morte di dio porta la perdita da parte dell'uomo, di ogni punto di riferimento, l'uomo si trova dunque solo. Cio' porta la nascita del Super uomo ( o altrimenti detto oltre uomo). Il super uomo rappresenta colui che e' in grado di accettare completamente lo spirito Dionisiaco della vita, un anticonformista capace di sopportare le conseguenze della morte di Dio. Il modo di essere del super uomo si esprime nella volonta' di potenza, il suo fine ultimo e' la terrestrita', i piaceri della vita. Nietzsche anche se critica il Cristianesimo, esalta la figura di Cristo che vede come un anticonformista che proprio per questo e' morto sulla croce. Questa teoria ha un carattere molto ambiguo. Il superuomo, infatti, puo' rappresentare una societa' liberata (secondo un'interpretazione di Sinistra) o un elite di uomini (interpretazione di Destra). Tipico modo di essere del super uomo e' la volonta' di potenza, che rappresenta il continuo superamento che la vita fa di se stessa.
Ma la teoria meno chiara di Nietzsche e' quella dell'eterno ritorno ovvero dell'eterna ripetizione dei fatti del mondo. Essa rappresenta un'ulteriore distinzione fra l'uomo e il super uomo. L'uomo, infatti viene assalito dalla paura e dall'angoscia, mentre il super uomo che ha accettato la vita e' investito dalla gioia. Questa teoria e' esplicitata in così parlo' Zarathustra ( il cui motto era vivi e fa quel che ti piace).
Critica i positivisti che vogliono ordinare la realta', che a volte, per Nietzsche, e' anche caos e disordine, ne critica inoltre la ragion quadra che guada il mondo come un ordine unitario.
Per Nietzsche non vale la regola L'arte per l'arte, in quanto il fine dell'arte non deve essere l'arte stessa, ma la felicita', la promessa di un esistenza, piena e compiuta. L'arte e' il mezzo per superare tutto cio' che intende deprimere l'uomo.

LO SPIRITO LIBERO

Vien detto spirito libero colui che pensa in modo diverso da come ci si aspetterebbe in base alle sue origini, al suo ambiente, al suo ceto sociale e al suo ufficio, o in base alle opinioni dominanti. Egli è l'eccezione, gli spiriti vincolati sono la regola; questi gli rimproverano che i suoi liberi principi derivano dalla smania di farsi notare, o addirittura che lasciano supporre azioni libere, azioni cioè incompatibili con la morale vincolata. Talvolta si dice altresì che questi o quei liberi principi sian da ricondurre a stravaganza o a ipertensione della mente; ma così parla solo la cattiveria, che non crede essa stessa a quanto dice ma pure vuole, in tal modo, nuocere: poiché la testimonianza della maggiore bontà e acutezza d'intelletto dello spirito libero gli sta normalmente scritta in viso, così leggibile che gli spiriti vincolati la capiscono benissimo.
Poiché consapevole della complessità delle motivazioni e della molteplicità dei punti di vista è avverso a ogni fanatismo di chi pretende possedere la verità assoluta, e cioè dell'uomo delle convinzioni, che è esponente dell'età arretrata dell'innocenza teoretica. Scegliere la libertà dello spirito comporta dunque abbandonare costantemente i nostri ideali, diventando traditori e commettendo infedeltà, ("per aver giurato fedeltà, forse a un essere del tutto immaginario come un dio, per aver dato il proprio cuore a un principe, a un partito, a una donna, a un ordine sacerdotale, a un artista, a un pensatore, in uno stato di cieca illusione che ci rapiva e ci faceva apparire quegli esseri come degni di ogni venerazione, di ogni sacrificio, si è ora indissolubilmente vincolati? Anzi, non abbiamo allora ingannato noi stessi? Non era quella una promessa ipotetica, con la seppur tacita presupposizione che quegli esseri, ai quali ci consacravamo, fossero realmente come apparivano alla nostra immaginazione? Siamo tenuti a restar fedeli ai nostri errori, anche rendendoci conto che con questa fedeltà danneggiamo il nostro io superiore? - No, non esiste nessuna legge, nessun dovere di questo tipo; noi dobbiamo diventare traditori, commettere infedeltà, sacrificare di continuo i nostri ideali"), e rinunciare senza rammarico e senza risentimento, a quasi tutto quello che ha importanza agli occhi degli altri per un sollevarsi libero e senza paura al di sopra di uomini, costumi, leggi e tradizionali valutazioni delle cose che consenta di superare i limiti dell'individualità comprendendo e vivendo in sé l'intera coscienza dell'umanità.
Lo spirito libero assume come obiettivo della propria vita la "conoscenza". Disprezza perciò l'attivismo dell'uomo contemporaneo, dominato dal capriccio di passioni mutevoli e prigioniero di convinzioni dogmatiche; sono forse i vantaggi dei nostri tempi a portar con sé una diminuzione, e talora una sottovalutazione, della vita contemplativa. All'uomo attivo manca il tempo per pensare e la calma nel pensare; non si prendono più in considerazione quelle idee che esulano dalla norma: ci si limita a odiarle. Nell'enorme acceleramento della vita, occhio e spirito si abituano a vedere e a giudicare a metà o in modo errato, e ognuno assomiglia a quei viaggiatori che fan la conoscenza di un paese o di un popolo dal treno. Agli uomini attivi di solito fa difetto l'attività più alta: voglio dire quella individuale. Essi sono attivi come funzionari, commercianti, dotti, cioè come esseri generici, non come uomini affatto determinati, singoli, unici; sotto questo punto di vista sono pigri. E' la disgrazia degli attivi, il fatto che la loro attività sia quasi sempre un po' insensata. Non si può ad esempio chiedere, al banchiere che ammucchia denaro, lo scopo di quella sua incessante attività: essa è insensata. Gli attivi rotolano come rotola la pietra, con meccanica stupidità. Tutti gli uomini si dividono, in ogni tempo e anche oggi, in schiavi e liberi: chi, infatti, non ha per sé i due terzi della sua giornata, è uno schiavo, qualunque cosa sia politico, commerciante, funzionario, dotto.
Su ogni cosa sulla quale sia possibile avere opinioni, ciascuno debba possedere un'opinione propria, in quanto egli stesso è qualcosa di particolare e di irrepetibile, che assume, rispetto a tutte le altre cose, una posizione nuova e mai esistita prima. Ma la pigrizia che giace in fondo all'anima dell'uomo attivo gli impedisce di macinar la farina del suo sacco.
La libertà da ogni certezza illusoria, acquisita mediante il sapere, condanna lo spirito libero alla solitudine, ma non alla tristezza e all'infelicità. Si allontana dunque dall'uomo attivo, e vive totalmente assorto in una solitudine da cui sa attingere letizia intellettuale. La solitudine renderà nobile la sua anima, e cioè capace non tanto di voli alti, quanto di vivere in un ambiente ricco di purezza, moderazione, mitezza, carattere, apportatore di felicità e irradiante felicità; gli consentirà di sperimentare una gioia nutrita da grandezza, calma, solarità, qualità intellettuali provenienti da pensieri che elevano, tranquillizzano e illuminano; e di procedere, nella ricerca della filosofia del mattino, con una passo lieve, quasi senza rumore, fiducioso e spedito, mentre la luce del sole gioca nel suo profondo.
Accortezza degli spiriti liberi. - Uomini di sentimenti liberi, che vivono solo della conoscenza, si troveranno presto ad aver raggiunto lo scopo esteriore della loro vita, la posizione definitiva nei confronti della società e dello Stato, e si sentiranno ad esempio ben soddisfatti di una piccola carica o di una sostanza che basti appunto a vivere; infatti essi regoleranno la propria esistenza in modo che nessun grande mutamento dei beni esterni né alcun sovvertimento dell'ordine politico possano coinvolgere la loro vita. In tutte queste cose essi spendono la minore energia possibile, per potersi immergere, con tutta la forza così risparmiata, e per cosi dire con un lungo respiro, nell'elemento del conoscere. Così possono sperare di immergersi in profondità e di guardare anche sul fondo. Di un avvenimento, un tale spirito prenderà solo un lembo: non ama le cose in tutta l'ampiezza e prolissità delle loro pieghe, poiché non vuole lasciarsene coinvolgere. - Anch'egli conosce i giorni feriali della mancanza di libertà, della dipendenza, dell'asservimento. Ma di tempo in tempo deve giungere anche per lui una domenica di libertà, altrimenti non sopporterà la vita. E possibile che anche il suo amore per gli uomini sia cauto e di breve respiro, perché egli vuole abbandonarsi al mondo delle inclinazioni e della cecità solo quel tanto necessario al fine della conoscenza. Deve confidare che il genio della giustizia dirà qualcosa a favore del suo discepolo e protetto, se voci accusatrici dovessero chiamarlo privo d'amore. - C'è, nel suo modo di vivere e di pensare, un raffinato eroismo, che disdegna di offrirsi alla grande ammirazione delle masse, come fa il suo più rozzo fratello e suole andare silenzioso per il mondo e via dal mondo. Quali che siano i labirinti che attraversa, gli scogli tra i quali si è talvolta tormentato il suo corso, se torna alla luce prosegue chiaro, lieve e quasi senza rumore per la sua via, e lascia che la luce del sole giochi sin nel suo profondo.
Avanti. - con ciò, avanti sulla strada della saggezza, di buon passo e con fiducia! Comunque tu sia, servi a te stesso come fonte di esperienza! Sbarazzati del malcontento sul tuo essere, perdonati il tuo io, giacché in ogni caso hai in te una scala dai cento gradini, sulla quale puoi salire verso la conoscenza. L'epoca in cui con rincrescimento ti senti precipitato, ti chiama beato per questa fortuna; ti grida che sarai ancora partecipe di esperienze alle quali uomini di epoche più tarde dovranno forse rinunciare. Non disprezzare di essere stato ancora religioso; valuta appieno quale genuino accesso tu abbia ancora avuto all'arte. Forte appunto di queste esperienze, non puoi tu percorrere con maggior consapevolezza enormi tratti del cammino dell'umanità passata? Non sono forse cresciuti proprio su quel terreno che a volte tanto ti spiace, sul terreno del pensiero impuro, molti dei frutti più splendidi della vecchia cultura? Non si può diventar saggi, se non abbiamo amato arte e religione come madre e nutrice. Ma si deve guardare al di là di esse, sapersene svezzare; se si rimane in loro balia, non le si può comprendere. Così pure ti debbono essere familiari la storia e il cauto gioco con i piatti della bilancia: "da una parte - dall'altra". Torna indietro, calcando le orme sulle quali l'umanità fece il suo grande, doloroso cammino nel deserto del passato: così apprenderai nel modo più sicuro in quale direzione l'umanità futura non dovrà o non potrà più andare. E mentre con tutte le tue forze vorrai spiare in anticipo in quale nodo il futuro sarà ancora annodato, la tua vita acquisterà valore di strumento e mezzo per la conoscenza. E' in mano tua far sì che tutto quel che hai vissuto: tentativi, vie false, errori, illusioni, passione, amore e speranza, si dissolvano nel tuo fine senza resti. Questo fine è di diventare tu stesso una necessaria catena di anelli della cultura, e di concludere da questa necessità alla necessità del cammino della cultura universale. Quando il tuo sguardo sarà divenuto forte abbastanza da vedere il fondo dell'oscuro pozzo del tuo essere e delle tue conoscenze, allora forse, nel suo specchio, per te saranno visibili anche le lontane costellazioni delle culture di domani. Credi che una vita simile, con uno scopo simile, sia troppo faticosa e priva di vantaggi? Allora non hai ancora imparato che non esiste miele più dolce della conoscenza, e che le nubi minacciose della desolazione dovranno esser per te la mammella da cui mungere latte per il tuo ristoro. Solo quando sarà sopraggiunta la vecchiaia capirai veramente come tu abbia ascoltato la voce della natura, di quella natura che per mezzo del piacere domina il mondo: la stessa vita che ha il suo culmine nella vecchiaia, ha il suo culmine anche nella saggezza, in quel mite splendore solare di una costante letizia dello spirito: l'una e l'altra, vecchiaia e saggezza, tu le incontri su un solo versante della vita: così ha voluto la natura. Allora è tempo, né c'è motivo di adontarsene, che si avvicini la nebbia della morte. Verso la luce - il tuo ultimo movimento; un giubilo della conoscenza - il tuo ultimo grido.
Il viandante. - Chi sia giunto anche solo relativamente alla libertà della ragione, sulla terra non può sentirsi altro che un viandante, - anche se non un viaggiatore diretto verso un'ultima meta, che non c'è. Ma egli ben vuole guardare, e tener gli occhi aperti su tutto quel che veramente accade nel mondo; per questo non gli è consentito unire troppo strettamente il suo cuore a nessuna cosa particolare; dev'esserci in lui stesso qualcosa di nomade, che gioisca del mutamento e della provvisorietà. Certo, per un tale uomo giungeranno cattive notti, in cui sarà stanco e troverà chiusa la porta della città che dovrebbe offrirgli riposo; e forse, oltre a ciò, il deserto giungerà sino a quella porta, come in Oriente, e gli animali da preda urleranno ora lontano ora vicino, e si leverà un forte vento, e i ladri gli ruberanno le bestie da tiro. Allora la notte terribile calerà per lui sul deserto come un secondo deserto, e il suo cuore sarà stanco di peregrinare. Ma quando si leverà il sole del mattino, rosseggiante come una divinità della collera, la città si aprirà, e nel volto degli abitanti egli vedrà forse ancor più deserto, sporcizia, inganno, insicurezza che davanti alle porte - e il giorno sarà quasi peggiore della notte. Questo potrà ben succedere una volta al viandante; ma poi giungeranno a ricompensarlo i gioiosi mattini di altri paesi e di altri giorni, in cui già nel grigiore della luce egli vedrà passar danzando accanto a sé, nella nebbia dei monti, gli sciami delle Muse, e in cui poi, quando silenzioso, nell'armonia mattutina dell'anima, egli passeggerà sotto gli alberi, dalle vette e dai recessi delle fronde gli cadranno intorno solo cose belle e chiare, dono di tutti quegli spiriti liberi che stanno sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, come lui, nel loro modo ora gioioso ora meditabondo, sono viandanti e filosofi. Nati dai misteri dell'alba, essi meditano come mai il giorno possa avere, tra il decimo e il dodicesimo tocco, un volto così puro, così trasparente, così serenamente radioso: - essi cercano la filosofia del mattino.
Il viandante sui monti a se stesso. - Ci sono segni sicuri del fatto che sei andato più avanti e più in alto: intorno a te c'è più spazio e la prospettiva è più ampia di prima, ti investe un'aria più fresca, ma anche più mite - infatti hai disimparato la stoltezza di scambiare mitezza e calore, il tuo passo si è fatto più vivace e fermo, coraggio e avvedutezza sono cresciuti insieme: - e per tutti questi motivi la tua strada potrà ora essere più solitaria, e in ogni caso più pericolosa di prima, benché, certo, non nella misura in cui credono coloro che ti vedono salire viandante dalla valle nebbiosa verso il monte.

IL CASO WAGNER

Dopo la Genealogia della Morale, s'inizia un periodo vivacemente polemico e genialmente paradossale in cui Nietzsche si fa il legislatore della propria profezia. La nudità psicologica si fa piú incisiva; la forma stilistica del pensiero nietzscheano diventa piú cruda e precisamente superba. Chi annuncia l'era tragica dell'Europa è compreso di una strana febbre di chiarezza e di orgoglio. Il celebre Caso Wagner, compiuto a Sils-Maria nel luglio del 1888, e apparso nelle librerie di Torino nel settembre dello scorso anno, riesce a far parlare le gazzette cosí squallidamente mute prima per Nietzsche, per il carattere pamphletaire di quest'opera del terribile specialista, per dirla alla Berthelot. Wagner è per Nietzsche artista moderno per eccellenza, senza natura, senza coltura, senza istinto. Ma Wagner ha saputo, con acutissima perspicacia, scoprire i bisogni, le necessità interiori, dell'anima de' suoi tempi. Wagner è un ciarlatano che ha suonato insieme tutte le campane: la brutalità, l'idiozia, l'artificio sono le sue armi. Il retore dell'arte massiccia, africanamente fantasioso, preziosamente orientale, informe, scompositore dello stile, col suo coraggio ha saputo teorizzare i propri difetti. Wagner, narcotizzatore misterioso, sbigottisce come un sogno cupo, come un incubo, le anime malate. Gli istinti nichilisti, la fatica, la morte sono glorificati dal Maestro che ha reso musicalmente l'antipotenza e l'antivolontà. Wagner è il decadente per eccellenza, quello che Nietzsche, nella "Volontà di potenza" definirà "un grande punto interrogativo del nostro secolo". La musica secondo Nietzsche é stata privata del suo carattere affermativo e trasfiguratore del mondo per diventare una vera e propria musica di decadenza e non più il flauto di Dioniso: in essa non é più insita una volontà di vivere che si estrinseca in ogni istante, bensì predominano i temi cupi di chi rifiuta la vita. Ed ecco che tutto "Il caso Wagner" non é altro che un enorme "problema musicale", come lo definisce Nietzsche stesso in "Ecce homo": e Nietzsche si proclama pronto a muover guerra contro Wagner, il suo grande amico del passato, schierando i campo i "pezzi più grossi della mia artiglieria". Nietzsche era particolarmente affascinato dalla musica in quanto forma artistica, per di più tipicamente dionisiaca ed egli arriva più volte a sostenere che l'arte sia più importante della verità (anche perchè, in fin dei conti, che cosa é la verità?). Il grande pensatore tedesco dice di disprezzare in Wagner l'eccessivo spirito religioso e l'antisemitismo sfrenato: e qui abbiamo la conferma decisiva dell'errata interpretazione nazista del pensiero nietzscheano che, indebitamente, lo ha sempre fatto passare per antisemita. Ma la critica aspra e polemica mossa al musicista tedesco non trova le sue radici in complessi edifici argomentativi, quanto piuttosto nel mettere in luce i danni arrecati da Wagner alla cultura tedesca: sì, perchè "Wagner non é un sillogismo, ma una malattia" che se non trattata con la giusta terapia può infettare l'intero mondo tedesco ed europeo. Ed ecco allora che troviamo Nietzsche nei panni di medico indaffarato a trovare un rimedio a questa malattia di nome "Wagner". Wagner secondo Nietzsche ha tutte le istanze dell'uomo moderno: il sovreccitamento e l'esaltazione, la pomposità delle rappresentazioni, il teatro rivolto alle masse, all' 'armento'. E strettamente congiunto alla decadenza wagneriana é l'idealismo stesso che caratteristica il musicista tedesco, il cercare in modo esasperato la redenzione dell'uomo (anche dalla donna!), la conoscenza. Wagner é poi imbevuto del pessimismo di Schopenhauer, da cui Nietzsche si é saggiamente distaccato. E poi non mancano le critiche all'ideale wagneriano secondo il quale la musica non sarebbe un punto di arrivo, ma solo un mezzo per arrivare oltre, a qualcosa di superiore: Nietzsche non può accettare questo, da grande estimatore dell'arte quale egli é: non vi é un "oltre la musica", non vi é una verità recondita cui l'uomo può accedere tramite le leggiadre sinfonie musicali: tutta la verità é insita nella musica stessa, massima espressione artistica di tipo dionisiaco. Certo, Wagner si può ammirare: è un seduttore in grande stile, convince gli incerti senza condurli alla consapevolezza di ciò che viene fatto loro credere, occulta il più nero oscurantismo nei luminosi involucri dell' "ideale". I giovani con Wagner diventano imbecilli, cioè "idealisti"; in questo senso Parsifal è un capolavoro. Dunque, l'adesione a Wagner deve far sì che la vita riesca in singoli individui, in singoli esemplari e non realizzi la felicità dei più, della maggior parte delle persone. Il "dramma di sè" deve essere "ritrovamento di sè". Occorre prendere potere su se stessi che significa anche prendere potere sui nostri "pro" e sui nostri "contro". Leggi ancora: "aver potere sul bene e sul male". Questo ci libera dall'obbligo di solidarizzare con gli altri i quali invece ostacolano proprio la formazione del super uomo. Nel 1854 Wagner si avvicina a Schopenhauer concependo il mito non solo come passato inverato dalla storia, ma come il presente che spiega il passato imperniando il dramma sull'azione negativa della volontà, poi supera Schopenhauer affermando la possibilità di un' azione redentrice. Rielaborando le antiche leggende dell' "Edda", del "Niebelungenlied", Wagner infonde nei personaggi uno spirito universale sì che l'angoscia degli dei antichi, le passioni dei nani e dei giganti, l'anima degli eroi si identificano con le nostre angosce, con le nostre passioni, con i nostri stessi ideali Due le idee madri in Wagner: l'idea di una caduta originale e quella di una redenzione. Il male entra nel mondo per una colpa, un fallo e fatalmente allarga il proprio influsso venefico fino a dominare tutti gli esseri viventi e persino gli stessi dei. La caduta da uno stato di innocenza e la coscienza della colpa spingono i personaggi wagneriani al bisogno di un riscatto: siamo alla vigilia dell'idea della redenzione. E poiché nessuno può essere nello stesso tempo colpevole e redentore, ecco allora profilarsi l'eroe redentore: l'uomo puro tra i puri potrà essere l'eroe degno della missione e riportare l'umanità alla purezza, perdonando e obliando la "caduta". Niente di più lontano da Nietzsche; il filosofo rifiuta decisamente l'equivalenza pena = colpa. E' vero che la sofferenza conferisce distinzione, virtù, valore e nobiltà, ma l'ascesi di Nietzsche ha un'altra direzione; ciò che è terribile è la mancanza di senso del dolore, è la sua gratuità che suscita ribellione. Occorre dunque trovarne una interpretazione. Poiché il senso del dolore ha varie interpretazioni, trovare il "senso in sé " è cosa che non esiste. E' compito rimesso a ciascuno di noi trovare l'interpretazione del nostro dolore personale. Solo così avrà "senso" per ciascuno di noi e ne renderà possibile l'accettazione. Dunque il dolore può assumere più forme perché di per sé non ha valore, ma riceve il valore di "riflesso", il valore che ogni uomo dà al proprio dolore. La sofferenza non deriva da colpa, c'è e basta; è la lotta titanica con il dolore che ci porta a rinascere alla vita. Morale, religione, metafisica sono solo giustificazioni. Il dolore ha senso nel preciso momento in cui io gliene do uno. Dice Nietzsche: "davanti al tiranno (dolore) io sono senza colpa". Profonde divergenze ideologiche e filosofiche allontanano quindi Nietzsche da Wagner, per quanto Nietzsche abbia indubbiamente sentito il fascino della musica wagneriana, e non solo. Già nel 1854 Nietzsche aveva composto al ginnasio alcuni brani musicali; nel 1860 aveva fondato l'associazione musicale e letteraria "Germania" per la quale il filosofo scriverà saggi, poesie, composizioni musicali. Dopo l'allontanamento da Wagner, Nietzsche farà l'elogio della Carmen di Bizet, dimostrando di amare un altro tipo di musica. Anche Wagner era stato grande ammiratore di Nietzsche fervente entusiasta allorché nel 1872 era uscita "la nascita della tragedia dallo spirito della musica". Persino Cosima Wagner riceve con gratitudine gli omaggi e le dediche letterarie e musicali che le indirizzò il filosofo. Ma già nel luglio 1876, quando esce la quarta "inattuale": "Richard Wagner a Bayreuth", il filosofo avverte il suo congedo da Wagner. Intanto le condizioni di salute di Nietzsche si aggravano sempre più e allorchè esce nel 1878 "umano, troppo umano", Cosima e Richard Wagner si chiudono in un silenzio ostile. Di lì a poco Wagner non esisterà più per Nietzsche se non nelle opere e nei brani che lo riguardano. Solo nel 1889, in piena crisi psichica e ormai prossimo al manicomio, Nietzsche ricorderà il nome Wagner, scrivendo a Cosima un biglietto "Arianna, io ti amo", paragonando Cosima ad Arianna. Si concluse erroneamente per un infelice amore di Nietzsche per Cosima Wagner; in realtà niente mostra tracce di un autentico amore ad eccezione di quel sentimento che legò Nietzsche al Lou Salomè, sua discepola e compagna dalla quale fu poi abbandonato.

Kant e Nietzsche

Tutta la critica di Nietzsche a Kant non è che una ripetizione, in nuce, della tesi fondamentale di Feuerbach, secondo cui il segreto della filosofia idealista è la religione cristiana. Nietzsche sarebbe dovuto oltre, equiparando p. es. la filosofia idealista alla filosofia borghese, ma non l'ha mai fatto. Non dobbiamo infatti dimenticare che se anche nella Prussia di Kant ed Hegel non si verificò una rivoluzione analoga a quella francese, i contenuti della loro filosofia erano sostanzialmente borghesi, non solo o non tanto perché influenzati dagli avvenimenti francesi e dall'avventura napoleonica, quanto perché le radici filosofiche dell'idealismo tedesco poggiavano su un avvenimento storico che fu caratterizzato soprattutto dal protagonismo della classe borghese: la riforma protestante.
Se avesse avuto più senso storico, Nietzsche si sarebbe facilmente accorto che in Prussia la filosofia aveva assunto una connotazione marcatamente idealistica proprio a motivo del fatto che la riforma protestante era stata tradita sul piano politico. Se non lo fosse stata, sarebbe non solo avvenuta molto tempo prima l'unificazione nazionale, ma molto probabilmente la filosofia tedesca, nell'800, avrebbe assunto una connotazione più politica, com'era appunto avvenuto in Francia.
Nietzsche riteneva che Kant avesse voluto ingiustamente ripristinare il primato della religione dal punto di vista della filosofia pratica, rendendosi conto che con la sola Ragion pura non si riusciva di fatto a superare la religione: tesi, questa, riscontrabile anche in Feuerbach e nella Sinistra hegeliana. Tuttavia Nietzsche non è mai riuscito a capire (diversamente da Marx, Bauer, Hess e altri ancora) che la realizzazione pratica della filosofia non poteva che essere quella politica e, in particolare (se si vuole superare la religione), solo quella rivoluzionaria.
La filosofia di Nietzsche rappresenta il tentativo, non riuscito, di superare i limiti dell'idealismo, ovvero l'astrattezza e il formalismo dei suoi valori, e soprattutto la pretesa illusoria di liberare l'uomo in virtù delle leggi della dialettica. Il tentativo non gli è riuscito proprio perché egli non ha mai considerato l'idea che il sistema sociale tedesco si servisse dell'idealismo proprio per mascherare le contraddizioni del capitalismo. ( Da questo punto di vista la filosofia inglese è sempre stata più coerente nel proprio cinismo; ha sempre cercato di riflettere nella maniera più adeguata possibile le caratteristiche della società borghese. Non è ricorsa a finzioni e inganni di matrice speculativa. Semmai l'ha fatto nell'economia politica, come Marx ha ben dimostrato).
Una filosofia che si presume rivoluzionaria come quella nicciana e che però non vuole legarsi alla politica, finisce con lo sposare la causa del mero individuo singolo e quindi con lo svolgersi in maniera del tutto irrazionale. In tal senso Nietzsche resta dentro l'alveo dell'idealismo, seppure in forma autodistruttiva.
Nietzsche è la testimonianza più eloquente di come una filosofia borghese che non voglia risolvere politicamente e in maniera rivoluzionaria (cioè in direzione del socialismo) le proprie contraddizioni antagonistiche, non possa che portare all'irrazionalismo.

 

 

Le critiche al positivismo

Karl Marx vede con lucidità i limiti del positivismo: se il progresso dell'umanità è assicurato da leggi scientifiche, esso è inevitabile e non necessita di una particolare attenzione da parte dei governi: il superficiale ottimismo sulle sorti del mondo ha dunque un ruolo politico e sociale sostanzialmente conservatore. La critica sociale, economica e politica di Marx è ben più incisiva, e individua nelle condizioni materiali della società i fattori che determinano il nostro modo di pensare. Il filosofo tedesco si fa interprete dei proletariato industriale, e dà una nuova dimensione alla filosofia: essa non può limitarsi a criticare il mondo, ma deve modificarlo.
L'ottocento si chiude con Friedrich Nietzsche: contro la pretesa del positivismo di dominare razionalmente la realtà, di spiegarla come progressione ordinata e lineare verso la perfezione, l'irrazionalismo di Nietzsche è l'espressione più compiuta dell'inquietudine e della crisi morale di tutta un'epoca.


Contro Socrate, Platone e il Cristianesimo

Secondo Nietzsche la decadenza è il rifiuto dell'amore per la vita e della creatività, della spontaneità del vivere naturale e nello stesso tempo "tragico", dunque dello spirito dionisiaco. Per lui colui che per primo ha condizionato negativamente la civiltà occidentale verso questo annullamento della vita è stato Socrate: il peccato di Socrate è di aver sostituito alla vita il pensare alla vita e la conseguenza di ciò è il non-vivere. Socrate ritiene che la ragione sia l'essenza dell'uomo e che le passioni, residuo di animalità, possano e debbano essere dominate. Per Socrate una vita fondata sulla ragione è una vita felice, mentre una vita dominata dalle passioni è destinata a dolorosi conflitti e turbamenti. Anche Platone ha indirizzato la vita verso un mondo astratto ed irreale, e in questo processo di decadenza si inserisce poi il Cristianesimo radicalizzandolo. Quest'ultimo ha prodotto un modello di uomo malato e represso, in preda a continui sensi di colpa che avvelenano la sua esistenza. Perciò l'uomo cristiano, al di là della propria maschera di serenità, è psichicamente tormentato, nasconde dentro di sé un'aggressività rabbiosa contro la vita ed è animato da risentimento contro il prossimo.
Più che contro la figura di Gesù Cristo (verso cui manifesta simpatia, considerandolo un "santo anarchico"), Nietzsche è polemico contro la Chiesa come istituzione politico-teocratica, sprezzante verso le sue regole e i suoi dogmi. Infatti in Così parlò Zarathustra egli dichiara: Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze, essi sono dispregiatori della vita, sono avvelenatori, che siano maledetti! Da ciò la proposta di Nietzsche di una trasmutazione o inversione dei valori. Si proclama egli stesso come il "primo immoralista" della storia; egli non intende tuttavia proporre l'abolizione di ogni valore o l'affermazione di un tipo di uomo in preda al gioco sfrenato degli istinti, ma contrappone ai valori antivitali della morale tradizionale una nuova tavola di valori a misura del carattere terreno dell'uomo. Il superuomo di Nietzsche è nato per vivere sulla Terra, la sua esistenza è interamente corpo, realtà sensibile. Infatti Zarathustra afferma io sono corpo tutto intero e nient'altro. L'anima, secondo Nietzsche, è solo una parola che indica qualcosa di interno al corpo, succube di questo, dominata e manovrata dalla ragione dello stesso: questa rivendicazione della natura terrestre dell'uomo è implicita nell'accettazione totale della vita che è propria dello spirito dionisiaco e del superuomo. La Terra non è più l'esilio e il deserto dell'uomo, ma la sua dimora gioiosa.

 

 

Nietzsche e Schopenhauer

Euripide strappa la tragedia dalle sue radici dionisiache. Il razionalismo socratico dissolve, spiegandoli, il mistero, al complessità e la passione che sono la tragedia stessa. In questo senso uccide la tragedia. Forse Nietzsche è stato ingiusto nei confronti di Euripide. Opere come la Medea, l'Ippolito, le Troiane dimostrano semmai l'impotenza della ragione e della giustizia di fronte al potere intossicante della passione. La importanza della interpretazione nietzscheana della tragedia greca, assolutamente originale rispetto alla tradizione occidentale e rispetto anche allo stesso Schopenhauer, delle cui lenti pur Nietzsche si serve nella sua analisi, risiede nella rivelazione trionfante della essenza dionisiaca della cultura ellenica.
Quando Nietzsche scrive la Nascita della tragedia (1872), il suo pensiero è fortemente influenzato dalla lettura di Schopenhauer, e ciò è ben visibile nell'uso del lessico, di particolari termini e nella insistenza su tematiche quali il desiderio, soprattutto sessuale, e la rappresentazione. La filosofia schopenhaueriana pervade anche opere come Verità e menzogna (1873) e La filosofia nella età tragica dei Greci (1873), fino al definitivo allontanamento, profondamente critico, in Il caso Wagner (1888), Il crepuscolo degli idoli (1888), e nei frammenti poi raccolti nella postuma Volontà di potenza.
Secondo Schopenhauer, il mondo è pura rappresentazione, rappresentazione della mente, dei nervi ottici e sensoriali. Pensare è sognare, illusione, velo di Maya. Come per la tradizione vedanta, per Pindaro, Sofocle, Platone, Shakespeare e Calderon, vita e sogno sono le pagine dello stesso libro, e la vita, come per i poeti, non è altro che un sogno prolungato. Ma nessuno può vivere un sogno senza aver sonno. Senza prima aver addormentato qualcosa che pulsa, spinge, contrae, turba, soffre, vuole, sveglia e vive dentro il corpo di ogni essere vivente: il desiderio, la volontà. È solo eliminando la volontà, quella forza brutale, informe e inseparabile dal corpo, in sé priva di qualsiasi intelligenza, di individuazione, fonte di ogni dolore, colpa e male, e, soprattutto, inesauribile, inappagabile, se non per brevi illusioni, che l'individuo è libero di contemplare la propria rappresentazione, senza desiderare, senza soffrire.
La volontà è priva di capacità creativa, artistica (capacità che si colloca nel campo della rappresentazione). La affascinante teoria della volontà è ciò che dà forma al celebre pessimismo schopenhaueriano, imbottito di richiami ellenistici, cristiani e orientali.
È a questo punto che Nietzsche gli si avvicina, per poi allontanarsene, sdegnato e pentito, intonando il suo canto alla strategia artistica della volontà creatrice, danzando come un satiro, nella ebbrezza di Dioniso.
Per Schopenhauer l'arte è una alternativa alla vita ascetica, che consente di liberare: liberare l'individuo dalla sofferenza, dalla passione, sublimate nella pura e ascetica contemplazione della bellezza, della forma astratta, retaggio kantiano, nella incoscienza, nella perdita della individuazione, sollecitando al contempo la simpatia e l'attitudine sociale tra tutti gli individui, accomunati dalla medesima schiavitù. L'arte occulta lo sguardo assatanato e la voce da sirena della volontà; li occulta dietro le note della musica, rappresentazione della volontà in movimento. L'arte è il sogno e il sonno, e nell'arte l'individuo si confonde come puro soggetto di conoscenza. La tragedia, in particolare, è per Schopenhauer, quella forma d'arte che più di tutte suggerisce all'individuo di liberarsi dalla volontà, semplicemente presentando con le parole e i fatti, con il sangue prima alluso (nella tragedia greca) e poi esibito (da Seneca), la tragicità e lo stupore di una esistenza condannata al desiderio.
Il dionisiaco e l'apollineo, in Nietzsche, sono la volontà e la rappresentazione della cultura greca. L'artista, per Nietzsche, è un satiro che danza sulle note dell'ebbrezza, e crea ciò che Apollo deve trasformare in arte, per rendere possibile, sopportabile e giustificabile la vita. L'arte non nasce dalla rinuncia, dalla contemplazione rassegnata, ma dalla perdizione totale, vitale e consapevole nel desiderio, nel bisogno.
L'arte come trasfigurazione dell'ebbrezza. Arte e nient'altro che arte! L'arte è desiderio di vita, è avviluppata al desiderio e alla vita. L'arte per l'arte, l'arte astratta, priva di sofferenza o di piacere, di desiderio, è come un verme che insegue la propria coda. L'arte è sana menzogna, è tellurica illusione. L'arte svela il senso della esistenza con una bugia, salva l'esistenza rincorrendo il desiderio del corpo, della sensualità. I satiri danzanti non sono gli animali accecati di Schopenhauer, sono sognatori. E l'eroe tragico, schiavo della passione, che osa e soffre della insensatezza del mondo, del divenire che la stessa opera tragica mette in scena, non produce rassegnazione, quanto piuttosto un sacro e corroborante senso di rispetto universale e di amore verso una esistenza così mutevole e così bella, dove la gioia va afferrata e divorata all'istante. Dove l'amore è la prova più meravigliosa di quanto lontano possa ballare il potere trasfigurante dell'ebbrezza.
L'amore, soltanto l'amore, creatura intelligente e delirante, è l'ebbrezza che giustifica la vita. E l'arte senza amore e senza ebbrezza è un inutile e virtuoso gracidio di rane nella loro palude. Lo spettatore della tragedia, intossicato da Dioniso, diventa opera d'arte e artista. E Nietzsche, che dal 1872 scrive, pensa e forse vive nel nome di Dioniso, è il primo filosofo della storia occidentale a rivelare e amare il potere di un'arte e di una cultura, quelle greche, vissute sempre nel nome di Dioniso.

 

Fonte: http://www.hafricah.net/public/Appunti/tutto%20Nietzsche.doc

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