Psicologia del linguaggio e della comunicazione

 


 

Psicologia del linguaggio e della comunicazione

 

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Psicologia del linguaggio e della comunicazione

 

 

FONDAMENTI DI PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO E DELLA COMUNICAZIONE

 

Il linguaggio può essere inteso come sistema simbolico di comunicazione, ossia come un sistema in cui l’informazione che passa tra un emittente e un destinatario è codificata in modo simbolico. È quindi la capacità di usare parole e di combinarle in frasi, in modo che i concetti nella nostra mente possano essere trasmessi ad altri. Tuttavia, con linguaggio ci si riferisce anche a come si percepiscono le parole dette da altri e al modo in cui queste vengono trasformate in concetti nella nostra mente.

Esso, inoltre, si differenzia dal concetto di lingua intesa come sistema di segni, come codice specifico, comune a tutti gli individui che appartengono alla stessa comunità linguistica: è, quindi, un sistema simbolico  astratto socialmente determinato, mentre il linguaggio è la capacità cognitiva che ci consente di usare tale lingua e tale sistema.

Il linguaggio si configura, quindi, come un sistema simbolico di comunicazione che si avvale di una lingua, permettendo così la predicazione del pensiero e l’espressione di una rete concettuale, in cui la relazione tra piano dell’espressione  e piano del significato è arbitraria e convenzionale: caratteristiche fondamentali del linguaggio sono, infatti, creatività (o produttività) unita all’arbitrarietà, competenza (consapevolezza della realtà psicologica e individuale che i soggetti hanno di possedere una lingua), e performance, cioè esecuzione e produzione. Produttività e arbitrarietà sono le caratteristiche fondamentali del linguaggio, trasmesse filogeneticamente, le quali si specializzano successivamente attraverso le competenze sociali.

 

Il linguaggio, inoltre, è costituito da un insieme di sottosistemi, ognuno dei quali composto da un numero finito di elementi e da un insieme di regole di combinazione degli elementi tra loro:

 

  • Fonetica: studio dei suoni linguistici intesi come eventi fisici e psicologici.
  • Fonologia: si occupa delle rappresentazioni astratte e delle regolarità dei suoni linguistici, cioè dei fonemi, unità sonore elementari aventi valore funzionale, che permettono di distinguere due morfemi o parole diversi.
  • Semantica: studio del significato delle parole e delle frasi
  • Morfologia: studia il morfema, cioè l’unità minima dotata di significato, come ad esempio i funtori, cioè elementi grammaticali che possono essere separati dagli elementi lessicali, quali articoli, preposizioni, pronomi, congiunzioni e connettivi.
  • Sintassi: insieme dei principi che governano il modo in cui le parole e altri morfemi sono ordinati per formare una frase possibile in una data lingua. Consiste, cioè, nelle regole strutturali di combinazioni di parole di frasi.
  • Pragmatica: relativa all’uso del linguaggio nelle situazioni concrete. Le frasi non trasmettono solamente un significato, ma sono esse stesse azioni prodotte per uno scopo.

 

 

 

Aree corticali e linguaggio

 

L’espressione di concetti richiede la cooperazione di tre sistemi neuronali, il sistema di elaborazione, che permette di classificare la realtà esterna in categorie, il sistema di formazione di parole e frasi, che permette di combinare le parole e costruire frasi, il sistema di mediazione, che stimola la produzione di parole a partire da un concetto e viceversa.

L’area del linguaggio è situata di norma nell’emisfero sinistro (dominante) che sovrintende al controllo dell’attività gestuale preposizionale.  L’emisfero non dominante, invece, presiede al controllo dell’attività visuospaziale, al riconoscimento della musica e delle facce.

In particolare sono state individuate due aree corticali: l’area di Broca, prioritaria per la produzione del linguaggio e una cui lesione può provocare la sindrome afasica di espressione e l’area di Wernicke, prioritaria per i processi di comprensione del linguaggio orale e la cui lesione può provocare la sindrome afasica di comprensione, nella quale si producono molte parole con una difficoltà nell’organizzazione sintattica. In quest’analisi dei correlati anatomo-strutturali delle funzioni comunicative sono stati elaborati due approcci: l’approccio localistico, secondo il quale esiste una corrispondenza biunivoca tra specifiche funzioni e precise aree cerebrali, e l’approccio solistico, secondo il quale è presente una distribuzione delle funzioni comunicative in più aree e in più circuiti cerebrali.

Quello che oggi è assodato è che il problema della lateralizzazione, ossia il problema delle competenze linguistiche nell’emisfero sinistro e, di contro, il ruolo svolto dall’emisfero destro per la produzione e la comprensione del linguaggio, non è affrontabile secondo un approccio rigido,in quanto è presente un grosso carico dell’emisfero sinistro e, al tempo stesso, si registra l’attivazione di alcune aree dell’emisfero destro.

Inoltre, bisogna precisare che, pur essendo presente un’iniziale asimmetria anatomica e funzionale delle aree del linguaggio a livello prenatale, una vera e propria dominanza emisferica deriva dallo sviluppo linguistico e si configura come un processo che va di pari passo con lo sviluppo di altri sistemi. A tale proposito sono stati elaborati diversi modelli di funzionamento anatomo-strutturale: i modelli classici, basati su rappresentazioni focali delle competenze comunicative e linguistiche dell’uomo, modelli a network, basati su una rappresentazione distribuita e, infine, il modello di Wernicke e Geschwind, in cui si pone l’accento sull’importanza di specifiche aree corticali e sulle loro vie di connessione lungo la sostanza bianca sottostante, la quale si sviluppa a circa nove mesi.

 

Riguardo all’origine della comunicazione, sono state formulate tre ipotesi principali:

 

  1. teoria gestuale: la comunicazione si è evoluta da un sistema di gesti che inizia a manifestarsi quando gruppi di primati assunsero la postura eretta, rendendo autonomi e disponibili gli arti superiori per forme di comunicazione sociale. Si passa, quindi, da una comunicazione gestuale e una comunicazione vocale, la quale presuppone capacità simboliche.
  2. teoria vocale: la comunicazione si è sviluppata a partire da un esteso sistema di grida deputate a esprimere stati emozionali e motivazionali e solamente con una mutazione della struttura dell’apparato fonatorio è stato reso possibile il controllo dell’emissione dei suoni, in modo volontario e riproducibile.
  3. teoria mista: presuppone un intervento concomitante dei due sistemi, gestuale e vocale. Tale ipotesi consente di spiegare la localizzazione nell’emisfero sinistro della rappresentazione e del controllo della dominanza manuale, della comunicazione verbale e di quella dei segni.

 

 

Lo sviluppo comunicativo nel bambino

 

Nello studio del processo di acquisizione del linguaggio ci si è innanzitutto concentrati sulle capacità sociali e cognitive possedute dal bambino fin dalla nascita, in quanto considerate la base per lo sviluppo linguistico successivo.

Il bambino, infatti, fin dalla nascita, è un soggetto attivo e adeguatamente competente, dotato di capacità cognitive specifiche, di meccanismi di autoregolazione ed è in grado di ricevere e di elaborare di volta in volta, in modo appropriato, le informazioni provenienti dall’ambiente.

Possiede, quindi, un bagaglio di capacità che gli permettono di conoscere ed entrare in relazione col mondo, quali:

 

  • competenza percettiva: si tratta di un dispositivo per acquisire in via diretta e immediata informazioni sull’ambiente e per mantenere con esso un contatto appropriato. In particolare, premessa fondamentale per lo sviluppo delle competenze linguistiche e comunicative consiste nella percezione uditiva, già presente nella vita intrauterina: le competenze percettive relative all’udito, infatti, iniziano a svilupparsi già nell’utero materno, producendo così una familiarizzazione prenatale che si riscontra nel periodo neonatale, quando i neonati di poche ore sono in grado di estrarre, riconoscere e preferire delle invarianti acutistiche e delle regolarità prosodiche alle quali era stato esposto durante la vita uterina. In particolare, discriminano il suono della voce materna e preferiscono i suoni della lingua materna e delle sequenze melodiche eventualmente cantate dalla madre.

Riguardo a tale percezione fonetica di una lingua, bisogna precisare che i neonati, indipendentemente dal contesto linguistico di appartenenza, sono in grado di discriminare le diverse categorie di fonemi e che, successivamente, si verifica un progressivo adattamento e affinamento delle capacità discriminative prodotto dall’influenza esercitata dalla lingua materna: l’ambiente linguistico orienta, infatti, in modo selettivo le disposizioni innate del neonato, restringendo il suo orizzonte percettivo con disattivazioni di abilità e accentuando e affinando specifiche capacità discriminative, coerentemente con la comunicazione verbale della propria comunità culturale.

 

 

 

  • Competenza sociale: il bambino presenta una predisposizione innata al comportamento sociale. Il linguaggio e la comunicazione sono strumenti funzionali a questo. Fin dalla nascita, e in particolare a partire dai due- tre mesi di vita, bambino e adulto contribuiscono entrambi a costruire modelli di comunicazione organizzati secondo flussi e sequenze prevedibili e regolari, a produrre situazioni di dialogo e scambio gratificanti di per se stesse, a elaborare i significati degli eventi a cui partecipano. Tutto ciò avviene all’interno di un format, cioè di sequenze interattive routinizzate che consentono di condividere un’intenzione e uno scopo, un insieme di procedure comunicative e che contribuiscono a rendere regolari e prevedibili i contesti, costituendo routine e schemi di azioni regolari e stereotipati.

Questo si verifica fin dai due, tre mesi durante le prime vere e proprie interazioni faccia a faccia tra adulto e bambino, caratterizzate dalla ripetizione di sequenze ordinate, per poi affinarsi tra i tre e i nove mesi, quando assumono la forma di routine di azione condivisa, cioè di un’attività coordinata, caratterizzata da ruoli e azioni convenzionali.

Nella costruzione di questo sistema di significati gioca un ruolo fondamentale l’imitazione, processo fondamentale per il suo sviluppo psicologico, in particolare per l’acquisizione delle competenze comunicative, sia da parte dell’adulto di quei gesti del bambino che divengono più rilevanti con il progredire del suo sviluppo cognitivo e affettivo (fornendo così al bambino l’opportunità di cogliere il significato delle varie azioni e dei vari segni), sia dell’adulto da parte del bambino nei termini di un’emulazione, cioè di una ripetizione mimetica dei gesti dell’adulto, che di un apprendimento imitativo, cioè di riproduzione consapevole di un’azione dell’adulto per raggiungere il medesimo scopo.

Tale acquisizione di convenzioni e di pratiche risulta essere essenziale per la formazione di schemi mentali e di concetti, per l’elaborazione di modelli di comunicazione, nonché per la costruzione di una rete di significati.

 

 

 

 

Tappa fondamentale per lo sviluppo del linguaggio è il costituirsi, verso i sei mesi, di una relazione triadica, ossia una relazione in cui giocano il bambino, l’adulto e l’oggetto, il quale viene incorporato entro la cornice della relazione con l’adulto e il quale diviene punto di riferimento sul quale bambino e adulto condividono la stessa attenzione. La condivisione dell’attenzione, basata su un processo di co-orientazione degli sguardi, si configura come un processo comune di messa a fuoco attentivo che consente alla coppia adulto-bambino di porre le premesse della referenza di un discorso o di una conversazione e che costituisce la base per l’intenzionalità comunicativa , ossia la capacità di manifestare in modo consapevole le proprie azioni nonché l’abilità di percepire le azioni intenzionali, distinguendole da quelle accidentali e involontarie. Il bambino diventa, quindi, consapevole degli effetti dei suoi comportamenti sugli adulti e li usa intenzionalmente come mezzi per orientare tali comportamenti in funzione dei propri scopi.

 

Verso i nove mesi il bambino per comunicare intenzionalmente, usa prevalentemente il canale gestuale: a quest’età si tratta di gesti deittici, cioè gesti esprimenti un’intenzione comunicativa che si può dedurre dal contesto. Si tratta di gesti distali (relativi a oggetti a distanza)e convenzionali, non ancora adatti a raggiungere l’obiettivo in modo diretto, ma sufficienti a comunicare tale desiderio a un’altra persona: hanno luogo, quindi, all’interno di una relazione triadica tra il bambino, l’adulto e l’oggetto. Attraverso tali gesti il bambino esprime due tipologie di intenzionalità: la richiesta e la dichiarazione. Nell’intenzionalità richiestiva il bambino utilizza i propri gesti (deittici) per influenzare il comportamento dell’adulto per raggiungere un proprio scopo, mentre nell’intenzionalità dichiarativa utilizza i propri gesti per condividere con l’adulto un punto di vista e conoscenze su certi aspetti del contesto. Quindi, mentre nel primo caso il bambino mira a dirigere le azioni dell’altro, nel secondo caso mira a influenzare un suo stato psicologico, in particolare l’attenzione, manifestando così una comprensione più approfondita della dimensione psicologica della mente dell’altra persona, cioè una teoria della mente.

La comunicazione intenzionale di tipo dichiarativo, infatti, che consiste nel richiamare l’attenzione dell’adulto su un oggetto o evento non per fini strumentali, ma per avere un’attenzione condivisa, richiede un salto di qualità nel pensiero del bambino tale da fargli comprendere che l’interlocutore è un soggetto psicologico (e non solo un agente) con stati mentali che possono essere influenzati.

 

Verso i 12 mesi compare un secondo tipo di gesti in cui il bambino mostra di sapere usare intenzionalmente un simbolo non verbale, ossia i gesti referenziali o rappresentativi: si tratta di gesti convenzionali per il bambino e i suoi interlocutori (come il gesto di bere, telefonare o il gesto che rappresenta l’azione di dormire) che nascono nell’interazione sociale con l’adulto, in situazioni specifiche (come, ad esempio, in situazioni di gioco simbolico) per poi distaccarsene progressivamente assumendo valore comunicativo.

 

Alla base della competenza linguistica troviamo, quindi, sia competenze comunicative, consistenti nell’intenzionalità comunicativa, nella capacità simbolica e nella capacità di accettare e utilizzare convenzioni, sia competenze interattive, quali la capacità di cooperare, di assumere ruoli e di scambiarli, di condividere il tema.

 

 

Nello sviluppo linguistico si distingue generalmente una prima fase di sviluppo vocalico la quale procede di pari passo con lo sviluppo gestuale e intenzionale, per poi staccarsene fino al prevalere della parola sul gesto.

Mentre nei primi due mesi di vita vengono prodotti suoni relativi solamente a stati fisiologici, nei due- cinque mesi emergono le prime vocalizzazioni, prevalentemente vocaliche. Verso la fine del settimo mese di vita il bambino comincia a ripetere le sillabe per il puro piacere di riprodurre tale effetto sonoro, processo questo che si consolida pienamente intorno ai dieci mesi con la lallazione canonica, durante la quale il bambino sviluppa la capacità di controllare la propria attività fonoarticolatoria attraverso feed-back acustici. Tale sistema di controllo risulta essere particolarmente importante in quanto consente al bambino di imitare e selezionare i modelli intonazionali degli adulti e i suoni della lingua madre: in questo periodo, infatti, diminuiscono il numero e la varietà dei suoni prodotti.

Alla fine del primo anno di vita compare la lallazione variata, cioè la ripetizione di sillabe, costituite da segmenti di tipo vocale-consonante-vocale o consonante-vocale-consonante

 

 

 

ACQUISIZIONE DEL LINGUAGGIO

 

Fase prelessicale (8-12 mesi)

 

Dalla lallazione si passa, intorno ai 12 mesi, alla formazione delle prime parole: in particolare, si è osservata una continuità tra lallazione prelinguistica e sviluppo del vocabolario.

Il bambino comincia a usare parole nel momento in cui compaiono i gesti rappresentativi: tali parole, diverse dalla forma adulta in quanto spesso vengono abbreviate, sopprimendo una sillaba debole e semplificando gruppi consonantici, riguardano inizialmente ciò che il bambino conosce molto bene e sono quindi relative a persone e oggetti familiari, a versi di animali, ad azioni che compie abitualmente nonché a pratiche di interazione sociale (“ciao”).

Inizialmente, non si tratta di parole reali, ma di protoparole, cioè di forme personali inventate dal bambino e comprese solamente da chi si occupa di lui; solo in un secondo momento evolvono in parole reali che, tuttavia, sono altamente contestualizzate, vengono cioè utilizzate dal bambino solo relativamente al contesto in cui sono state apprese. Infatti, oltre a possedere un significato referenziale, esse possiedono un significato combinatorio, dato dall’associazione tra il vocabolo e il contesto, dove il vocabolo viene utilizzato con un significato più ampio di quello fonetico per indicare il contesto. Queste prime parole sono prodotte dal bambino con funzione strumentale e solamente in un secondo momento vengono rivestite di una funzione informativa.

 

 

 

Fase concettuale (dopo 18 mesi)

 

Dopo i 18 mesi, il bambino comincia a usare il linguaggio supportato dal sistema simbolico e prende avvio un processo di decontestualizzazione, tale per cui si passa da un uso del linguaggio non referenziale, in cui la parola si riferisce al contesto in cui è stata appresa, a un uso referenziale, consistente nella capacità di riferirsi a una classe di oggetti ed eventi, che si osserva in certi fenomeni, quali la sovraestensione, in cui si utilizza un’etichetta verbale per riferirsi a una categoria più ampia tenendo conto di informazioni non linguistiche (come la condivisione di caratteristiche), la sottoestensione, in cui un’etichetta verbale viene usata in un contesto più ristretto (ad esempio il bambino chiama “cane” solo il suo cane), e, infine, la sovrapposizione in cui una parola viene usata in maniera differente per diversi contesti.

A quest’età, relativamente allo sviluppo del vocabolario che conosce una vera e propria esplosione arricchendosi sempre di più in maniera estremamente rapida, si pone il problema della referenza, cioè del modo in cui il bambino arriva a stabilire una relazione tra una data stringa di suoni, cioè una parola, e una data porzione di realtà identificata da quella espressione. Secondo alcuni autori, l’acquisizione della referenza è resa possibile dallo sviluppo della capacità simbolica che avviene proprio a quest’età (come si può notare dal processo di decontestualizzazione), grazie al quale la parola viene usata in maniera rappresentativa. Tuttavia, è stato necessario postulare l’esistenza di vincoli, di principi che guidano il bambino nell’interpretazione delle parole, limitando lo spazio di ricerca e rendendo, quindi, alcune ipotesi più probabili di altre e che si configurano come il prodotto di informazioni linguistiche, di caratteristiche dell’interazione sociale e di capacità cognitive. Essi sono:

 

  • Principio della referenza: secondo tale principio, quando il bambino comincia ad apprendere le prime parole sa già che esse rappresentano simbolicamente alcuni aspetti del mondo.

 

  • Principio di estensione: una stessa parola è usata per più referenti e non solo per l’esemplare in relazione al quale è stata inizialmente appresa. Quindi, quando viene insegnato un nuovo nome al bambino, questi lo assegna a un’intera categoria.

 

  • Principio dell’oggetto: il bambino applica le parole nuove a oggetti interi e non a sue parti o attributi.

 

  • Principio dell’attribuzione rapida di significato: una parola nuova viene applicata, di preferenza, per indicare un oggetto per cui il bambino non ha ancora un nome.

 

  • Principio di mutua esclusività: il bambino attribuisce a ogni referente una sola parola.

 

  • Principio di convenzionalità: secondo tale principio, il bambino si aspetta che i significati assumano forme convenzionali all’interno di una data comunità.

 

Tuttavia, alcuni autori sostengono che l’acquisizione dei simboli linguistici sia il risultato di modalità d’interazione sociale e, in particolare, del comportamento dei genitori, teso a focalizzare l’attenzione del bambino sulle relazioni, culturalmente condivise, tra suoni e significati.

 

Nel periodo in cui si espande dalla 50 alle 200 parole, il vocabolario è composto da parole appartenenti alla classe aperta, relativa a sostantivi che il bambino apprende quotidianamente, e parole appartenenti alla classe perno, formata da aggettivi, avverbi e pochissimi verbi, i quali si configurano come uno degli elementi più difficili da acquisire in quanto esprimono significati relazionali che sono soggetti a variazioni situazionali e in quanto, riferendosi a situazioni già superate o che devono ancora verificarsi, implicano uno sforzo di ricostruzione da parte del bambino per combinare insieme diverse fonti di informazioni di tipo situazionale e linguistico..

Tuttavia, bisogna precisare che a questo quadro corrisponde un’ampia variabilità nella composizione del vocabolario che ha permesso di rintracciare due stili di acquisizione del linguaggio, uno stile analitico, caratterizzato, nel periodo prelinguistico, da una particolare attenzione alle parole e alle sequenze di suoni (maggior uso di consonanti nella lallazione e buona articolazione della parola), nonché da un vocabolario più ampio, ricco di nomi, proprio di bambini più produttivi, meno rigidi che costruiscono frasi più corrette e complete dal punto di vista morfologico, e uno stile olistico, caratterizzato da un’attenzione alla caratteristiche intonazionali della lingua, da una maggiore quantità di frasi fatte, di routine sociali e proprio di bambini con una minor competenza grammaticale e il cui vocabolario cresce più lentamente.

Tali stili sono correlati significativamente con caratteristiche demografiche e sociali, quali il sesso, l’ordine di genitura, la classe socioculturale di appartenenza (essere maschi, secondogeniti, di livello socioculturale basso sono fattori di rischio)

 

 

Dalla produzione di parole singole alle prime combinazioni di parole.

 

Nei primi due anni di vita il bambino impara, quindi, a rappresentare determinati referenti con simboli vocali, elabora regole su come tali simboli vocali vadano combinati in sequenze fonetiche e usa queste parole per comunicare.

I primi enunciati che il bambino produce sono formati da una sola parola, l’olofrase (costruzione verticale costruita grazie all’interazione con l’adulto), attraverso cui vuole comunicare un significato più complesso di quello trasmesso dalla parola effettivamente pronunciata. Il passaggio da enunciati olofrastici a enunciati complessi, costituiti dalla combinazione di due o più parole, per poi produrre una struttura sintattica nucleare avviene attraverso un continuum di elaborazione che conta un momento di produzione di enunciati transizionali, che si configura come un momento di transito, di passaggio avente il compito di facilitare il percorso di sviluppo verso la capacità di combinare le parole tra loro. Si tratta di enunciati di lunghezza superiore alla parola singola, ma privi di un legame strutturale di tipi lessicale o sintattico che unifichi gli elementi di cui sono composti. La comparsa di tali forme di transizione necessita di una soglia minima di ampiezza del vocabolario e coincide con la comparsa delle prime espressioni di una sola parola ed è, inoltre, soggetta a una grande variabilità individuale circa la frequenza nella produzione e circa il tipo di forma utilizzata più frequentemente.

La presenza di forme di transizione non rappresenta semplicemente lo sforzo, da parte del bambino, di allungare i propri enunciati tramite strategie combinatoriali che verranno successivamente sostituite da meccanismi di combinazione più sofisticati, ma si configura piuttosto come un contributo specifico alla produzione di enunciati complessi, che va oltre un semplice vantaggio dovuto a una maggiore o minore precocità nello sviluppo del linguaggio.

Tali forme transizionali sono di diverso tipo:

 

  • Forme cross-modali: si tratta della combinazione della modalità gestuale e della modalità vocale (gesto e parola) che concorrono a realizzare l’atto comunicativo del bambino, secondo combinazioni equivalenti, in cui entrambi gli elementi veicolano lo stesso significato, combinazioni complementari, in cui i due componenti si riferiscono allo stesso referente, ma uno di questi è un elemento dittico, specificando così l’elemento a cui la parola si riferisce e, infine, secondo combinazioni supplementari in cui uno dei due elementi aggiunge informazioni all’altro.

 

  • Parole concatenate: in tale forma transizionale entrambi i componenti sono vocali; più precisamente si tratta di enunciati in cui sono presenti due parole dotate di contenuto ed espresse in una successione temporale, privi, però, di una relazionalità semantica, i quali di dividono in tre diverse tipologie: nella prima tipologia, le due parole si riferiscono a diversi aspetti dell’ambiente che hanno attirato l’attenzione del bambino (“cane, gatto”), nella seconda è presente un vocativo seguito da un aspetto dell’ambiente su cui il bambino vuole attirare l’attenzione dell’interlocutore (“mamma, cane”), nella terza il bambino produce una risposta a una domanda sì/no aggiungendo un’informazione (“no, a casa”). Tale transizione dimostra la capacità del bambino di concepire due diversi atti comunicativi e di realizzarli linguisticamente in stretta successione temporale.

 

  • Ripetizione orizzontale: forma transizionale nella quale si osserva la ripetizione della stessa parola all’interno dello stesso turno conversazionale.

 

  • Finte combinazioni: forma transizionale composta da una parola significante e da uno o più elementi multisillabici, non identificabili come parole.

 

  • Formule: enunciati complessi che il bambino acquisisce dal parlato adulto (frasi stereotipate) e utilizza come un intero non analizzabile. La produzione di tali formule sembra essere particolarmente legata a strategie combinatoriali determinate da caratteristiche individuali.

 

Oltre a tali forme, che possono essere considerate come strategie di allungamento degli enunciati (confermando, così, la loro natura transizionale) il bambino produce un altro tipo di enunciato in cui prepone a parole un elemento vocalico indifferenziato, che può essere considerato come una forma di transizione verso la piena realizzazione di elementi morfologici liberi, quali articoli o preposizioni.

 

Successivamente allo sviluppo di forme transizionali, troviamo le prime vere combinazioni di parole, ossia la produzione, in stretta successione temporale, di più parole legate tra loro da relazioni di significato, processo che implica, quindi, la capacità di produrre più elementi in sequenze temporali ravvicinate, di stabilire una relazione di significato tra più elementi e, infine, di imporre un legame strutturale unificante. Le prime frasi vere e proprie, compaiono a 18-24 mesi e rispondendo a tali criteri, sono le cosiddette frasi birematiche (costruzione orizzontale), cioè frasi formate da due parole appartenenti alla classe aperta e alla classe perno, combinate tra loro secondo precise regole di regolazione semantiche, tali per cui diventa possibile combinare parola aperta + parola perno, parola perno + parola aperta (dove l’aggettivo ha funzione predicativa come, ad esempio, “bella mamma”), parola aperta + parola aperta (purchè riesca a usare una delle due con funzione di verbo); non è possibile la combinazione di parola perno + parola perno in quanto manca l’aggettivo a cui si riferisce.

Tuttavia, è stato osservato come nella produzione linguistica infantile si verifichino molti enunciati non conformi alle regole di questa grammatica primitiva ed è, quindi, stato elaborato un modello adeguato di spiegazione di come il bambino costruisce le sue prime combinazioni di parole, secondo il quale il bambino produce i suoi primi enunciati sulla base di schemi (frames) formati da un elemento fisso più elementi variabili come, ad esempio, “ancora + elemento variabile”, “no + elemento variabile”, che vengono progressivamente ampliati e arricchiti e che vengono utilizzati, dal bambino, anche durante la fase successiva, quando gli enunciati divengono più complessi.

Tali schemi vengono formati a seconda del materiale presentato al bambino: presentandogli più volte un verbo in forma costante, ma con materiale linguistico variabile, si formerà uno schema basato sul verbo dove questo costituisce, così, l’elemento strutturante.

Bisogna precisare che negli schemi ritrovabili all’interno della produzione dei bambini di lingua italiana l’ordine degli elementi è piuttosto libero e la maggior parte dei verbi prodotti sono utilizzati in un’unica forma flessa.

 

 

 

 

 

Tappa successiva alla frase birematica è la struttura sintattica nucleare, la prima struttura che viene usata per comunicare con il mondo, composta da un predicato con un elemento nominale (argomento) ed è inizialmente incompleta, mancando dei complementi e gran parte della morfologia libera. In questo periodo sono, inoltre, presenti strutture nucleari in successione, collegate da un punto di vista semantico, ma prive di connettivi espliciti.

Verso il secondo anno di vita comincia un processo di ampliamento del nucleo con l’aggiunta di modificatori del nome, di aggettivi, di avverbi, di alcuni elementi della morfologia libera, quali gli articoli (inizialmente gli articoli determinativi, in particolare “la”), i pronomi personali e alcune preposizioni, soprattutto “con” e “a”. In questa fase compaiono, inoltre, le prime frasi complesse, rappresentate da subordinate argomentali implicite, cioè strutture in cui il verbo è all’infinito e che hanno la funzione di complemento del verbo della principale, nonché le prime forme negative di insistenza, rifiuto, diniego.

Bisogna sottolineare che, durante il corso dello sviluppo della struttura frasale, i bambini continuano a utilizzare i gesti per rafforzare, chiarire e arricchire il significato degli enunciati. Tuttavia, tale potenzialità gestuale si perde dopo i due anni.

 

A tre anni, il bambino, che ormai conosce in media 800 parole, anche se spontaneamente ne produce molte meno, comincia a produrre frasi nucleari esplicite in funzione di argomenti, di informazione e specificazione del predicato come, ad esempio, “ dammi l’acqua perché bere”, collegandole con le congiunzioni appropriate.

In particolare, lo sviluppo morfosintattico, cioè l’acquisizione di un sistema di regole e conoscenze che presiedono alla formazione delle parole e ai rapporti che intercorrono tra di esse, ha inizio a tre anni con l’esplosione della grammatica, per poi completarsi verso i 10-12 anni. Tale processo di consapevolezza del sistema linguistico in cui si è inseriti si snoda in una prima linea di sviluppo circa la morfologia legata, cioè l’uso di quei morfemi che non possono essere separati dalle parole, di cui il bambino acquista una buona padronanza verso i tre anni (la prima, la seconda e la terza persona sono le prime flessioni verbali a comparire, nella forma dell’indicativo e dell’imperativo) e in una seconda linea di sviluppo circa la morfologia libera, cioè l’uso di quelle particelle che si presentano da sole come parole indipendenti. Riguardo quest’ultimo aspetto, possiamo dire che il primo articolo a comparire è “la” e che fino al terzo anno di età le forme plurali di questi articoli sono piuttosto rare. Le preposizioni che compaiono per prime sono“e, perché, quando, e poi”, mentre più rare sono ancora “prima, dopo, ma, se”. Solitamente gli errori che vengono riscontrati sono errori di omissione, tralasciando di utilizzare l’articolo, ed errori di sostituzione, più rari, in cui ad esempio, si utilizza la forma singolare al posto della plurale.

 

A quattro anni il bambino produce un linguaggio vero e proprio, possedendo tutte le strutture sintattiche. Incomincia a usare il relativo, in particolare nelle subordinate, ma è ancora rara la frase passiva; a tale proposito si è visto che molti bambini assegnano a tutte le sequenze nome-verbo-nome l’interpretazione attore-azione-oggetto che non permette una corretta comprensione della frase passiva: le prime forme passive a essere comprese sono quelle irreversibili, seguite dalle frasi passive reversibili probabili, in cui entrambi i nominali possono compiere l’azione, che sono comprese verso i 6 anni di età.

 

 

 

 

 

 

 

 

Fase concettuale

 

Il periodo dai tre ai sei anni è un periodo particolarmente importante per l’acquisizione e lo sviluppo del linguaggio, soprattutto da un punto di vista pragmatico, in quanto la produzione di frasi passa dall’avere una funzione puramente strumentale a una funzione dichiarativa orientata, quindi, alla condivisione di conoscenze ed esperienze sociali.

Tale passaggio è reso possibile dalla conquista di una Teoria della mente e da un processo cognitivo, tale per cui il bambino passa da una corrispondenza biunivoca oggetto-nome alla separazione del piano degli oggetti a quello dei nomi, cominciando così a cogliere il carattere interamente soggettivo della realtà costituita dalle parole, la quale ha un’esistenza soltanto nella nostra mente.

 

Possiamo quindi dire che, in questa fase di sviluppo (dai tre anni) grazie alla conquista di una Tom nonché di una capacità simbolica sempre più evoluta, le parole cominciano a essere manipolate indipendentemente dai concetti che trasmettono e il linguaggio, ormai divenuto un sistema autonomo e automatico, conosce una significativa evoluzione della sua componente pragmatica, esprimendo un’intenzionalità comunicativa dichiarativa e non più solamente richiestivi.

I bambini imparano, quindi, ad usare il linguaggio per conoscere il mondo in cui vivono, controllare le emozioni proprie e altrui e i comportamenti sociali, anche grazie a un progressivo ampliamento del vocabolario, che si arricchisce di termini circa stati mentali quali intenzioni, desideri, credenze, e all’acquisizione di una maggiore abilità nello strutturare sintatticamente le frasi.

In particolare questa competenza cognitiva e sociale (riferita a una conoscenza simbolica del mondo, delle persone, degli oggetti), nonché linguistica, si riflette nella narrazione, cioè nella capacità, derivante dalle routine comunicative , di narrare l’esperienza propria e altrui.

La narrazione prende avvio da un processo di percezione e organizzazione della realtà, interpretandola e attribuendole significati, per poi elaborare una sequenza di frasi dotata di coerenza e di organizzazione tematica, al fine di narrare un evento, una storia, una fantasia.

In particolare, la comunicazione narrativa, formata dai due elementi fondamentali delle azioni, intese come contenuti quali l’ambiente, i fatti, gli episodi, e della coscienza, intesa come stati mentali interni, è caratterizzata da alcune proprietà:

 

  • Diacronicità: gli episodi hanno una durata e sono esposti nel tempo attraverso connessioni.
  • Referenzialità concreta: la narrazione rinvia ad avvenimenti specifici, caratterizzati da una serie di episodi contingenti da parte di personaggi definiti e concreti.
  • Intenzionalità: la narrazione è basata sull’interazione tra personaggi che agiscono in modo intenzionale per raggiungere scopi e soddisfare desideri.
  • Canonicità: la narrazione deve tener presente criteri canonici e normativi basati sui cinque elementi dell’attore, azione, scopo, scena e strumento.

 

In conclusione, la narrazione si configura come un processo di interpretazione e comunicazione della realtà, attraverso la costruzione di storie che prevedono la comprensione delle intenzioni e delle azioni proprie e altrui, che riflette la capacità cognitiva di rappresentarsi mentalmente oggetti ed eventi non presenti nel qui e ora e di attribuire stati mentali agli altri, rappresentando così l’aspetto pragmatico del linguaggio in termini di intenzionalità comunicativa dichiarativa tesa alla condivisione delle conoscenze ed esperienze sociali.

 

Il ruolo dell’adulto nell’acquisizione del linguaggio

 

Abbiamo visto come il bambino piccolo presenti una predisposizione innata al comportamento sociale e come la figura dell’adulto e la figura del bambino contribuiscano a formare un sistema interattivo aperto, in cui entrambi costruiscono modelli di comunicazione organizzati e producono situazioni di dialogo e scambio gratificanti di per stesse, elaborando così i significati degli eventi a cui partecipano.

Partendo da tale presupposto, ci si è concentrati in particolare sull’analisi del ruolo dell’adulto, esaminando l’influenza dei diversi stili interattivi e le caratteristiche dell’input linguistico che, nel corso degli scambi con gli adulti, viene fornito al bambino.

All’interno di una ricerca, Cross individua due principali stili comunicativi adottati dai genitori per favorire la comunicazione linguistica con il figlio: il primo è uno stile centrato sul bambino (linguaggio bambino +++), che si dimostra essere correlato positivamente con l’aumento dell’ampiezza del vocabolario, in cui l’adulto, che rappresenta un modello linguistico, si adatta alle competenze possedute dal bambino, ripetendo in maniera completa ed elaborata le frasi del bambino, attraverso l’uso di espansioni, arricchimenti, parafrasi, denominazioni. L’acquisizione del linguaggio, infatti, non è facilitata dall’esposizione a un corpus di dati ristretto e semplificato, come in realtà si potrebbe credere, ma dalla complessità e potenzialità proprie del linguaggio adulto. Numerosi studi dimostrano, infatti, che la quantità di linguaggio rivolto al bambino è importante per facilitare il processo di sviluppo del linguaggio, in quanto più linguaggio equivale a più parole diverse di cui il bambino può fare esperienza e a una maggiore possibilità d’uso di uno stesso termine in contesti diversi. Tale stile è, quindi, proprio di madri responsive che percepiscono il comportamento del figlio come comunicativo, sollecitando e mantenendo l’attenzione del bambino nello scambio comunicativo attraverso l’assecondamento dei suoi interessi nella scelta degli argomenti di conversazione.

Il secondo è uno stile direttivo(linguaggio bambino +) in cui l’adulto, anziché stimolare nel bambino l’utilizzo di espressioni complesse, tende a utilizzare frasi direttive e di controllo che necessitano di risposte semplici e brevi, non facilitando così la strutturazione del pensiero e rendendo lo sviluppo linguistico più lento. Tale stile è proprio di madri attentive che tendono a controllare il comportamento del figlio e a spostare la sua attenzione su altri oggetti ed eventi e di madri che ignorano, cioè che percepiscono il bambino come incapace di comunicare.

 

Una serie di ricerche degli anni ’70 misero in luce come il linguaggio rivolto ai bambini fosse sostanzialmente diverso dal linguaggio tra adulti. Si tratta di un registro linguistico a sé stante, detto motherese o baby talk, caratterizzato, da un punto di vista sintattico, da frasi brevi, con lunghe pause e una scarsa presenza di subordinate e, da un punto di vista lessicale, da una maggiore concretezza e ridondanza e da un costante riferimento all’attività in corso o a entità presenti. Particolarmente importante nel baby talk è l’aspetto prosodico, in quanto l’utilizzo di un contorno intonazionale molto variegato e con una frequenza fondamentale più alta del normale, cattura e mantiene alta l’attenzione del bambino e facilita la comprensione delle parti rilevanti dell’enunciato. Si è visto, infatti, che neonati esposti a un parlato con le caratteristiche melodiche del baby talk si dimostrano più attenti e più interessati agli stimoli ambientali proposti ed estraggono più facilmente informazioni sulla struttura stessa del linguaggio. Funzioni fondamentali del bay talk consistono nella facilitazione dell’acquisizione delle prime forme linguistiche, nel mantenere la vicinanza e l’affettività all’interno della relazione con l’adulto e di introdurre il bambino nel mondo esterno.

 

Infine, è stato messo in evidenza come i ruoli della madre e del padre nel facilitare il processo di acquisizione del linguaggio del figlio siano complementari, in quanto mentre la prima, adattandosi ai bisogni e alle capacità linguistiche del bambino, conversando più a lungo, producendo un maggior numero di parole e di enunciati ridondanti, facilita nel figlio l’apprendimento e il consolidamento delle abilità comunicative all’interno di contesti noti, il secondo, usando molti termini poco frequenti, facendo domande implicanti risposte complesse, ed essendo, in generale, meno sensibile al livello di competenza del bambino, costringe il bambino a modificare la formulazione delle frasi per essere capito e lo prepara, quindi, a essere un parlante competente anche al di fuori del nucleo familiare.

 

 

Teorie del linguaggio

 

La prima teoria che si incontra è la teoria comportamentista di Skinner, secondo il quale il comportamento umano è spiegabile in termini di un meccanismo generale di apprendimento, determinato dall’associazione tra stimoli e risposte, dove la forza di tale legame dipende dal rinforzo fornito dall’ambiente. In questa prospettiva, l’apprendimento del linguaggio utilizza il meccanismo di associazione stimolo-risposta con una grossa centralità del condizionamento dell’ambiente: secondo Skinner, infatti, il bambino emette suoni che vengono rinforzati dall’ambiente attraverso una contestualizzazione della parola e in un suo rinvio in una struttura testuale. Le risposte verbali, costituenti il linguaggio, vengono riorganizzate dall’adulto, rinforzandone alcune e rifiutandone altre e formando così routine comunicative.

Tuttavia, Skinner non inquadra in una teoria linguistica le sue speculazioni, limitandosi ad analizzare le influenze ambientali sul bambino e non tanto la situazione cognitiva del bambino stesso e non ammettendo la possibilità di processi simbolici, elemento questo che sarà il punto chiave della teoria piagetiana sullo sviluppo del linguaggio.

 

La teoria cognitivista classica di Piaget sostiene, infatti, che il linguaggio è un aspetto della capacità simbolica, che compare nel sesto stadio sensomotorio e segna il passaggio dall’intelligenza sensomotoria all’intelligenza rappresentativa. Contemporaneamente all’acquisizione del linguaggio intorno ai 18 mesi, i bambini esibiscono altre manifestazioni della capacità simbolica, come imitazione differita, gioco simbolico e disegno. Secondo questi tesi, lo sviluppo cognitivo precede la comparsa del linguaggio ed è autonomo rispetto ad esso, mentre il linguaggio deriva e dipende dallo sviluppo cognitivo in quanto è possibile solo dopo che si è sviluppata di agire sulla realtà e di rappresentarla simbolicamente. In quest’ottica il linguaggio è quindi il completamento di processi propri dello sviluppo motorio.

 

 

Il modello chomskyano sull’acquisizione del linguaggio si configura come una modello strettamente innatista che afferma la presenza di regole universali sottostanti allo sviluppo delle diverse lingua e che l’apprendimento del linguaggio è fondato su processi e funzioni la cui acquisizione risulta essere uniforme, automatica e universale.

La teoria di Chomsky sull’acquisizione del linguaggio nasce con la consapevolezza che la ricchezza e la complessità linguistica in dotazione all’individuo non è spiegabile con il limitato campo di esperienze cui è sottoposto e che diventa quindi necessario postulare l’esistenza di una facoltà del linguaggio (che C. stesso identifica quasi come un “organo” della mente), cioè una struttura intrinseca, dotata di proprietà cognitive grazie alle quali si sviluppa il linguaggio, sostenendo così una concezione modularista, secondo la quale la mente le abilità e le facoltà mentali sono scorporate e lette ognuna a sé stante. In questa prospettiva la mente è dotata di un modulo per l’elaborazione linguistica, con vincoli che incanalano la costruzione progressiva di rappresentazioni linguistiche dominio-specifiche, innato e indipendente, funzionalmente e strutturalmente, dall’esperienza e dallo sviluppo di altre capacità.

Tuttavia, nonostante importanti punti di accordo con il modularismo di Fodor, consistenti nella consapevolezza che funzioni linguistiche (cioè cognitive) sono distinte da funzioni biologiche (non cognitive), nel postulare l’esistenza di organi mentali (tra cui la facoltà del linguaggio) e nel sostenere che informazioni preposizionali, possedute dal cervello, interagiscono computazionalmente con o dati linguistici provenienti dall’esperienza di apprendimento, il modularismo chomskyano è stato definito un modularismo debole in quanto non specifica dove sia collocata da un punto di vista anatomico tale facoltà e in quanto, limitando le proprie speculazioni al linguaggio, non fornisce una vera e propria teoria modulare della mente.

 

Fin dall’inizio della sua elaborazione teorica C. postula un meccanismo d’acquisizione del linguaggio, il LAD, cioè un dispositivo input/output, dove in ingresso compaiono i dati a disposizione del bambino quando apprende una lingua e in uscita la grammatica di tale lingua, partendo da un numero limitato di ipotesi presenti in una conoscenza innata del linguaggio.

Partendo dal presupposto che il linguaggio consiste in un insieme di regole, secondo tale prospettiva l’acquisizione del linguaggio consiste in un processo attivo di apprendimento di regole (dalle più generali alle più complesse) in seguito all’ascolto e all’analisi, attraverso il LAD, dei discorsi degli adulti. Il linguaggio infantile viene visto non più come una rozza imitazione, ma come un processo attivo, creativo e guidato da regole. Il bambino impara, quindi, a dominare attivamente un sistema linguistico complesso sulla base di informazioni incomplete e scorrette.

 

In seguito alle critiche di Piaget, secondo il quale punto debole della teoria chomskyana consisteva in un eccessivo innatismo, Chomsky arriva a sostenere come la facoltà del linguaggio non agisca in modo isolato dagli altri processi cognitivi che categorizzano informazioni sul mondo esterno, ma sia piuttosto dipendente dallo sviluppo cognitivo, ammettendo così l’esistenza di un sistema cognitivo autonomo capace di generare regole linguistiche.

Elabora così l’ipotesi della grammatica universale che, partendo dalla distinzione tra una lingua E esterna, indipendente dalle proprietà della mente, e una lingua I, consistente nella conoscenza di una lingua da parte del parlante e della fonte di tale conoscenza, tale per cui il linguaggio è una proprietà interna della mente, vuole arrivare a formulare una grammatica in grado di analizzare le strutture profonde e di rappresentare questo particolare stato interno delle mente che è il linguaggio.

In particolare, tale grammatica deve possedere un’adeguatezza descrittiva e un’adeguatezza esplicativa, secondo la quale è necessario spiegare l’origine degli aspetti linguistici strutturali, mostrando come una lingua possa derivare da uno stato iniziale uniforme.

 

Tale grammatica viene denominata grammatica generativa trasformazionale, cioè una grammatica in grado di generare non solamente degli enunciati, ma delle vere e proprie descrizioni strutturali, e che, attraverso un ciclo trasformazionale, riconduca a tutte le frasi grammaticali possibili ad altri tipi di strutture, consentendo così la parametrizzazione di una lingua.

Tale teoria della lingua utilizza un metodo formale, ossia un metodo che, senza far ricorso al significato ma solamente in base alla forma esterna dei morfemi e alla loro disposizione, fornisce tutto ciò che è pertinente per l’analisi linguistica: secondo tale metodo, quindi, l’interpretazione sematica è basata unicamente sulla loro struttura superficiale.

L’acquisizione di una lingua madre, da intendersi secondo Chomsky come un processo che parte da uno stato So a uno stato ideale Ss attraverso opportune parametrizzazioni, si basa quindi su una grammatica universale, cioè una grammatica a cui ricondurre tutte le lingue della specie umana partendo dal presupposto che è possibile individuare un’uniformità nella competenza linguistica negli esseri umani in modo indipendente dalla lingua che parlano.

 

Tale grammatica universale si configura, quindi, come una grammatica posseduta da tutti gli individui, alla quale è possibile ricondurre tutte le lingue naturali, consistente in un insieme finito di elementi primitivi, quali i fonemi, i morfemi, le parole, e in universali linguistici, cioè proprietà formali e sintattiche costanti e ricorrenti, e basata su un insieme astratto di regole che generano un numero infinito di frasi.

A tale proposito, Chomsky individua due livelli di rappresentazione della frase, un livello profondo, formato da categorie grammaticali implicite non direttamente percepibili e un livello superficiale, formato da categorie grammaticali esplicite e consistente nell’articolazione acusticamente percepibile di una frase, e sostiene l’esistenza di regole formali che, attraverso specifiche trasformazioni, permettono di passare dalle strutture profonde alle strutture superficiali

La teoria della GU è, quindi, una teoria dello stato So che, tramite regole, trasforma, guida, incanala e permette l’acquisizione e lo sviluppo di grammatiche particolari, cioè grammatiche della moltitudine di lingue naturali, le quali non sono nient’altro che l’espressione di una grammatica universale, opportunamente variata.

 

Negli anni ’80 l’ipotesi di una teoria della lingua consistente nella GU viene sottoposta a una rielaborazione che dà origine a un modello dei principi e dei parametri, secondo il quale la grammatica non consiste in regole, ma in principi soggiacenti, dai quali derivano le regole, e in variazioni di tali principi, i parametri che, imponendo restrizioni a livello formale e sintattico, determinano il passaggio da una grammatica universale a una grammatica particolare.

La lingua è, quindi, concepita come un insieme di specificazioni e di parametri all’interno di un sistema di un sistema di principi universali e invarianti che governano le strutture sintattiche di tutte le lingue e a cui le regole aderiscono.

 

Principio fondamentale è il principio di dipendenza strutturale, secondo cui la conoscenza del linguaggio si basa sulle relazioni strutturali che sussistono all’interno di una frase e, in particolare, sul movimento sintattico di alcune categorie che, operando una trasformazione dalla struttura profonda a  quella superficiale, permette di descrivere innumerevoli costrutti sintattici. Il principio di dipendenza strutturale e il concetto di movimento implicano la teoria della reggenza e del legamento, secondo la quale ogni frase viene retta da un nodo frasale, da una categoria (i meccanismi sintattici sono sensibili a rapporti di reggenza) e secondo la quale in una frase è possibile individuare delle relazioni (legamenti) di coreferenza tra espressioni pronominali e anafore e i loro antecedenti. Altro principio è il principio di proiezione, secondo il quale le caratteristiche degli elementi lessicali sono rispettate e proiettate a tutti i livelli di rappresentazione sintattica.

Secondo tale programma minimalista, la facoltà del linguaggio comprende sistemi di produzione del linguaggio che rappresentano la competence e sistemi cognitivi rappresentanti la performance, ossia la padronanza dei processi grammaticali che governano le strutture degli enunciati, permettendo così la parametrizzazione di una lingua sulla base delle restrizioni imposte dal sistema di principi universali del linguaggio.

 

 A questo punto, obiettivo della GU della svolta minimalista  è elaborare un modello che spieghi le condizioni di accessibilità ai sistemi coinvolti nel linguaggio, allacciando così il modello teorico della linguistica generativa a una concezione modulare della mente: secondo Chomsky la facoltà del linguaggio mette in gioco due livelli di interfaccia, uno legato agli aspetti fonologici e uno legato agli aspetti semantici, tale per cui una determinata espressione contiene una rappresentazione fonetica( leggibile all’interfaccia sensomotorio) e una rappresentazione semantica (leggibile al sistema concettuale). Le condizioni di leggibilità all’interfaccia rappresentano, quindi, una caratterizzazione strettamente modulare della GU minimalista.

In conclusione, la teoria innatista chomskyana afferma che la capacità del linguaggio è specie-specifica e resa possibile da strutture mentali innate, non derivabili dall’esperienza e dominio specifiche, dove l’input ha il ruolo di innescatore di meccanismi biologici preprogrammati. Lo sviluppo è frutto di processi diretti dall’interno (il programma genetico della grammatica universale dotato di regole che guidano e permettono l’acquisizione della lingua madre) e di influenze ambientali parametriche che plasmano la facoltà del linguaggio, producendo così una lingua naturale.

 

Ultima teoria che si incontra è la teoria cognitivo-interazionista di Bruner, grazie alla quale si comincia a considerare l’interazione precoce tra il bambino e chi lo accudisce come una matrice di significati e di segnali convenzionali che confluiranno poi nella costruzione del codice linguistico.

Punto chiave della prospettiva di Bruner è l’integrazione tra le esigenze dell’organismo e le risposte dell’ambiente, affermando l’esistenza di una dimensione innata delle abilità e, al tempo stesso, mettendo in luce come queste possano attivarsi solamente quando le condizioni contestuali-esperenziali lo permettono.

Base predisponente per l’acquisizione del linguaggio è infatti l’interazione e, più precisamente, il format cioè un modello iniziale standard d’interazione tra adulto e bambino, sistematicamente ordinato secondo regole potenzialmente intercambiali, che consente a entrambi di costruire e condividere uno script, a partire dalle prime protocomunicazioni (presenti, ad esempio, durante il momento dell’allattamento) fino ad arrivare al linguaggio (attraverso una continuità tra format pre-verbali e verbali). A questo punto, è necessario, secondo Bruner, formulare, accanto al LAD, un LASS, cioè sistema di supporto per l’acquisizione del linguaggi, che corrisponde al ruolo svolto dall’adulto e dal contesto sociale nel codificare e rielaborare le espressioni comunicative del bambino e, quindi, nel consentire l’ingresso del bambino nel mondo del linguaggio e della cultura, integrando, così, capacità cognitive e sociali come fattori nello sviluppo del linguaggio.

 

La prospettiva cognitivo-interazionista afferma, quindi, che il contesto sociale favorisce l’acquisizione del linguaggio nella misura in cui il bambino è in grado di rappresentarsi concettualmente-cognitivamente ciò che intende esprimere.

 

 

Un contributo importante che integra i due punti di vista epistemologici dell’innatismo e del costruttivismo, proviene da Karmiloff-Smith secondo la quale le due prospettive possono e devono essere complementari nelle teorie dello sviluppo.

Karmiloff-Smith argomenta questa posizione partendo da una forte critica nei confronti di Piaget, in quanto egli sottovaluta il ruolo del linguaggio nello sviluppo cognitivo e in quanto lo sviluppo sensomotorio non può essere, da solo, capace di spiegare come emerge il linguaggio, e da una constatazione della differenza tra animali e uomo nella possibilità di un’acquisizione del linguaggio, arrivando, di conseguenza, ad affermare la necessità di postulare l’esistenza di una componente innata nello sviluppo del linguaggio.

Tuttavia, Karmiloff- Smith sottolinea come ciò che ci caratterizza in maniera particolare come esseri umani sia la capacità di riflettere sulla conoscenza e sul linguaggio, formando così rappresentazioni sempre più generali quali, appunto, la metacognizione(che implica una concezione dominio generale). Le due posizioni teoriche di riferimento a tali constatazioni consistono, infatti, nella prospettiva dominio generale (Piaget), secondo la quale il linguaggio è indipendente da un dominio particolare ma è solo il risultato di strutture e processi generali, e la prospettiva dominio specifica, propria di una concezione modularista della mente, secondo la quale  esistono strutture linguistiche innatamente specifiche che vincolano l’elaborazione dell’input linguistico.

Partendo dal paradosso specifico dell’apprendimento del linguaggio, secondo il quale mentre l’abilità aumenta nello sviluppo in tutti i domini, per quanto riguarda il linguaggio tale abilità raggiunge presto l’apice e poi declina, sostenendo così una posizione dominio specifica, vincolata a una fase di maturazione, e dall’argomentazione della Newport, centrata su competenze dominio generali, secondo la quale le minori e più limitate capacità di elaborazione dei bambini permettono una qualità di elaborazione maggiore e più raffinata (cogliendo costituenti difficili per l’adulto), per cui l’acquisizione di una lingua è più facile, per esempio a tre anni invece che a sette, in quanto, si possiedono minori capacità cognitive, si rivela essere falsa (in quanto si è visto che l’acquisizione della lingua madre è possibile fino al periodo pre puberale ), Karmiloff- Smith afferma che l’acquisizione del linguaggio è sia dominio specifica, per cui esistono vincoli che incanalano la costruzione progressiva di rappresentazioni linguistiche (validi soprattutto all’inizio), sia dominio generale, per cui rappresentazioni precedenti, una volta ridescritte, sono disponibili per il dominio generale, attraverso una serie di link che le collegano in modo che possano essere usate anche in domini diversi, aldilà del dominio linguistico.

Possiamo quindi dire che il contributo della Karmiloff-Smith consiste nell’ammettere l’esistenza di moduli, che guidano e permettono l’acquisizione del linguaggio, non del tutto pre-specificati e non isolati dal contesto, che permettono un insieme di rappresentazioni multiple di informazioni linguistiche, ma in formati rappresentazionali diversi.

 

 

 

Strumenti di rilevazione

 

Uno dei maggiori strumenti di rilevazione è costituito dal PRCR-2 che consiste in prove di requisito per la diagnosi di difficoltà nella letto-scrittura.

 

Finalità: valutare le difficoltà di lettura e scrittura nei bambini della scuola materna e dei primi due anni della scuola elementare. Le sei prove di cui si compone possono essere utilizzate anche in casi con difficoltà di apprendimento anche fino alla quinta elementare o terza media.

 

Composizione: si tratta di 16 schede raggruppate in 6 aree finalizzate all’esame:

  • Della capacità di analisi visiva AV
  • Del lavoro seriale da sinistra a destra SD
  • Della discriminazione uditiva e del ritmo DUR
  • Della memoria uditiva sequenziale e fusione uditiva MUSFU
  • Dell’integrazione visivo-uditiva IVU
  • Della globalità visiva GB

 

Somministrazione: tempo libero, individuale e collettiva

 

Validità: esamina il livello di possesso dei requisiti specifici e di esecuzione, dei processi parziali implicati nell’attività di decodifica della lettura e scrittura, consentendo la valutazione del livello complessivo raggiunto dall’alunno e di determinare le aree in cui è più debole.

 

 

 

 

 

Comunicazione

 

La comunicazione è un processo in cui si realizza uno scambio di informazioni interattivo tra due o più partecipanti, in cui è presente un meccanismo di feed back, dotato di intenzionalità reciproca, in cui c’è una condivisione di sistemi di significati sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione, specifici dei singoli contesti culturali.

La comunicazione è un aspetto fondamentale per l’uomo, in quanto risponde a determinati bisogni:

  • Bisogno pratico: la comunicazione risponde a esigenze pratiche quotidiane
  • Bisogno sociale: soddisfa bisogni sociali come il senso di appartenenza, il senso di affiliazione
  • Bisogno individuale: attraverso la comunicazione percepiamo il nostro senso d’identità.

 

Possiamo quindi dire che la comunicazione è sia un’attività sociale implicante la costruzione di significati condivisi, attraverso frame dello scambio comunicativo in cui sono presenti regole e strategie di comunicazione, sia un’attività cognitiva che sfrutta la connessione col pensiero e con i processi mentali superiori ed è strettamente connessa all’azione.

Elementi costitutivi della comunicazione interpersonale sono:

 

  • Emittente: colui che invia informazioni
  • Destinatario: colui che riceve
  • Messaggio: insieme delle informazioni che l’emittente invia al destinatario
  • Canale: tramite attraverso cui il messaggio viene inoltrato
  • Codificazione: processo mediante il quale l’emittente traduce pensieri, motivazioni ed aspettative in simboli. Il processo di codifica coinvolge una serie complessa di operazioni, a livello cognitivo, emotivo, affettivo e interpersonale in quanto ogni messaggio contiene, oltra ad un contenuto esplicito, anche un aspetto che specifica il modo in cui il messaggio deve essere considerato e quale è la natura della relazione tra le persone coinvolte nell’interazione. Tutto ciò rappresenta l’aspetto metacomunicativo del messaggio, in quanto fornisce informazioni su come l’emittente si definisce e su come definisce le identità di ruolo dei partecipanti.

la metacomunicazione necessita di buone capacità di role taking, consistenti nella capacità di comprendere la prospettiva dell’altro e di tenerla presente durante l’interazione comunicativa,  le quali implicano la capacità di effettuare scelte linguistico-comunicative adatte all’altro e di effettuare un controllo sul proprio linguaggio e sul comportamento altrui.

  • Decodificazione: processo mediante il quale il destinatario traduce i simboli contenuti nel messaggio
  • Feedback: processo mediante cui l’emittente è in grado di analizzare e valutare gli effetti prodotti dal messaggio da lui inviato
  • Contesto: situazione all’interno della quale ha luogo il processo comunicativo.

 

In quest’ottica, ogni evento comunicativo viene ad essere un incontro dialettico tra processi, un processo di espressione e un processo d’interpretazione, in un sottile gioco di attese e riconoscimenti reciproci.

La comunicazione possiede tre aspetti fondamentali:

 

  1. referenziale: necessità di porre un rapporto tra il significato e la realtà
  2. inferenziale: organizzazione cognitiva dei significati in concetti
  3. differenziale: il ruolo della lingua contribuisce a costruire il significato di una parola.

 

Funzioni comunicazione:

  1. referenziale
  2. interpersonale
  3. regolatrice dell’interazione
  4. coordinazione delle sequenze interattive
  5. metacomunicativa

 

bisogna precisare come la comunicazione non sia costituita soltanto dal sistema verbale, ma anche da quello intonazionale, quello paralinguistico e quello cinesico.

 

Gesti e parola costituiscono, nella comunicazione adulta, un sistema intermodale di trasmissione dei messaggi. Quando i bambini cominciano a comunicare in maniera intenzionale utilizzano, infatti, il canale gestuale.

Il pianto alla nascita non è intenzionale, ma gli viene attribuita un’intenzionalità dal mondo esterno.

Sono gesti deittici il gesto di indicare, offrire, mostrare. In particolare, il gesto di indicare è un’importante tappa nello sviluppo simbolico del bambino, in quanto implica il riferimento a un oggetto e, al tempo stesso, la sua rappresentazione.

Routine e schemi di azione regolari e stereotipati si configurano come pratiche essenziali per la formazione di schemi mentali e di concetti, per l’elaborazione di modelli di comunicazione e per la costruzione di una rete di significati, proprio attraverso la realizzazione standardizzata e ripetuta di sequenze di azioni.

  Esempio chiaro dell’esistenza di regole innate, sottostanti al processo di acquisizione del linguaggio, consiste negli ipercorrettismi, in cui il bambino regolarizza una struttura senza un insegamneto da parte del contesto.

Il periodo critico si estende fino alla pubertà; tuttavia, un tempo critico così lungo fa perdere di significato il concetto. I dati sull’acquisizione del linguaggio sono insufficienti per confermare l’utilità dell’hp di un periodo critico.

Essere buoni comunicatori significa, in primo luogo, essere buoni ascoltatori. Per essere buoni ascoltatori è necessario osservare (cioè raccogliere e captare tutte le informazioni possibili), sospendere l’urgenza classificare (cioè quel processo, finalizzato a una riduzione della complessità del mondo circostante, consistente in generalizzazioni concettuali), domandare per agevolare l’esposizione altrui e curare l’apetto logistico, cioè il contesto fisico-spaziale circostante

 

Fonte: http://appunti.buzzionline.eu/downloads/fondlinguaggio0506.doc

Sito web da visitare: http://appunti.buzzionline.eu

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