Atti degli apostoli
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Atti degli apostoli
Introduzione
Comprendere  un libro equivale a conoscere lo scopo inteso dall’autore. L’obiettivo degli  Atti è storico-salvifico. Essi «presentano l’itinerario di salvezza dal tempio  di Gerusalemme e dalla città santa, nella quale essa ha il suo inizio centrale,  fin oltre i confini della Giudea e del giudaismo, verso il mondo pagano di  allora, di cui Roma era il centro» (C.M. Martini). 
Questa  salvezza avviene in Cristo che compie le antiche profezie e dà senso agli  eventi futuri. Tra le due venute del Salvatore Luca colloca il tempo della  Chiesa, che è l’ultima fase della salvezza. 
Gli Atti ci  presentano la Chiesa  primitiva come un costante punto di riferimento per le nostre comunità  cristiane. 
La comunità  di Gerusalemme appare negli Atti come modello per la Chiesa universale, per le  diocesi, la parrocchia e anche per quella chiesa domestica che è la famiglia.  Essa costituisce un modello non in quanto dispensatrice di ricette già pronte  per risolvere tutti i problemi, ma come stimolo per la ricerca di soluzioni  diverse per situazioni differenti. 
Capitolo 1
  Tutto il  capitolo primo va visto come introduzione che unisce «il tempo di Gesù» al  «tempo della Chiesa». Gesù comunica il suo incarico a coloro che egli aveva  scelto mediante lo Spirito Santo (v. 2) e fa loro la promessa che saranno  testimoni di lui «fino agli estremi confini della terra» (v. 8).
  Nel «secondo  libro di Luca» gli undici apostoli (1,13) e Mattia, eletto per integrare il  numero dodici (1,26), sono ricordati, ognuno per nome, per sottolineare che  essi sono stati i testimoni oculari di Cristo (1,21-22) e costituiscono il  legame attendibile tra Gesù e la   Chiesa.
  Questo  capitolo presenta una comunità relativa a Gesù, quasi un suo prolungamento: è  sempre quel Gesù, che un tempo agiva direttamente, che ora continua a  predicare, a sanare, a soffrire mediante la sua comunità. 
  Prologo 
  1 Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che  Gesù fece e insegnò dal principio 2 fino al giorno in cui, dopo aver  dato istruzioni agli apostoli che si era scelti nello Spirito Santo, egli fu  assunto in cielo.
  3 Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove,  apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio. 4 Mentre  si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme,  ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre «quella, disse, che voi  avete udito da me: 5 Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece  sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni». 
  Il libro  degli Atti si apre con un prologo. Come in quello del suo vangelo, Luca si  rivolge a Teòfilo. Costui rappresenta, per il significato stesso del suo nome,  ogni «amico di Dio» a cui lo Spirito santo concede di riconoscere l’amore  divino che opera tra gli uomini. Teòfilo è anche ogni lettore, ognuno di noi,  al quale il libro è rivolto. Il «mio primo libro» (v. 1) è il vangelo di Luca  nel quale egli ha già scritto «tutto quello che Gesù fece e insegnò dal  principio, fino al giorno in cui egli fu assunto in cielo» (vv. 1-2). 
  La novità  più importante rispetto ai dati evangelici è il ricordo dei quaranta giorni (v.  3). All’inizio (Lc 3,24; 4,1-2) e alla fine del tempo di Gesù c’è un periodo di  giorni contraddistinti dal biblico numero simbolico di 40, in cui Gesù e poi i suoi  apostoli furono preparati alla loro missione. «Quaranta giorni» è un modo di  dire tipico della Bibbia mediante il quale si definisce il tempo delle  manifestazioni importanti e decisive di Dio, come quella a Mosè sul monte Sinai  (Es 24,28; 34,28). Come Mosè, secondo una tradizione ebraica , durante la sua  permanenza sul Sinai ricevette per quaranta volte – una volta al giorno – i  comandamenti di Dio come fondamento della sua testimonianza davanti al popolo  d’Israele, così gli apostoli, nel periodo dei quaranta giorni delle apparizioni  di Gesù, ricevono il contenuto della loro testimonianza (il regno di Dio) e lo  Spirito nel quale devono rendere questa testimonianza. Anche nell’insegnamento  dei rabbini il numero quaranta ha un valore simbolico per indicare un tirocinio  completo e normativo. In altre parole gli apostoli a contatto con il Signore risorto  ricevono quella formazione autorevole e completa che li abilita a continuare la  sua opera storica. Il contenuto dell’istruzione è il regno di Dio, cioè  l’intervento salvifico e definitivo di Dio nella storia. Questo era già stato  il programma della predicazione di Gesù (Lc 4,43; 8,1.10; 9,2; 11,20). 
  Un altro  fatto singolare di questo riassunto delle esperienze pasquali negli Atti è il  ricordo della commensalità degli apostoli con Gesù. Qui convergono due  tradizioni: quella degli incontri dei discepoli con Gesù risorto dove il pasto  ha valore di segno per suggerire che egli è vivo (Lc 24,41-42) e quello della  cena eucaristica che esprime e realizza la piena comunione con il Signore (Lc  24,30; At 2,46).
  I discepoli  devono attendere a Gerusalemme il dono dello Spirito. Gerusalemme, meta del  cammino storico di Gesù, centro ideale della storia dell’antico popolo  d’Israele, luogo dell’accoglienza dello Spirito e sede della prima comunità  cristiana sarà il punto di partenza della loro missione. Il passaggio dall’epoca  dell’attesa e della preparazione a quella dell’attuazione e compimento è  espressa nella frase di Gesù: «Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece  sarete battezzati (da Dio) in Spirito santo, tra non molti giorni» (v. 5). In  questo versetto c’è un confronto tra i due battezzatori (Giovanni Battista e  Dio) e tra i due battesimi (quello di Giovanni con l’acqua, quello di Dio nello  Spirito Santo). Si passa dal battesimo come rito di purificazione e di  penitenza, al battesimo di immersione nello Spirito, potenza divina che crea e  rinnova l’uomo. Questa frase di chiusura del prologo degli Atti evoca il fatto  nuovo e qualificante di questo libro: l’azione dello Spirito, dono del Risorto,  che riunisce un popolo nuovo. Il movimento cristiano che si sviluppa dopo la Pasqua del Signore non è  solo una nuova esperienza e organizzazione religiosa; esso è la testimonianza  storica e visibile dell’azione di Dio che è esplosa in modo unico e definitivo  nella vita, morte e risurrezione di Gesù. 
  L'Ascensione 
  6 Così venutisi a trovare insieme gli domandarono: «Signore, è questo  il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?». 7 Ma egli  rispose: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha  riservato alla sua scelta, 8 ma avrete forza dallo Spirito Santo che  scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli  estremi confini della terra».
  9 Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo  sottrasse al loro sguardo. 10 E poiché essi stavano fissando il  cielo mentre egli se n'andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono  a loro e dissero: 11 «Uomini di Galilea, perché state a guardare il  cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un  giorno allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo». 
  Gli apostoli  chiedono a Gesù: «E’ questo il tempo in cui ricostituirai il regno d’Israele?».  Essi attendono infatti la «restaurazione di tutte le cose, come ha detto Dio  fin dall’antichità, per bocca dei suoi santi profeti» (3,21). Amos aveva  profetizzato dicendo: «In quel giorno rialzerò la capanna di Davide, che è  caduta; ne riparerò le brecce, ne rialzerò le rovine, la ricostruirò come ai  tempi antichi». (Am 9,11). Giacomo di Gerusalemme afferma che è proprio quello  che sta avvenendo attraverso la   Chiesa nata a Pentecoste (15,16). Ma di quale restaurazione  si tratta?
  In realtà,  l’avvento del regno di Dio è oggetto di preghiera perseverante: «Venga il tuo  regno!» (Lc 11,2). Questa preghiera è rivolta al Padre che ha la benevolenza di  darci il suo regno (Lc 12,31). E per quanto riguarda i tempi e i momenti di  tale restaurazione, Dio ha riservato a Sé la conoscenza e la decisione. I tempi  (chronoi) sono quelli che scandiscono lo svolgimento della storia umana  sul piano della creazione; i momenti (kairoi) si collocano sul piano  della salvezza: sono gli interventi della grazia di Dio nel quadro della sua  alleanza con l’umanità (Cf. Dn 2,21; Sap 8,8; 1Ts 5,1). 
  La risposta  di Gesù indica ai suoi la dimensione gravosa del cammino che i servi della  Parola di grazia dovranno percorrere per far sì che il regno di Dio «venga» in  tutti i luoghi e in tutti i tempi. 
  «Avrete  forza dallo Spirito santo che scenderà su di voi». Questa parola fa eco a  quella di Lc 24,49: «Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso;  ma restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».  Nell’episodio dell’Annunciazione, il messaggero di Dio aveva detto a Maria: «Lo  Spirito santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza  dell’Altissimo» (Lc 1,35). Si tratta del medesimo mistero di concepimento della  Parola, non più nel grembo della vergine Maria – che tuttavia è sempre presente  (v. 14) – ma in ogni persona e comunità cristiana. 
  Notiamo che  mentre alla fine del vangelo di Luca Gesù aveva detto: «Di questo voi siete  testimoni» (Lc 24,48), ora dice: «Sarete testimoni di me» (v. 8). La  testimonianza nella potenza dello Spirito Santo non riguarda più soltanto i  fatti della salvezza, ma colui che si colloca al culmine di quegli eventi: il  Signore risorto. Il riferimento ultimo della Scrittura e della testimonianza  deve essere ormai la persona del Risorto.
  Gesù indica  anche il campo in cui deve realizzarsi la testimonianza: «in Gerusalemme, in  tutta la Giudea  e la Samaria  e fino agli ultimi confini della terra» (v. 8). La restaurazione del regno di  Dio passa per il tracciato di questa via. La testimonianza degli apostoli, a  partire da Gerusalemme, si svilupperà in tutte le direzioni. Ma negli Atti,  Luca prenderà in considerazione una linea privilegiata: quella che va da  Gerusalemme a Roma, crocevia delle nazioni. 
  Nel racconto  dell’Ascensione il vocabolario è preciso: «fu elevato», «è stato assunto fino  al cielo». Dietro la forma passiva dei verbi, dobbiamo leggere l’azione di Dio.  La nube inoltre segnala che si tratta di un ingresso nell’intimità del Padre,  come nell’episodio della Trasfigurazione di Gesù (Lc 9,34-35). Ma questa nube  esprime anche la gloria e il sottrarsi del mistero dal nostro sguardo. Tutto ciò  richiama il discorso in cui Gesù parla della sua venuta «nella nube», cioè in  maniera nascosta, velata: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire nella  nube con molta potenza e gloria» (Lc 21,27). Ed è infatti di questa venuta che  parleranno i due messaggeri del v. 10. Agli apostoli che stanno con gli occhi  fissi al cielo, «due uomini in bianche vesti» (cf Lc 24,4) svelano il senso del  mistero che stanno vivendo, ricordando che la venuta di colui che fu assunto al  cielo deve essere vissuta sulla terra, nelle realtà concrete della storia  umana. Gesù verrà allo stesso modo, cioè andando per le strade del mondo con  gli uomini, in maniera invisibile. Luca ci mette in guardia da una  spiritualizzazione errata che ci porterebbe a sottrarci ai compiti quotidiani.
  Il futuro  «verrà» del v. 11 traduce un «incompiuto» ebraico: l’azione del venire non si  colloca nel futuro, ma «è in via di realizzazione»; la venuta di Gesù continua.  Proprio per questo gli apostoli sono rimandati alla loro missione terrena, al  loro impegno di testimonianza. E’ inutile guardare il cielo: il Signore viene  sulla terra! Ma viene nella nube, in maniera velata, avvolto nel mistero di  Dio. 
  In sintesi  possiamo dire che il racconto sottolinea non tanto i particolari  dell’esperienza storica che il racconto dell’Ascensione presuppone, quanto il  suo significato attuale per i cristiani: prospettiva di una fine dei tempi;  certezza della vittoria decisiva di Gesù sulla morte e della sua presenza  presso il Padre e con noi; necessità dell’impegno dei cristiani nelle cose di  questo mondo in vista della salvezza di tutti. 
  Il racconto  dell’Ascensione non vuole principalmente darci delle informazioni circa il modo  o il tempo della «partenza» di Gesù da questo mondo, ma è la risposta al  problema riguardante il significato della storia alla luce della fede nella  risurrezione di Gesù. Il problema si può formulare in questi termini: se è vero  che con la risurrezione e glorificazione di Gesù la storia ha subito la svolta  definitiva annunciata dai profeti, perché non si vede questo cambiamento sul  piano religioso, sociale e politico? Forse tutto è rimandato a un  capovolgimento a breve scadenza con una manifestazione gloriosa e spettacolare  del Signore risorto? Questi interrogativi si intravedono anche nel vangelo di  Luca: «Quando verrà il regno di Dio?» (cf. Lc 17,20; 19,11; 21,7). Nei circoli  giudeo-cristiani questa speranza religiosa era frammista alle attese di  liberazione messianica nazionale. I due discepoli di Emmaus sono i  rappresentanti tipici di questo ambiente che coniuga insieme speranza  nell’intervento di Dio e liberazione politica: «Noi speravamo che fosse lui a  liberare Israele (Lc 24,21).
  Presentare  il cammino della Chiesa, vuol dire per Luca ritrovare il nuovo senso della  storia sotto il segno della risurrezione. E questo è racchiuso nella frase  programmatica di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi  e sarete testimoni di me in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli  estremi confini della terra» (v. 8). La forza dello Spirito, la testimonianza e  l’apertura universale sono le tre componenti essenziali dell’esperienza ideale  della Chiesa, che Luca ci presenta negli Atti. La promessa di Gesù ridimensiona  l’illusione dei fanatici che scambiano l’effusione dello Spirito con la  garanzia per il trionfalismo religioso e politico: il regno per Israele. Ma la  parola di Gesù indica anche un compito nuovo: lo Spirito non è una forza per  dominare e controllare gli uomini, ma per essere testimoni di Gesù, il Signore  risorto. Il concetto di testimonianza è un elemento fondamentale di questo  libro e qualifica il ruolo autorevole dei primi inviati di Gesù, dai quali  prende avvio l’esperienza della Chiesa. Nella parte centrale dei grandi  discorsi degli Atti, Pietro, a nome del gruppo, ripete: «Noi siamo testimoni»  (cf. 2,32; 3,15; 10,41).
  I. LA CHIESA DI GERUSALEMME
  Il  gruppo degli apostoli 
  12 Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è  vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato. 13 Entrati  in città salirono al piano superiore dove abitavano. C'erano Pietro e Giovanni,  Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e  Simone lo Zelòta e Giuda di Giacomo. 14 Tutti questi erano assidui e  concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di  Gesù e con i fratelli di lui.
  L’ascensione  di Gesù sul monte degli Ulivi richiama la visione di Ezechiele: «Dal centro  della città la gloria del Signore si alzò e andò a fermarsi sul monte a oriente  della città» (Ez 11,23). Sotto gli occhi del profeta, la gloria di Dio si  prepara a lasciare la città santa per andare a raggiungere gli esiliati nel  luogo della loro deportazione; così Dio potrà essere per loro « un santuario  nelle terre dove hanno emigrato» (Ez 11,16). Segue subito la promessa: «Metterò  dentro di voi uno Spirito nuovo» (Ez 11,19), una promessa che verrà precisata  più avanti: «Porrò il mio Spirito dentro di voi» (Ez 36,27). La scomparsa di  Gesù è dunque l’esatto contrario di una fine. Si tratta invece dell’inizio di  un’incredibile opera di grazia e di salvezza. 
  Il v. 13 ci  dà la lista degli apostoli di cui Luca sta per evocare le gesta. Tutti  perseveravano nella preghiera. In questa preghiera comune esercitano il  discernimento per penetrare più profondamente nella comprensione di ciò che  avviene. Nella preghiera con Maria – figura centrale nel mistero delle origini  – matura un nuovo intervento fondamentale dello Spirito Santo. Nel momento in  cui, attraverso lo Spirito Santo, sta per essere generato il corpo vivente di  Gesù nell’umanità, Maria è presente come colei che mette al mondo Dio. Le donne  presentate con lei mettono in luce il carattere corporativo della maternità  spirituale della donna all’interno della comunità. Per quanto riguarda i «fratelli»  di Gesù, si tratta probabilmente di quelli che sono citati un Mc 6,3: Giacomo,  di cui si parlerà più avanti (15,13; 21,18), Joses, Giuda e Simone. 
  La piccola  comunità che attende nella concordia e in preghiera lo Spirito Santo,  rappresenta in miniatura il nuovo popolo di Dio senza discriminazioni e  privilegi. Tutti ne fanno parte: i discepoli della prima ora, le donne fedeli, la Madre e i parenti. Un nuovo  principio di aggregazione tiene unito questo gruppo di persone: l’adesione a  Gesù, il Signore risorto, e al suo progetto di vita. Il dinamismo dello Spirito  di Pentecoste farà espandere questa forza di coesione oltre il piccolo ambito  di questo luogo di preghiera. 
  Gli apostoli  erano radunati nella concordia e si occupavano costantemente della preghiera,  dedicandosi ad essa con insistenza e continuità. Alla loro comunione unanime  partecipavano anche delle donne, Maria, madre di Gesù e i suoi fratelli. La  preghiera ardente della comunità delle origini può essere vista come  preparazione al dono dello Spirito, in analogia con Lc 3,21-22. Come risposta  alla loro preghiera per il regno (Lc 11,2), Dio dà ai discepoli di Gesù  anzitutto lo Spirito Santo (Lc 11,13). 
  La  sostituzione di Giuda 
  15 In quei  giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli (il numero delle persone radunate  era circa centoventi) e disse: 16 «Fratelli, era necessario che si  adempisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di  Davide riguardo a Giuda, che fece da guida a quelli che arrestarono Gesù. 17  Egli era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro  ministero. 18 Giuda comprò un pezzo di terra con i proventi del suo  delitto e poi precipitando in avanti si squarciò in mezzo e si sparsero fuori  tutte le sue viscere. 19 La cosa è divenuta così nota a tutti gli  abitanti di Gerusalemme, che quel terreno è stato chiamato nella loro lingua  Akeldamà, cioè Campo di sangue. 20 Infatti sta scritto nel libro dei  Salmi:
  La sua dimora diventi deserta, 
  e nessuno vi abiti, 
  il suo incarico lo prenda un altro. 
  21 Bisogna dunque che tra coloro che ci furono compagni per tutto il  tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi, 22  incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra  noi assunto in cielo, uno divenga, insieme a noi, testimone della sua  risurrezione».
  23 Ne furono proposti due, Giuseppe detto Barsabba, che era  soprannominato Giusto, e Mattia. 24 Allora essi pregarono dicendo:  «Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostraci quale di questi due hai  designato 25 a  prendere il posto in questo ministero e apostolato che Giuda ha abbandonato per  andarsene al posto da lui scelto». 26 Gettarono quindi le sorti su  di loro e la sorte cadde su Mattia, che fu associato agli undici apostoli. 
  La preghiera  non tarda a portare i suoi primi frutti. Gli apostoli prendono coscienza del  posto rimasto vuoto nel gruppo dei testimoni della risurrezione: dopo la morte  di Giuda, sono rimasti solo in undici a «giudicare le dodici tribù d’Israele»  (Lc 22,30). Pietro si alza e prende la parola per indicare ciò che Dio si  aspetta dalla comunità cristiana. Specificando che i fratelli radunati sono  120, Luca lascia intendere che il servizio di Dio è ciò che struttura il  «resto». Il numero 120 equivale infatti a dieci uomini per ciascuna delle dodici  tribù scelte per elezione divina. Nella tradizione ebraica è richiesto un  numero minimo di dieci israeliti maschi e maggiorenni per rappresentare il  popolo nella preghiera comune. Il popolo della nuova alleanza si costituirà  dunque da questi 10x12, cioè da questi 120 fratelli. 
  La morte di  Giuda viene riferita qui secondo una tradizione diversa da quella di Matteo  27,3-10. La tradizione di Matteo parlava di un suicidio per impiccagione e di  una proprietà che i sacerdoti del Tempio avevano acquistato, col denaro  restituito dal traditore, per destinarla alla sepoltura degli stranieri. La  tradizione raccolta dal libro degli Atti parla di uno sventramento di Giuda e  di una proprietà acquistata da Giuda stesso. 
  La versione  di Matteo riprende un modello presente nel racconto della morte di Achitòfel di  Ghilo, consigliere di Davide e poi suo traditore (2Sam 17,23). La versione  degli Atti descrive la morte dell’empio (cf Sap 4,19) che non ha riconosciuto  il Giusto (cf. 7,52). Spaccarsi in mezzo, o essere scagliati a testa in giù,  sono modalità abitualmente attribuite a questo genere di morte insieme ai  vermi, il fuoco, il gonfiore, la putrefazione (cf 12,23).
  Ai vv. 16 e  21, troviamo l’espressione «bisognava», «bisogna». E’ un espressione che viene  utilizzata per indicare il libero consenso di un uomo alla volontà salvifica di  Dio. Questa «necessità» che incombe sull’uomo, e che può essere conosciuta  attraverso la Scrittura,  non si colloca sul piano della logica razionale, ma su quello della salvezza. A  coloro che ricevono lo Spirito Santo, essa si rivela come la via misteriosa  attraverso la quale la benevolenza del Padre ci raggiunge nel profondo della  nostra volontà omicida. Gesù si è assoggettato a questa «necessità» (cf. Lc  24,26), e il Padre l’ha fatto risorgere. Attraverso molte tribolazioni i suoi  discepoli entreranno dietro di lui nel regno di Dio, come leggiamo in At  14,21-22: «Dopo aver predicato il vangelo in quella città e fatto un numero  considerevole di discepoli, (Barnaba e Paolo) ritornarono a Listra, Iconio e  Antiochia, rianimando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede  poiché, dicevano, è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel  regno di Dio». Vissuta nello Spirito Santo, questa necessità perde il suo  sapore di morte per essere riconosciuta come una via di grazia che conduce alla  Vita. 
  In questo  brano i Salmi permettono a Pietro di decifrare il destino di Giuda; anche nel  suo tradimento egli è parte integrante del mistero pasquale. Questo discorso di  Pietro ci rivela il modo cristiano primitivo di leggere i fatti. Anche gli  avvenimenti più tristi e scandalosi, come il tradimento e il destino tragico di  Giuda, acquistano un senso quando vengono letti sullo sfondo del progetto di  Dio. 
  Se  l’essenziale della missione degli apostoli consiste nell’essere i testimoni  della risurrezione di Gesù, si capisce la condizione che viene indicata nei vv.  21-22: aver frequentato Gesù fin dagli inizi del suo cammino terreno, averlo  visto morire e poi averlo riconosciuto vivo al di là della morte ed essere  rimasti in reale contatto con lui per il periodo dei quaranta giorni. In tal  modo il testimone avrà potuto accertarsi che si tratta veramente della stessa  persona e non di una allucinazione o di un frutto della fantasia. 
  Per essere  apostoli era necessaria una seconda condizione: essere stati scelti da Dio. E’  questo il senso della preghiera dei vv. 24-25. Da una prima selezione erano  usciti due candidati, Giuseppe e Mattia. Il fatto di estrarre a sorte uno dei  candidati invece che procedere a una nomina tramite una votazione da parte  dell’assemblea esprime il desiderio di lasciare piena libertà di scelta a Dio  (cf. Pr 16,33). 
  Il  simbolismo dei Dodici, legato alle dodici tribù d’Israele, mette chiaramente in  luce la continuità fra Israele e la nuova comunità che rende testimonianza al  Risorto. In questa luce, la defezione di Giuda, in cui si legge in filigrana  l’incomprensione di Gerusalemme e dei suoi figli nei confronti di Gesù che le  porta la pace (Lc 19,42-44), non significa che le prerogative di Israele sono  soppresse, né che l’accenno al traditore che va «al proprio luogo» indica la  sua dannazione. Coloro che hanno rifiutato la visita del Re nella pace (Lc  19,42-44), riceveranno quella dei testimoni del Risorto: «sarete testimoni di me  in Gerusalemme…» (v. 8). 
  Mentre la  comunità prega, Pietro, nel nome di Gesù, riconosce che la salvezza di Dio si  realizza, secondo le Scritture, nell’elezione di Mattia, che in tal modo  subentra a Giuda. 
Capitolo 2 
  Questo  capitolo si presenta come il programma dell’opera di Luca. Si potrebbe  paragonare al ruolo che ha il racconto del battesimo e della prima predica di  Gesù a Nazaret nel vangelo. L’autore definisce i due centri propulsori  dell’esperienza cristiana, le due forze che danno impulso al dinamismo  cristiano: lo Spirito e la   Parola. Lo Spirito di Pentecoste come forza rinnovatrice e  unificante di Dio convoca attorno agli apostoli, che ne sono ripieni, i  "giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo" (v. 5), i  quali sono i rappresentanti della nuova umanità, cioè dei popoli del mondo  abitato, dal quale provengono. La parola di Pietro che dà un senso cristiano e  salvifico ai fenomeni dello Spirito, dono di Gesù risorto, opera la  trasformazione delle coscienze e fa convergere verso il nucleo della nuova  comunità una massa di convertiti (vv. 14-41). Infine l’attenzione si sofferma  un momento a contemplare il quadro ideale della vita della prima comunità  cristiana all’indomani della Pentecoste (vv. 42-47). 
  La Pentecoste
  1 Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti  insieme nello stesso luogo. 2 Venne all'improvviso dal cielo un  rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si  trovavano. 3 Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e  si posarono su ciascuno di loro; 4 ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo  e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere  d'esprimersi.
  5 Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione  che è sotto il cielo. 6 Venuto quel fragore, la folla si radunò e  rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. 7 Erano  stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano: «Costoro che parlano non sono  forse tutti Galilei? 8 E com'è che li sentiamo ciascuno parlare la  nostra lingua nativa? 9 Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della  Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell'Asia, 10 della  Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène,  stranieri di Roma, 11 Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo  annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio». 12 Tutti  erano stupiti e perplessi, chiedendosi l'un l'altro: «Che significa questo?». 13  Altri invece li deridevano e dicevano: «Si sono ubriacati di mosto».
  Il racconto  si apre con due espressioni che danno l’intonazione a tutto l’episodio. In  primo luogo, il giorno della Pentecoste giunge come un "compimento"  del tempo. Poi, l’intero spazio umano sembra concentrarsi in un punto:" si  trovavano tutti insieme nello stesso luogo" (v. 1). Così il tempo e lo  spazio si raccolgono perché venga data alla luce l’umanità rinnovata dal dono  dello Spirito santo, come al Sinai, nel giorno in cui Israele si era accampato  "con un medesimo cuore" e aveva aderito unanime alle parole ricevute  da Dio (Es 19). 
  La  descrizione dell’evento della Pentecoste rimanda alle immagini e al vocabolario  del racconto dell’Esodo (c. 19): la teofania (manifestazione di Dio) del  Sinai. Gli Atti parlano di rumore, di soffio violento, di lingue di fuoco (vv.  2-4). In Es 19, 16-18 ci sono tuoni, lampi, suono di tromba, terremoto, fumo,  fuoco, voce… La provenienza del messaggio è identica: viene dal  "cielo" dove Gesù è salito (1,11) come veniva dal cielo la voce che  si era udita al suo battesimo (Lc 3,22), in conformità con Dt 4,36; "Dal  cielo ti ha fatto udire la sua voce per educarti; sulla terra ti ha mostrato il  suo grande fuoco e tu hai udito la sue parole di mezzo al fuoco". 
  Tutta la  casa è invasa da un immenso soffio (v. 2), segno dello Spirito che riempie  coloro che lo ricevono (v. 4). Le lingue di fuoco (o fiamme: cf. Is 5,24)  rappresentano la potenza di Dio che fa parlare i discepoli. Secondo la  tradizione ebraica, al Sinai "la voce di Dio uscì e si divise in 70 voci,  in 70 lingue, in modo che tutti i popoli la udissero; e ogni popolo udì la voce  nella propria lingua" (Parole attribuite a Rabbi Yohanan (III secolo):  Midrash Es. Rab. 5,71a).
  Luca  descrive dunque l’effusione dello Spirito Santo sui discepoli attraverso il  ricco simbolismo della teofania del Sinai (cf. Eb 12,18-19), l’evento su cui si  fonda la prima alleanza con Israele. Nel battesimo di Gesù al Giordano "il  cielo fu aperto e lo Spirito Santo discese su di lui" (Lc 3,21-22). Il  giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo non si posa più soltanto su Gesù, ma  viene effuso sulle primizie del popolo: "tutti furono riempiti di  Spirito Santo" (v. 4). 
  La  "potenza" che i discepoli ricevono conferisce loro capacità di  parlare, di rendere testimonianza (cf. Lc 11,13-14). Luca presenta lo Spirito  Santo come la "potenza dall’alto" (Lc 24,49), per mezzo della quale la Parola prende corpo nella  nostra storia. Sulle labbra dei discepoli, essa risuona anzitutto come parola  di lode: "Li udiamo dire nelle nostre lingue le grandezze di Dio" (v.  11).
  Che cosa  significa: iniziarono a parlare in altre lingue"? Alcuni esegeti pensano a  un linguaggio estatico fatto di suoni inintelligibili, analogo alla  "glossolalia" che Paolo descrive in 1Cor 14. Secondo altri, gli  apostoli si sono espressi nelle lingue dei popoli rappresentati "dai  giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo" (v. 5) accorsi al  rumore. Nel testo di Luca il discorso degli apostoli è comprensibile: cantano  le grandezze di Dio. Ma dal momento che sono tutti galilei (v. 7), si direbbe  che si esprimono nella varietà delle lingue parlate da quanti assistono alla  scena; sono dunque compresi da ciascuno nella propria lingua.
  Il dono  dello Spirito Santo libera in colui che ne viene colmato una parola che non  passa inosservata. I particolari del prodigio sono secondari, ma una cosa è  certa: ci troviamo di fronte a una parola rivolta a tutti. Una potenza  prodigiosa adatta questa Parola a ogni ascoltatore, a ogni cultura. Il vero  prodigio, costante nel racconto degli Atti, consiste nel fatto che questa  Parola riesce a incontrare e a toccare ogni uomo. "La lezione è  chiara: spetta alla Chiesa assumere tutte le lingue degli uomini, tutte le  culture di cui tali lingue sono l’espressione e il veicolo" (J. Dupont). 
  Gli ascoltatori  a cui si rivolgono gli apostoli sono giudei osservanti che abitano a  Gerusalemme ma provengono "da tutte le nazioni che sono sotto il  cielo" (v. 5). Essi vanno considerati in un certo senso come i  rappresentanti dei popoli del mondo, che sono presenti in loro, almeno  potenzialmente. Questo versetto dunque sottolinea l’universalità, ma a partire  da un centro: il popolo d’Israele, e da un luogo: Gerusalemme. 
  Questo  raduno a Gerusalemme dell’Israele disperso fa parte del messaggio dei profeti,  un messaggio che prepara e dà fondamento alla teologia di Luca. A Babele (Gen  11,1-9) Dio ha disperso gli uomini su tutta la terra. Per radunarli suscita in  Abramo, nel quale " si diranno benedette tutte le famiglie della  terra" (Gen 12,3), un popolo, reso tale dall’alleanza del Sinai, e gli  affida la missione di testimoniare di fronte al mondo la santità del Dio unico.  A causa dell’infedeltà dei suoi capi a questa missione inclusa nell’alleanza,  anche Israele è disperso: La sua riunione deve manifestare alle nazioni la  tenerezza di Dio, inducendole a lasciarsi radunare da lui: "Chi ha  disperso Israele lo raduna e lo custodisce come fa un pastore con il suo  gregge" (Ger 31,10). Luca conosce la storia d’Israele e fa vedere come  raggiunga il suo compimento nel giorno della Pentecoste. Il racconto si chiude  con una domanda e una risposta. La domanda riprende il tema dello stupore e  l’interrogativo dei giudei: Che senso ha l’esperienza dello Spirito? Senza  l’interpretazione che ricollega la manifestazione dello Spirito alla storia  della salvezza e all’avvenimento della morte e risurrezione di Gesù, essa resta  ambigua (2,12-13). Così Luca ha creato il presupposto per l’intervento  chiarificatore e l’interpretazione autentica data dal discorso di Pietro che  segue.
  Di fronte a  un fatto così grande, l’autore raccoglie anche la risposta affrettata di chi  mette tutto in ridicolo, di chi non è disposto ad accogliere il nuovo e il  diverso, di chi giudica tutto e tutti con malevolenza e stupidità, di chi ha  sempre la risposta pronta ancor prima che Dio spieghi all’uomo il significato  delle sue opere: "sono pieni di vino dolce" (v. 13). 
  Discorso  di Pietro alla folla 
  14 Allora Pietro, levatosi in piedi con gli altri Undici, parlò a voce  alta così: «Uomini di Giudea, e voi tutti che vi trovate a Gerusalemme, vi sia  ben noto questo e fate attenzione alle mie parole: 15 Questi uomini  non sono ubriachi come voi sospettate, essendo appena le nove del mattino. 16  Accade invece quello che predisse il profeta Gioele:
  17 Negli ultimi giorni, dice il Signore,
  Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; 
  i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, 
  i vostri giovani avranno visioni 
  e i vostri anziani faranno dei sogni. 
  18 E anche sui miei servi e sulle mie serve 
  in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi 
  profeteranno. 
  19 Farò prodigi in alto nel cielo 
  e segni in basso sulla terra, 
  sangue, fuoco e nuvole di fumo. 
  20 Il sole si muterà in tenebra e la luna in sangue, 
  prima che giunga il giorno del Signore, 
  giorno grande e splendido. 
  21 Allora chiunque invocherà il nome del Signore 
  sarà salvato. 
  22 Uomini d'Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret - uomo  accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che  Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete -, 23 dopo  che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a  voi, voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l'avete ucciso. 24  Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché  non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. 25 Dice  infatti Davide a suo riguardo:
  Contemplavo sempre il Signore innanzi a me; 
  poiché egli sta alla mia destra, perché io non vacilli. 
  26 Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua; 
  ed anche la mia carne riposerà nella speranza, 
  27 perché tu non abbandonerai l'anima mia negli inferi, 
  né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione. 
  28 Mi hai fatto conoscere le vie della vita, 
  mi colmerai di gioia con la tua presenza. 
  29 Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca  Davide, che egli morì e fu sepolto e la sua tomba è ancora oggi fra noi. 30  Poiché però era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente  di far sedere sul suo trono un suo discendente, 31 previde la  risurrezione di Cristo e ne parlò:
  questi non fu abbandonato negli inferi, 
  né la sua carne vide corruzione. 
  32 Questo Gesù Dio l'ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. 33  Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo  Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete  vedere e udire. 34 Davide infatti non salì al cielo; tuttavia egli  dice:
  Disse il Signore al mio Signore: 
  siedi alla mia destra, 
  35 finché io ponga i tuoi nemici 
  come sgabello ai tuoi piedi. 
  36 Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha  costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!».
  Le  prime conversioni 
  37 All'udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a  Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». 38 E  Pietro disse: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di  Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono  dello Spirito Santo. 39 Per voi infatti è la promessa e per i vostri  figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio  nostro». 40 Con molte altre parole li scongiurava e li esortava:  «Salvatevi da questa generazione perversa». 41 Allora coloro che  accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno si unirono a loro circa  tremila persone.
  Questa prima  testimonianza-esortazione è rivolta in modo personale ai giudei pii (v. 5),  nati nella diaspora (dispersione) e venuti a stabilirsi nella città di  Gerusalemme per motivi religiosi. Indubbiamente la varietà delle loro origini  rende presente la varietà dei popoli del mondo e sottolinea la destinazione  universale della Parola fin dagli inizi della sua diffusione. Ma qui non c’è  nulla che non sia prettamente giudaico. La proclamazione del giudeo Pietro a  proposito del giudeo Gesù è rivolta ai giudei, figli della promessa, ai loro  figli e a tutti coloro che si trovano lontano, dispersi tra le nazioni. Tre  vocativi scandiscono il discorso: uomini giudei, uomini israeliti, fratelli  (vv. 14.22.29). Notiamo che fino al capitolo 10 degli Atti il termine  "fratelli" è riservato ai giudei. Soltanto dopo l’ingresso nella  Chiesa di Cornelio diventano "fratelli" anche i pagani convertiti  alla fede cristiana. 
  Il primo  discorso di Pietro è elaborato con molta precisione. Egli spiega l’evento della  Pentecoste per risvegliare la fede degli ascoltatori giudei della Parola. Il  punto focale dell’insieme è "il giorno del Signore" che porta la  salvezza (vv. 20-21) a chi invoca il suo Nome. La salvezza appare innanzitutto  come la riunione del popolo d’Israele, con la sua vocazione all’universalità:  "Il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano  salvati" (2,48).
  Esaminiamo  ora il testo del discorso di Pietro. La duplice reazione all’avvenimento della  Pentecoste, di stupore da parte di alcuni e di scetticismo da parte di altri  (vv. 12.13), viene colta da Pietro che invita i suoi ascoltatori a prestare  attenzione alle sue parole. 
  Prima di  tutto Pietro corregge la falsa interpretazione di alcuni dei presenti: ciò che  vedono è un entusiasmo collettivo suscitato dallo Spirito. I suoi compagni non  sono ubriachi perché da buoni ebrei rispettano le prescrizioni tradizionali.  Era sconveniente e segno di dissolutezza prendere bevande alcoliche di primo  mattino: "Guai a coloro che si alzano presto al mattino e vanno in cerca  di bevande inebrianti" (Is 5,11). La giusta interpretazione di quello che  sta accadendo può essere solo di carattere religioso. 
  Rileggendo a  partire dal profeta Gioele la manifestazione dello Spirito di Pentecoste che si  è appena realizzata, Pietro sviluppa un annuncio missionario di Gesù, Messia e  Signore d’Israele. A questo scopo ricorre ad un altro evento - la risurrezione  di Gesù - interpretandolo a partire dai Salmi. Il filo conduttore delle tre  citazioni dei Salmi è la figura di Davide a cui la tradizione li attribuisce.  Poiché si tratta della restaurazione del regno d’Israele (cf 1,6), una  restaurazione che soltanto il Padre può decidere, bisogna far vedere qual è il  re che Dio colloca oggi a capo del suo popolo. Richiamando la preghiera  profetica di Davide, Pietro afferma: "Sappia dunque con certezza tutta la  casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete  crocifisso!" (2,36). Dio aveva promesso a Davide: "Assicurerò dopo di  te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il tuo regno… La  tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre…" (2Sam 7). Il Salmo 110  definisce il Messia come colui che siede alla destra di Dio, il quale gli dà  potere su Sion, conferendogli la regalità universale e il sacerdozio eterno. 
  Alla luce  dell’evento della Pentecoste, i testimoni della morte e della risurrezione di  Gesù possono proclamare ai loro fratelli israeliti che Gesù non è soltanto il Re-Messia  d’Israele, discendente di Davide, risuscitato secondo le Scritture, ma  anche il Signore e Cristo che effonde la Spirito Santo sui figli della promessa. L’espressione: "Dio lo fece Signore e  Cristo…" (v. 36) significa che Gesù, attraverso la risurrezione e  l’ascensione al cielo, è intronizzato da Dio come il Messia-Re e il Salvatore  dell’umanità, che egli porta con sé nell’intimità del Padre. 
  La prima  parte della profezia di Gioele sul dono dello Spirito è interpretata come  esperienza profetica che per Luca si identifica con l’annuncio ispirato e  autorevole dei missionari (cf At 19,6; 21,9). La novità attesa per i tempi  ultimi e che Luca vede realizzata nella Chiesa primitiva è questa: il dono  dello Spirito non è riservato ai profeti, ma è per tutto il popolo, per tutte  le categorie senza esclusioni o privilegi. Questo era il sogno di Mosè:  "Fossero tutti profeti nel popolo del Signore, e volesse il Signore dare  loro il suo Spirito" (Nm 11,29). Ora questo è una realtà con la Pentecoste cristiana.  Nel nuovo popolo di Dio non ci sono canali privilegiati, monopoli o zone  riservate: lo Spirito e la capacità profetica di intendere e comunicare la  parola di Dio sono dati a tutti. 
  Il dono  dello Spirito si rivela anche attraverso i segni classici delle grandi  manifestazioni di Dio (vv. 19-20). 
  Alla domanda  degli ascoltatori: "che cosa dobbiamo fare, fratelli?" (v. 37) Pietro  propone loro di convertirsi e di essere battezzati nel nome di Gesù Cristo,  aderendo a lui e invocandolo come Signore che effonde lo Spirito negli ultimi  tempi. Allora si realizzerà la promessa fatta ai figli del popolo eletto:  "Io perdonerò la loro iniquità" (Ger 31,34), "Io vi  purificherò" (Ez 36,25), e soprattutto "Porrò il mio Spirito dentro di  voi" (Ez 36,27). 
  L’esortazione  finale di Pietro: "Salvatevi da questa generazione perversa" (v. 40)  è chiaramente di tipo profetico come il suo discorso che cita esclusivamente un  profeta e alcuni Salmi. 
  L’intero  discorso tende a provocare una decisione coraggiosa e urgente: rompere con un  ambiente e un sistema di infedeltà a Dio destinato alla rovina ed entrare nel  nuovo ordine della salvezza. E’ da rilevare la novità cristiana nella  concezione della salvezza. Essere salvati non riguarda soltanto il momento  finale, come nel linguaggio dei profeti e degli apocalittici. La salvezza è già  avviata qui nel presente, nel tessuto storico dove si decide la conversione e  ci si apre al futuro di Dio di cui lo Spirito Santo è pegno e anticipo. 
  La parola  proclamata da Pietro si rivela immediatamente feconda: tremila figli d’Israele  l’accolgono e si lasciano aggiungere alla cellula iniziale dei 120 discepoli  che già erano radunati insieme (1,15). Con questo termine "parola" si  riassume globalmente tutta la predica di Pietro: Questa accoglienza della  parola diventa operativa grazie alla conversione che è un cambiamento di  mentalità, di concezione di vita. Il segno visibile ed esteriore della rottura  con il passato è il rito del battesimo nel nome di Gesù. L’effetto immediato  del battesimo è il perdono dei peccati promesso dai profeti per il tempo finale  (cf. Ger 31,34). La rottura con il passato non è un processo psico-sociale  messo in atto dalla decisione umana di cambiare, ma è un dono di Dio che trae  fuori l’uomo dalla schiavitù sotto il dominio del diavolo. Il nuovo dinamismo  del cristiano ha la sua forza propulsiva nel dono dello Spirito Santo. La  novità del battesimo nel nome di Gesù è proprio questo intimo legame dei  cristiani con il dono dello Spirito Santo che rinnova interiormente i credenti  per fare di essi i membri della comunità cristiana (cf. Ez 36,25-28). La Pentecoste dei  battezzati si esprime essenzialmente nel dinamismo di una vita comunitaria che  trae impulso di unità e fraternità dallo Spirito. 
  La  prima comunità cristiana 
  42 Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e  nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. 43 Un  senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli  apostoli. 44 Tutti coloro che erano diventati credenti stavano  insieme e tenevano ogni cosa in comune; 45 chi aveva proprietà e  sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. 46  Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a  casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, 47 lodando  Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. 48 Intanto il Signore  ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.
  In questo  primo sommario Luca concentra i tratti caratteristici e ideali della comunità  cristiana. Il v. 42 potrebbe essere la presentazione della comunità dei  convertiti di Pentecoste. Il v. 43 anticipa e prepara gli episodi dei capitoli  successivi. I vv. 44-47 descrivono la vita comunitaria nel momento liturgico,  nella sua organizzazione spirituale e sociale, e infine nel rapporto con  l’ambiente esterno. 
  I tre  piccoli quadri panoramici rivestono un particolare valore per entrare nel clima  spirituale della prima comunità. I lettori hanno davanti agli occhi un progetto  di comunità cristiana ideale a cui ispirarsi. 
  L’elemento  fondamentale che qualifica la comunità è la perseveranza nell’impegno assunto,  la dedizione costante e impegnata dei convertiti. Questa perseveranza si  esprime in tre aspetti essenziali che danno il tono alla comunità:
  l’insegnamento  degli apostoli:  è l’istruzione o approfondimento che segue all’adesione di fede iniziale  segnata dal battesimo. Il contenuto abbraccia la rilettura dei testi biblici  alla luce del Cristo, il richiamo degli insegnamenti di Gesù per guidare le  scelte pratiche dei credenti. Il punto di partenza di una comunità cristiana è  l’ascolto della Parola. La sua crescita e maturazione dipendono ancora  dall’approfondimento e interiorizzazione della Parola. Una parola che non è  ideologia o moralismo, ma testimonianza autorevole degli apostoli, cioè di  quelli che sono i garanti della rivelazione storica di Dio. L’insegnamento  degli apostoli è la trasmissione fedele di quello che Gesù ha insegnato (cf.  5,38); 
  la  comunione fraterna:  l’espressione traduce un vocabolo greco che troviamo solo qui in Luca, koinonia,  che è l’unione spirituale dei credenti sulla base della stessa fede e dello  stesso progetto di vita. La dimostrazione visibile e operativa di questa  fraternità spirituale è la partecipazione dei beni nelle forme che vengono  successivamente illustrate (cf. 2,44-45; 4, 34-35). 
  La comunità  cristiana realizza l’ideale degli amici tra i quali ogni cosa è comune. Così a  una logica proprietaria e padronale si sostituisce quella della partecipazione  e della solidarietà. I beni materiali sono messi liberamente a disposizione  della comunione spirituale e vengono utilizzati per far scomparire quelle  discriminazioni che derivano e si basano sulla mancanza dei beni primari per le  categorie più deboli. 
  la frazione  del pane:  frazione del pane o spezzare il pane nell’ambiente giudaico vuol dire compiere  il gesto rituale all’inizio del pasto comune: il padre di famiglia o il  capogruppo prende tra le mani il pane, rende grazie a Dio e lo spezza per  distribuirlo ai commensali. Negli linguaggio degli Atti l’espressione si  riferisce a tutto il pasto (2,42.46). Il v. 46b precisa che questo pasto  avviene nelle case private, a differenza della preghiera e della liturgia  tradizionali alle quali i cristiani partecipavano nel tempio. 
  Il pasto  comune e riservato dei cristiani avviene in un clima di gioia e di semplicità  di cuore. Il vocabolo "gioia" designa la letizia festosa che  accompagna l’esperienza e la speranza della salvezza portata da Cristo (Lc  1,14.44), la "semplicità di cuore" indica la dedizione sincera e  integra a Dio senza secondi fini. 
  Tenendo  conto di tutto questo, si può ritenere che l’espressione frazione del pane negli Atti indichi il pasto fraterno dei cristiani che si ricollegava ai pasti  di Gesù con i discepoli e in modo particolare all’ultima cena con la quale  aveva interpretato profeticamente la sua morte e aveva annunciato la speranza  della piena comunione nel regno di Dio (Lc 22,14-20; 24,30; At 20,7). Un pasto  fraterno che dava la possibilità ai membri più poveri della comunità di avere  la loro razione quotidiana di cibo e nello stesso tempo di prendere parte nella  memoria di fede al gesto di amore e alla speranza di Gesù. Solidarietà,  fraternità e celebrazione della fede erano fuse insieme nell’unico pasto.  "Lo ‘spezzamento del pane’ include sia il pasto sia l’eucaristia, senza  che Luca distingua" (G. Schneider); 
  le  preghiere:  si tratta di quelle preghiere che contraddistinguono la giornata del pio ebreo,  la professione di fede all’inizio e al termine della giornata, il rendimento di  grazie prima delle varie azioni. Il v. 46a ci informa che il gruppo dei  cristiani prende parte assiduamente e comunitariamente alla liturgia del tempio  (cf. At 3,1).
  Il v. 47a  ricorda un tratto caratteristico delle riunioni fraterne: il canto di lode a  Dio. Una comunità unita, solidale, pronta a condividere anche i beni materiali,  è aperta alla speranza e riconoscente a Dio. 
  Un’ultima  pennellata completa questo quadro suggestivo. Come Gesù così anche la prima  Chiesa gode del favore e della simpatia del popolo. Un ritornello della  crescita chiude questo primo sommario. L’azione e l’iniziativa divina fanno  espandere la comunità dei salvati. Non si può spiegare l’efficacia e il  dinamismo del movimento cristiano senza l’entusiasmo carismatico nello Spirito  che si traduce in uno stile nuovo di vita e in un clima di intensa  spiritualità. 
Capitolo 3 
  La  guarigione dello storpio 
  1 Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera  verso le tre del pomeriggio. 2 Qui di solito veniva portato un uomo,  storpio fin dalla nascita e lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio  detta «Bella» a chiedere l'elemosina a coloro che entravano nel tempio. 3 Questi,  vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, domandò loro  l'elemosina. 4 Allora Pietro fissò lo sguardo su di lui insieme a  Giovanni e disse: «Guarda verso di noi». 5 Ed egli si volse verso di  loro, aspettandosi di ricevere qualche cosa. 6 Ma Pietro gli disse:  «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù  Cristo, il Nazareno, cammina!». 7 E, presolo per la mano destra, lo  sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono 8 e  balzato in piedi camminava; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e  lodando Dio. 9 Tutto il popolo lo vide camminare e lodare Dio 10  e riconoscevano che era quello che sedeva a chiedere l'elemosina alla  porta Bella del tempio ed erano meravigliati e stupiti per quello che gli era  accaduto.
  Discorso  di Pietro al popolo 
  11 Mentr'egli si teneva accanto a Pietro e Giovanni, tutto il popolo  fuor di sé per lo stupore accorse verso di loro al portico detto di Salomone. 12  Vedendo ciò, Pietro disse al popolo: «Uomini d'Israele, perché vi  meravigliate di questo e continuate a fissarci come se per nostro potere e  nostra pietà avessimo fatto camminare quest'uomo? 13 Il Dio di  Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo  servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre  egli aveva deciso di liberarlo; 14 voi invece avete rinnegato il  Santo e il Giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino 15 e  avete ucciso l'autore della vita. Ma Dio l'ha risuscitato dai morti e di questo  noi siamo testimoni. 16 Proprio per la fede riposta in lui il nome  di Gesù ha dato vigore a quest'uomo che voi vedete e conoscete; la fede in lui  ha dato a quest'uomo la perfetta guarigione alla presenza di tutti voi.
  17 Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i  vostri capi; 18 Dio però ha adempiuto così ciò che aveva annunziato  per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo sarebbe morto. 19 Pentitevi  dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati 20 e  così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli  mandi quello che vi aveva destinato come Messia, cioè Gesù. 21 Egli  dev'esser accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose,  come ha detto Dio fin dall'antichità, per bocca dei suoi santi profeti. 22  Mosè infatti disse: Il Signore vostro Dio vi farà sorgere un profeta come  me in mezzo ai vostri fratelli; voi lo ascolterete in tutto quello che egli vi  dirà. 23 E chiunque non ascolterà quel profeta, sarà estirpato di  mezzo al popolo. 24 Tutti i profeti, a cominciare da Samuele e da  quanti parlarono in seguito, annunziarono questi giorni.
  25 Voi siete i figli dei profeti e dell'alleanza che Dio stabilì con i  vostri padri, quando disse ad Abramo: Nella tua discendenza saranno benedette  tutte le famiglie della terra. 26 Dio, dopo aver risuscitato il suo  servo, l'ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione e perché  ciascuno si converta dalle sue iniquità».
  Il capitolo  terzo fornisce una chiave di lettura degli Atti che è fondamentale quanto  l’evento della Pentecoste con il discorso esplicativo di Pietro. Anche questo  brano presenta quell’intreccio "azione/discorso" che è essenziale ai  fini di ogni testimonianza. Come annunciare Gesù, Parola di grazia che guarisce  e libera, se non a partire da una guarigione-liberazione concreta? Come  potrebbero gli apostoli essere testimoni di un Vivente che salva, se fossero  soltanto dei parolai che ripetono a pappagallo (cf. 17,18) la dottrina di un  maestro defunto? 
  Questo  capitolo è dunque incentrato sulla persona di Gesù che agisce attraverso i suoi  testimoni, e non più sullo Spirito Santo, che non viene qui nominato. 
  L’episodio  mette in scena la coppia Pietro e Giovanni, che comparirà anche in seguito  (4,13.19; 8,14). Si tratta probabilmente di un’allusione a qui passi del  vangelo che parlano dei discepoli inviati a due a due (Lc 10,1; 19,29; 22,8).  Questa pratica sottolinea che essi non agiscono in nome proprio, ma come  inviati, testimoni, ambasciatori. Incontreremo questi binomi lungo tutto il  racconto degli Atti: Barnaba e Saulo, Giuda e Sila, Paolo e Sila, Barnaba e  Marco… Qui, Pietro e Giovanni rappresentano il gruppo dei credenti che rende  testimonianza al suo Signore. Il loro gesto di guarigione fa vedere come la  benedizione venga attraverso la comunità riunita attorno al suo Signore. 
  L’episodio  avviene all’ingresso del Tempio, presso la porta orientale che ha i battenti in  bronzo di Corinto. La si chiamava la porta bella. Viene indicata anche l’ora:  sono le tre del pomeriggio, l’ora della morte di Gesù (Lc 23,44). Uno zoppo, un  uomo escluso dal Tempio, viene legittimamente introdotto nel luogo sacro. Lo  zoppo si rivolge a Pietro e a Giovanni chiedendo l’elemosina. Pietro gli  risponde in qualità di testimone del Risorto: "Nel nome di Gesù Messia, il  Nazareno, cammina!". E con la mano destra (cf. Lc 6,6) lo rialza. L’uomo  si alza in piedi ed entra con loro nel Tempio, camminando, saltando e lodando  Dio. "Luca mette in scena la guarigione come una rappresentazione della  restaurazione definitiva di Israele, operata da Dio il giorno di Pentecoste con  la creazione della comunità cristiana di Gerusalemme" (Hamm). Il discorso  di Pietro, che segue, annuncerà che la riabilitazione di quell’escluso, che può  entrare nel Tempio e lodare Dio, significa e preannuncia la restaurazione  dell’intero popolo. 
  Il secondo  discorso di Pietro costituisce una proclamazione di Gesù come  "Figlio-Servo di Dio" (vv. 13-26), mentre il primo discorso era  incentrato su Gesù in quanto "Signore". Il titolo di "Servo di  Dio" è molto significativo per un ebreo. Viene attribuito ai grandi  personaggi biblici che servono Dio con fedeltà, come Abramo (Sal 105,6.42),  Giosuè (Gs 24,29), Davide (Sal 18,1), Giobbe (Gb 1,8), Daniele (Dn 6), oppure a  quelli che sono stati investiti di una missione, come Mosè (Dt 36,5) e i  profeti (Ger 7,25; Zc 3,8…), o anche a un pagano come Ciro (Is 42,1), scelto  per realizzare il piano divino e permettere il ritorno in patria degli ebrei  esiliati. In maniera del tutto particolare viene attribuito al misterioso Servo  di cui parla Isaia (Is 41,8; 45,4; cf. Lc 1,54: "Venne in aiuto a Israele,  suo Figlio-Servo"). Si tratta di un nome che è nello stesso tempo  collettivo e personale: indica la totalità del popolo d’Israele, il cui  servizio consiste nel testimoniare il nome del Dio unico di fronte alle nazioni  e in mezzo ad esse, ma può anche designare un personaggio singolo, come ad  esempio Geremia, il profeta sofferente. 
  La prima  parte della proclamazione di Pietro (vv. 12-16) è incentrata sul Nome di  Gesù Servo, colui che "il Dio dei nostri padri glorificò" e che  ora guarisce davanti a tutti lo zoppo, immagine della discendenza di Abramo  "restaurata" (v. 21). La piena guarigione dello zoppo è infatti la  primizia della "restaurazione di tutte le cose" annunciata dai  profeti (cf. Lc 1,70). La fede nel Nome del Servo Gesù è la chiave di questa  restaurazione (cf. 1,6), che si è realizzata per mezzo della sua potenza. La  fede è presentata qui come piena adesione a Gesù e come condivisione del suo  destino di Servo. Pietro esorta il popolo a diventare anch’esso  "testimone", come gli apostoli (v. 15). E’ dunque venuto il momento  di svelare il grandioso disegno che Dio si propone di realizzare tramite il suo  Servo Gesù. 
  La seconda  parte della proclamazione (vv. 17-21) descrive il disegno di Dio che si sta  realizzando. Pietro mette il popolo e i suoi capi di fronte alla necessità di  operare una scelta. L’"ignoranza" (v. 17), per un giudeo, non è una  scusante, anzi, può essere un peccato, specialmente se è frutto di una  negligenza nello studio della Bibbia. Pietro considera un peccato il non aver  riconosciuto che il Messia doveva soffrire, mentre tutti i profeti l’avevano  annunciato. Lo Spirito Santo, parlando per bocca dei profeti, aveva annunciato  da sempre questo Servo. Ma Israele ha meritato l’accusa che Stefano pronuncerà  in 7,51: "Uomini duri di cervice e incirconcisi di cuori e di orecchie,  voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo".
  La terza  parte della proclamazione (vv. 22-26) spiega qual è il posto del Cristo Servo  nel disegno di Dio, indicando, di conseguenza, qual è il modo un cui il popolo  deve riorganizzarsi attorno al Servo-Profeta attraverso cui viene la  benedizione divina. Chi non si converte e non ascolta il Profeta di cui aveva  parlato Mosè, sarà eliminato dal popolo. Tutto ciò che avevano annunciato Mosè  e i profeti viene ricapitolato e portato a compimento in Gesù. La vera  conversione consiste nel riporre la propria fede in Gesù, nel considerarlo il  centro della propria vita. Fa dunque parte del popolo di Dio chi aderisce a  Gesù. Il popolo si ristruttura prendendo Gesù come fondamento (cf. 4,8-12). 
  Il rifiuto  storico di Gesù messia e salvatore compiuto dal giudaismo ufficiale con la sua  condanna a morte, non esaurisce le possibilità di salvezza del popolo ebraico. La Pasqua cristiana segna una  svolta nella storia dell’infedeltà del popolo di Dio. Essa inaugura il tempo  del perdono e della riconciliazione universale. Basta che il popolo giudaico e  i suoi capi riconoscano il loro errore o la loro falsa coscienza rivedendo la  propria posizione nei confronti di Gesù di Nazaret. La conversione per Luca è  una rottura con il passato di ignoranza e di infedeltà, e l’apertura al  progetto di Dio rivelato in Gesù. Conversione, fede e perdono dei peccati sono  tre momenti del cammino della salvezza che ha la sua iniziativa in Dio e il  centro di realizzazione in Gesù. Egli è e rimane il Messia d’Israele, colui che  realizza la promessa di salvezza fatta al padre Abramo (v. 25). I primi  destinatari sono i giudei, gli eredi dei profeti e i membri dell’alleanza  fedele a Dio. Ma la condizione previa per l’adesione di fede a questo progetto  di Dio è la conversione, cioè il superamento del passato di infedeltà (v. 26). 
  La priorità  storica d’Israele e nello stesso tempo l’apertura universale della salvezza  sono convalidate dalla promessa di Dio ad Abramo, il padre dei credenti:  "Nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della  terra" (Gen 12,3). Il progetto di salvezza presentato da Pietro non è  arbitrario e illegittimo ma si inserisce nel quadro storico della genuina  esperienza biblica. Anzi esso rappresenta il compimento storico di una grande  promessa che è stata conservata e trasmessa con fedeltà. Gesù, il messia ucciso  dagli uomini, ma glorificato da Dio, è il punto di convergenza di tutte le  parole di promessa contenute nella Bibbia, e costituisce la chiave di lettura  del cammino storico del progetto di Dio. 
Capitolo 4 
  I capitoli 4  e 5 narrano due arresti, a cui fanno seguito due comparizioni davanti al  sinedrio: Pietro e Giovanni, e poi i Dodici, si trovano a dover rendere  testimonianza, come aveva detto Gesù (Lc 21,12-13). 
  Inizia qui  quel conflitto con il giudaismo ufficiale che condurrà alla persecuzione della  comunità cristiana di Gerusalemme (cf. 8,1). Lungo tutto il racconto Luca pone  molto bene in risalto due atteggiamenti di fronte all’annuncio cristiano: la  reazione ottusa e contraddittoria della classe dirigente e la disponibilità e  accoglienza del popolo.
  Il racconto  della prima comparizione (4,5-22) propone di nuovo la lettura della guarigione  dello zoppo: il Nome che salva Israele è Gesù. Rifiutandolo, i capi  compiono ciò che era stato annunciato dal Salmo 118,22; ma questo Salmo lascia  anche sperare che essi si convertano e riconoscano colui che viene nel nome  del Signore (Sal 118,26; cf. Lc 13,35). 
  Il racconto  della seconda comparizione (5,17-42) svela il disegno di Dio: non  accettando di riconoscere il sangue che è su di loro (5,28), i capi  rifiutano la via attraverso la quale sono giunte a loro la benedizione e la  remissione dei peccati. 
  Lo Spirito  Santo e l’intervento dell’angelo del Signore confermano l’autenticità della  Parola proclamata dagli apostoli. Pietro e Giovanni, liberati e tornati presso  i discepoli, vivono nella preghiera una nuova Pentecoste (4,31). E nel secondo  episodio l’angelo del Signore si sostituisce ai capi indegni, liberando gli  apostoli e inviandoli ad annunciare al popolo, nel Tempio, le parole del  Vivente (5,20). 
  Nell’intervallo  tra le due comparizioni, i frutti della Parola si manifestano in modo più  evidente. L’assemblea dei credenti diventa un segno profetico e missionario  sempre più chiaro della grazia degli ultimi giorni: condivisione, gratuità,  guarigioni, gioia, comunione. 
  Pietro  e Giovanni davanti al sinedrio 
  1 Stavano ancora parlando al popolo, quando sopraggiunsero i  sacerdoti, il capitano del tempio e i sadducei, 2 irritati per il  fatto che essi insegnavano al popolo e annunziavano in Gesù la risurrezione dai  morti. 3 Li arrestarono e li portarono in prigione fino al giorno  dopo, dato che era ormai sera. 4 Molti però di quelli che avevano  ascoltato il discorso credettero e il numero degli uomini raggiunse circa i  cinquemila.
  5 Il giorno dopo si radunarono in Gerusalemme i capi, gli anziani e  gli scribi, 6 il sommo sacerdote Anna, Caifa, Giovanni, Alessandro e  quanti appartenevano a famiglie di sommi sacerdoti. 7 Fattili  comparire davanti a loro, li interrogavano: «Con quale potere o in nome di chi  avete fatto questo?». 8 Allora Pietro, pieno di Spirito Santo, disse  loro: «Capi del popolo e anziani, 9 visto che oggi veniamo  interrogati sul beneficio recato ad un uomo infermo e in qual modo egli abbia  ottenuto la salute, 10 la cosa sia nota a tutti voi e a tutto il  popolo d'Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso  e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo. 11  Questo Gesù è
  la pietra che, scartata da voi, costruttori, 
  è diventata testata d'angolo. 
  12 In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli  uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati».
  13 Vedendo la franchezza di Pietro e di Giovanni e considerando che  erano senza istruzione e popolani, rimanevano stupefatti riconoscendoli per  coloro che erano stati con Gesù; 14 quando poi videro in piedi  vicino a loro l'uomo che era stato guarito, non sapevano che cosa rispondere. 15  Li fecero uscire dal sinedrio e si misero a consultarsi fra loro dicendo:  16 «Che dobbiamo fare a questi uomini? Un miracolo evidente è  avvenuto per opera loro; esso è diventato talmente noto a tutti gli abitanti di  Gerusalemme che non possiamo negarlo. 17 Ma perché la cosa non si  divulghi di più tra il popolo, diffidiamoli dal parlare più ad alcuno in nome  di lui». 18 E, richiamatili, ordinarono loro di non parlare  assolutamente né di insegnare nel nome di Gesù. 19 Ma Pietro e  Giovanni replicarono: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a  lui, giudicatelo voi stessi; 20 noi non possiamo tacere quello che  abbiamo visto e ascoltato». 21 Quelli allora, dopo averli  ulteriormente minacciati, non trovando motivi per punirli, li rilasciarono a  causa del popolo, perché tutti glorificavano Dio per l'accaduto. 22 L'uomo infatti  sul quale era avvenuto il miracolo della guarigione aveva più di quarant'anni.
  Al v. 1,  entrano in scena tutti coloro a cui interessa che non cambi nulla, che il  Tempio rimanga il luogo dell’argento, dell’oro e della macellazione rituale,  sotto le apparenze di un’assoluta fedeltà a Mosè. I sadducei erano noti per il  loro attaccamento alla lettera della Legge e per il rifiuto sistematico  di prendere in considerazione tutto ciò che si presentasse come risurrezione,  angelo, spirito (cf. 23,8). Non potevano quindi non opporsi alla  predicazione degli apostoli. Vedremo nell’episodio del martirio di Stefano lo  stesso atteggiamento di rifiuto nei confronti dell’invito a passare da Mosè a  Gesù e dal Tempio allo Spirito Santo. 
  Si capisce  allora l’irritazione di questi accaniti avversari della risurrezione dei morti  (v. 2) quando sentono Pietro affermare: colui che avete fatto morire è vivo. Ed  è talmente vivo che ha restituito la salute, la pienezza della vita a un  rifiutato del popolo, a un uomo escluso dal Tempio. 
  L’esperienza  della prigione è un fatto normale per un testimone. La cosa si ripeterà lungo  tutto il percorso degli Atti (5,19.22-25; 8,3; 12,4.6.10.17; 16,23-24.27.37.40;  22,4; 26,10). La parola di Dio costringe a mettere in discussione le idee  preconcette e i diritti acquisiti. Nel nostro caso, l’azione di Pietro e di  Giovanni, che introducono uno zoppo guarito nel Tempio, li pone direttamente in  conflitto con i sacerdoti responsabili del luogo santo. Questi ultimi si  trovano di fronte a una scelta: o tacciono – e presto non avranno più niente da  dire, perché il Tempio sarà distrutto - , o fanno tacere gli apostoli. Non ci  sono altre alternative. Ma far tacere lo Spirito Santo è un’impresa  impossibile. 
  La parola  dei testimoni è feconda per la potenza dello Spirito Santo: Molti di coloro  che avevano ascoltato la Parola  credettero, e il numero degli uomini divenne di cinquemila (v. 4). 
  Pietro e  Giovanni si trovano di fronte alla potente oligarchia politico-religiosa che  controlla il paese d’accordo con l’occupante romano. Questi capi del popolo  sono gli stessi che erano riusciti a ottenere la condanna di Gesù, ingannando  il popolo che gli era favorevole e forzando la mano al procuratore romano  Ponzio Pilato. 
  Ma Gesù,  secondo la sua promessa, dà ai suoi testimoni bocca profetica e sapienza a  cui non potranno opporsi o contraddire tutti i loro oppositori (Lc 21,15).  E lo Spirito Santo, confermando nella preghiera che tutto si svolge secondo le  Scritture, li colmerà di forza e di franchezza (4,23-31). 
  Nei vv. 7-12  Pietro riempito di Spirito Santo risponde con chiarezza alla domanda dei  capi del popolo: Con quale potere o in nome di chi avete fatto questo? e  dice: colui che vi sta innanzi sano e salvo è stato guarito nel Nome di Gesù  Messia il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai  morti… In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato (da  Dio) agli uomini sotto il cielo nel quale bisogna che noi siamo salvati. (vv.  10-12). Il disegno di salvezza di Dio – segnalato dall’espressione bisogna (v. 12) – è descritto a partire dalla citazione del Salmo 118,22. Gesù stesso  ne aveva fatto una lettura profetica alla fine della parabola dei vignaioli  omicidi, proclamata nel Tempio di fronte ai medesimi sommi sacerdoti, scribi  e anziani (Lc 20,1-19). Questa volta, Pietro attualizza il v. 22:  "Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è  diventata testata d’angolo (v. 11). La tradizione ebraica chiama costruttori  di Sion i responsabili del popolo, capi e scribi. 
  L’immagine  della pietra è nota nella tradizione biblica per indicare l’azione di Dio, la  sua solidità e fedeltà che garantisce un futuro di salvezza ai credenti (cf. Is  8,14; 28,16). La tradizione ebraica antica, targùm, ha letto nel salmo  118 il destino del Messia. Nessuna meraviglia che la prima comunità cristiana  abbia ripreso questo testo per esprimere la propria fede in Gesù, il Messia  rifiutato dai capi giudei, ma posto da Dio come pietra di fondamento – secondo  altri pietra di coronamento, chiave di volta – di un nuovo edificio, la Chiesa. Pietro trae  la conclusione: Gesù è l’unica fonte di salvezza per tutto l’uomo e per tutti  gli uomini (4,12). Pietro afferma questo con una formula che per le sue  risonanze bibliche è molto ardita: non vi è altro nome che possa salvare  gli uomini. L’unico nome che poteva essere invocato per la salvezza era  quello di Dio (cf. Gl 3,5). Ora è Gesù, l’uomo crocifisso e risuscitato, che  rende visibile e attuale la salvezza di Dio. 
  Su questa  convinzione che mette in crisi il sistema religioso giudaico si fondano la  libertà e il coraggio di Pietro e di Giovanni. Un coraggio e una libertà che si  traducono nella testimonianza franca e aperta resa a Gesù. Luca ama rimarcare  il contrasto tra questa attitudine dei due apostoli e la loro condizione  culturale e sociale. Essi sono privi di cultura e di prestigio sociale, ma sono  pieni di Spirito Santo e hanno imparato al seguito di Gesù quella libertà che  non si fonda sul prestigio e sul potere. La parola libera e franca corrode e  mette in crisi il potere quando è privo di ragioni. 
  Di fronte  alla franchezza di Pietro, i capi e gli anziani non si interrogano su  come obbedire a Dio, ma su come liberarsi degli apostoli, su come costringerli  al silenzio. Ma Pietro e Giovanni rispondono: Se sia giusto innanzi a Dio  obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere  quello che abbiamo visto e ascoltato (v. 20). La risposta di Pietro si  appoggia su un celebre principio giudaico e greco. L’insurrezione di fratelli  Maccabei e la lotta armata contro i Seleucidi nel II secolo a.C. è stata  sostenuta da questo principio di resistenza: Siamo pronti a morire piuttosto  che trasgredire la patrie leggi (2Mac 7,2; G, Flavio, Antichità  giudaiche, XVIII, 8,2, § 264). Nell’ambiente greco è celebre la risposta di  Socrate ai suoi giudici: O miei concittadini di Atene, io vi sono obbligato  e vi amo, ma obbedisco a Dio piuttosto che a voi (Apologia, 29 D).  La libertà nei confronti degli uomini si fonda sulla fedeltà a Dio, cioè a  quello che è giusto in coscienza. E’ il principio dell’obiezione di coscienza,  della resistenza e disobbedienza all’ordine ingiusto. 
  La reazione  dei membri del sinedrio è meschina. Non sono capaci di prendere nessuna  decisione. Ammettono il prodigio innegabile, prendono atto con meraviglia della  forza della Parola di due illetterati, sono al corrente che il fatto ormai è a  conoscenza di tutti, hanno sotto gli occhi il favore popolare verso gli  apostoli. Sono spinti a prendere una decisione non dall’evidenza, dalla  giustizia o dalla volontà di Dio, ma dalla paura. Vogliono solo guadagnare tempo,  sperando in un futuro più favorevole per sbarazzarsi degli apostoli. E questo è  il senso dell’ammonizione che, secondo la legge, doveva precedere ogni  punizione di illetterati. 
  Il popolo è  schierato dalla parte degli apostoli, come in precedenza era schierato dalla  parte di Gesù (cf. Lc 22,2). Gli apostoli sono riconosciuti dal popolo come  continuatori autentici del loro Maestro. 
Preghiera  degli apostoli nella persecuzione 
  23 Appena rimessi in libertà, andarono dai loro fratelli e riferirono  quanto avevano detto i sommi sacerdoti e gli anziani. 24 All'udire  ciò, tutti insieme levarono la loro voce a Dio dicendo: «Signore, tu che hai  creato il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, 25 tu  che per mezzo dello Spirito Santo dicesti per bocca del nostro padre, il tuo  servo Davide:
  Perché si agitarono le genti 
  e i popoli tramarono cose vane? 
  26 Si sollevarono i re della terra 
  e i principi si radunarono insieme, 
  contro il Signore e contro il suo Cristo; 
  27 davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo santo  servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e i  popoli d'Israele, 28 per compiere ciò che la tua mano e la tua  volontà avevano preordinato che avvenisse. 29 Ed ora, Signore, volgi  lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta  franchezza la tua parola. 30 Stendi la mano perché si compiano  guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù».
  31 Quand'ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati  tremò e tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con  franchezza.
  Gli ordini  dei sommi sacerdoti e degli anziani sono evidentemente in contrasto con ciò che  il Signore Gesù aveva comandato ai suoi discepoli: Sarete testimoni di me in  Gerusalemme… (1,8). 
  La risposta  cristiana al primo tentativo di repressione da parte del gruppo dirigente  giudaico è una preghiera corale. Nella preghiera i fratelli attingono il  discernimento che permette loro di inquadrare nel disegno di Dio (4,28) sia la  propria testimonianza che l’atteggiamento dei capi. Questo discernimento li  rende definitivamente consapevoli della sorte che attende i testimoni-profeti.  Forse avevano sperato che i capi seguissero Gesù come avevano fatto loro lasciando i propri beni (Lc 18,28). Ma bisogna riconoscere la dura  realtà: i capi hanno imboccato la strada dei pagani, cercando che cosa  mangiare e che cosa bere, sempre preoccupati di tesaurizzare per sé (Lc 12,21.29.30). 
  La preghiera  della comunità è il crogiolo in cui si leggono gli avvenimenti con gli occhi di  Gesù. 
  L’unanimità  dei cuori caratterizza la comunità dei credenti (1,14; 2,46; 5,12) di fronte  all’aggressività degli oppositori (vv. 25-26). Il salmo 146, con cui si apre la  preghiera, mette in evidenza il contrasto tra l’atteggiamento dei capi e quello  dei fedeli, che accolgono veramente Dio come Re d’Israele, e Gesù come il  Messia che egli ha inviato. 
  Dopo aver  iniziato con un’invocazione al Dio creatore, il Padrone Supremo,  come nelle professioni di fede della pietà ebraica (Es 20,11; Ne 9,6; Sal  146,6), la preghiera prosegue ricorrendo alle espressioni del salmo 2, che  evoca il dramma messianico in cui Dio, il Signore, dà la vittoria al suo Re, al  suo Consacrato, combattendo contro i re e i principi delle nazioni e contro i  popoli della terra coalizzati contro di lui. 
  L’assemblea  riconosce che il salmo trova compimento nella persona del Cristo – il Re  messianico prefigurato da Davide - , la cui vittoria sulla morte dà al  testimone un’assoluta franchezza nella battaglia che deve combattere. I  nemici non sono più anonimi, ora hanno un volto: si tratta di Erode e Ponzio  Pilato con le nazioni e il popolo d’Israele. 
  Nella  preghiera, in cui agisce lo Spirito Santo, l’azione del Risorto si dispiega  pienamente nella sua comunità. Lasciandosi penetrare dalla parola di Dio (i  Salmi 146 e 2), gli apostoli scoprono di essere veramente l’Israele-Servo,  solidali con Gesù-Servo. E’ lui che prega in loro. 
  I testimoni  di Gesù concludono la loro preghiera così: E ora, Signore, volgi lo sguardo  alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di annunciare con tutta franchezza la  tua parola. Stendi la mano perché si compiano guarigioni, miracoli e prodigi  nel nome del tuo santo servo Gesù (vv. 29-30). Non chiedono di evitare la  prigione, ma di poter annunciare la   Parola senza impedimento. Non domandano che le loro vite e i  loro beni siano protetti, ma che gli altri siano guariti e salvati. 
  Il terremoto  che segue alla preghiera della comunità è segno della presenza di Dio (Sal  68,8-9). Il frutto della preghiera cristiana, secondo la promessa di Gesù (Lc  11,13) è lo Spirito Santo donato in pienezza. Come risposta di Dio alla  preghiera esemplare dei suoi testimoni, i discepoli sono nuovamente riempiti  dallo Spirito della Pentecoste che conferisce loro la capacità di rendere  testimonianza, come era avvenuto a Gesù sulla riva del Giordano (Lc 3,22). Il  dono interiore dello Spirito sostiene la proclamazione libera e coraggiosa  della parola di Dio. Un test molto semplice e alla portata di tutti per  verificare la bontà di una preghiera è questa libertà o coraggio di  testimoniare pubblicamente il Cristo in cui crediamo. 
  La  prima comunità cristiana 
  32 La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore  solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva,  ma ogni cosa era fra loro comune. 33 Con grande forza gli apostoli  rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi  godevano di grande simpatia. 34 Nessuno infatti tra loro era bisognoso,  perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò  che era stato venduto 35 e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e  poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno.
  La  generosità di Barnaba 
  36 Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa  «figlio dell'esortazione», un levita originario di Cipro, 37 che era  padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l'importo deponendolo ai piedi  degli apostoli.
  Le pratiche  di condivisione descritte negli Atti sono radicate in una comunione che è  frutto dello Spirito Santo. L’autore ce lo ricorda in molti modi: un cuore  solo e un’anima sola (4,3); con un medesimo cuore (2,46 e 5,12); insieme (2,44-47). L’unione del cuore e dell’anima che caratterizza la comunità  cristiana proietta nei rapporti umani quanto l’Antico Testamento richiedeva nei  riguardi di Dio: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta  l’anima e con tutte le forze (Dt 6,5). Anche la partecipazione delle  ricchezze era contenuta in questo comandamento. Secondo l’esegesi ebraica,  l’ultima espressione con tutte le forze significa che bisogna amare Dio con  i propri beni. E questo si attua nella comunione dei beni, che è la  realizzazione pratica dell’amore. 
  La rinnovata  presenza di Dio in mezzo al suo popolo realizza anche il comando del Signore: Non  vi sia alcun bisognoso in mezzo a voi (Dt 15,4). Il Targùm commenta  questo comandamento così: Se voi vi sforzate di osservare i comandamenti  della Legge, non ci saranno più poveri tra voi, perché Dio vi benedirà  abbondantemente. La koinonìa-condivisione viene vissuta dalla  comunità dei cristiani come il compimento di questa promessa contenuta nel  Deuteronomio. 
  E’ probabile  che Luca sia consapevole degli echi che questa koinonìa può risvegliare  nei suoi lettori, che ben conoscono le tematiche greche ed ellenistiche  relative all’amicizia: Fra amici, tutto è comune, e l’amicizia è uguaglianza – Fra amici, nulla appartiene in proprio… (Diogene Laerzio, Vita di  Pitagora VIII, 10; ecc.). La filosofia greca definiva l’amicizia come il  fatto di essere un’anima sola, e ne proponeva la pratica affermando un’anima  sola, ciò che gli amici possiedono è comune, amicizia è uguaglianza (Aristotele, Etica Nicomachea, IX.8, 1168b,8). Luca tuttavia è consapevole  dell’abisso che separa l’ideale descritto dai filosofi dal dono fatto da Dio al  suo popolo. 
  L’inserimento  del v. 33: Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della  risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande stima, sembra  fuori posto. In realtà, questo versetto che interrompe il discorso sulla  comunione fraterna e la partecipazione dei beni ci presenta l’orizzonte nuovo  aperto dalla vittoria di Gesù sulla morte, che rende liberi gli uomini da  quella ossessione possessiva che nasce precisamente dalla paura della morte. La  testimonianza della risurrezione sta all’origine della scelta cristiana e  genera i nuovi rapporti interpersonali e sociali che si fondano sulla libertà  di amare senza sfruttamento e dipendenza. Solo una comunità che tende a  superare le discriminazioni generate dalla paura della morte può annunciare la  risurrezione di Gesù Cristo in modo credibile. 
  Gran parte  dei movimenti di riforma o di rifondazione dell’esperienza cristiana si sono  ispirati all’ideale di comunità descritto qui da Luca. 
  A conferma  del quadro ideale appena riferito (vv. 32-35) circa la partecipazione dei beni  nella prima Chiesa di Gerusalemme, Luca riporta il gesto esemplare di Barnaba  (vv. 36-37). Esso risalta per la sua generosità e contrasta efficacemente a  confronto con la grettezza ipocrita dei due coniugi, Anania e Saffira di cui si  racconta subito qui di seguito la storia tragica.
Capitolo 5 
  La  frode di Anania e di Saffira 
  1 Un uomo di nome Anania con la moglie Saffira vendette un suo podere 2  e, tenuta per sé una parte dell'importo d'accordo con la moglie, consegnò  l'altra parte deponendola ai piedi degli apostoli. 3 Ma Pietro gli  disse: «Anania, perché mai satana si è così impossessato del tuo cuore che tu  hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del  terreno? 4 Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche  venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione? Perché hai pensato in  cuor tuo a quest'azione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio». 5 All'udire  queste parole, Anania cadde a terra e spirò. E un timore grande prese tutti  quelli che ascoltavano. 6 Si alzarono allora i più giovani e,  avvoltolo in un lenzuolo, lo portarono fuori e lo seppellirono.
  7 Avvenne poi che, circa tre ore più tardi, entrò anche sua moglie,  ignara dell'accaduto. 8 Pietro le chiese: «Dimmi: avete venduto il  campo a tal prezzo?». Ed essa: «Sì, a tanto». 9 Allora Pietro le  disse: «Perché vi siete accordati per tentare lo Spirito del Signore? Ecco qui  alla porta i passi di coloro che hanno seppellito tuo marito e porteranno via  anche te». 10 D'improvviso cadde ai piedi di Pietro e spirò. Quando  i giovani entrarono, la trovarono morta e, portatala fuori, la seppellirono  accanto a suo marito. 11 E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa e in quanti venivano  a sapere queste cose.
  All’episodio  esemplare della donazione di Barnaba si contrappone quello negativo degli sposi  Anania e Saffira. E’ il primo lato oscuro che risalta sullo sfondo di una  comunità cristiana ideale animata dallo Spirito. 
  Non si può  leggere questo brano senza dare ascolto agli interrogativi che sorgono  spontaneamente in ogni lettore che riflette. Prima di tutto si ha l’impressione  di muoversi in un’atmosfera da Antico Testamento, dove il giudizio e il castigo  di Dio si rivelano inesorabili e fulminano la morte ai peccatori (cf. 1Re  14,1-18). Ma di quale peccato si tratta? Può essere punita così una bugia di  due sposi che vogliono fare bella figura e nello stesso tempo cautelarsi per il  loro futuro? Perché non è data loro la possibilità di spiegarsi e anche di  riconoscere il loro gesto sbagliato, di pentirsi e di convertirsi? Questi  problemi esulano del tutto dalla prospettiva del racconto di Luca che si serve  di alcuni dati essenziali legati alla storia di Anania e Saffira per  trasmettere un insegnamento ancora valido per la comunità cristiana. S.  Girolamo coglie molto bene l’intenzione che guida la tessitura di tutto il  racconto: affinché il castigo di due persone serva da ammonimento a molti (Lettere, 130). In poche parole si tratta di un messaggio di carattere  teologico ed edificante nello stesso tempo. 
  Il motivo  teologico è messo bene in mostra nelle parole di Pietro. Il peccato dei due  cristiani non è solo un po’ di vanità o una menzogna, ma un affronto e un  attentato contro la santità e l’integrità cristiana che hanno la loro radice  nella presenza dello Spirito Santo (vv. 3 e 9). Tu non hai  mentito agli uomini, ma a Dio (v. 4). Nel gesto di Anania che introduce la  menzogna e la bramosia del denaro dentro la comunità dei discepoli è all’opera  la potenza menzognera di Satana che già si servì di Giuda per condurre Gesù  alla morte. Per questo si manifesta improvviso il giudizio di Dio di cui Pietro  si fa interprete autorevole. Un giudizio che commina la morte per chi si mette  fuori della comunità di vita del Signore. Chi non ascolterà quel profeta  sarà estirpato di mezzo al popolo (At 3,23; cf. Lv 23,29). La comunità  cristiana è erede della qahal del Signore, la santa assemblea del  deserto che deve appartenere integralmente al Signore senza deviazioni e  contaminazioni idolatriche (cf. Dt 13,1-19; 17,2-27). I cristiani e quelli che  vedono il giudizio di Dio nella morte dei due coniugi si rendono conto che  nella comunità cristiana è presente il Signore con il suo Spirito: un timore  religioso si diffuse su tutti (cf. vv. 5.11). E’ significativo che il  peccato di Anania e Saffira sia un peccato di menzogna e di attaccamento al  denaro. E’ quella la strada segreta per stabilire l’alleanza con la potenza della  morte e della menzogna, Satana. Il racconto di Luca serve come ammonimento ai  cristiani: attenti all’ambiguità del possesso dove può trovare esca l’ipocrisia  e la menzogna. E’ questa la strada che conduce lontano dalla comunità fraterna  dei credenti e alla fine porta alla morte. 
  La comunità  dei credenti si è trovata molto presto alle prese con il peccato contro la  comunione. Sulla base della propria autorità, non poteva escludere dalla  comunità della salvezza un battezzato che aveva ricevuto la Spirito Santo: la  sanzione poteva venire soltanto da Dio. In questo racconto, chi pronuncia la  sentenza di esclusione dalle conseguenze mortali non è Pietro, ma Dio. In tal  modo la comunità cristiana non condanna a morte il peccatore, ma  svela il peccato che compromette socialmente il gruppo, costata  l’allontanamento o la distanza che il peccatore stesso ha posto tra sé e il  gruppo, e annuncia il giudizio di Dio nei suoi confronti (Perrot).
  Il brano in  questione rispecchia una riflessione teologica di tipo midrashico sull’esistenza del peccato originale all’interno di ogni comunità  umana voluta da Dio: il peccato di Adamo ed Eva dopo la creazione (Gen 3),  quello dei figli di Dio e delle figlie degli uomini dopo l’istituzione della  storia (Gen 6, 1-4), quello del vitello d’oro dopo la celebrazione  dell’alleanza (Es 32), quello di Acan dopo il dono della terra promessa (Gs 7),  quello di Davide dopo la sua consacrazione regale (2Sam 11). In questo brano ci  troviamo di nuovo di fronte a una sequenza teologica che ha per oggetto  l’entrata del peccato in un gruppo istituito da Dio. La comunità dei cristiani  non fa eccezione: il peccato di infedeltà all’alleanza si fa presente anche in  essa. Ma la comunità cristiana sa anche, su tutta la linea della tradizione  giudaica, che la morte del peccatore espia e riscatta tutte le colpe della sua  vita, perché rappresenta una consegna di sé a Dio. Tuttavia questo brano degli  Atti non è rivolto a mettere in evidenza la misericordia di Dio, ma a  sottolineare la gravità del peccato che uccide la koinonìa, avvelena la  comunità e la trascina verso la morte.
  L’alleanza  proposta a Israele rimane sempre una questione di vita o di morte. Non per  nulla Dio aveva detto ai padri per bocca di Mosè: Prendo oggi a testimoni  contro di voi il cielo e la terra: io ti ho posto davanti la vita e la morte,  la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita… (Dt 30,19). La vita  l’abbiamo nella guarigione dello zoppo (3,1-10), la morte la troviamo qui.
  La minaccia  di morte, presente in questo racconto, scandalizza la nostra mentalità pagana.  Ci sembra una specie di ricatto, un mezzo utilizzato da Dio – o dagli autori  umani della Bibbia – per farci paura. Ma non è così! Il giudeo sa bene che la  morte non viene inflitta per fare paura, ma esprime la serietà della  Parola di Dio che dobbiamo ascoltare se vogliamo vivere (5,5.11). 
  Come abbiamo  già accennato, qui Luca fa una rilettura del racconto del peccato originale  contenuto nel capitolo terzo della Genesi. Siamo agli inizi della vita della  Chiesa di Gerusalemme, descritta nei sommari con toni idilliaci che fanno  pensare ai nostri progenitori nel giardino di Eden. Notiamo che in entrambi i  racconti troviamo una coppia: uomo e donna, creati a immagine di Dio. Ai nostri  progenitori era stata data la libertà di godere della creazione; nell’episodio  degli Atti, la coppia poteva gestire i suoi beni come voleva. Secondo la  tradizione giudaica corrente, il serpente sedusse Eva con la menzogna; negli  Atti, il Satana spinge Anania a mentire. Anche la connivenza della coppia è  sottolineata in tutti e due i casi. E nell’uno come nell’altro racconto, il  risultato della caduta è la distruzione della comunione, e i trasgressori  vengono espulsi (dal giardino dell’Eden i primi, dalla comunità cristiana i  secondi). Si può dunque leggere il testo come una riattivazione del peccato  originale nella Chiesa nascente: l’uomo e la donna, creati per dare la vita,  diventano strumenti di morte per l’umanità e per la Chiesa. E, secondo il  ritornello che risuona nel Deuteronomio, bisogna espellerli: "Estirperai  il male da te" (Dt 13,6; 17,7.12; 19,19; 21,21; 22,24). 
  La  tentazione, per noi, è di prendere alla lettera questo racconto e rifiutarlo  perché contrario alla mitezza evangelica oppure relegarlo nella leggenda o nel  mito a causa del suo carattere inverosimile. In entrambi i casi, ciò  equivarrebbe a minimizzarne la portata. Anche se non possiamo delineare, in  base a quest’unica tradizione, i contorni precisi del fatto storico che sta  alla base del racconto, siamo tuttavia invitati a recepire il messaggio che  l’autore intende trasmettere, un messaggio storico. Il peccato contro la  comunione è comparso molto presto nella comunità di Gerusalemme per  questioni di denaro e di condivisione dei beni. 
  Quadro  di insieme 
  12 Molti miracoli e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli  apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; 13 degli  altri, nessuno osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. 14 Intanto  andava aumentando il numero degli uomini e delle donne che credevano nel  Signore 15 fino al punto che portavano gli ammalati nelle piazze,  ponendoli su lettucci e giacigli, perché, quando Pietro passava, anche solo la  sua ombra coprisse qualcuno di loro. 16 Anche la folla delle città  vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti  immondi e tutti venivano guariti.
  Questo  piccolo quadro riassuntivo non ha solo una funzione letteraria di collegamento  degli avvenimenti che precedono e seguono. C’è un messaggio che Luca ci vuol  dare. La prima comunità cristiana di Gerusalemme è avviata sulla strada della  testimonianza pubblica che avviene attraverso due momenti: i fatti e la Parola. Ora è il tempo  dei fatti. Si tratta di avvenimenti prodigiosi che rivelano la potenza dello  Spirito di Gesù operante nei suoi testimoni qualificati, gli apostoli. Come  avveniva al tempo di Gesù in Galilea (Lc 4,40), così ora l’azione potente di  Dio si manifesta come forza di liberazione che restituisce l’integrità ai corpi  malati e dà la liberazione agli uomini oppressi dalle potenze del male (cf. Mc  6,56; Lc 6,17-19). 
  Di fronte a  questa testimonianza pubblica Luca registra due tipi di reazione: quella del  popolo e quella dei capi. Di quest’ultima si parlerà nell’episodio seguente. Da  parte della gente vi sono due atteggiamenti: da una parte il popolo colto da  timore reverenziale non osa avvicinare il gruppo dei discepoli; dall’altra è  attirato dalla nuova esperienza religiosa. Così si spiega l’aumento costante e  progressivo di quelli che entrano a far parte della nuova comunità. Luca  precisa che essi aderiscono al Signore di cui la sua comunità è il segno  storico e visibile. La fama taumaturgica degli apostoli fa accorrere la gente  anche da fuori della città di Gerusalemme. 
  Da queste  righe emerge un fatto incontrovertibile: è molto più vicino al progetto e allo  stile di Dio il popolo che obbedisce al suo istinto religioso e vuole  incontrare la salvezza attraverso la liberazione dei corpi malati, che non i  controllori del Tempio che obbediscono alla paura di perdere la loro autorità e  tentano di soffocare la libertà e la novità dell’azione di Dio. 
  Arresto  e liberazione miracolosa degli apostoli 
  17 Si alzò allora il sommo sacerdote e quelli della sua parte, cioè la  setta dei sadducei, pieni di livore, 18 e fatti arrestare gli  apostoli li fecero gettare nella prigione pubblica. 19 Ma durante la  notte un angelo del Signore aprì le porte della prigione, li condusse fuori e  disse: 20 «Andate, e mettetevi a predicare al popolo nel tempio  tutte queste parole di vita». 21 Udito questo, entrarono nel tempio  sul far del giorno e si misero a insegnare.
  Gli  apostoli davanti al sinedrio 
  Quando  arrivò il sommo sacerdote con quelli della sua parte, convocarono il sinedrio e  tutti gli anziani dei figli d'Israele; mandarono quindi a prelevare gli  apostoli nella prigione. 22 Ma gli incaricati, giunti sul posto, non  li trovarono nella prigione e tornarono a riferire: 23 «Abbiamo  trovato il carcere scrupolosamente sbarrato e le guardie ai loro posti davanti  alla porta, ma, dopo aver aperto, non abbiamo trovato dentro nessuno». 24 Udite  queste parole, il capitano del tempio e i sommi sacerdoti si domandavano  perplessi che cosa mai significasse tutto questo, 25 quando arrivò  un tale ad annunziare: «Ecco, gli uomini che avete messo in prigione si trovano  nel tempio a insegnare al popolo».
  26 Allora il capitano uscì con le sue guardie e li condusse via, ma  senza violenza, per timore di esser presi a sassate dal popolo. 27 Li  condussero e li presentarono nel sinedrio; il sommo sacerdote cominciò a  interrogarli dicendo: 28 «Vi avevamo espressamente ordinato di non  insegnare più nel nome di costui, ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della  vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell'uomo». 29  Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio  piuttosto che agli uomini. 30 Il Dio dei nostri padri ha risuscitato  Gesù, che voi avevate ucciso appendendolo alla croce. 31 Dio lo ha  innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la  grazia della conversione e il perdono dei peccati. 32 E di questi  fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si  sottomettono a lui». 33 All'udire queste cose essi si irritarono e  volevano metterli a morte.
  In questo brano  si stagliano in modo preciso i protagonisti: da una parte gli apostoli guidati dall’angelo del Signore, cioè dalla presenza efficace e protettrice di  Dio, dall’altra la suprema autorità giudaica, religiosa e politica  insieme. Sullo sfondo di questi due protagonisti contrapposti sta il popolo al quale si rivolge l’insegnamento degli apostoli (vv. 20.25) e che Luca  presenta come favorevole e simpatizzante con il gruppo cristiano (v. 26). Lo  scontro avviene nella zona del Tempio simbolo religioso della storia del popolo  di Dio. Gli apostoli, anche contro la diffida formale dell’autorità giudaica,  rivendicano la libertà di parlare al popolo in nome dell’investitura ricevuta  da Dio. Pietro afferma questa scelta chiara d’azione dichiarando: Bisogna  obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (v. 29). E’ la seconda volta (cf.  4,19) che in poche righe Luca riporta questo principio della libertà da parte  di Pietro. Tenendo conto della tecnica narrativa dell’autore, che ama  sottolineare mediante la ripresa l’importanza del tema, si può ritenere che  questo sia un principio chiave del movimento cristiano nel conflitto con  l’autorità giudaica. 
  Ma il vero  centro del conflitto non è una questione di competenza o di giurisdizione  religiosa, ma il nome o quell’uomo che il potere giudaico non ha il  coraggio di nominare: Gesù. Pietro con audacia e libertà dichiara  apertamente: Il Dio dei nostri padri ha risuscitato quel Gesù che voi avete  fatto giustiziare sul patibolo della croce (v. 30). La ragione profonda che  spiega il coraggio degli apostoli e la perplessità del potere giudaico sta  proprio qui: nella presa di posizione di fronte a Gesù, ucciso dagli uomini, ma  glorificato da Dio. 
  Le parole di  Pietro davanti al tribunale supremo giudaico sono una rapida sintesi del primo  annuncio cristiano riguardante la morte e risurrezione di Gesù (vv. 30-32).  Questo piccolo brano che si trova al centro di tutto il racconto è la vera  chiave di lettura di tutto l’episodio. Il conflitto degli apostoli con il  potere giudaico, rappresentato dal sinedrio, prolunga il conflitto che ha  condotto Gesù alla morte di croce. Ma la vittoria di Dio sul potere repressivo  e sulla morte fa già intuire quale sarà l’esito di questo confronto storico. 
  Comparendo  davanti al sommo sacerdote, al sinedrio e a tutta l’assemblea degli anziani dei  figli d’Israele, gli apostoli si sentono dire: Avete riempito Gerusalemme  del vostro insegnamento (v. 28). Si tratta di una splendida testimonianza  della realizzazione del loro primo obiettivo: essere testimoni del Risorto a  Gerusalemme (1,8). Per il momento, tutto avviene ancora tra figli d’Israele (5,21-31). Ma questa situazione non durerà a lungo. Dopo l’uccisione di  Stefano, gli avvenimenti sfuggiranno di mano alle autorità di Gerusalemme e  oltrepasseranno ben presto i confini del giudaismo. 
  L'intervento  di Gamaliele 
  34 Si alzò allora nel sinedrio un fariseo, di nome Gamaliele, dottore  della legge, stimato presso tutto il popolo. Dato ordine di far uscire per un  momento gli accusati, 35 disse: «Uomini di Israele, badate bene a  ciò che state per fare contro questi uomini. 36 Qualche tempo fa  venne Tèuda, dicendo di essere qualcuno, e a lui si aggregarono circa  quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quanti s'erano lasciati persuadere da lui  si dispersero e finirono nel nulla. 37 Dopo di lui sorse Giuda il  Galileo, al tempo del censimento, e indusse molta gente a seguirlo, ma  anch'egli perì e quanti s'erano lasciati persuadere da lui furono dispersi. 38  Per quanto riguarda il caso presente, ecco ciò che vi dico: Non  occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o  questa attività è di origine umana, verrà distrutta; 39 ma se essa  viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a  combattere contro Dio!».
  40 Seguirono il suo parere e, richiamati gli apostoli, li fecero  fustigare e ordinarono loro di non continuare a parlare nel nome di Gesù;  quindi li rimisero in libertà. 41 Ma essi se ne andarono dal  sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù. 42 E  ogni giorno, nel tempio e a casa, non cessavano di insegnare e di portare il  lieto annunzio che Gesù è il Cristo.
  L’intervento  di Gamaliele, il maestro saggio ed equilibrato, esprime il significato profondo  e teologico dello scontro con il movimento cristiano. Nel principio della tolleranza religiosa, richiamato da Gamaliele, come in quello della libertà  affermato da Pietro si affronta una scelta fondamentale: accettare la logica di  Dio nella libertà che deriva dalla vittoria sulla morte, che è la risurrezione,  oppure obbedire a quella logica umana che si fonda sulla paura della morte e si  serve del potere repressivo per affermarsi. La persecuzione non può arrestare  l’azione irresistibile di Dio che si è rivelata nella risurrezione di Gesù ed è  portata avanti dalla testimonianza coraggiosa degli apostoli. 
  Rabban  Gamaliele I, maestro di Paolo (22,3), era l’erede del nonno, Rabbi Hillel (ca. 20 a.C.), uno dei più famosi  dottori della legge, il quale era fariseo. L’argomentazione di Gamaliele è  impeccabile, come si addice a uno scriba esperto. Egli comincia con l’evocare  due episodi del recente passato: due casi di falsi messia (vv. 36-37). E  conclude con una affermazione di cui si trova un parallelo nei Detti dei  padri: Ogni riunione che sia per il Nome del Cielo è destinata a  permanere, ma se non è per il Nome del Cielo non è destinata a permanere (Massima attribuita a Rabbi Yohanan il ciabattino, vissuto verso il 140 a.C.). Si può accostare  questa massima al criterio proposto dal Deuteronomio per riconoscere i falsi  profeti a partire dagli avvenimenti: Quando il profeta parlerà nel nome di  Dio e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta Dio (Dt 18,22). 
  La  contrapposizione tra gli uomini e Dio, evocata da Gamaliele, richiama  l’affermazione iniziale del discorso di Pietro: Bisogna sottomettersi a Dio  più che agli uomini (v. 29; cf.: 4,19). In questo modo Luca ci fa capire  che Gamaliele ha prestato attenzione, ha ascoltato il richiamo dell’apostolo.  Rifiutando la risposta politica, prendendo le distanze dalla violenza di Erode  e dei sommi sacerdoti, Gamaliele si mette all’ascolto degli avvenimenti, perché  sa che da sempre, in Israele, Dio parla attraverso gli avvenimenti e conferma  il tal modo i suoi profeti. Egli ricorda che combattere i profeti equivale a  combattere Dio (v. 39). La questione, per lui, rimane aperta: e se fossero  profeti? E’ lo stesso atteggiamento che prenderanno alcuni farisei durante il  processo a Paolo: e se uno spirito gli avesse parlato, oppure un angelo? (23,9).
  I sommi  sacerdoti e i capi accettano il consiglio di Gamaliele e gli apostoli vengono  messi in libertà, non senza essere stati debitamente percossi (come Gesù: Lc  23,16-22) e non senza aver ricevuto nuovamente il divieto formale di parlare  ancora nel Nome di Gesù (v. 40). E gli apostoli continuavano ad andare (v. 41), lieti di condividere il destino di Cristo: maledetti dagli uomini, ma  benedetti da Dio (cf. Lc 21,12-18). Si realizza per loro la beatitudine  proclamata dal Vangelo: Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi  metteranno al bando e vi insulteranno e respingeranno il vostro nome come  scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed  esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso  modo infatti facevano i loro padri con i profeti. (Lc 6,22-23). Gli  apostoli sono effettivamente nella gioia, e la Parola va con loro,  allontanandosi dal sinedrio…
  Nel Tempio,  secondo l’ordine di Dio (v. 42; cf. 5,20), ogni giorno viene proclamata la Parola: Tempio e case sono  luoghi di insegnamento e di evangelizzazione. Nel cuore della realtà  quotidiana, nonostante il divieto, gli apostoli offrono il loro insegnamento al  popolo. Il gioioso messaggio di Gesù risuona dovunque.
Capitolo 6 
  II.  LE PRIME MISSIONI 
    L'istituzione  dei sette 
  1 In quei  giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli  ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella  distribuzione quotidiana. 2 Allora i Dodici convocarono il gruppo  dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per  il servizio delle mense. 3 Cercate dunque, fratelli, tra di voi  sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali  affideremo quest'incarico. 4 Noi, invece, ci dedicheremo alla  preghiera e al ministero della parola». 5 Piacque questa proposta a  tutto il gruppo ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo,  Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timòne, Parmenàs e Nicola, un proselito di  Antiochia. 6 Li presentarono quindi agli apostoli i quali, dopo aver  pregato, imposero loro le mani.
  7 Intanto la parola di Dio si diffondeva e si moltiplicava grandemente  il numero dei discepoli a Gerusalemme; anche un gran numero di sacerdoti  aderiva alla fede.
  In una comunità  in cui tutti, a quanto sembra, si trovano bene, si produce un avvenimento  insolito: ci fu una mormorazione (v. 1). Il tema delle mormorazioni è tipico del cammino degli ebrei nel deserto (Es 15-17; Nm 11-14). La giovane  comunità di Gerusalemme deve consolidarsi attraverso la divisione e la  contestazione, come avevano dovuto fare in passato le dodici tribù d’Israele in  cammino verso la libertà. Teniamo presente che nel libro dell’Esodo, il cammino  nel deserto è segnato dalla prova più grave del popolo eletto: il combattimento  contro Amalek (Es 17,8-16; Nm 14,44-45), il nemico numero uno che aveva deciso  di annientare Israele. Il suo nome, nella tradizione giudaica, è diventato  simbolo dello sterminio. Ma la preghiera di intercessione di Mosè, che rimane con  le braccia alzate per tutta la durata della battaglia, alla fine ottiene  vittoria. Basandosi sul versetto finale del racconto (Es 17,16: Una mano si  è levata sul trono del Signore: vi sarà guerra del Signore contro Amalek di  generazione in generazione), l’esegesi giudaica ha considerato Amalek come  il simbolo dell’odio antisemita. Discendente di Esaù (Gen 36,12), questo  personaggio rappresenta l’opposizione all’interno del popolo eletto. Il Talmùd  e il Midrash usano correntemente il nome di Amalek per condannare gli atti di  aggressione di Roma nei confronti di Gerusalemme. Oggi, dopo la Shoah (sterminio),  gli ebrei lo identificano col nazismo. La tradizione giudaica afferma che Dio  stesso combatte ogni nemico che attacca il suo trono, cioè il suo Tempio, e che  il Messia deve sterminare Amalek. 
  Dopo questo  episodio troviamo, in Es 18,13-27 (ripreso in Dt 1,6-18), la scena  dell’incontro di Mosè con il suo suocero, Ietro il Madianita. Nella  conversazione che si svolge tra i due uomini, Mosè si lamenta di tutto il tempo  che deve spendere per comporre le liti tra i membri del suo popolo. Ietro, che  sa che cos’è l’organizzazione, gli consiglia di istituire dei giudici che si  occupino dell’amministrazione della giustizia, in modo che egli possa stare  davanti a Dio in nome del popolo e presentare le questioni a Dio (Es  18,19).
  Ci siamo  soffermati a esaminare in maniera un po’ dettagliata il rimando al cammino di  Israele nel deserto perché si tratta di una sequenza che illumina questi  capitoli degli Atti, costituendo in qualche modo il modello seguito da Luca per  il suo racconto. 
  Il testo  degli Atti parla anzitutto di mormorazioni e di una contestazione a proposito  del servizio delle tavole. Qui si procede immediatamente alla scelta dei  sette supplenti. Ma nella comunità di Gerusalemme, il contrasto che provoca la mormorazione è dovuto a una frattura linguistica e culturale presente all’interno della  comunità. A Gerusalemme ci sono giudei di varia provenienza, come ha  evidenziato l’evento della Pentecoste: abitavano a Gerusalemme giudei di  ogni nazione che è sotto il cielo (2,5-11). Non dobbiamo dunque stupirci se  la stessa varietà si riscontra tra i primi cristiani. Nel giro di breve tempo,  sorge un contrasto tra ellenisti ed ebrei. Gli ellenisti sono giudei della diaspora (dispersione), originari dei paesi del bacino del  Mediterraneo: parlano in greco, si servono del testo biblico dei Settanta (la  traduzione greca della Scrittura), e la loro tradizione religiosa è spesso più  aperta agli influssi dell’ellenismo. Gli ebrei sono abitanti della  Giudea, di Gerusalemme o di altre regioni come la Galilea, dove l’aramaico è  la lingua più diffusa; la loro mentalità è piuttosto conservatrice.
  Oltre a  parlare una lingua diversa, e quindi a frequentare luoghi di preghiera diversi  – le sinagoghe dei vari quartieri (cf. 6,9; 24,12) -- , gli ellenisti,  in caso di bisogno non potevano contare sull’aiuto della loro famiglia, che  viveva in un paese lontano.
  Si sarebbe  potuto pensare che la più grande difficoltà, nella vita della comunità dei  credenti in Gesù, sorgesse a proposito della celebrazione dell’eucaristia a  causa della diversità delle lingue, perché la liturgia è il campo in cui le  differenti sensibilità si scontrano facilmente. A una prima lettura, invece, il  contrasto sembra sorgere da un problema apparentemente secondario: gli ellenisti si lamentano perché le loro vedove sono trascurate nel servizio quotidiano.  La situazione della vedova israelita non era certo invidiabile: poteva  continuare ad abitare nella casa del marito defunto e poteva vivere dei beni  che egli aveva lasciato, ma spesso aveva il bisogno del sostegno della sua  famiglia. Se era originaria della diaspora, la vedova non poteva contare sulla  famiglia e dipendeva dall’aiuto offerto dalla comunità. Per iniziativa dei  farisei, l’aiuto ai bisognosi era stato organizzato con interventi settimanali  e giornalieri. Sembra che la comunità cristiana avesse adottato questo  criterio. Il servizio quotidiano di cui parla il testo degli Atti  sarebbe l’assistenza quotidiana prestata alle persone indigenti (distribuzione  dei viveri e partecipazione al pasto comunitario, seguito dall’eucaristia: cf.  2,44-47). 
  Ma era  proprio necessario convocare una grande assemblea per risolvere un problema  concreto così poco essenziale? Dobbiamo dunque pensare che dietro  all’istituzione dei Sette si nasconda una realtà più seria? Il velato rimando  all’elezione di Mattia (1,15), contenuto in 6,1, sembra indicarlo. 
  Fino a  questo punto degli Atti le celebrazioni sono state realizzate in aramaico, ma  nella misura in cui i fratelli ellenisti diventano più numerosi, comincia a  porsi il problema della lingua. I più poveri da un punto di vista sociale e  culturale sono particolarmente penalizzati da questa situazione. Sembra venuto  il momento di sdoppiare il servizio liturgico: si tratta dell’avvio di una  comunità di lingua greca che ha come primo responsabile Stefano, con i sei  ausiliari nominati insieme con lui. 
  Il servizio-diakonìa affidato ai Sette non può essere qualificato come materiale rispetto a quello  degli apostoli che sarebbe spirituale .Anzi, vedremo che presto si  tradurrà in servizio della Parola accompagnato da gesti di potenza, come  attestano le attività di Stefano (6,8-10) e di Filippo (8,4-40). 
  Un altro  interrogativo può inoltre essere posto: l’incarico del servizio delle mense affidato ai Sette può essere definito con riferimento al servizio  quotidiano apparso carente, un servizio che includeva la condivisione delle  agapi fraterne, quella della Parola e l’eucaristia?
  Chi sono i  Sette? Questo numero sottintende un’analogia con i sette magistrati (parnassìm o amministratori) responsabili del buon andamento di ogni comunità ebraica. Il  Talmùd li chiama i notabili, i migliori o i Sette della  città. Attraverso l’istituzione dei Sette incomincia un’apertura all’universo  pagano, e più in particolare al mondo greco. Questi uomini sono giudei di  estrazione greca, come risulta dai loro nomi. Notiamo però che l’ultimo della  lista, Nicola, originario di Antiochia, è chiamato proselito; non è dunque giudeo  di nascita, ma è un pagano convertito al Dio d’Israele. 
  Il testo non  specifica il modo in cui si effettua l’elezione dei Sette responsabili. La  comunità ellenistica locale li sceglie in base ad alcuni criteri determinati  dagli apostoli (v. 3). L’imposizione delle mani è il riconoscimento del servizio a cui il Signore chiama i Sette. 
  Un’espressione  importante conclude l’episodio: la   Parola di Dio cresceva (v. 7). Questo tema deve  essere accostato a quello della moltiplicazione dei discepoli nel v. 1. Ci  troviamo di fronte a un ritornello di crescita che richiama il primo  comandamento di tutta la Bibbia: Crescete e moltiplicatevi… . Si tratta di una benedizione che viene  pronunciata dal Creatore sugli animali (Gen 1,22) e sulla prima coppia umana  (Gen 1,28). Il desiderio del Creatore si realizza nella crescita della Parola  di grazia che costruisce la comunità. Luca aggiunge: molta folla di  sacerdoti obbediva alla fede. Questi uomini aderiscono a Gesù senza  abbandonare il servizio del Tempio; non sono dei disertori. Il numero dei  sacerdoti ebrei era considerevole: all’inizio dell’era cristiana sembra che  fossero circa 8.000, residenti per lo più in Gerusalemme. L’adesione a Gesù di  questi sacerdoti di tendenza sadducea renderà più aspre certe discussioni riguardanti  il popolo e il Tempio. Che progetto aveva Dio quando inviò Mosè a costituire il  popolo di Dio? Come considera Dio il Tempio collocato in Gerusalemme? A  queste domande scottanti il discorso di Stefano, che segue immediatamente, dà  un primo abbozzo di risposta. In una prospettiva tipicamente farisaica Stefano  spiegherà qual è la sua posizione nei confronti del suo popolo e del Tempio di  Dio. 
  L'arresto  di Stefano 
  8 Stefano intanto, pieno di grazia e di fortezza, faceva grandi  prodigi e miracoli tra il popolo. 9 Sorsero allora alcuni della  sinagoga detta dei «liberti» comprendente anche i Cirenei, gli Alessandrini e  altri della Cilicia e dell'Asia, a disputare con Stefano, 10 ma non  riuscivano a resistere alla sapienza ispirata con cui egli parlava. 11 Perciò  sobillarono alcuni che dissero: «Lo abbiamo udito pronunziare espressioni  blasfeme contro Mosè e contro Dio». 12 E così sollevarono il popolo,  gli anziani e gli scribi, gli piombarono addosso, lo catturarono e lo  trascinarono davanti al sinedrio. 13 Presentarono quindi dei falsi  testimoni, che dissero: «Costui non cessa di proferire parole contro questo  luogo sacro e contro la legge. 14 Lo abbiamo udito dichiarare che  Gesù il Nazareno distruggerà questo luogo e sovvertirà i costumi tramandatici  da Mosè».
  15 E tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissando gli occhi su di  lui, videro il suo volto come quello di un angelo.
  L’attività  di Stefano è presentata fin dall’inizio con le stesse espressioni che sono  state utilizzate per descrivere quella degli apostoli: prodigi e segni (2,43; 5,12; cf. 2,22; 7,36); grazia e potenza (1,8; 4,33). La  continuità tra i Dodici e i Sette viene in tal modo sottolineata in maniera  significativa. Stefano viene presentato immediatamente come servo della Parola. 
  I giudei  provenienti dalla diaspora erano spesso raggruppati in determinati quartieri  della città, dove avevano la loro sinagoga (cf. 24,12). Il gruppo dei liberti è probabilmente quello dei giudei i cui ascendenti erano stati portati a Roma  come prigionieri da Pompeo nel 63   a.C. Quando furono liberati, erano stati reclutati  dall’esercito romano per essere di servizio della forza d’occupazione in  Siria-Palestina. Fra coloro che prendono posizione contro Stefano ci sono i  giudei del Nord Africa (Cirenaica e Alessandria), i compatrioti del futuro  testimone Saulo (originario della Cilicia) e i giudei dell’Asia.  Paradossalmente i più accaniti oppositori dei cristiani si trovano tra gli  ellenisti. 
  La sapienza,  citata soltanto nei capitoli 6 e 7 degli Atti (6,3-10; 7,10-22), è il frutto  principale dello Spirito Santo (cf. Is 11,2). Nel v. 8 si dice che Stefano è pieno di grazia e di potenza: la grazia appare come l’amore di Dio in ciò  che ha di più tangibile, indicando un agire umano pienamente trasfigurato dallo  Spirito di Gesù Messia. La sapienza è l’espressione del disegno di Dio nella  sua profondità (cf. Lc 7,30-35) e indica un’intelligenza totalmente  pervasa dallo Spirito Santo. 
  Questa  grazia e questa sapienza, frutti dello Spirito santo, sono tacciate per tre  volte di bestemmia (vv. 11.13.14). Bestemmiare significa arrogarsi una  prerogativa divina oppure attentare direttamente alla potenza o alla gloria di  Dio. La stessa accusa era stata presentata contro Gesù (Mc 14,58-64), la cui  parola era inoppugnabile (cf. Lc 20,26; 22,53). Stefano (v. 12b), come Gesù(Lc  22,66), viene condotto al sinedrio, e vengono presentati alcuni falsi testimoni  (v. 13a; cf. Mc 14,56-57). I detrattori di Stefano riprendono la parola di Gesù  che identificava se stesso con il Tempio di Dio (Mc 14,58), come se volessero  colpire il Maestro nel suo discepolo. 
  La duplice  accusa verte dunque sul luogo della presenza di Dio (il Tempio o Gesù?) e sulla  Legge, che raccoglie le usanze prescritte da Mosè, tra cui la circoncisione che  è il segno dell’appartenenza a Israele. E’ dunque su questo punto che il sommo  sacerdote interrogherà Stefano (7,1), come aveva già interrogato Gesù (cf. Mc  14,60-61). 
  All’accusa  presentata dai falsi testimoni prezzolati, si contrappone la visione di tutti i  membri del sinedrio: E tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissando gli  occhi su di lui, videro il suo volto come quello di un angelo (v. 15).  L’angelo rivela la presenza di Dio (cf. 7,30), conforta (Lc 22,43), libera  (5,19), trasmette il messaggio divino (7,38; cf. Lc 2,10). Stefano appare  dunque come colui che parla nel nome del Dio d’Israele. 
  Questa scena  può farci ricordare quella in cui Geremia, accusato di voler distruggere il  Tempio, si vede rendere omaggio dai capi e dal popolo: Non ci deve essere  sentenza di morte per quest’uomo, perché ci ha parlato nel nome del Signore  nostro Dio (Ger 26,16). Possiamo inoltre ricordare l’immagine di Mosè, il  cui volto risplende di luce dopo l’incontro con Dio sulla cima del Sinai (Es  34,29-30), come se il fulgore della presenza divina si fosse posato su di lui. 
  Nella sua  difesa Stefano esporrà il disegno di Dio a partire dagli avvenimenti della  storia d’Israele. Vero profeta, esprimerà le intenzioni di Dio sul popolo e  sulla sua missione, e sul luogo santo dove Dio vuole che gli si renda culto.  Testimone dell’opera di Dio con i suoi gesti e le sue parole, Stefano si  colloca sulla scia di Mosè, il mediatore dell’alleanza, e su quella di Geremia,  il profeta della nuova alleanza. 
Capitolo 7 
  Il  discorso di Stefano 
  1 Gli disse allora il sommo sacerdote: «Queste cose stanno proprio  così?». 2 Ed egli rispose: «Fratelli e padri, ascoltate: il Dio  della gloria apparve al nostro padre Abramo quando era ancora in Mesopotamia,  prima che egli si stabilisse in Carran, 3 e gli disse: Esci dalla  tua terra e dalla tua gente e và nella terra che io ti indicherò. 4 Allora,  uscito dalla terra dei Caldei, si stabilì in Carran; di là, dopo la morte del  padre, Dio lo fece emigrare in questo paese dove voi ora abitate, 5 ma  non gli diede alcuna proprietà in esso, neppure quanto l'orma di un piede, ma  gli promise di darlo in possesso a lui e alla sua discendenza dopo di lui,  sebbene non avesse ancora figli. 6 Poi Dio parlò così: La  discendenza di Abramo sarà pellegrina in terra straniera, tenuta in schiavitù e  oppressione per quattrocento anni. 7 Ma del popolo di cui saranno  schiavi io farò giustizia, disse Dio: dopo potranno uscire e mi adoreranno in  questo luogo. 8 E gli diede l'alleanza della circoncisione. E così  Abramo generò Isacco e lo circoncise l'ottavo giorno e Isacco generò Giacobbe e  Giacobbe i dodici patriarchi. 9 Ma i patriarchi, gelosi di Giuseppe,  lo vendettero schiavo in Egitto. Dio però era con lui 10 e lo liberò  da tutte le sue afflizioni e gli diede grazia e saggezza davanti al faraone re  d'Egitto, il quale lo nominò amministratore dell'Egitto e di tutta la sua casa.  11 Venne una carestia su tutto l'Egitto e in Canaan e una grande  miseria, e i nostri padri non trovavano da mangiare. 12 Avendo udito  Giacobbe che in Egitto c'era del grano, vi inviò i nostri padri una prima  volta; 13 la seconda volta Giuseppe si fece riconoscere dai suoi  fratelli e fu nota al faraone la sua origine. 14 Giuseppe allora  mandò a chiamare Giacobbe suo padre e tutta la sua parentela, settantacinque  persone in tutto. 15 E Giacobbe si recò in Egitto, e qui egli morì  come anche i nostri padri; 16 essi furono poi trasportati in Sichem  e posti nel sepolcro che Abramo aveva acquistato e pagato in denaro dai figli  di Emor, a Sichem. 
  17 Mentre si avvicinava il tempo della promessa fatta da Dio ad Abramo,  il popolo crebbe e si moltiplicò in Egitto, 18 finché salì al trono  d'Egitto un altro re, che non conosceva Giuseppe. 19 Questi,  adoperando l'astuzia contro la nostra gente, perseguitò i nostri padri fino a  costringerli a esporre i loro figli, perché non sopravvivessero. 20 In quel tempo  nacque Mosè e piacque a Dio; egli fu allevato per tre mesi nella casa paterna,  poi, 21 essendo stato esposto, lo raccolse la figlia del faraone e  lo allevò come figlio. 22 Così Mosè venne istruito in tutta la  sapienza degli Egiziani ed era potente nelle parole e nelle opere. 23  Quando stava per compiere i quarant'anni, gli venne l'idea di far visita ai  suoi fratelli, i figli di Israele, 24 e vedendone uno trattato  ingiustamente, ne prese le difese e vendicò l'oppresso, uccidendo l'Egiziano. 25  Egli pensava che i suoi connazionali avrebbero capito che Dio dava loro  salvezza per mezzo suo, ma essi non compresero. 26 Il giorno dopo si  presentò in mezzo a loro mentre stavano litigando e si adoperò per metterli  d'accordo, dicendo: Siete fratelli; perché vi insultate l'un l'altro? 27  Ma quello che maltrattava il vicino lo respinse, dicendo: Chi ti ha nominato  capo e giudice sopra di noi? 28 Vuoi forse uccidermi, come hai  ucciso ieri l'Egiziano? 29 Fuggì via Mosè a queste parole, e andò ad  abitare nella terra di Madian, dove ebbe due figli.
  30 Passati quarant'anni, gli apparve nel deserto del monte Sinai un  angelo, in mezzo alla fiamma di un roveto ardente. 31 Mosè rimase  stupito di questa visione; e mentre si avvicinava per veder meglio, si udì la  voce del Signore: 32 Io sono il Dio dei tuoi padri, il Dio di  Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Esterrefatto, Mosè non osava guardare. 33  Allora il Signore gli disse: Togliti dai piedi i calzari, perché il luogo  in cui stai è terra santa. 34 Ho visto l'afflizione del mio popolo  in Egitto, ho udito il loro gemito e sono sceso a liberarli; ed ora vieni, che  ti mando in Egitto. 35 Questo Mosè che avevano rinnegato dicendo:  Chi ti ha nominato capo e giudice?, proprio lui Dio aveva mandato per esser  capo e liberatore, parlando per mezzo dell'angelo che gli era apparso nel  roveto. 36 Egli li fece uscire, compiendo miracoli e prodigi nella  terra d'Egitto, nel Mare Rosso, e nel deserto per quarant'anni. 37 Egli  è quel Mosè che disse ai figli d'Israele: Dio vi farà sorgere un profeta tra i  vostri fratelli, al pari di me. 38 Egli è colui che, mentre erano  radunati nel deserto, fu mediatore tra l'angelo che gli parlava sul monte Sinai  e i nostri padri; egli ricevette parole di vita da trasmettere a noi. 39 Ma  i nostri padri non vollero dargli ascolto, lo respinsero e si volsero in cuor  loro verso l'Egitto, 40 dicendo ad Aronne: Fà per noi una divinità  che ci vada innanzi, perché a questo Mosè che ci condusse fuori dall'Egitto non  sappiamo che cosa sia accaduto. 41 E in quei giorni fabbricarono un  vitello e offrirono sacrifici all'idolo e si rallegrarono per l'opera delle  loro mani. 42 Ma Dio si ritrasse da loro e li abbandonò al culto  dell'esercito del cielo, come è scritto nel libro dei Profeti:
  43 Mi avete forse offerto vittime e sacrifici 
  per quarant'anni nel deserto, o casa d'Israele? 
  Avete preso con voi la tenda di Mòloch, 
  e la stella del dio Refàn, 
  simulacri che vi siete fabbricati per adorarli!
  Perciò vi deporterò al di là di Babilonia.
  44 I nostri padri avevano nel deserto la tenda della testimonianza,  come aveva ordinato colui che disse a Mosè di costruirla secondo il modello che  aveva visto. 45 E dopo averla ricevuta, i nostri padri con Giosuè se  la portarono con sé nella conquista dei popoli che Dio scacciò davanti a loro,  fino ai tempi di Davide. 46 Questi trovò grazia innanzi a Dio e  domandò di poter trovare una dimora per il Dio di Giacobbe; 47 Salomone  poi gli edificò una casa. 48 Ma l'Altissimo non abita in costruzioni fatte da  mano d'uomo, come dice il Profeta:
  49 Il cielo è il mio trono 
  e la terra sgabello per i miei piedi. 
  Quale casa potrete edificarmi, dice il Signore, 
  o quale sarà il luogo del mio riposo? 
  50 Non forse la mia mano ha creato tutte queste cose? 
  51 O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre  opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. 52  Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero  quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete  divenuti traditori e uccisori; 53 voi che avete ricevuto la legge  per mano degli angeli e non l'avete osservata».
  54 All'udire queste cose, fremevano in cuor loro e digrignavano i denti  contro di lui.
  Lapidazione  di Stefano. Saulo persecutore 
  55 Ma Stefano, pieno di Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo,  vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra 56 e disse:  «Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di  Dio». 57 Proruppero allora in grida altissime turandosi gli orecchi;  poi si scagliarono tutti insieme contro di lui, 58 lo trascinarono  fuori della città e si misero a lapidarlo. E i testimoni deposero il loro  mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. 59 E così  lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: «Signore Gesù, accogli il mio  spirito». 60 Poi piegò le ginocchia e gridò forte: «Signore, non  imputar loro questo peccato». Detto questo, morì.
  Fra tutti i  discorsi riportati negli Atti degli apostoli quello di Stefano è il più lungo  (52 versetti). Il tono del discorso è duro e la finale può sembrarci  decisamente intollerabile. Ma ci precluderemmo la comprensione di questa  rilettura profetica della storia dei rapporti tra Dio e Israele se la considerassimo  come una requisitoria, un giudizio, una condanna che gli accusatori-accusati  concluderebbero in maniera ignobile assassinando il profeta. Non si tratta di  giudizio, ma di rivelazione del peccato in vista del perdono. Non si tratta di  una requisitoria, ma di una esortazione profetica in nome dell’alleanza eterna.  Non dobbiamo lasciarci ingannare dall’asprezza del tono, abituale nei profeti e  di uso corrente nelle discussioni rabbiniche. Anche nel linguaggio comune ci si  esprime con durezza quando si vuole sottolineare la propria disapprovazione nei  confronti di un atteggiamento che si ritiene sbagliato. Le parole di Stefano  richiamano le invettive dei profeti (cf. Is 1,2-20; Ger 7,1-15), di Giovanni  Battista (Mt 3,7) e di Gesù (Mt 23, 13-33). Sono del tutto naturali sulle  labbra di un fratello che si rivolge ai suoi amati fratelli israeliti, eletti  di Dio. Non lasciamoci dunque indurre in errore dalla nostra sensibilità e  dalla prima impressione. 
  Nel capitolo  che stiamo leggendo Stefano rivive la storia d’Israele mentre la racconta:  muore svolgendo la sua missione di testimone della grazia; vede e proclama il  Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio. Si tratta di una straordinaria  azione profetica che esprime la missione e il compimento di Israele. Giovanni  Battista infatti aveva annunciato, riprendendo un oracolo di Isaia (40,5): Ogni  uomo vedrà la salvezza di Dio (Lc 3,6). Per Israele il compimento consiste  nella manifestazione di Dio così come egli è (cf. 1Gv 3,2), cioè nel vedere  il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio. E’ ciò che Gesù aveva  promesso alla corte suprema del suo popolo, davanti alla quale veniva  processato (Mt 26,64). 
  Tutto il  discorso di Stefano deve essere compreso alla luce di questa sua straordinaria  testimonianza profetica. Il peccato dell’uomo non impedisce a Dio di essere  buono, non sbarra la strada alla benedizione di Dio. Attraverso l’assassinio di  Stefano Dio torna a dichiarare profeticamente qual è la salvezza donata a  Israele al termine del suo cammino: la visione del Figlio dell’uomo che sta  alla destra di Dio. Frutto della benevolenza divina, di cui i cieli aperti sono  un segno, è contemplare il meraviglioso compimento del popolo eletto,  ricapitolato in Gesù Messia, Figlio dell’uomo, nella gloria di Dio. E’ questo  il punto di arrivo della difficile missione della testimonianza che deve essere  resa al Dio unico, con la forza dello Spirito Santo, fino agli estremi confini  della terra. 
  Rispondendo  alla domanda del sommo sacerdote, Stefano ripercorre la storia dei padri.  Egli fa memoria dei passati rapporti tra Dio e il suo popolo per gettare luce  sulla situazione presente e individuare qual è il popolo che oggi Dio raduna e  qual è il servizio (o culto) che attende da esso, di fronte alle nazioni. Per  ogni cristiano, il modo più adeguato di difendersi o per rendere conto della  propria speranza (cf. 1Pt 3,15) consiste nel narrare la storia dell’incontro di  Dio con l’uomo, poi nel rifiuto dell’uomo e infine nel modo in cui Dio supera  questo rifiuto: alleanza – peccato – perdono - sono i tre punti  fondamentali si cui si articola il racconto che Israele ha trasmesso alla  Chiesa. 
  Gli  ascoltatori di Stefano devono saper che questa lunga arringa profetica, che  rivela la profondità del peccato, è anche la promessa di una grazia  sovrabbondante offerta al popolo umiliato. Ma bisogna che la rivelazione del  peccato venga portata fino in fondo, e questo costerà la vita al testimone. 
  Siete  anche voi come i vostri padri (v. 51). Gesù aveva detto ai dottori della  Legge: Ahimè per voi, perché costruite dei sepolcri ai profeti che i vostri  padri uccisero… Voi approvate le opere dei vostri padri (Lc  11,47-48). Queste parole fanno eco alla conclusione della storia sacerdotale: Il  Dio dei loro padri mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri per  ammonirli, perché voleva risparmiare il suo popolo e la sua dimora. Ma essi si  beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sua parole e schernirono i  suoi profeti… (2Cr 36,15-16).
  Traditori  e assassini del Giusto: così Stefano conclude la sua rivelazione, come aveva fatto Pietro  nel discorso del capitolo terzo: Voi consegnaste e rinnegaste Gesù… Voi  uccideste l’Iniziatore della vita (3,13-15).
  Ma tutto ciò  non può essere di ostacolo alla tenerezza di Dio per il popolo che egli ama. La  sua Parola, che risuona a partire da Gen 1,3, non ritorna mai a lui senza  effetto, senza aver compiuto ciò che egli voleva e senza aver portato a termine  la missione che le era stata affidata (cf. Is 55,11). Dopo che è stato svelato  l’abisso del peccato d’Israele, viene rivelato il sublime destino dei figli  della promessa, il pieno compimento della loro missione di testimoni  dell’elezione e della grazia.
  La reazione  dei giudici non si fa attendere. Sono esasperati e digrignano i denti, due  espressioni identiche a quelle utilizzate nel Salmo 35,16, preghiera di un  giusto perseguitato di fronte ai testimoni che depongono il falso contro di  lui. Si attende il verdetto del sinedrio. Risuona invece la straordinaria  parola profetica di Stefano a proposito del compimento di Israele. Stefano  appare pieno di Spirito Santo (cf. 6,3.5.10). La sua parola si fonda su  una visione. Egli vive una sorta di trasfigurazione (videro il suo  volto come quello di un angelo: 6,15; cf. Lc 9,29): Stefano, pieno di  Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che  stava alla sua destra e disse: Ecco, io contemplo i cieli aperti  e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio (7,56-57).
  Stefano  muore come testimone della grazia, identificandosi in maniera suggestiva con il  Figlio dell’uomo. Il vangelo di Luca ci aveva fatto vedere che il perdono del  Padre, pronunciato da Gesù crocifisso, faceva sbocciare le primizie di una  umanità nuova (Lc 23,34.43.47-48). Allo stesso modo, tra coloro che assistono  all’esecuzione di Stefano c’è un ragazzo chiamato Saulo (7,58; 8,1), destinato  a diventare oggetto di elezione per sostenere il Nome di Gesù al  cospetto delle nazioni, dei re e dei figli d’Israele (cf 9,15). 
  Stefano  invoca il suo Signore riprendendo le parole di Gesù morente: Signore Gesù,  ricevi il mio spirito (Lc 23,46). In ginocchio, come in agonia (cf. Lc  22,41), Stefano grida a gran voce (cf. Lc 23,46) le sue ultime parole di  grazia: Signore, non imputare loro questo peccato (cf. Lc 23,34). 
  A partire  dall’assassinio di Stefano niente sarà più come prima a Gerusalemme. Avallando  questa lapidazione, il sommo sacerdote e i capi del popolo hanno dichiarato  guerra ai discepoli di Gesù. Questa guerra durerà fino all’anno 70 quando la  città santa sarà distrutta e l’aristocrazia sadducea scomparirà dalla scena.  Dopo questa tempesta si arriverà così alla separazione tra il giudaismo e la Chiesa, alla fine del I  secolo. 
Capitolo 8 
  Il capitolo  8 presenta una duplice anticipazione del compimento della promessa, con riferimento  al popolo e al luogo. Con la reintegrazione dei samaritani si avvia quella restaurazione della casa di Davide di cui parla il profeta Amos  (9,11-12; cf. At 15,16). Poi, con il battesimo dell’eunuco e il suo  ritorno presso la regina degli etiopi, viene annunciata la disseminazione dei  veri adoratori per tutte le strade del mondo. Da un lato, assistiamo alla  riunificazione delle tribù del Nord con quelle del Sud, separate a partire  dallo scisma che ha avuto luogo a Sichem nel 931 (cf. 1Re 12) e che si è  rinnovato in occasione della ricostruzione del Tempio sotto la dominazione  persiana, nel 520 e nel 485 (cf. Esd 4). Dall’altro, il "luogo" della  presenza di Dio abbandona per così dire la città di Gerusalemme prendendo la  strada della diaspora (cf. Ez 11,22-23): l’eunuco ritorna gioioso alle sua  responsabilità quotidiane in Etiopia. 
  Il capitolo  9 narra la conversione di Saulo, figura di Israele che raggiunge il proprio  compimento del popolo che si fa testimone della grazia di Dio di fronte alle  nazioni pagane, in tutti i luoghi in cui la Spirito Santo gli  ordina di portare la   Parola. La discendenza di Abramo diventa quindi innumerevole  perché si estende a tutti i popoli della terra. I luoghi di adorazione si  moltiplicano lungo le strade del mondo (cf. Es 20,24) nella misura in cui  queste sono percorse da coloro che annunciano la buona notizia. 
  I capitoli  10-11 presentano un nuovo allargamento del campo d’azione della Parola.  Con Pietro, la Parola  raggiunge i confini del territorio di Israele. Il centurione, che manda  a chiamare Pietro, scopre l’azione vivificatrice di Dio e riceve lo Spirito  Santo con tutti quelli della sua casa. Ciò che la conversione di Saulo faceva  presagire, comincia a realizzarsi per un intervento divino che chiama Pietro a  una trasformazione spirituale di incalcolabile portata. 
  Adesso la Parola non è più riservata  ai Dodici, come era avvenuto agli inizi. La strada è stata aperta da Stefano,  uno dei Sette, e abbiamo visto che anche Filippo si dedica  all’evangelizzazione.. Il racconto di Luca smette di essere incentrato su  Gerusalemme e sul Tempio. La   Parola è in cammino, e incontra ciascuno nel luogo in cui  vive: i samaritani nella loro città, l’eunuco sul suo carro, Saulo nella sua  spedizione punitiva, i soldati nella sede che è stata loro assegnata. Si sta  compiendo un passaggio, si sta varcando una frontiera. Toccherà a Pietro, nella  città imperiale di Cesarea, il compito di indicare al centurione pagano  "il Giudice dei vivi e dei morti", Gesù, che raduna gli uomini di  tutte le culture e di tutti i tempi nella sua Chiesa e dona loro la vita  eterna. 
  1 Saulo era fra coloro che approvarono la sua uccisione. In quel  giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme e  tutti, ad eccezione degli apostoli, furono dispersi nelle regioni della Giudea  e della Samaria. 2 Persone pie seppellirono Stefano e fecero un  grande lutto per lui. 3 Saulo intanto infuriava contro la Chiesa ed entrando nelle  case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione.
  4 Quelli però che erano stati dispersi andavano per il paese e  diffondevano la parola di Dio.
  Fino a questo punto, la persecuzione aveva riguardato soltanto gli  apostoli e Stefano. Ora invece colpisce l’intera comunità di Gerusalemme. Con  la fuga dei credenti da Gerusalemme, anche il Vangelo prende la via della diaspora.  Questo termine, che solitamente si traduce con dispersione, significa  più esattamente disseminazione, cioè semina. 
  Filippo  in Samaria 
  5 Filippo, sceso in una città della Samaria, cominciò a predicare loro  il Cristo. 6 E le folle prestavano ascolto unanimi alle parole di  Filippo sentendolo parlare e vedendo i miracoli che egli compiva. 7 Da  molti indemoniati uscivano spiriti immondi, emettendo alte grida e molti  paralitici e storpi furono risanati. 8 E vi fu grande gioia in  quella città.
  Simone  il mago 
  9 V'era da tempo in città un tale di nome Simone, dedito alla magia,  il quale mandava in visibilio la popolazione di Samaria, spacciandosi per un  gran personaggio. 10 A  lui aderivano tutti, piccoli e grandi, esclamando: «Questi è la potenza di Dio,  quella che è chiamata Grande». 11 Gli davano ascolto, perché per  molto tempo li aveva fatti strabiliare con le sue magie. 12 Ma  quando cominciarono a credere a Filippo, che recava la buona novella del regno  di Dio e del nome di Gesù Cristo, uomini e donne si facevano battezzare. 13  Anche Simone credette, fu battezzato e non si staccava più da Filippo.  Era fuori di sé nel vedere i segni e i grandi prodigi che avvenivano.
  14 Frattanto gli apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samaria aveva accolto la  parola di Dio e vi inviarono Pietro e Giovanni.
  15 Essi discesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito  Santo; 16 non era infatti ancora sceso sopra nessuno di loro, ma  erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. 17 Allora  imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo.
  18 Simone, vedendo che lo Spirito veniva conferito con l'imposizione  delle mani degli apostoli, offrì loro del denaro 19 dicendo: «Date  anche a me questo potere perché a chiunque io imponga le mani, egli riceva lo  Spirito Santo». 20 Ma Pietro gli rispose: «Il tuo denaro vada con te  in perdizione, perché hai osato pensare di acquistare con denaro il dono di  Dio. 21 Non v'è parte né sorte alcuna per te in questa cosa, perché  il tuo cuore non è retto davanti a Dio. 22 Pentiti dunque di questa  tua iniquità e prega il Signore che ti sia perdonato questo pensiero. 23 Ti  vedo infatti chiuso in fiele amaro e in lacci d'iniquità ». 24 Rispose  Simone: «Pregate voi per me il Signore, perché non mi accada nulla di ciò che  avete detto». 25 Essi poi, dopo aver testimoniato e annunziato la  parola di Dio, ritornavano a Gerusalemme ed evangelizzavano molti villaggi  della Samaria.
  Filippo  riprende la missione dei Sette dopo la morte di Stefano. In questo modo si  avvia un movimento che porta la gente ad abbandonare le pratiche magiche e  alienanti alle quali era attaccata e a scegliere Filippo e il Vangelo da lui  proclamato. Simone esercitava la magia, compiendo gesti spettacolari che  mandavano in visibilio i suoi spettatori. Agli artifici della magia, Filippo  contrappone l'annuncio di Gesù e una serie di segni di potenza, liberando  indemoniati e guarendo zoppi e paralitici, come faceva Gesù secondo il Luca  6,18. Il contrasto tra i due è evidente. Tutti possono constatare nella persona  di Filippo la presenza operante del Risorto. 
  Ciò che Luca  vuol mettere in luce è il senso della conversione dei samaritani: bisogna  lasciare le false sicurezze, le motivazioni ingannevoli, le autorità fasulle, i  poteri menzogneri, le salvezze illusorie. L’azione di Filippo ottiene  un’autentica liberazione degli spiriti, un serio rinnovamento dei costumi e una  vera terapia dei corpi (vv. 9-12). Nella seconda parte dell’episodio, il dono  dello Spirito santo (vv. 14-17) e il discernimento operato dagli apostoli  Pietro e Giovanni (vv. 18-25) accresceranno la radicalità della scelta: non  solo bisogna rifiutare ciò che è falso e illusorio, ma anche vivere la realtà  della grazia. 
  La Samaria ha accolto la Parola da un evangelista  proveniente da Gerusalemme! L’incredibile notizia agli apostoli a Gerusalemme.  Essi ricordano senza dubbio l’accoglienza rifiutata a Gesù: "Essi (i  samaritani) non lo ricevettero, perché egli andava a Gerusalemme" (Lc  9,52-53). La comunità invia due delegati a verificare la meravigliosa  realizzazione della promessa del Risorto (At 1,8). Gli apostoli non sono dunque  i promotori di questa missione; arrivano solo in un secondo tempo per fare  opera di discernimento, di autenticazione. 
  Giunti sul  posto, Pietro e Giovanni pregano il Signore di portare a termine ciò che ha  iniziato e di far discendere il suo Santo Spirito su questi credenti. Dio  concede anche alla Samaria l’accesso alla grazia dei tempi nuovi; i samaritani  vengono introdotti nella comunità cristiana già radunata attorno agli apostoli.  Il legame tra la preghiera e il dono dello Spirito Santo era già stato  evidenziato da Gesù in Lc 11,1-3; in At 1,12—2,4, l’effusione dello Spirito era  giunta come risposta alla preghiera dei discepoli riuniti. Ricordiamo che gli  apostoli avevano da Gesù una missione nei confronti delle tribù di Israele:  dovevano portare loro la grazia del compimento con il "giudizio" del  perdono di Dio (cf. Lc 22,30). Il gesto a cui ricorrono Pietro e Giovanni è  l’imposizione delle mani, un gesto che nella maggior parte dei casi, come  abbiamo già visto, manifesta una cooptazione (cf. At 6,6), esprime  un’appartenenza. 
  Tutto un  passato di guerre, di odio e di incomprensione tra giudei e samaritani viene in  tal modo assunto dalla misericordia di Dio, come preludio alla riunificazione  della casa di Davide intorno al suo discendente: il Messia Gesù. Lo scisma che  si era verificato dopo la morte di Salomone (931 a.C.; cf. 1Re 12),  determinando la separazione dei due regni, era rimasto nella memoria di tutti  come una ferita (2Re 3,3; 10,29.31; ecc.). Ma Geremia aveva fatto sperare una  riconciliazione (Ger 3,18), e Ezechiele, nella sua visione delle ossa aride,  aveva annunciato un’alleanza di pace che avrebbe ripristinato l’unità  del popolo (Ez 37, 15-28). 
  Lo scisma  però si era ulteriormente approfondito dopo il ritorno dall’esilio: i  samaritani, desiderosi di dare il loro contributo alla ricostruzione del Tempio  di Gerusalemme, si era visti opporre da Zorobabele un netto rifiuto (Esd  4,1-23). Un tempio rivale era stato costruito sul monte Garizim. Giovanni  Ircano l’aveva distrutto nel 128   a.C., ma in seguito il luogo era stato restituito al  culto (cf. Gv 4,20). 
  I samaritani  attendevano un Messia chiamato Ta’eb (che significa Restauratore o Rinnovatore), che doveva appartenere alla casa di Giuseppe: si  tratta di colui che i samaritani, chiamati dalla donna a vedere Gesù,  definiscono "il salvatore del mondo" (Gv 4,42). La visita degli  apostoli Pietro e Giovanni in Samaria e l’effusione dello Spirito Santo  mostrano che è giunta l’ora della purificazione: i veri adoratori possono  "adorare il Padre in Spirito e Verità" (Gv 4,23). Luca descrive il  compimento di ciò che Gesù aveva annunciato nel Vangelo di Giovanni, parlando  dei campi della Samaria "che già biondeggiano per la mietitura" (Gv  4,35).
  Questa  riunificazione dei samaritani con il resto del popolo di Dio era  indispensabile. Il nuovo Israele, la   Chiesa, non poteva essere inviato a tutti i popoli del mondo  senza prima essere riunificato; altrimenti non avrebbe potuto essere testimone  e artefice di riconciliazione per gli altri popoli. Gli apostoli sono venuto da  Gerusalemme per portare ai samaritani lo Spirito che unifica. L’imposizione  delle significa il riconoscimento della comunione nella medesima missione. E’  lo Spirito, infatti, che rende testimoni e invia in missione. 
  L’ex mago  Simone, immaginando che Pietro e Giovanni abbiano potere sullo Spirito Santo  propone loro un affare: darà loro una somma di denaro se gli trasmetteranno  questo potere. Quest’uomo rivela così di essere rimasto legato alla sua vecchia  schiavitù. Schiavo dell’"ingiusta ricchezza" (cf. Lc 16,13), rimane  prigioniero dei suoi idoli e non ha ancora fatto una vera scelta per Dio. Dal  momento che continua a pensare in termini di potere e di denaro, non ha aderito  secondo verità alla Parola. La grazia non può diventare una transazione  commerciale: l’oro e l’argento, segni dell’idolatria (cf. Os 2,10; 8,4; Ez  7,19), sono incompatibili con la gratuità di Dio. Nella comunità cristiana è  chiesto a ciascuno di vivere come persona Che è stata graziata, rinunciando ai  propri diritti e ai propri poteri. 
  La risposta  di Pietro a Simone (vv. 20-23) non deve essere considerata come una condanna  senza appello, ma come una "scomunica" per ottenere la sua  conversione. 
  Filippo  battezza un ministro etiope
  26 Un angelo del Signore parlò intanto a Filippo: «Alzati, e va’ verso  il mezzogiorno, sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza; essa è  deserta». 27 Egli si alzò e si mise in cammino, quand'ecco un  Etiope, un eunuco, funzionario di Candàce, regina di Etiopia, sovrintendente a  tutti i suoi tesori, venuto per il culto a Gerusalemme, 28 se ne  ritornava, seduto sul suo carro da viaggio, leggendo il profeta Isaia. 29 Disse  allora lo Spirito a Filippo: «Va’ avanti, e raggiungi quel carro». 30 Filippo  corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello  che stai leggendo?». 31 Quegli rispose: «E come lo potrei, se  nessuno mi istruisce?». E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui. 32  Il passo della Scrittura che stava leggendo era questo:
  Come una pecora fu condotto al macello 
  e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, 
  così egli non apre la sua bocca. 
  33 Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, 
  ma la sua posterità chi potrà mai descriverla? 
  Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita. 
  34 E rivoltosi a Filippo l'eunuco disse: «Ti prego, di quale persona il  profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?». 35 Filippo,  prendendo a parlare e partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la  buona novella di Gesù. 36 Proseguendo lungo la strada, giunsero a un  luogo dove c'era acqua e l'eunuco disse: «Ecco qui c'è acqua; che cosa mi  impedisce di essere battezzato?». 37 . 38 Fece fermare il  carro e discesero tutti e due nell'acqua, Filippo e l'eunuco, ed egli lo  battezzò. 39 Quando furono usciti dall'acqua, lo Spirito del Signore  rapì Filippo e l'eunuco non lo vide più e proseguì pieno di gioia il suo  cammino. 40 Quanto a Filippo, si trovò ad Azoto e, proseguendo,  predicava il vangelo a tutte le città, finché giunse a Cesarèa.
  Dopo una  puntata verso nord attraverso la   Samaria, la   Parola prende la strada del sud, quella che conduce in Egitto  passando per Gaza. Con l battesimo dell’eunuco e con il suo ritorno presso la  regina degli etiopi, ha inizio la disseminazione dei testimoni sulle strade del  mondo. Questa volta non si tratta più di una città e di un popolo che accolgono  la Parola. Si  tratta di un africano, che occupa un posto importante alla corte d’Etiopia.  Forse si tratta più precisamente di un nubiano. L’"Etiopia" dei testi  biblici è infatti la regione che oggi viene chiamata Nubia e che corrisponde  alla parte settentrionale del Sudan (in ebraico Kush). In epoca romana  esisteva in quel territorio il regno di Meroe, in cui sembra che le regine  madri, che portavano il titolo di "Candace" (Kandake in  meroitico), svolgessero un ruolo di prim’ordine. Lo storico greco Erodoto  (Storie II,22.3) spiega il termine etiope facendolo derivare da aithein = bruciare, e ops = volto: volto abbronzato. Ma l’etimologia del termine  è attualmente controversa. 
  L’etiope di  cui parla Luca è indicato come un "eunuco". I re orientali avevano  senza dubbio l’abitudine di affidare la sorveglianza del loro harem a guardiani  precedentemente sottoposti a castrazione (cf. Est 2,3). Ma il termine nella  Bibbia (in ebraico saris) ha un significato più ampio; il più delle  volte significa un uomo di fiducia del re (Gen 39,1; 1Re 22,9; 2Re 8,6; Ger 52,25…)  o un ufficiale superiore (2Re 20,18; 24,12-15: Ger 29,2; 34,19…). Forse sarebbe  opportuno tradurlo con cancelliere o maggiordomo.
  Questo  pellegrino della Nubia richiama tutta la storia dei kushiti nella Bibbia. E’  soprattutto Isaia a parlarci di questo popolo. Nel capitolo 11 del suo libro  Kush e l’"Egitto" sono nominati come luoghi in cui Israele è stato  disperso (v. 11). Nei capitoli 18 e 19 gli oracoli sulle nazioni pagane  associano l’Etiopia e l’Egitto nella speranza di una conversione. In particolare,  dell’Etiopia si dice: "In quel tempo saranno portate offerte a Dio Sabaot  da un popolo alto e abbronzato, da un popolo temuto ora e sempre, da un popolo  potente e vittorioso, il cui paese è solcato da fiumi, saranno portate nel  luogo dove è invocato il nome di Dio, sul monte Sion" (Is 18,7). 
  Il capitolo  45 di Isaia annuncia la conversione delle nazioni pagane e in particolare degli  egiziani e degli kushiti: "Così dice il Signore: ‘Le ricchezze d’Egitto e  le merci dell’Etiopia e i Sabei dall’alta statura passeranno a te, saranno  tuoi; ti seguiranno in catene, si prostreranno davanti a te, ti diranno  supplicanti: Solo in te è Dio; non ce n’è altri; non esistono altri dèi"  (Is 45,14). 
  Anche nel  libro del profeta Sofonia, preannunciando la conversione dei popoli pagani, si  dice: "Da oltre i fiumi di Etiopia i miei supplicanti mi porteranno  offerte" (Sof 3,10).
  In Isaia  66,18-20 e in Sofonia 3,9-10 il compimento di questa speranza era stato  descritto come un raduno delle nazioni, convocate da tutte le parti del mondo  per far loro conoscere la gloria del vero Dio. Un’eco di tale visione si trova  anche nei Salmi: "Verranno i grandi dall’Egitto. L’Etiopia tenderà le mani  a Dio" (Sal 68,32); " Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi  conoscono; ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati" (Sal  87,4). 
  Il racconto  del battesimo di questo pellegrino nubiano è costruito con precisione. La  proclamazione di Filippo si colloca sulla linea della predicazione profetica:  per Luca e per la Chiesa  delle origini il testo che getta luce su ogni vita è quello del "Servo  sofferente", che è appunto il testo che sta leggendo il maggiordomo  durante il viaggio sul suo carro. L’iniziativa è dell’angelo del Signore (v.  26), poi segue l’opera di Filippo, mosso dallo Spirito che lo fa parlare (v.  29) e, infine, l’iniziativa dell’eunuco che chiede di essere battezzato. Al  centro di tutto, si colloca il testo di Isaia, cioè, la parola di Dio. Notiamo  però che la Scrittura  rimane sigillata e incomprensibile se il testimone del Risorto non ne manifesta  la realizzazione nel Cristo e non apre a ciascuno la possibilità di essere  associato alla sua morte e risurrezione per mezzo del battesimo. 
  Il racconto  si conclude a Cesarea. Ci troviamo di fronte a una sintesi dell’itinerario degli  Atti: da Gerusalemme alla città di Cesare. Si intravede subito la portata delle  due anticipazioni che si sono realizzate. A Samaria, numerosi israeliti, di  sangue misto e scismatici, sono stati inseriti nel popolo cristiano. Sulla  strada che conduce in Etiopia un giudeo della diaspora, venuto dai confini del  mondo, è stato ammesso nella Chiesa. Popoli fratelli, che vivevano  nell’inimicizia, hanno trovato la loro solidarietà. Tutta la terra è raggiunta  dalla presenza benefica di Dio, che si lascia incontrare dal credente che  accoglie la Parola  nella Scrittura e sulla bocca dei testimoni. Tale è la fecondità della Parola  di grazia ormai in cammino. Questa grazia proromperà nel cuore di Saulo. Presto  egli sarà indotto a fraternizzare prima con i giudei e poi con ogni uomo,  andando fino a Roma, la capitale dell’impero. 
Capitolo 9 
  La conversione di Saulo, fariseo e discepolo di Gamaliele, occupa un posto importante negli  Atti. Per tre volte (9,3-19a; 22,6-16; 26,12-18) Luca racconta come quest’uomo  è stato capovolto e costituito testimone della buona notizia della  grazia di Dio. Il termine conversione non è evidentemente univoco: per  un pagano si tratta del passaggio dall’idolatria al riconoscimento del Dio  unico; per un giudeo (come per un cristiano) si tratta di un ritorno a  Dio (= teshûbâh, dal verbo shûb = ritornare), del pentimento dopo  il peccato e della decisione di collocarsi di nuovo nel rapporto di alleanza  dell’amore personale di Dio. Questo racconto degli Atti delinea nello stesso  tempo una vocazione e un ritorno.
  La  vocazione di Saulo 
  1 Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i  discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote 2 e gli chiese  lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in  catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che  avesse trovati. 3 E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per  avvicinarsi a Damasco, all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo 4 e  cadendo a terra udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi  perseguiti?». 5 Rispose: «Chi sei, o Signore?». E la voce: «Io sono  Gesù, che tu perseguiti! 6 Orsù, alzati ed entra nella città e ti  sarà detto ciò che devi fare». 7 Gli uomini che facevano il cammino  con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. 8  Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così,  guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, 9 dove rimase tre  giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda.
  10 Ora c'era a Damasco un discepolo di nome Anania e il Signore in una  visione gli disse: «Anania!». Rispose: «Eccomi, Signore!». 11 E il  Signore a lui: «Su, va’ sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di  Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco sta pregando, 12 e  ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire e imporgli le mani perché  ricuperi la vista». 13 Rispose Anania: «Signore, riguardo a  quest'uomo ho udito da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli in  Gerusalemme. 14 Inoltre ha l'autorizzazione dai sommi sacerdoti di  arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome». 15 Ma il Signore  disse: «Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome  dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; 16 e io gli mostrerò  quanto dovrà soffrire per il mio nome». 17 Allora Anania andò, entrò  nella casa, gli impose le mani e disse: «Saulo, fratello mio, mi ha mandato a  te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu  riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo». 18 E  improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista;  fu subito battezzato, 19 poi prese cibo e le forze gli ritornarono.
Luca ci ha  già presentato Saulo: custodiva i mantelli di coloro che lapidavano Stefano (7,58)  e approvava la sua lapidazione (8,1). Si era fatto conoscere per il suo zelo  nello smantellare la Chiesa  di Gerusalemme eseguendo perquisizioni e arresti contro i credenti. Lo troviamo  in questo capitolo mentre si prepara a partire per Damasco, una città situata 242 chilometri a  nord di Gerusalemme. La spedizione a Damasco ha lo scopo di rintracciare coloro  che erano sfuggiti alle prime persecuzioni, quei cristiani che si diffondevano  come una peste (24,5) al di fuori di Gerusalemme. Mentre Paolo stava  avvicinandosi a Damasco vede una luce che scende dal cielo. Il persecutore si  sente chiamare con il suo nome: "Saulo, Saulo, perché mi  perseguiti?". Saulo chiede: "Chi sei, Signore?". La risposta è  chiara: "Io sono Gesù che tu perseguiti". Non si perseguita un morto.  Gesù è vivo, e quando si respingono i suoi inviati, si respinge lui (cf. Lc  10,18). Egli è dunque presente in coloro che Saulo sta perseguitando. Gesù  inoltre si presenta con l’indicativo Io sono, un’espressione  caratteristica che rimanda a JHWH (Es 3,14).
  Saulo viene  rialzato da terra (egerthe); ha gli occhi aperti, ma non vede nulla.  Questa situazione richiama l’indurimento d’Israele così come viene descritto  nell’episodio della vocazione del profeta Isaia: "Guardando guarderete, e  non vedrete" (Is 6,9). Non dobbiamo considerare questa cecità come un  castigo di Dio, che punisce in tal modo la malvagità del persecutore, ma come  la prima tappa dell’elezione e di una grazia in cammino. Saulo infatti non  potrebbe accogliere la guarigione e il perdono di Dio se prima non gli fosse  rivelato che è cieco e ribelle. Questa rivelazione è un dono gratuito e il  punto di partenza della salvezza. 
  Saulo rimane  per tre giorni senza vedere, senza mangiare e senza bere. Forse si tratta di  un’allusione ai tre giorni del mistero di morte e di risurrezione di Gesù: ogni  testimone di Cristo deve passare necessariamente attraverso questo mistero. 
  Nella città  di Damasco c’era un discepolo di Gesù di nome Anania. Il nome Anania significa  "JHWH fa grazia" (?ânan–Yah). La grazia di JHWH a favore del  persecutore passa infatti attraverso il discepolo perseguitato. Nel contesto di  una visione, a quest’uomo viene affidata la missione di andare a cercare Saulo;  e Saulo, in una visione parallela, viene informato della venuta di Anania. Poco  più avanti, nel capitolo 10, troveremo un racconto di fondamentale importanza  in cui vengono descritte due visioni parallele: si tratta dell’incontro  altrettanto importante tra Pietro e il pagano Cornelio. Anania è chiamato a  dare prova di un certo coraggio: gli viene chiesto di affrontare il  persecutore. Pietro sarà chiamato ad assumere un comportamento che è in  contrasto con tradizioni secolari, poste a salvaguardia della fede d’Israele.  La missione di Anania presso Saulo in preghiera consiste in primo luogo nel  restituirgli la vista con l’imposizione delle mani. 
  L’uomo di  Dio esprime la sua riluttanza, ricordando il passato di Saulo e le sue  iniziative contro "i santi di Gerusalemme" che invocano il nome del  Signore (vv. 13.14). L’obiezione è un elemento classico delle teofanie  dell’invio in missione: Mosé (Es 3,13; 4,1) o Isaia (Is 6,4) sono riluttanti  perché sanno di dovere affrontare un popolo ribelle; in parecchi altri casi  vengono avanzati dei dubbi sulle capacità che si presumono richieste  all’inviato (Gen 15,6; Es 4,10; Ger 1,6; cf. la reazione di Zaccaria e di Maria  in Lc 1,18.34). Come risposta a Anania viene fornito il necessario chiarimento:  "Costui è per me un oggetto di elezione". Il verbo al presente  sottolinea l’iniziativa divina di questa scelta gratuita: lo è già, senza aver  fatto nulla per meritarlo. Anzi, il fatto di essere stato scelto per rendere  testimonianza, per sostenere il Nome (bastasai to onoma mou),  appare come un carico da mettersi sulle spalle. Saulo condividerà la sofferenza  di colui che, per primo, porta la luce al popolo ebraico e alle nazioni: il  Cristo (26,23; cf. Lc 2,32). 
  Anania  impone dunque le mani a Saulo e gli manifesta la sua elezione da parte del  Signore che gli è apparso lungo la via: Gesù vuole aprirgli gli occhi e  riempirlo di Spirito Santo per farne un servo testimone. Accogliendo la Parola di grazia che gli  viene trasmessa da Anania, Saulo diventa capace di vedere. Con il battesimo  accede alla grazia dei tempi nuovi ed entra a far parte della Chiesa. Gli  cadono dagli occhi delle squame, come avvenne al vecchio Tobi (Tb 3,17; 11,12),  la cui guarigione preannuncia la restaurazione di Gerusalemme e la salvezza  delle nazioni (Tb 14,5-7). La cecità di Saulo non è la privazione fisica della  vista, ma l’ostacolo interiore che gli impedisce di accedere alla vera  conoscenza di Cristo. 
  Nel cibo  preso da Saulo si può vedere un’allusione all’eucaristia. Il testo non contiene  la parola, ma ne suggerisce il senso. Gli altri due brani degli Atti in cui si  parla di cibo si inseriscono rispettivamente in un contesto di frazione del  pane (2,46; cf. 20,7.11) e di azione di grazie (27,33.34.36). 
  Predicazione  di Saulo a Damasco 
  Rimase  alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco, 20 e subito  nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio. 21 E tutti quelli che  lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: «Ma costui non è quel tale che a  Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua  precisamente per condurli in catene dai sommi sacerdoti?». 22 Saulo  frattanto si rinfrancava sempre più e confondeva i Giudei residenti a Damasco,  dimostrando che Gesù è il Cristo. 23 Trascorsero così parecchi  giorni e i Giudei fecero un complotto per ucciderlo; 24 ma i loro  piani vennero a conoscenza di Saulo. Essi facevano la guardia anche alle porte  della città di giorno e di notte per sopprimerlo; 25 ma i suoi  discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in  una cesta. 
  Saulo  diventa un segno di salvezza all’interno della comunità di Damasco. Lo  sottolinea l’espressione "rimase (letteralmente: avvenne, egeneto)  alcuni giorni con i discepoli". Subito dopo lo vediamo parlare nelle  sinagoghe. I vv.19b-30 prefigurano il cammino futuro di Saulo: dapprima egli si  rivolge ai fratelli giudei di lingua aramaica; poi, a Gerusalemme, si incontra  con i giudei di lingua greca.
  Le  riflessioni degli ascoltatori di Saulo fanno eco al dubbio avanzato da Anania  (cf. v. 21). Ma Saulo non si perde d’animo e acquista sempre più una forza interiore:  il verbo usato da Luca indica la potenza che Dio mette in lui(endynamoun:  cf. Ef 6,10; Fil 4,13; 1Tim 1,12; 2Tim 2,1; 4,17), come in Abramo, modello del  credente (Rm 4,20). Invece di scoraggiarlo. L’opposizione incontrata tra i suoi  fratelli gli fa prendere maggiormente coscienza della grazia che gli è stata  fatta, perché soltanto questa ha potuto trasformarlo interiormente (cf. 1Cor  15,10). 
  Il racconto  della testimonianza resa a Damasco si conclude con un complotto per far  perire Saulo. A questo punto la conversione di Saulo diventa irreversibile:  il persecutore è messo nel numero dei perseguitati, come Gesù. I fratelli  cristiani lo fanno fuggire dalle mani dei suoi nemici giudei, che avevano fatto  sorvegliare le porte della città. Paolo conferma questa notizia in 2Cor  11,32-33. Ciò dev’essere avvenuto prima della morte del re nabateo Areta, cioè  prima del 39/40 d.C. 
  Visita  di Saulo a Gerusalemme 
  26 Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti  avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo. 27 Allora  Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante  il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco  aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. 28 Così egli poté  stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome  del Signore 29 e parlava e discuteva con gli Ebrei di lingua greca;  ma questi tentarono di ucciderlo. 30 Venutolo però a sapere i  fratelli, lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.
  Gli atti  mostrano Saulo che cerca risolutamente di attaccarsi al gruppo dei  discepoli riuniti intorno agli apostoli; ma i suoi tentativi risultano vani a  causa del suo passato. Interviene allora Barnaba, il "figlio della  consolazione" (4,36-37). Egli, "pieno di Spirito Santo e di  fede" (11,24), riconosce la grazia che Saulo sta vivendo. Lo conduce  quindi dagli apostoli, facendosi garante dell’esperienza che Saulo ha fatto  sulla via di Damasco e della trasformazione che quella esperienza ha operato  nella sua vita. Stando con loro, impara a riconoscere lo Spirito che li pervade  con la sua potenza e si mette a parlare dello Spirito Santo ricevuto a Damasco  con la stessa franchezza di cui gli apostoli avevano dato prova a Gerusalemme. Saulo  manterrà questo atteggiamento fino alla fine della sua vita. 
  Che cos’è  precisamente questa franchezza (in greco: parrhesia, da pan-rhesis = dire tutto)? E’ sicuramente molto di più della semplice libertà di parola di cui si vantavano gli ateniesi. Nel testo degli Atti questa franchezza nel  proferire la Parola,  questa libertà di comunicare la   Parola è riconosciuta solo agli apostoli (2,29; 4,13.29.31),  a Paolo (9,27-28; 13,46; ecc.), a Barnaba (13,46; 14,3) e ad Apollo (18,26). Si  tratta di una liberazione interiore che permette di annunciare la Parola, nel nome del  Signore Gesù, senza mescolarvi nient’altro, senza aggiungere né togliere nulla:  la Parola  nuda, in tutta la sua forza, radicata nel passato d’Israele e nello stesso  tempo capace di raggiungere l’oggi di ogni uomo, in qualsiasi luogo, con la  potenza dello Spirito Santo. Sotto il segno di questa franchezza, non  sono più Pietro o Paolo, Barnaba o Apollo a parlare: è il Signore che si  esprime con potenza. Non si tratta di una parola umana, ma della Parola di Dio  che è alleanza con l’uomo e lo fa vivere per sempre. Saulo riceve questa  libertà: è la grazia della sua vocazione che l’accompagna in tutto il suo  cammino, come egli scrive nelle sue lettere (cf. 2Cor 3,12; Ef 3,12; 6,19-20;  1Ts 2,2). 
  A Gerusalemme  Saulo frequenta gli ellenisti, essendo anch’egli di lingua greca. Le  appassionate discussioni rabbiniche con le stesse persone che avevano ucciso  Stefano lo conducono presto allo scontro frontale. I giudei ellenisti  riconoscono in lui un altro Stefano e cercano più volte di farlo morire. Allora  i fratelli cristiani lo fanno fuggire a Cesarea e lo rimandano a Tarso, la sua  città natale, dove egli rimane disponibile per la missione (cf. 11,25). Secondo  la sua Lettera ai Galati lavorerà come missionario in Siria e Cilicia, forse  per una decina di anni (cf. Gal 1,21; 2,1), prima di salire di nuovo a  Gerusalemme. 
  Periodo  di tranquillità 
  31 La Chiesa era dunque  in pace per tutta la Giudea,  la Galilea e la Samaria; essa cresceva e  camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo.
  L’episodio  si chiude con un ritornello della crescita. La Chiesa va: la fecondità  della Parola si diffonde in tutta la   Giudea, la   Galilea e la   Samaria. L’iniziativa è dello Spirito Santo che diffonde la sua  opera di consolazione (paraklesis). La pace che la comunità  riceve dal suo Signore non è l’assenza di persecuzioni, ma è la grazia di vivere  insieme nella comunità. Difatti, soltanto due versetti più sopra si diceva  che gli ellenisti complottavano per far morire Saulo. La pace che viene evocata  qui è quella che la nascita di Gesù ha portato sulla terra come una  riconciliazione (Lc 2,14) e quella che Gesù dona a coloro che non rifiutano le  sue condizioni di pace (cf. Lc 19,42). 
  In risposta  alla Parola di Dio annunciata con potenza, la Chiesa va avanti nel timore, cioè con la  fede rinnovata nel Dio d’Israele, con una memoria più viva dei benefici  dell’alleanza e con una visione più chiara degli avvenimenti di salvezza. E si  moltiplica – segno della benedizione di Dio (At 6,2; 12,24) – secondo il  comandamento delle origini: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la  terra e soggiogatela" (Gen 1,28). Lo Spirito Santo, che ha sempre  preceduto i testimoni, preparando la strada ai messaggeri della Parola di grazia  e spingendosi sempre più lontano, sta preparando una nuova tappa: apre la porta  della salvezza ai popoli di tutto il mondo (At 10). 
  Pietro  guarisce un paralitico a Lidda 
  32 E avvenne che mentre Pietro andava a far visita a tutti, si recò  anche dai fedeli che dimoravano a Lidda. 33 Qui trovò un uomo di  nome Enea, che da otto anni giaceva su un lettuccio ed era paralitico. 34 Pietro  gli disse: «Enea, Gesù Cristo ti guarisce; alzati e rifatti il letto». E subito  si alzò. 35 Lo videro tutti gli abitanti di Lidda e del Saròn e si  convertirono al Signore.
  Pietro  risuscita una donna a Giaffa 
  36 A Giaffa  c'era una discepola chiamata Tabità, nome che significa «Gazzella», la quale  abbondava in opere buone e faceva molte elemosine. 37 Proprio in  quei giorni si ammalò e morì. La lavarono e la deposero in una stanza al piano  superiore. 38 E poiché Lidda era vicina a Giaffa i discepoli, udito  che Pietro si trovava là, mandarono due uomini ad invitarlo: «Vieni subito da  noi!». 39 E Pietro subito andò con loro. Appena arrivato lo  condussero al piano superiore e gli si fecero incontro tutte le vedove in  pianto che gli mostravano le tuniche e i mantelli che Gazzella confezionava  quando era fra loro. 40 Pietro fece uscire tutti e si inginocchiò a  pregare; poi rivolto alla salma disse: «Tabità, alzati!». Ed essa aprì gli  occhi, vide Pietro e si mise a sedere. 41 Egli le diede la mano e la  fece alzare, poi chiamò i credenti e le vedove, e la presentò loro viva.
  42 La cosa si riseppe in tutta Giaffa, e molti credettero nel Signore. 43  Pietro rimase a Giaffa parecchi giorni, presso un certo Simone  conciatore.
  Pietro viene  presentato qui come il continuatore dell’opera di Gesù, che porta bene e  salvezza. E’ infatti l’azione di Gesù Messia (v. 34) a guarire il paralitico  immobilizzato sul suo giaciglio e a risuscitare Tabità. In entrambi gli episodi  troviamo il verbo della risurrezione alzati (vv. 34.40). Come Gesù aveva  preso per mano la figlia di Giàiro per restituirla viva ai suoi genitori (Lc  8,54), così Pietro, dopo aver pregato in ginocchio, prende la mano della donna  morta per presentarla viva ai suoi amici. Con questi gesti e con queste parole  Pietro manifesta la potenza del Risorto che agisce in lui. I due racconti si  concludono con il riconoscimento dell’opera di Dio da parte dei testimoni  dell’accaduto (vv. 35.42). E molti degli abitanti di Lidda, della pianura del  Saròn e di Giaffa credettero nel Signore.
Capitolo 10 
  Come aveva  già fatto a proposito di Saulo e di Anania, Luca riprende il procedimento delle  due visioni parallele. Cornelio ha una visione che riguarda Pietro, e  Pietro ha una visione che riguarda Cornelio. Mentre tutti e due sono in  preghiera (vv. 4.9), Cornelio riceve da un angelo l’ordine di mandare a  chiamare Pietro, mentre lo Spirito Santo comanda a Pietro di mettersi in  viaggio con alcuni pagani (v. 20). Solo Pietro può vedere il cielo  spalancato (v. 11; cf. 7,56), segno di una rinnovata manifestazione della  grazia e dello Spirito Santo (cf. Lc 3,21-22). E soltanto Pietro ode la vice  dal cielo che gli dice: "Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più  profano" (v. 15). 
  Pietro  si reca da un centurione romano 
  1 C'era in  Cesarèa un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte Italica, 2 uomo  pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al  popolo e pregava sempre Dio. 3 Un giorno verso le tre del pomeriggio  vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro e chiamarlo:  «Cornelio!». 4 Egli lo guardò e preso da timore disse: «Che c'è,  Signore?». Gli rispose: «Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite, in  tua memoria, innanzi a Dio. 5 E ora manda degli uomini a Giaffa e  fa’ venire un certo Simone detto anche Pietro. 6 Egli è ospite  presso un tal Simone conciatore, la cui casa è sulla riva del mare». 7 Quando  l'angelo che gli parlava se ne fu andato, Cornelio chiamò due dei suoi  servitori e un pio soldato fra i suoi attendenti e, 8 spiegata loro  ogni cosa, li mandò a Giaffa.
  Il  centurione Cornelio viene indicato come un timorato di Dio. Questa  espressione indica il pagano che in qualche modo riconosce il Dio unico che si  è rivelato a Israele. I giudei continuano a considerarlo pagano finché non  accetta la circoncisione: a quel punto diventa un proselito (cf. At 2,11; 6,5;  13,43). Quest’uomo manifesta la sua fede con le elemosine che elargisce al  popolo d’Israele e con la preghiera che rivolge a Dio con assiduità. Questo è  segno che lo Spirito Santo l’ha messo interiormente in sintonia con la  rivelazione fatta a Israele. 
  Quest’uomo  viene gratificato di una visione verso l’ora nona (le tre del pomeriggio). E’  l’ora dell’offerta del sacrificio e della preghiera del pomeriggio (cf. At  3,1). E’ anche l’ora in cui è morto Gesù e in cui il centurione responsabile  dell’esecuzione della sua condanna a morte ha proclamato: "Veramente  quest’uomo era giusto" (Lc 23,44-47). Nella sua visione Cornelio vede un  angelo di Dio entrare da lui, come al momento dell’annunciazione un  angelo era entrato dalla vergine Maria (Lc 1,28). Tramite l’angelo, il  centurione viene messo alla presenza del Risorto, come lascia intendere la sua  domanda: "Che c’è, Signore?". Cornelio parla come Saulo sulla via di  Damasco (At 9,5). Gli viene confermato che le sue preghiere e le sue elemosine  lo preparavano a questo incontro. Gli viene comandato di mandare a cercare  Pietro che è il portavoce dell’annuncio pasquale.
  9 Il giorno dopo, mentre essi erano per via e si avvicinavano alla  città, Pietro salì verso mezzogiorno sulla terrazza a pregare. 10 Gli  venne fame e voleva prendere cibo. Ma mentre glielo preparavano, fu rapito in  estasi. 11 Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una  tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. 12 In essa c'era  ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo. 13 Allora  risuonò una voce che gli diceva: «Alzati, Pietro, uccidi e mangia!». 14 Ma  Pietro rispose: «No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di  profano e di immondo». 15 E la voce di nuovo a lui: «Ciò che Dio ha  purificato, tu non chiamarlo più profano». 16 Questo accadde per tre  volte; poi d'un tratto quell'oggetto fu risollevato al cielo. 
  All’ora  sesta, l’ora in cui il Gesù crocifisso aveva promesso il paradiso al malfattore  (cf. Lc 23,44), Pietro sale sulla terrazza per la preghiera di mezzogiorno. Un’estasi scende su di lui come era scesa su Adamo prima della creazione della donna e  dell’instaurazione della prima alleanza (Gen 2,21) e su Abramo quando Dio aveva  concluso con lui l’alleanza che aveva suggellato la sua promessa di  universalità (Gen 15,12). 
  Anche l’estasi di Pietro sfocia in una missione universale. La Parola di Dio esorta  l’apostolo a non esitare (v. 20) a compiere gesti che gli sembrano illeciti (v.  28); quegli animali, infatti, non possono essere mangiati, secondo il divieto  alimentare del Levitico 11: per immolare e mangiare bisogna  distinguere accuratamente gli animali puri e impuri. 
  Le leggi  alimentari hanno lo scopo di sottolineare la separazione di Israele dalle  nazioni, per salvaguardare la particolarità del popolo eletto e garantire così  la sua missione di testimone nel cuore dell’umanità. Si capisce allora la  reazione di Pietro, che si rifiuta di mangiare ciò che è impuro, come Ezechiele  aveva opposto resistenza all’invito di Dio che gli chiedeva di "mangiare  un cibo impuro in mezzo alle nazioni" (Ez 4,13-14). Questo atteggiamento  richiama quello del vecchio Eleazaro che si rifiuta di mangiare carne suina  (2Mac 6,18-31). 
  La grazia  messianica oltrepassa i confini della separazione di Israele. La condivisione  della salvezza ricevuta da Israele con i figli delle nazioni è offerta  gratuitamente ad ogni uomo dal Messia di Israele. Il dono più grande, che è lo  Spirito Santo, sarà il primo ad essere condiviso: da qui troverà significato  ogni altra condivisione meno importante di questa. Quando Pietro vedrà lo  Spirito Santo discendere su Cornelio e i suoi, capirà di doverli battezzare,  cioè di doverli introdurre nell’assemblea di Dio, rendendoli pienamente  partecipi della grazia della salvezza. 
  17 Mentre Pietro si domandava perplesso tra sé e sé che cosa  significasse ciò che aveva visto, gli uomini inviati da Cornelio, dopo aver  domandato della casa di Simone, si fermarono all'ingresso. 18 Chiamarono  e chiesero se Simone, detto anche Pietro, alloggiava colà. 19 Pietro  stava ancora ripensando alla visione, quando lo Spirito gli disse: «Ecco, tre  uomini ti cercano; 20 alzati, scendi e va’ con loro senza  esitazione, perché io li ho mandati». 21 Pietro scese incontro agli  uomini e disse: «Eccomi, sono io quello che cercate. Qual è il motivo per cui  siete venuti?». 22 Risposero: «Il centurione Cornelio, uomo giusto e  timorato di Dio, stimato da tutto il popolo dei Giudei, è stato avvertito da un  angelo santo di invitarti nella sua casa, per ascoltare ciò che hai da dirgli».  23 Pietro allora li fece entrare e li ospitò.
  Il giorno seguente si mise in viaggio con loro e alcuni fratelli di  Giaffa lo accompagnarono. 24 Il giorno dopo arrivò a Cesarèa.  Cornelio stava ad aspettarli ed aveva invitato i congiunti e gli amici intimi. 25  Mentre Pietro stava per entrare, Cornelio andandogli incontro si gettò ai  suoi piedi per adorarlo. 26 Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati:  anch'io sono un uomo!». 27 Poi, continuando a conversare con lui,  entrò e trovate riunite molte persone disse loro: 28 «Voi sapete che  non è lecito per un Giudeo unirsi o incontrarsi con persone di altra razza; ma  Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo. 29  Per questo sono venuto senza esitare quando mi avete mandato a chiamare. Vorrei  dunque chiedere: per quale ragione mi avete fatto venire?». 30 Cornelio  allora rispose: «Quattro giorni or sono, verso quest'ora, stavo recitando la  preghiera delle tre del pomeriggio nella mia casa, quando mi si presentò un  uomo in splendida veste 31 e mi disse: Cornelio, sono state esaudite  le tue preghiere e ricordate le tue elemosine davanti a Dio. 32 Manda  dunque a Giaffa e fà venire Simone chiamato anche Pietro; egli è ospite nella  casa di Simone il conciatore, vicino al mare. 33 Subito ho mandato a  cercarti e tu hai fatto bene a venire. Ora dunque tutti noi, al cospetto di  Dio, siamo qui riuniti per ascoltare tutto ciò che dal Signore ti è stato  ordinato».
  Pietro  rimane perplesso circa la visione che aveva avuto per tre volte. Ha capito che  Dio può purificare ciò che fino a quel momento considerava impuro, cioè  estraneo a Israele. Ma non sa ancora come dovrà applicare questo principio.  L’incontro con gli inviati dal centurione lo illuminerà, mediante l’intervento  dello Spirito Santo (cf. 8,29;11,12), che nello stesso tempo ha inviato a lui  quegli uomini. L’avvenimento è opera dell’iniziativa divina. Gli inviati  presentano il loro padrone come un uomo giusto e timorato di Dio (cf.  10,2), molto stimato dai giudei, come il centurione del Vangelo (Lc 7,5). La  loro venuta è motivata dalla visione di Cornelio, della quale informano Pietro. 
  Rivolto alle  persone radunate nella casa di Cornelio, Pietro spiega la sua venuta.  Riaffermando la separazione che l’israelita deve osservare nei confronti dei  pagani, l’apostolo sottolinea che Dio solo ha potuto indurlo a infrangere  questa prescrizione di purità che aveva imposto al suo popolo: "Dio mi  mostrò che non devo considerare nessun uomo come profano o impuro" (v.28). 
  Nei vv.  30-32 Cornelio racconta la propria visione, mentre Pietro ha fatto soltanto una  breve allusione alla sua, traendone subito le conclusioni. Il racconto della  duplice visione verrà ripreso per la terza volta nel capitolo 11,9-10.13-14. La  triplice ripetizione del racconto di un avvenimento significa che questo è  opera di Dio ed è un avvenimento di salvezza. 
  Discorso  di Pietro presso Cornelio 
  34 Pietro prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che  Dio non fa preferenze di persone, 35 ma chi lo teme e pratica la  giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto. 36 Questa  è la parola che egli ha inviato ai figli d'Israele, recando la buona novella  della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti. 37 Voi  conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo  predicato da Giovanni; 38 cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e  potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro  che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. 39 E  noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e  in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, 40 ma Dio  lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, 41 non a  tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e  bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. 42 E ci ha  ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi  e dei morti costituito da Dio. 43 Tutti i profeti gli rendono questa  testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per  mezzo del suo nome». 
  Il  battesimo dei primi pagani 
  44 Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo  scese sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso. 45 E i fedeli  circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che anche sopra i  pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo; 46 li sentivano  infatti parlare lingue e glorificare Dio. 47 Allora Pietro disse:  «Forse che si può proibire che siano battezzati con l'acqua questi che hanno  ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?». 48 E ordinò che fossero  battezzati nel nome di Gesù Cristo. Dopo tutto questo lo pregarono di fermarsi  alcuni giorni.
  Cornelio non  può ancora basarsi sulla Scrittura per comprendere Gesù. Sente Pietro che parla  di un personaggio più potente del suo imperatore, che pure ha diritto assoluto  di vita e di morte sui suoi sudditi. Il compito di Pietro e degli apostoli è  quello di testimoniare che in tutte le azioni dell’uomo Gesù di Nazaret  "Dio era con lui" (v. 38). Pietro esprime questa presenza attiva di  Dio come azione dello Spirito Santo. Gesù aveva in sé la potenza dello Spirito  di Dio e questa potenza si manifestava in guarigioni e liberazioni dal potere  di satana. 
  Passando  agli avvenimenti pasquali, l’apostolo evita di soffermarsi, di fronte a un  uditorio pagano, sulle responsabilità dei giudei. Racconta brevemente la morte  di Gesù, ma lo fa per mettere subito l’accento sull’azione di Dio che continua  a intervenire a suo favore: "Dio l’ha risuscitato al terzo giorno e volle  che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi,  che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione. E ci ha  ordinato di annunziare al popolo di attestare che egli è il giudice dei vivi e  dei morti costituito da Dio" (vv. 40-42). Gesù è colui che è stato fissato  da Dio come giudice dei viventi e dei morti. In tal modo Cornelio può  capire che si tratta di un potere supremo, che abbraccia la totalità dello  spazio e del tempo. L’imperatore è il giudice dei vivi, ma i morti gli  sfuggono. Il suo potere si rivela molto debole: ha solo il potere di lasciar  vivere o di far morire, ma non è capace di suscitare e di risuscitare la vita.  Il potere dell’imperatore, dunque, è subordinato a quello di Gesù che dà la  vita. Cornelio può dunque arrivare a capire che il giudizio esercitato da Gesù  è un giudizio di vita. Ogni uomo è giudicato davanti a lui solo in vista di un  perdono e di una riconciliazione. Ciascuno quindi può scoprirsi graziato. Deve  soltanto aderire, per mezzo della fede, alla grazia che gli è offerta, per  essere puro e ricevere il perdono dei peccati e il dono dello Spirito Santo.  Con questo, Pietro ha detto tutto quello che Cornelio aveva bisogno di  ascoltare. 
  Ma chi  confermerà la testimonianza dell’apostolo? Su che cosa basarsi di fronte a  interlocutori che non hanno vissuto una storia di rapporti con il Dio d’Israele  e non conoscono la sua Parola e il suo modo di operare? E’ a questo punto che lo  Spirito Santo discende su Cornelio e i suoi, sia per convalidare la parola  di Pietro di fronte ai pagani che l’ascoltano, sia per manifestare che la fede  ha purificato il cuore di Cornelio e della sua famiglia, con grande stupore di  Pietro e dei fratelli che l’accompagnano. 
  Pietro  dichiara di riconoscere in quelli uomini lo Spirito della Pentecoste, lo  Spirito del Risorto. E perché tutto sia compiuto, li fa battezzare nel Nome del  Signore Gesù Cristo. Facendo questo, Pietro li rende partecipi dei beni della  salvezza e li introduce nella comunità dei discepoli di Gesù, alla pari degli  ebrei 
Capitolo 11
  A  Gerusalemme, Pietro giustifica la sua condotta 
  1 Gli apostoli e i fratelli che stavano nella Giudea vennero a sapere  che anche i pagani avevano accolto la parola di Dio. 2 E quando  Pietro salì a Gerusalemme, i circoncisi lo rimproveravano dicendo: 3 «Sei  entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!».
  4 Allora Pietro raccontò per ordine come erano andate le cose,  dicendo: 5 «Io mi trovavo in preghiera nella città di Giaffa e vidi  in estasi una visione: un oggetto, simile a una grande tovaglia, scendeva come  calato dal cielo per i quattro capi e giunse fino a me. 6 Fissandolo  con attenzione, vidi in esso quadrupedi, fiere e rettili della terra e uccelli  del cielo. 7 E sentii una voce che mi diceva: Pietro, alzati, uccidi  e mangia! 8 Risposi: Non sia mai, Signore, poiché nulla di profano e  di immondo è entrato mai nella mia bocca. 9 Ribatté nuovamente la  voce dal cielo: Quello che Dio ha purificato, tu non considerarlo profano. 10  Questo avvenne per tre volte e poi tutto fu risollevato di nuovo nel  cielo. 11 Ed ecco, in quell'istante, tre uomini giunsero alla casa  dove eravamo, mandati da Cesarèa a cercarmi. 12 Lo Spirito mi disse  di andare con loro senza esitare. Vennero con me anche questi sei fratelli ed  entrammo in casa di quell'uomo. 13 Egli ci raccontò che aveva visto  un angelo presentarsi in casa sua e dirgli: Manda a Giaffa e fa’ venire Simone  detto anche Pietro; 14 egli ti dirà parole per mezzo delle quali  sarai salvato tu e tutta la tua famiglia. 15 Avevo appena cominciato  a parlare quando lo Spirito Santo scese su di loro, come in principio era sceso  su di noi. 16 Mi  ricordai allora di quella parola del Signore che diceva: Giovanni battezzò con  acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo. 17 Se dunque  Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù  Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?».
  18 All'udir questo si calmarono e cominciarono a glorificare Dio  dicendo: «Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché  abbiano la vita!».
  A  Gerusalemme arriva la notizia che "anche i pagani hanno ricevuto la Parola di Dio". La  notizia fa molto scalpore, perché pone il problema delle osservanze  tradizionali degli ebrei. All’arrivo di Pietro a Gerusalemme "quelli dalla  circoncisione" lo interrogano: non è forse venuto meno all’alleanza  entrando nella casa di uomini non circoncisi e mangiando con loro? Gli chiedono  dunque di fornire spiegazioni, non sul battesimo concesso ai pagani, ma sull’aver  mangiato con loro. 
  Pietro  presenta una rilettura degli avvenimenti così come Dio li aveva diretti tramite  le due visioni (vv. 5.13), lo Spirito Santo (v. 12) e l’angelo (v. 13). Guidato  in tal modo da Dio, egli si è trovato con sei fratelli (v. 12) in una casa  pagana per rivolgere a Cornelio e ai suoi la Parola che porta alla salvezza. Dopo aver narrato  la sua visione e la sua reazione, che mette in evidenza la sua fedeltà alle  leggi della purità destinate a difendere l’elezione particolare e la missione  universale d’Israele, Pietro fa capire che la visita dei tre uomini inviati dal  centurione gli ha fornito la chiave per comprendere ciò che per lui era un  enigma. Racconta quindi l’ultimo intervento di Dio, la "Pentecoste dei  popoli pagani". Pietro lo ricorda: "Lo Spirito Santo cadde su di loro  come anche su di noi all’inizio" (v. 15; cf. 2,4). 
  Gli altri  apostoli e la comunità cristiana concordano con Pietro e con il suo operato e  glorificano Dio dicendo: "Dio ha concesso anche ai pagani che si convertano  perché abbiano la vita" (v. 18). 
  Fondazione  della chiesa di Antiochia 
  19 Intanto quelli che erano stati dispersi dopo la persecuzione  scoppiata al tempo di Stefano, erano arrivati fin nella Fenicia, a Cipro e ad  Antiochia e non predicavano la parola a nessuno fuorché ai Giudei. 20 Ma  alcuni fra loro, cittadini di Cipro e di Cirène, giunti ad Antiochia,  cominciarono a parlare anche ai Greci, predicando la buona novella del Signore  Gesù. 21 E la mano del Signore era con loro e così un gran numero credette  e si convertì al Signore. 22 La notizia giunse agli orecchi della  Chiesa di Gerusalemme, la quale mandò Barnaba ad Antiochia.
  23 Quando questi giunse e vide la grazia del Signore, si rallegrò e, 24  da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede, esortava  tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore. E una folla considerevole  fu condotta al Signore. 25 Barnaba poi partì alla volta di Tarso per  cercare Saulo e trovatolo lo condusse ad Antiochia. 26 Rimasero  insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta gente; ad  Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani.
  Un certo  numero di cristiani giudei, partiti da Gerusalemme al momento della  persecuzione, si rifugiarono presso altri giudei nella grande città di  Antiochia e annunciarono loro ciò che era avvenuto a Gerusalemme. In seguito  arrivarono ad Antiochia cristiani della cultura greca, più abituati a trattare  con la gente non ebrea. Questi non tardarono ad annunciare "anche ai  greci" la buona notizia del Signore Gesù. 
  Giunta la  notizia a Gerusalemme, gli apostoli decidono di mandare ad Antiochia il  cipriota Barnaba. Il giudizio di Barnaba sulla situazione trovata ad Antiochia  fu molto positivo: "vide la grazia di Dio e si rallegrò" (v. 23). Da  uomo virtuoso qual era, egli porta ad Antiochia una parola di conforto ed  esorta i fratelli a rimanere vicini al Signore. 
  Il successo  dell’annuncio della buona notizia del Signore Gesù ispira a Barnaba di andare a  Tarso a cercare Saulo e lo invita a diventare suo collaboratore. La loro  attività apostolica ad Antiochia dura un anno intero. 
  "Ad  Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani".  Fino a questo momento, coloro che aderivano a Cristo erano stati chiamati in  modi diversi: fratelli, credenti, santi, discepoli, nazorei… Ora ricevono  questo nome nuovo, che fa presupporre che il loro gruppo è percepito  dall’esterno come una realtà particolare. Infatti le promesse fatte ad Abramo:  "Dio gli promise con giuramento di benedire i popoli nella sua  discendenza" (Sir 44,21; cf. Gen 12,3; 17,4; 22,18), vengono condivise con  i greci e così prende forma una comunione di vita tra credenti giudei e greci.  Ciò vuol dire che ai giudei credenti in Cristo dell’assemblea di Gerusalemme,  quando rimanevano tra loro nella loro terra, mancava ancora una dimensione  essenziale dei tempi messianici. Dio vuole che anche i pagani abbiano accesso  alla medesima grazia della salvezza. Bisognerà dunque vivere insieme questa  grazia e trovare le vie per realizzare questa convivialità messianica, questa koinonia universale, rispettando però la particolarità di ciascuno. Bisogna che il  giudeo possa vivere da giudeo e che il greco rimanga pienamente greco. Andremmo  contro la volontà di Dio se volessimo confondere ciò che Dio ha distinto,  rinnegando in tal modo la diversità dei percorsi storici di ciascuno. 
  In questi  pochi versetti assistiamo al sorgere di un’esperienza tanto nuova da dover  essere definita con un nome nuovo. La novità è tale da far scoprire, solo in  questo momento, la pienezza cristiana. L’appellativo "cristiani"  compare nel momento in cui comincia a svilupparsi un modo di vivere nuovo,  perché veramente universale. La comunione di vita che si realizza tra discepoli  giudei e greci del Signore Gesù conferisce una dimensione nuova alla grazia  messianica, ancora più visibile ad Antiochia che a Gerusalemme. 
  Barnaba  e Saulo a Gerusalemme 
  27 In questo  tempo alcuni profeti scesero ad Antiochia da Gerusalemme. 28 E uno  di loro, di nome Agabo, alzatosi in piedi, annunziò per impulso dello Spirito  che sarebbe scoppiata una grave carestia su tutta la terra. Ciò che di fatto  avvenne sotto l'impero di Claudio. 29 Allora i discepoli si  accordarono, ciascuno secondo quello che possedeva, di mandare un soccorso ai  fratelli abitanti nella Giudea; 30 questo fecero, indirizzandolo  agli anziani, per mezzo di Barnaba e Saulo.
  Il racconto  della fondazione della Chiesa di Antiochia si conclude con una notizia breve ma  molto importante: i cristiani di Antiochia mandano un aiuto alimentare ai  fratelli di Gerusalemme minacciati dalla carestia. Attraverso questo aiuto si  assiste a una sorta di ritorno della grazia verso la Giudea, da dove erano  venuti i messaggeri della Parola. Ciò, nello stesso tempo, permette all’autore  di ricondurre l’attenzione del lettore alla comunità-madre di Gerusalemme, dove  si svolgono avvenimenti di fondamentale importanza, che vengono narrati nel  capitolo che segue. 
Capitolo 12 
  Arresto  di Pietro e sua liberazione miracolosa 
  1 In quel tempo  il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa 2 e  fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. 3 Vedendo che  questo era gradito ai Giudei, decise di arrestare anche Pietro. Erano quelli i  giorni degli Azzimi. 4 Fattolo catturare, lo gettò in prigione,  consegnandolo in custodia a quattro picchetti di quattro soldati ciascuno, col  proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo la Pasqua. 5 Pietro  dunque era tenuto in prigione, mentre una preghiera saliva incessantemente a  Dio dalla Chiesa per lui. 6 E in quella notte, quando poi Erode  stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro piantonato da due soldati e  legato con due catene stava dormendo, mentre davanti alla porta le sentinelle  custodivano il carcere. 7 Ed ecco gli si presentò un angelo del  Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo  destò e disse: «Alzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani. 8  E l'angelo a lui: «Mettiti la cintura e legati i sandali». E così fece.  L'angelo disse: «Avvolgiti il mantello, e seguimi!». 9 Pietro uscì e  prese a seguirlo, ma non si era ancora accorto che era realtà ciò che stava  succedendo per opera dell'angelo: credeva infatti di avere una visione.
  10 Essi oltrepassarono la prima guardia e la seconda e arrivarono alla  porta di ferro che conduce in città: la porta si aprì da sé davanti a loro.  Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l'angelo si dileguò da lui. 11  Pietro allora, rientrato in sé, disse: «Ora sono veramente certo che il  Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da  tutto ciò che si attendeva il popolo dei Giudei». 12 Dopo aver  riflettuto, si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni detto anche Marco,  dove si trovava un buon numero di persone raccolte in preghiera. 13 Appena  ebbe bussato alla porta esterna, una fanciulla di nome Rode si avvicinò per  sentire chi era. 14 Riconosciuta la voce di Pietro, per la gioia non  aprì la porta, ma corse ad annunziare che fuori c'era Pietro. 15 «Tu  vaneggi!» le dissero. Ma essa insisteva che la cosa stava così. E quelli  dicevano: «E' l'angelo di Pietro». 16 Questi intanto continuava a  bussare e quando aprirono la porta e lo videro, rimasero stupefatti. 17 Egli  allora, fatto segno con la mano di tacere, narrò come il Signore lo aveva tratto  fuori del carcere, e aggiunse: «Riferite questo a Giacomo e ai fratelli». Poi  uscì e s'incamminò verso un altro luogo.
  18 Fattosi giorno, c'era non poco scompiglio tra i soldati: che cosa  mai era accaduto di Pietro? 19 Erode lo fece cercare accuratamente,  ma non essendo riuscito a trovarlo, fece processare i soldati e ordinò che  fossero messi a morte; poi scese dalla Giudea e soggiornò a Cesarèa.
  La  morte del persecutore 
  20 Egli era infuriato contro i cittadini di Tiro e Sidone. Questi però  si presentarono a lui di comune accordo e, dopo aver tratto alla loro causa  Blasto, ciambellano del re, chiedevano pace, perché il loro paese riceveva i  viveri dal paese del re. 21 Nel giorno fissato Erode, vestito del  manto regale e seduto sul podio, tenne loro un discorso. 22 Il  popolo acclamava: «Parola di un dio e non di un uomo!». 23 Ma  improvvisamente un angelo del Signore lo colpì, perché non aveva dato gloria a  Dio; e roso, dai vermi, spirò.
  A  Gerusalemme si è venuta a creare una situazione politica senza precedenti. Dopo  quarant’anni di vacanza del trono, Roma ha nominato un nuovo re: Erode Agrippa  I , nipote di Erode il Grande e figlio di Aristobulo, assassinato da suo  fratello Erode Antipa. Agrippa era amico di Caligola, il quale, divenuto  imperatore nel 37, lo fece passare dalla condizione di prigioniero a quella di  re: "Caio Caligola gli mise il diadema sul capo e lo nominò re della  tetrarchia di Filippo, facendogli dono di quella di Lisania; in cambio della  sua catena di ferro, gliene diede una d’oro di uguale peso" (Flavio  Giuseppe, Antichità giudaiche XVIII,237). Il suo regno a Gerusalemme fu  però di breve durata: morì a Cesarea tre anni dopo, nel 44. Aveva 54 anni. 
  Per ottenere  il favore dei giudei, Erode Antipa cominciò a perseguitare la Chiesa, facendo uccidere  Giacomo, figlio di Zebedeo e fratello dell’apostolo Giovanni. Questo Giacomo  non va confuso con Giacomo di Gerusalemme, parente prossimo di Gesù, di cui si  parlerà in seguito nel libro degli Atti (12,17; 15,13; 21,18). 
  Volendo dare  un colpo decisivo alla comunità dei nazorei, Agrippa I se la prende con colui  che rappresenta tra loro l’autorità: Simone Pietro. Il suo arresto viene  eseguito, come quello di Gesù (Lc 22,7), il "giorno degli azzimi" (v.  3), cioè la vigilia della Pasqua. Pietro sarà dunque liberato dalle sue catene  nel corso della notte pasquale. E come gli ebrei avevano vissuto "in  quella notte" (Es 12,8.12) il loro esodo dall’Egitto verso la libertà del  servizio di Dio mangiando in fretta l’agnello immolato, con i fianchi cinti, i  sandali ai piedi e il bastone in mano (Es 12,11), così l’angelo del Signore  "quella notte" (v. 6) sveglia Pietro nella sua prigione e gli comanda  di cingersi i fianchi, di calzare i sandali e di indossare il mantello (v. 8)  per vivere una nuova liberazione in vista di un nuovo servizio. In quello  stesso momento la comunità dei credenti di Gerusalemme era raccolta in  preghiera (vv. 5.12), rievocando la   Pasqua ebraica e la risurrezione del Signore Gesù. 
  Facendo  fallire i progetti di Agrippa , il Signore manda il suo angelo a liberare  Pietro dalla prigione, come aveva fatto con i Dodici (5,18-21). Quella volta  gli apostoli erano stati inviati ad annunciare al popolo nel Tempio la Parola di vita. Adesso  l’angelo conduce Pietro non più al Tempio, ma per la strada. Dio lo mette in  cammino, come aveva incamminato gli ebrei verso il Sinai. Il luogo  dell’insegnamento, infatti, non è più il tempio di pietra, ma sono le strade  del mondo e le vie delle città dove i testimoni annunciano la Parola. 
  Pietro va a  bussare alla casa di Maria, madre di Giovanni Marco, dove i credenti erano  riuniti per la preghiera e per la celebrazione della Pasqua. Quando finalmente  qualcuno va ad aprire la porta, le persone radunate per l’assemblea liturgica  non riescono a credere ai loro occhi. Chiesto il silenzio, Pietro racconta loro  la sua liberazione dal carcere e chiede che si dia notizia dell’accaduto a  Giacomo, l’anziano che è responsabile della comunità di Gerusalemme, e agli  altri fratelli, e subito riprende il viaggio verso "un altro luogo"  (v. 17). 
  Il brano  prosegue narrando la morte del persecutore. Luca narra la morte di Erode  Agrippa I, avvenuta a Cesarea proprio quando egli aveva appena risolto il  conflitto con la gente di Tiro e di Sidone. Egli si era recato a Cesarea per  celebrare i giochi quinquennali istituiti da Erode il Grande in onore di  Augusto. Per l’occasione era comparso davanti al popolo con una veste intessuta  d’argento che scintillava al sole. I suoi adulatori gli rendevano omaggio,  acclamandolo come un dio: "Possa tu esserci propizio! Se finora ti abbiamo  temuto come un uomo, oggi proclamiamo che tu sei, per natura, superiore ai  mortali" (Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche XIX,343-352). Ma  Agrippa fu colpito da un improvviso malore e morì qualche giorno dopo, per una  peritonite o per un’occlusione intestinale. Erode Agrippa I su cui il popolo  d’Israele aveva riversato la sua attesa messianica, acclamandolo come un dio, è  soltanto un cadavere roso dai vermi. 
  Barnaba  e Saulo ritornano ad Antiochia 
  24 Intanto la parola di Dio cresceva e si diffondeva. 25 Barnaba  e Saulo poi, compiuta la loro missione, tornarono da Gerusalemme prendendo con  loro Giovanni, detto anche Marco.
  Ritroviamo  il ritornello della crescita: "Intanto la parola di Dio cresceva e si  disseminava". Abbiamo visto nella prima parte degli Atti (6,7) che questo  ritornello esprime la convinzione dell’autore. La diffusione di questa buona  notizia che è Gesù, è la risposta al desiderio di Dio Creatore (cf. Gen  1,22.28: Siate fecondi e moltiplicatevi) e Signore della storia (cf. Gen  47,27: Gli israeliti… furono fecondi e divennero molto numerosi).
  Il v. 25  segnala l’arrivo ad Antiochia di Barnaba e Saulo, che ritornano dopo aver  compiuto il loro servizio. I due conducono con sé Giovanni Marco, forse l’evangelista  Marco, figlio di Maria, che ospitava in casa sua la comunità dei credenti di  Gerusalemme (v. 12). 
Capitolo 13 
  III.  LA MISSIONE DI  BARNABA E DI PAOLO IL CONCILIO DI GERUSALEMME 
    L'invio  in missione 
  1 C'erano  nella comunità di Antiochia profeti e dottori: Barnaba, Simeone soprannominato  Niger, Lucio di Cirène, Manaèn, compagno d'infanzia di Erode tetrarca, e Saulo.  2 Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando,  lo Spirito Santo disse: «Riservate per me Barnaba e Saulo per l'opera alla  quale li ho chiamati». 3 Allora, dopo aver digiunato e pregato,  imposero loro le mani e li accomiatarono.
  A  Cipro, il mago Elimas 
  4 Essi dunque, inviati dallo Spirito Santo, discesero a Selèucia e di  qui salparono verso Cipro. 5 Giunti a Salamina cominciarono ad  annunziare la parola di Dio nelle sinagoghe dei Giudei, avendo con loro anche  Giovanni come aiutante. 6 Attraversata tutta l'isola fino a Pafo, vi  trovarono un tale, mago e falso profeta giudeo, di nome Bar-Iesus, 7 al  seguito del proconsole Sergio Paolo, persona di senno, che aveva fatto chiamare  a sé Barnaba e Saulo e desiderava ascoltare la parola di Dio. 8 Ma  Elimas, il mago, - ciò infatti significa il suo nome - faceva loro opposizione  cercando di distogliere il proconsole dalla fede. 9 Allora Saulo,  detto anche Paolo, pieno di Spirito Santo, fissò gli occhi su di lui e disse: 10  «O uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia, figlio del diavolo, nemico  di ogni giustizia, quando cesserai di sconvolgere le vie diritte del Signore? 11  Ecco la mano del Signore è sopra di te: sarai cieco e per un certo tempo  non vedrai il sole». Di colpo piombò su di lui oscurità e tenebra, e  brancolando cercava chi lo guidasse per mano. 12 Quando vide  l'accaduto, il proconsole credette, colpito dalla dottrina del Signore.
  Arrivo  ad Antiochia di Pisidia 
  13 Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di  Panfilia. Giovanni si separò da loro e ritornò a Gerusalemme. 14 Essi  invece proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiochia di Pisidia ed entrati nella  sinagoga nel giorno di sabato, si sedettero. 15 Dopo la lettura  della Legge e dei Profeti, i capi della sinagoga mandarono a dire loro:  «Fratelli, se avete qualche parola di esortazione per il popolo, parlate!».
  Nella lista  che Luca ci presenta, Barnaba è nominato per primo e Saulo per ultimo:  l’attenzione viene subito posta su questi due. La scelta fatta dallo Spirito  Santo durante la celebrazione del culto e mentre digiunavano, conferma la loro  chiamata alla missione. I due inviati sono affidati alla grazia di Dio,  sostenuti dalla comunità e dai suoi responsabili, come confermerà il v. 26 del  capitolo 14: "di qui fecero vela per Antiochia, là dove erano stati  affidati alla grazia del Signore per l’impresa che avevano compiuto". 
  L’episodio  del mago Bar-Iesus o Elimas non ci presenta un Paolo sadico. La prova della  cecità è una grazia: svela all’uomo la cecità del suo cuore e durerà fino a  quando l’uomo non sarà passato attraverso il mistero di morte e di risurrezione  del Cristo. Il mago si mette a cercare qualcuno che possa prenderlo per mano e  guidarlo: è un primo effetto della grazia. 
  La  conversione del proconsole Sergio Paolo richiama indubbiamente la conversione  del centurione Cornelio (10,44-46): a Cipro, Paolo fa ciò che Pietro aveva  fatto a Cesarea. La missione di Paolo consiste nel portare avanti  l’evangelizzazione delle nazioni pagane. A partire da questo episodio, Saulo  verrà sempre chiamato con il suo nome greco-romano: Paolo. Notiamo inoltre che  ormai viene nominato prima di Barnaba. Fin qui era stato il suo collaboratore,  ma ora passa al primo posto. A questo punto, Luca parla di "quelli della  cerchia di Paolo" (v. 13). 
  Questo brano  segnala inoltre che Giovanni Marco si ritira. Luca non ci dice il motivo.  Malgrado questa partenza, tuttavia, Giovanni Marco si rimetterà in viaggio con  Barnaba quando si tratterà di costituire di nuovo un gruppo per un’altra  missione (15,38). 
  Senza  accennare alle fatiche e alle difficoltà dei viaggi compiuti, Luca ci mostra  Paolo e i suoi che si recano immediatamente nella sinagoga di Antiochia di  Pisidia. Su invito dei responsabili della sinagoga, Paolo prende la parola per  pronunciare quella che oggi chiameremmo un’omelia. 
  La  predicazione di Paolo davanti ai Giudei 
  16 Si alzò Paolo e fatto cenno con la mano disse: «Uomini di Israele e  voi timorati di Dio, ascoltate. 17 Il Dio di questo popolo d'Israele  scelse i nostri padri ed esaltò il popolo durante il suo esilio in terra  d'Egitto, e con braccio potente li condusse via di là. 18 Quindi,  dopo essersi preso cura di loro per circa quarant'anni nel deserto, 19 distrusse  sette popoli nel paese di Canaan e concesse loro in eredità quelle terre, 20  per circa quattrocentocinquanta anni. Dopo questo diede loro dei Giudici,  fino al profeta Samuele. 21 Allora essi chiesero un re e Dio diede  loro Saul, figlio di Cis, della tribù di Beniamino, per quaranta anni. 22 E,  dopo averlo rimosso dal regno, suscitò per loro come re Davide, al quale rese  questa testimonianza: Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio  cuore; egli adempirà tutti i miei voleri.
  23 Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio trasse per  Israele un salvatore, Gesù. 24 Giovanni aveva preparato la sua  venuta predicando un battesimo di penitenza a tutto il popolo d'Israele. 25  Diceva Giovanni sul finire della sua missione: Io non sono ciò che voi  pensate che io sia! Ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di  sciogliere i sandali.
  26 Fratelli, figli della stirpe di Abramo, e quanti fra voi siete  timorati di Dio, a noi è stata mandata questa parola di salvezza. 27 Gli  abitanti di Gerusalemme infatti e i loro capi non l'hanno riconosciuto e  condannandolo hanno adempiuto le parole dei profeti che si leggono ogni sabato;  28 e, pur non avendo trovato in lui nessun motivo di condanna a  morte, chiesero a Pilato che fosse ucciso. 29 Dopo aver compiuto  tutto quanto era stato scritto di lui, lo deposero dalla croce e lo misero nel  sepolcro. 30 Ma Dio lo ha risuscitato dai morti 31 ed  egli è apparso per molti giorni a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea  a Gerusalemme, e questi ora sono i suoi testimoni davanti al popolo.
  32 E noi vi annunziamo la buona novella che la promessa fatta ai padri  si è compiuta, 33 poiché Dio l'ha attuata per noi, loro figli,  risuscitando Gesù, come anche sta scritto nel salmo secondo:
  Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato. 
  34 E che Dio lo ha risuscitato dai morti, in modo che non abbia mai più  a tornare alla corruzione, è quanto ha dichiarato:
  Darò a voi le cose sante promesse a Davide, quelle sicure. 
  35 Per questo anche in un altro luogo dice:
  Non permetterai che il tuo santo subisca la corruzione. 
  36 Ora Davide, dopo aver eseguito il volere di Dio nella sua  generazione, morì e fu unito ai suoi padri e subì la corruzione. 37 Ma  colui che Dio ha risuscitato, non ha subìto la corruzione. 38 Vi sia  dunque noto, fratelli, che per opera di lui vi viene annunziata la remissione  dei peccati 39 e che per lui chiunque crede riceve giustificazione  da tutto ciò da cui non vi fu possibile essere giustificati mediante la legge  di Mosè. 40 Guardate dunque che non avvenga su di voi ciò che è  detto nei Profeti:
  41 Mirate, beffardi, 
  stupite e nascondetevi, 
  poiché un'opera io compio ai vostri giorni, 
  un'opera che non credereste, se vi fosse 
  raccontata!». 
  42 E, mentre uscivano, li pregavano di esporre ancora queste cose nel  prossimo sabato. 43 Sciolta poi l'assemblea, molti Giudei e  proseliti credenti in Dio seguirono Paolo e Barnaba ed essi, intrattenendosi  con loro, li esortavano a perseverare nella grazia di Dio.
  Paolo si  rivolge agli "israeliti" e ai "timorati di Dio". Fin  dall’inizio del suo discorso allarga la cerchia dei suoi ascoltatori,  includendo i pagani aperti al giudaismo. Il Credo storico (vv. 17-22) si  presenta come una parafrasi di 2Sam 7,6-9: l’uscita dall’Egitto, la traversata  del deserto e l’ingresso in Canaan sono collocati in un crescendo che manifesta  sempre più chiaramente la benevolenza del Dio d’Israele per il suo popolo. E’  evidente la differenza di tono rispetto alla requisitoria profetica di Stefano,  che si sviluppava come un "processo" al popolo sulla sua fedeltà  all’alleanza. L’azione divina si esprime in termini di elezione ("scelse i  nostri padri"), di innalzamento ("innalzò il popolo") e di  disposizione testamentaria ("li costituì eredi"): una triplice  manifestazione di gratuità. Questo crescendo sfocia in un’istituzione: quella  dei giudici, ai quali succedono i re, servi di Dio e del popolo. 
  Dalla  dinastia di Davide, secondo la promessa, Dio trasse per Israele un Salvatore,  Gesù. Designato da tutta la corrente profetica, da Samuele a Giovanni Battista,  il Messia discendente di Davide, Gesù deve essere accolto come il Salvatore definitivo di Israele e del mondo. In questi stessi termini era stato  annunciato dall’angelo della natività: "Vi fu partorito oggi il  Salvatore che è Cristo Signore, nella città di Davide" (Lc 2,11). 
  I vv. 16-25  narravano le grandi opere compiute da Dio a favore di Israele. L’evento di cui  si parla ora, la risurrezione-glorificazione di Gesù (vv. 26-41), viene messo  in luce da una triplice ripetizione ancora più solenne; "Dio lo risuscitò  dai morti… Dio ha adempiuto la promessa per noi, loro figli, avendo risuscitato  Gesù… Colui che Dio risuscitò non vide la corruzione" (vv. 30.33.37). 
  Notiamo che  Paolo , in questa seconda parte, abbandona il tono narrativo e sollecita i suoi  interlocutori a coinvolgersi con lui nella Parola che sta proclamando;  "Fratelli, figli della stirpe di Abramo, e quanti tra voi siete timorati  di Dio, a noi è stata mandata questa parola di salvezza" (v. 26). Questa  "parola di salvezza" è ben più che una "parola di  incoraggiamento, di consolazione". La Parola che aveva radunato Israele facendone un  popolo (v. 17), viene personalmente a realizzare la salvezza promessa, tramite  l’appello trasmesso dal testimone: "A noi fu inviata la Parola di questa  salvezza". 
  Colui che  porta la salvezza è stato però vittima del peccato e della morte. Innocente,  sottoposto a giudizio iniquo, è morto sul legno della croce ed è stato deposto  in una tomba (v. 29). Il gioco delle libertà umane (cf. Lc 23,25) ha guidato  questo processo: i profeti l’avevamo predetto; per due volte (vv. 27.29) Paolo  segnala che la salvezza di Dio passa attraverso i gesti omicidi degli uomini.  L’intervento di Dio a favore dell’uomo secondo il suo cuore non  si è fatto attendere: "Dio lo risuscitò dai morti" (v. 30). Possono  testimoniarlo quelli che sono saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, ai  quali egli è apparso (v. 31). 
  Questa  risurrezione si presenta come una intronizzazione, una consacrazione: Gesù  viene innalzato in quanto Figlio di Dio con tutta la potenza e la gloria  di cui il Padre può colmare il suo Re-Salvatore. Paolo ricorre di nuovo alla  Scrittura, citando l’oracolo che si colloca al centro del Salmo 2, in cui sono descritte la  battaglia e la vittoria del Messia. Il v. 7 del salmo costituisce una solenne  proclamazione del decreto divino d’investitura regale (cf. 2Re 11,12; Sal  89,40). Intronizzando Gesù come Re-Salvatore tramite la risurrezione dai morti,  Dio adempie una volta per tutte la promessa fatta a Davide. 
  La speranza  di incorruttibilità di cui ci parla il Sal 16,10 non si è realizzata nel  personaggio storico di Davide, che ha raggiunto i suoi antenati nella morte, ma  nel Re-Salvatore, nuovo Davide, che Dio ha definitivamente preservato dalla  corruzione risuscitandolo dai morti. 
  Il v. 38  proclama il perdono dei peccati concesso grazie a Gesù risorto.  L’argomentazione di Paolo non è dunque rivolta esclusivamente a far vedere che  il Cristo doveva risorgere, ma va oltre, mettendo in luce la portata salvifica  della risurrezione. In virtù della sua risurrezione, Gesù possiede il potere di  salvare chiunque crede in lui: la promessa di Dio di dare un Salvatore a  Israele si realizza pienamente nel Cristo risorto. E’ proprio perché non può  più morire che il Cristo risorto diventa causa di santità, di giustizia e di  salvezza non solo per gli uomini della sua generazione, ma per tutti coloro  che, dopo la sua morte la sua risurrezione, crederanno in lui. 
  Paolo si  rivolge di nuovo ai suoi "fratelli" (v. 38) interpellandoli in  maniera diretta; "Sia dunque noto a voi!". La partecipazione ai beni  della salvezza si presenta qui sotto una duplice forma: remissione dei peccati  e dono della giustificazione. La remissione dei peccati ci fa partecipi della  vittoria del Re-Salvatore sulle potenze del male. Il dono della giustificazione  ci associa al culto reso da colui che è perfettamente Giusto, il Servo  obbediente, il Pio che compie "tutte le volontà" del Signore Dio. E’  la liberazione dall’impotenza in cui prima ci si trovava di fronte all’esigenza  di vivere la giustizia, di rendere un culto autentico e di osservare la Legge. Questi sono i  beni della salvezza messianica portata dal Re-Salvatore. Tramite lui,  attraverso la sua vittoria sui nemici dell’uomo, viene annunciata la libertà.  In lui, nella sua giustizia, viene assunto ogni uomo che crede. 
  I vv. 40 e  41 richiamano l’attenzione sulla terribile prova a cui sono sottoposti gli  ascoltatori di Paolo di fronte alla modalità con cui si è manifestata l’opera  della salvezza. Si tratta di un vero scandalo rispetto alle attese popolari di  un messianismo temporale centrato sulla figura di Davide. Essi attendevano un  salvatore politico che ricostruisse il regno d’Israele (cf. At 1,6). Dio invece  ha donato la salvezza che si manifesta nella vittoria del Risorto sul peccato e  sulla morte. 
  Parola di  salvezza, avvenimenti scandalosi, opera della grazia: questo annuncio inaudito  provoca reazioni diverse nella sinagoga. Ma un buon numero di giudei e di  simpatizzanti del giudaismo, scossi da questo discorso e desiderosi di saperne  di più, si intrattengono con Paolo e Barnaba. I due missionari cercano di  persuaderli a "rimanere attaccati alla grazia di Dio" che in quel  momento si manifesta in mezzo a loro attraverso la testimonianza dei due  apostoli. 
  Paolo  e Barnaba si rivolgono ai pagani 
  44 Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la  parola di Dio. 45 Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono  pieni di gelosia e contraddicevano le affermazioni di Paolo, bestemmiando. 46  Allora Paolo e Barnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che  fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio, ma poiché la respingete e  non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani. 47  Così infatti ci ha ordinato il Signore:
  Io ti ho posto come luce per le genti, 
  perché tu porti la salvezza sino all'estremità della terra». 
  48 Nell'udir ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola di  Dio e abbracciarono la fede tutti quelli che erano destinati alla vita eterna. 49  La parola di Dio si diffondeva per tutta la regione. 50 Ma i  Giudei sobillarono le donne pie di alto rango e i notabili della città e  suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li scacciarono dal loro  territorio. 51 Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei  piedi, andarono a Icònio, 52 mentre i discepoli erano pieni di gioia  e di Spirito Santo.
  La gente  accorre da tutta la città per ascoltare la parola del Signore. Ma esplode  subito la gelosia dei giudei che cercano di contrastare in ogni modo gli  annunciatori del Vangelo. La decisione di rivolgersi alle nazioni pagane dopo  aver subìto questa esplosione di violenza è un fatto molto importante.  L’annuncio della Parola ai pagani non è una conseguenza del rifiuto opposto dai  giudei. Questo annuncio rientra da sempre nel disegno di Dio, anche se il  rifiuto dei giudei ne costituisce l’occasione . Già nel Vangelo, Gesù lascia  intravedere che altri uomini, oltre ai giudei, godranno dei benefici della  salvezza. Ma qual è esattamente il disegno divino che Paolo richiama citando  l’oracolo di Isaia 49,6: "Ti ho posto come luce per le genti, perché tu  porti la salvezza fino all’estremità della terra" (v. 47)? Chi è questa  luce delle nazioni? Chi deve essere testimone fino all’ultimo confine della  terra? Alcuni esegeti pensano che Luca presenti questo episodio in chiave  programmatica, come l’evento che inaugura il ministero di Paolo tra i pagani.  Come gli abitanti di Nazaret (cf. Lc 4,16-30) così i giudei di Antiochia sono  furibondi perché viene loro chiesto di condividere le loro prerogative con i  pagani. 
  La  "luce delle genti" è, senz’alcun dubbio il Cristo Risorto (cf. Lc  2,32; At 26,23). Ma anche Paolo si presenta come il "Servo" e applica  esplicitamente a sé la citazione i Is 49,6, perché assume un ruolo di supplenza  nei confronti dei giudei che non sono fedeli alla loro vocazione di  testimoniare l’unico Dio in mezzo alle nazioni. La missione del Risorto e  quella d’Israele si trovano dunque combinate nel medesimo versetto: non possono  essere contrapposte l’una all’altra. L’inno a Gerusalemme contenuto nel libro  di Tobia offre un’indicazione importante lungo questo itinerario messianico:  "Una luce splendida brillerà sino ai confini della terra; nazioni numerose  verranno da lontano, da tutti i confini della terra, e abiteranno presso il  santo Nome del Signore Dio, portando in mano i doni per il Re del cielo"  (Tb 13,13). 
  Alla gioia  dei pagani che glorificano la parola di Dio, abbracciano la fede e diventano  partecipi della vita eterna, fa riscontro la gelosia dei giudei che si  trasforma in aperta persecuzione. Notiamo la brutta figura che fanno "le  donne pie di alto rango e i notabili della città": alla larga da certa  gente! Ma il mondo è grande e i missionari, seguendo le istruzioni del Signore  (Lc 9,5; 10,11), abbandonano la città e vanno altrove. 
  Il discorso  di Paolo ad Antiochia chiama dunque i giudei a trarre le debite conclusioni  dall’alleanza conclusa da Dio con Davide e ad accogliere Gesù come  Messia-Salvatore che adempie la promessa di Dio con la sua risurrezione dai  morti, divenendo sorgente di vita per i credenti. 
Capitolo 14 
  Evangelizzazione  di Iconio 
  1 Anche ad Icònio essi entrarono nella sinagoga dei Giudei e vi  parlarono in modo tale che un gran numero di Giudei e di Greci divennero  credenti. 2 Ma i Giudei rimasti increduli eccitarono e inasprirono  gli animi dei pagani contro i fratelli. 3 Rimasero tuttavia colà per  un certo tempo e parlavano fiduciosi nel Signore, che rendeva testimonianza  alla predicazione della sua grazia e concedeva che per mano loro si operassero  segni e prodigi. 4 E la popolazione della città si divise,  schierandosi gli uni dalla parte dei Giudei, gli altri dalla parte degli  apostoli. 5 Ma quando ci fu un tentativo dei pagani e dei Giudei con  i loro capi per maltrattarli e lapidarli, 6 essi se ne accorsero e  fuggirono nelle città della Licaònia, Listra e Derbe e nei dintorni, 7 e  là continuavano a predicare il vangelo.
  A Iconio si  ripetono gli avvenimenti di Antiochia di Pisidia: predicazione nella sinagoga e  fondazione di una comunità di cristiani provenienti sia dal giudaismo che dal  paganesimo, mentre i giudei che non si convertono scatenano la persecuzione  contro i missionari. La popolazione della città si divide quando i giudei che  si rifiutano di credere in Gesù Messia si mettono ad aizzare i pagani contro i  due inviati. Lo scopo viene raggiunto, perché Paolo e Barnaba, per sottrarsi  alla lapidazione, devono fuggire a Listra e poi a Derbe, due colonie romane  situate sulla "via regia" che collega Efeso ad Antiochia di Siria. 
  Guarigione  di un paralizzato 
  8 C'era a  Listra un uomo paralizzato alle gambe, storpio sin dalla nascita, che non aveva  mai camminato. 9 Egli ascoltava il discorso di Paolo e questi,  fissandolo con lo sguardo e notando che aveva fede di esser risanato, 10 disse  a gran voce: «Alzati diritto in piedi!». Egli fece un balzo e si mise a  camminare. 11 La gente allora, al vedere ciò che Paolo aveva fatto,  esclamò in dialetto licaonio e disse: «Gli dei sono scesi tra di noi in figura  umana!». 12 E chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes, perché era lui  il più eloquente.
  13 Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio era all'ingresso della  città, recando alle porte tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme  alla folla. 14 Sentendo ciò, gli apostoli Barnaba e Paolo si  strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando: 15 «Cittadini,  perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi  predichiamo di convertirvi da queste vanità al Dio vivente che ha fatto il  cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano. 16 Egli,  nelle generazioni passate, ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; 17  ma non ha cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo  piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi il cibo e riempiendo di letizia  i vostri cuori». 18 E così dicendo, riuscirono a fatica a far  desistere la folla dall'offrire loro un sacrificio.
  Paolo  guarisce un uomo "zoppo dal grembo di sua madre", come aveva fatto  Pietro, accompagnato da Giovanni, alla porta del Tempio (capitolo 3). Come  Pietro, Paolo fissa gli occhi sull’uomo che gli sta davanti, e vede che ha  "fede per essere salvato" (v. 9; cf. 3,16). Allora gli ordina ad alta  voce: "Alzati diritto sui tuoi piedi!". Lo Spirito Santo che abita  nel cuore del missionario, gli permettere di riconoscere quella fede in Gesù  che dà la guarigione (cf. 3,16), la fede nel "Nome dato tra gli uomini in  cui bisogna che noi siamo salvati" (4,12). 
  Come a  Gerusalemme, anche qui la folla reagisce con entusiasmo (cf. 3,9). Tuttavia in  questa città della Licaònia è evidentemente escluso che si renda gloria al Dio  unico. La lettura religiosa dell’avvenimento è totalmente diversa: "Gli  dei sono discesi presso di noi!" (v. 11). E all’insaputa dei due  missionari, che non capiscono il dialetto licaonico, il sacerdote del tempio di  Zeus situato fuori dalle mura, si affretta a preparare un sacrificio in loro  onore, facendo portare tori e ghirlande. 
  I due  missionari, avendo saputo quello che si stava preparando, da bravi giudei si  lacerano la vesti in segno di riprovazione di fronte alla bestemmia, sia pure  del tutto involontaria. E Paolo interviene immediatamente con un discorso abile  e nello stesso tempo rispettoso, adatto a un uditorio di abitanti della  provincia. La sua intenzione è prima di tutto dissuasiva, ma non mancano i  preliminari dell’evangelizzazione: "Vi predichiamo di convertirvi da  queste vanità al Dio vivente che ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutte  le cose che in essi si trovano. Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato  che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non ha cessato di dar prova di sé  beneficando, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi  il cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori". Quello che viene  presentato in tal modo è un Dio di grazia, e Paolo e Barnaba sono gli inviati  di questo Dio colmo di sollecitudine e di tenerezza. L’accento non viene messo  assolutamente sulle colpe passate, ma su una buona notizia da accogliere: la  vita che gli ascoltatori godono è un dono del Dio unico. La colpa consisterebbe  nel non ascoltare la Parola  di grazia che risuona in quel momento per loro. 
  C’è dunque  una conversione a cui acconsentire: bisogna distogliersi dalle cose vane, cioè  dall’idolatria, per volgersi al Dio vivente. Queste parole richiamano il  processo agli idoli promosso dalla Sapienza (cf. Sap 13; Rm 1,19-20). Paolo  invita i suoi ascoltatori a scoprire il Dio invisibile come l’artefice del  mondo invisibile: il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che essi contengono.  E invita a scoprire la provvidenza di questo Dio, che dà agli uomini la libertà  invece di mantenerli schiavi di un destino implacabile. Ma non è facile  capovolgere il modo di pensare di una folla in fermento, invitandola ad aprirsi  a una rivelazione divina. A stento i missionari riescono a persuadere la gente  a rinunciare al sacrificio e a calmarsi. 
  Questo  abbozzo di discorso missionario verrà sviluppato nella proclamazione di Paolo  davanti all’Aeròpago di Atene (17,22-31). Fin d’ora si percepisce che il Dio  proposto a questi pagani non chiede loro l’osservanza delle 613 prescrizioni  della Legge. In filigrana appare l’immagine del Padre che ha dato il suo Figlio  perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza (cf. Gv 10,10). Si capisce  allora l’accusa di tradimento o di apostasia che i giudei faranno a Paolo. Non  possono accettare che si serva il Dio unico in modo diverso da quello che egli  stesso aveva prescritto nella Legge. 
  Fine  della missione 
  19 Ma giunsero da Antiochia e da Icònio alcuni Giudei, i quali trassero  dalla loro parte la folla; essi presero Paolo a sassate e quindi lo  trascinarono fuori della città, credendolo morto. 20 Allora gli si  fecero attorno i discepoli ed egli, alzatosi, entrò in città. Il giorno dopo  partì con Barnaba alla volta di Derbe.
  21 Dopo aver predicato il vangelo in quella città e fatto un numero  considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Icònio e Antiochia, 22 rianimando  i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede poiché, dicevano, è  necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio. 23  Costituirono quindi per loro in ogni comunità alcuni anziani e dopo avere  pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. 24  Attraversata poi la   Pisidia, raggiunsero la Panfilia 25 e dopo avere predicato la  parola di Dio a Perge, scesero ad Attalìa; 26 di qui fecero vela per  Antiochia là dove erano stati affidati alla grazia del Signore per l'impresa  che avevano compiuto.
  27 Non appena furono arrivati, riunirono la comunità e riferirono tutto  quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la  porta della fede. 28 E si fermarono per non poco tempo insieme ai  discepoli.
  Il racconto  passa bruscamente a segnalare l’arrivo a Listra di giudei provenienti da  Antiochia (distante 180   chilometri) e da Icònio, dove Paolo e Barnaba avevano  rischiato di essere lapidati. Essi persuadono la folla e danno esecuzione al  loro progetto. E Paolo viene lapidato. Dato per morto, egli viene trascinato  fuori dalla città. Ma Paolo si rialza in mezzo ai suoi discepoli e rientra in  città. Se ne andrà il giorno seguente per recarsi a Derbe. Egli stesso, nella  seconda lettera ai Corinzi, ci ha trasmesso il ricordo di questo momento in cui  ha sfiorato la morte (2Cor 11,25). 
  Paolo e  Barnaba raccolgono un bel numero di credenti a Derbe (v. 21), una tranquilla  cittadina in cui l’imperatore Claudio aveva insediato una colonia di veterani.  Non si fa il minimo accenno a conflitti o ad ostilità nei loro confronti. I  cristiani di Derbe parteciperanno alla colletta fatta da Paolo a favore della  Chiesa di Gerusalemme (cf. 20,4). 
  Portato a  termine il loro lavoro a Derbe, i due inviati prendono la via del ritorno, esortando  tutti a perseverare nella fede. Procedendo in senso inverso, i missionari  visitano Listra, Icònio e poi Antiochia di Pisidia. Stranamente il racconto non  segnala nessuna opposizione e non accenna più ai tragici avvenimenti che erano  capitati in quelle città. 
  Paolo ha  sperimentato che una certa attesa messianica sbagliata è omicida, e in  definitiva contraria al disegno di Dio. Di conseguenza, quando incoraggia i  discepoli a perseverare nella fede, dice loro senza mezzi termini: "è  necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio"  (v. 22). L’opera della grazia non si realizza che attraverso un molteplicità di  prove. Prove per Israele e prove per ogni cristiano. Gesù stesso le aveva  annunciate (cf. Lc 21,12-19). 
  In ciascuna  delle Chiese visitate da Paolo e Barnaba vengono designati alcuni  "anziani". E’ la prima volta che si parla di anziani al di fuori  della comunità di Gerusalemme, dove questa istituzione sembrava usuale (cf.  11,30; ecc.), in conformità con l’organizzazione delle comunità giudaiche. 
  Ripercorrendo  la strada in senso inverso fino a Perge e al porto di Attalìa, i missionari  tornano ad Antiochia sull’Oronte "dove erano stati affidati alla grazia  del Signore per l’impresa che avevano compiuto" (v. 26). I missionari  annunciano alla Chiesa "tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro  e come aveva aperto ai pagani la porta della fede" (v. 27). Queste parole  fanno eco alla dichiarazione degli apostoli dopo la conversione di Cornelio e  dei suoi: "Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché  abbiano la vita" (11,18). 
Capitolo 15 
  1 Ora alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli questa  dottrina: «Se non vi fate circoncidere secondo l'uso di Mosè, non potete esser  salvi».
  2 Poiché Paolo e Barnaba si opponevano risolutamente e discutevano  animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Barnaba e alcuni altri di  loro andassero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione.  3 Essi dunque, scortati per un tratto dalla comunità, attraversarono  la Fenicia e la Samaria raccontando la  conversione dei pagani e suscitando grande gioia in tutti i fratelli. 4 Giunti  poi a Gerusalemme, furono ricevuti dalla Chiesa, dagli apostoli e dagli anziani  e riferirono tutto ciò che Dio aveva compiuto per mezzo loro. 
  5 Ma si alzarono alcuni della setta dei farisei, che erano diventati  credenti, affermando: è necessario circonciderli e ordinar loro di osservare la  legge di Mosè.
  Da ciò che è  avvenuto a Cesarea con l’incontro tra Pietro e Cornelio a ciò che è capitato a  partire da Antiochia con il viaggio di Paolo e Barnaba nelle regioni dell’Asia  minore, è stato compiuto un notevole cammino. L’evento di Cesarea costituiva  ancora un’eccezione: si trattava della conversione di un piccolo gruppo di  pagani timorati di Dio, marginale rispetto alle Chiese palestinesi. Ad  Antiochia invece ci troviamo davanti alla situazione opposta: sono gli ebrei ad  essere in minoranza nelle regioni pagane in cui i missionari hanno diffuso la Parola di grazia. A Cesarea,  Cornelio e i suoi non erano una minaccia per la specificità giudaica delle  Chiese, anzi, la loro conversione valorizzava Israele e la sua tradizione  millenaria, perché Cornelio e i suoi erano "timorati di Dio". Ad  Antiochia invece, i figli delle nazioni si sono convertiti in maggior numero e  hanno ricevuto per grazia una parte di eredità in comune con Israele,  inaugurando in tal modo una situazione nuova. Infatti essi si riuniscono in  Chiese in cui il numero dei giudei è ridotto al minimo e dove non osservano i  comandamenti e le usanze che Dio aveva dato da sempre al popolo ebraico. Di  conseguenza queste usanze risultano relativizzate.
  La domanda  che ne consegue è rilevante: si può appartenere al popolo di Dio senza  osservare le prescrizioni date da Dio a questo popolo? Tutto ciò che in  passato Dio ha fatto con Israele è innegabile, ma ciò che quello stesso Dio sta  operando in mezzo alle nazioni è altrettanto innegabile. Gli apostoli che  avevano letto e interpretato l’evento "Cornelio", dovranno fare anche  la lettura dell’evento "Antiochia e dintorni", valutandone la  portata. Si tratta davvero di un’opera della grazia? C’è davvero la porta  della fede (14,27) aperta ai figli delle nazioni? 
  In questo  capitolo 15 Pietro pronuncerà una parola chiara e decisiva su tale questione  difficile. Ma esaminando bene il testo, vediamo già delinearsi una prima  risposta attraverso l’espressione: la porta della fede (14,27). 
  Al centro  del Vangelo secondo Luca, infatti, a proposito dell’ingresso dei figli  d’Israele nel regno di Dio, troviamo un’espressione parallela: la porta  stretta. Gesù dice: "Lottate per entrare attraverso la porta  stretta" (Lc 13,24). Questa porta conduce alla vita (cf. Mt 7,13) e  simboleggia la fedeltà alla Legge e ai Profeti (cf. Lc 16,31). Si tratta di una  fedeltà impossibile all’uomo, come Pietro metterà in evidenza poco più avanti:  "un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di  portare" (15,10). Ma ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio  (cf. Lc 18,27). Nel capitolo 13 del Vangelo secondo Luca la porta chiusa dal  padrone di casa (Lc 13,25) sottolinea questa impossibilità, proprio per  l’ostinato rifiuto, da parte dei destinatari ebrei di entrare per la nuova  porta della fede che è il Vangelo della grazia che viene loro offerto. Alla porta stretta che conduce alla vita corrisponde dunque la porta della  fede. 
  Il parallelo  che viene tracciato tra la via di Israele e quella dei figli delle nazioni fa  sorgere un grave problema. Molti in Israele saranno scandalizzati da questa opera  della grazia che rivela un itinerario di vita diverso da quello del giudeo:  una porta della fede aperta alle nazioni, un nuovo modo di agire di Dio,  molto differente da quello di cui Israele è consapevole di aver beneficiato. La  tentazione è quella di confrontare l’altra via con la propria e di emettere un  giudizio a partire dalla propria. Ricordiamo la risposta del figlio maggiore  (Israele) nella parabola del Padre misericordioso: "Ecco, io ti servo da  tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un  capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio (i popoli  pagani) che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai  ammazzato il vitello grasso" (Lc 15,29-30). 
  La  contestazione del figlio maggiore ci rimanda alla controversia iniziata ad  Antiochia in seguito all’affermazione categorica di alcuni personaggi venuti  dalla Giudea: "Se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè, non  potete essere salvi" (v. 1). La circoncisione, il cui precetto si trova in  Lv 12,3, appare come il segno impresso nella carne dell’alleanza di Dio  con Abramo (Gen 17,10-14). Essa ha reso perfetto il patriarca (Gen 17,1) ed è  considerata talmente sacra da essere indispensabile: "Il maschio non  circonciso… sia eliminato dal suo popolo: ha violato la mia alleanza" (Gen  17,14). La circoncisione costituisce dunque una via aperta verso la salvezza,  assolutamente obbligatoria per i figli d’Israele. E’ in gioco lo stretto legame  tra la Legge di  Mosè (in particolare la circoncisione, segno di appartenenza al popolo di Dio)  e la salvezza. E poiché la rivelazione viene fatta a Israele e non ad altri, soltanto l’ingresso nel popolo dell’alleanza permette di accedere alla salvezza rivelata  da Dio. Questo è il modo in cui Israele pone la questione. 
  Ma bisogna  assolutamente appartenere a Israele per essere salvati? Se la risposta è sì,  Barnaba si è ingannato quando ad Antiochia ha riconosciuto la grazia negli  incirconcisi (11,23) e Paolo e Barnaba devono rivedere il loro lavoro di  evangelizzazione a Cipro e nell’Asia minore, perché non hanno imposto la  circoncisione ai figli delle nazioni. 
  Per mettere  pace nella Chiesa di Antiochia, in cui si è creata una divisione a causa  dell’intervento dei giudei cristiani venuti dalla comunità di Gerusalemme, si  decide di mandare Paolo e Barnaba a Gerusalemme per sottoporre la questione al  discernimento degli apostoli e chiedere una decisione agli anziani della  Chiesa-madre. 
  Accolti  nell’assemblea dei credenti, radunata insieme agli apostoli e agli anziani, i  due inviati cominciano col fare un nuovo racconto del modo in cui le nazioni  sono approdate alla fede e "riferirono tutto ciò che Dio aveva compiuto  per mezzo loro"(v. 4; cf. 14,27). La prima reazione di alcuni dei farisei  diventati credenti è quella di affermare alla luce del disegno di Dio, così  come si è rivelato nella storia d’Israele, che non c’è alternativa alla  circoncisione per l’inserimento dei pagani convertiti nel popolo di Dio:  "è necessario circonciderli e ordinare loro di osservare la Legge di Mosè" (v. 5).  Bisogna dunque assoggettarli alla Legge di Mosè. Questa comprende 613  prescrizioni: 248 positive (il numero delle membra del corpo umano) e 365  negative (il numero dei giorni dell’anno). Chi la osserva scrupolosamente può  essere visitato da Dio in tutte le parti del suo corpo e può essere guidato dal  suo Creatore, che ogni giorno determina la sua azione per permettergli di  costruire se stesso. 
  Il v. 5  riprende il v. 1, sottolineando però che qualora si applicasse la circoncisione  che inserisce nel popolo di Dio ai pagani che hanno fede in Gesù, costoro  sarebbero tenuti a seguire la via di Israele, cioè ad osservare tutte le  prescrizioni della Legge di Mosè. 
  6 Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare questo  problema. 7 Dopo lunga discussione, Pietro si alzò e disse:
  «Fratelli, voi sapete che già da molto tempo Dio ha fatto una scelta  fra voi, perché i pagani ascoltassero per bocca mia la parola del vangelo e  venissero alla fede. 8 E Dio, che conosce i cuori, ha reso  testimonianza in loro favore concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a  noi; 9 e non ha fatto nessuna discriminazione tra noi e loro,  purificandone i cuori con la fede. 10 Or dunque, perché continuate a  tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri,  né noi siamo stati in grado di portare? 11 Noi crediamo che per la  grazia del Signore Gesù siamo salvati e nello stesso modo anche loro».
  12 Tutta l'assemblea tacque e stettero ad ascoltare Barnaba e Paolo che  riferivano quanti miracoli e prodigi Dio aveva compiuto tra i pagani per mezzo  loro.
  Pietro  prende la parola per ricordare gli avvenimenti del recente passato. Allude alla  giustificazione che ha dovuto fornire ai fratelli dopo aver ammesso al battesimo  i primi pagani (cf. 11,2-17). Ricorda la sua missione nei loro confronti,  collocandola sulla linea dell’elezione di Israele: "Dio ha fatto una  scelta tra voi, perché i pagani ascoltassero per bocca mia la parola del  Vangelo e venissero alla fede". Invita poi a considerare la portata di  questo avvenimento: Dio, che svela la realtà profonda dei cuori, ha dato a  quegli uomini lo Spirito Santo "come anche a noi" (v. 8; cf. 10,47).  La pentecoste di Cesarea (10,44-46) viene ricollegata a quella ricevuta dai Dodici  all’inizio (2,1-11). Dio ha attestato in tal modo che il cuore di quei pagani  era purificato per il semplice fatto che avevano creduto nel Signore Gesù,  mettendo ormai sullo stesso piano i pagani e i giudei che avevano aderito a  Cristo. 
  Pietro  riassume brevemente tutto ciò che Dio ha voluto svelare attraverso gli  avvenimenti di Cesarea, che egli ha vissuto personalmente e che gli altri  apostoli hanno convalidato, riconoscendo in essi il compimento della parola di  Gesù: "Sarete battezzati nello Spirito Santo" (1,5), e affermando la  loro piena corrispondenza al disegno di Dio (11,1-18). 
  Il dono  dello Spirito Santo presuppone il perdono dei peccati, come aveva sottolineato  Pietro nel discorso della Pentecoste (cf. 2,38). Se questo dono è stato effuso  su alcuni pagani, ciò significa che il loro cuore è stato purificato (cf.  10,15; 11,19). Dunque la fede è stata una porta di salvezza per questi pagani,  e quindi non esiste nessuna discriminazione tra i figli d’Israele e loro. 
  Il v. 10  introduce il momento della conclusione e dell’esortazione. I figli delle  nazioni sono stati raggiunti dalla grazia divina in un modo diverso da quello  degli ebrei. Gli uni e gli altri rispettino dunque la via attraverso la quale  sono stati raggiunti da Dio. Attraverso l’inattesa conversione dei pagani, gli  ebrei scoprono che la grazia divina si estende al di là di ogni osservanza, e  che la fede in Gesù, morto e risorto, supera la fedeltà alle pratiche della  Legge. 
  Paolo e  Barnaba, illuminati dalla parola di Pietro, riprendono il racconto dettagliato  dei segni e dei prodigi che Dio ha operato tramite loro tra le nazioni. 
  Il  discorso di Giacomo 
  13 Quand'essi ebbero finito di parlare, Giacomo aggiunse: 14 «Fratelli,  ascoltatemi. Simone ha riferito come fin da principio Dio ha voluto scegliere  tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome. 15 Con questo si accordano  le parole dei profeti, come sta scritto:
  16 Dopo queste cose ritornerò e riedificherò la tenda di Davide che era  caduta; ne riparerò le rovine e la rialzerò, 
  17 perché anche gli altri uomini cerchino il Signore e tutte le genti  sulle quali è stato invocato il mio nome, 
  18 dice il Signore che fa queste cose da lui conosciute dall'eternità. 
  19 Per questo io ritengo che non si debba importunare quelli che si  convertono a Dio tra i pagani, 20 ma solo si ordini loro di  astenersi dalle sozzure degli idoli, dalla impudicizia, dagli animali soffocati  e dal sangue. 21 Mosè infatti, fin dai tempi antichi, ha chi lo  predica in ogni città, poiché viene letto ogni sabato nelle sinagoghe».
  Giacomo, in  nome degli anziani trasmette le direttive pastorali dedotte dall’annuncio  profetico di Pietro. L’intervento di Pietro comprendeva due punti: una memoria  dell’opera di Dio a favore dei pagani (vv. 7-9) e una proclamazione profetica che  dettava il comportamento per l’oggi (vv. 10-11). Il discorso di Giacomo ricalca  il medesimo schema: un’evocazione di ciò che Dio ha fatto per i pagani fin  dall’inizio, con riferimento al profeta Amos (vv. 14-18) e un’indicazione delle  conseguenze dell’iniziativa di Dio per giungere a un comportamento pratico da  assumere per il futuro (vv. 19-21). 
  L’obiettivo  del discorso di Giacomo è chiaro: non infastidire i figli delle nazioni che si  sono convertiti, cioè desistere di metterli in difficoltà e di collocarli in  una situazione sbagliata. Il loro posto giusto è quello di considerarli figli  di Noè e, di conseguenza, tenuti ad osservare i comandamenti di Noè. Egli  si riferisce a quelli che i rabbini chiamavano i comandamenti di Noè (mitswot  bene Noah), una sorta di legge naturale che ritenevano dovesse essere  osservata da ogni persona onesta e sulla quale sembra che esistesse un consenso  nelle regioni dell’antico Medio Oriente. Tali comandamenti erano sette (sei  divieti: non bestemmiare il Nome di Dio, non praticare l’idolatria, non  contrarre unioni matrimoniali illecite, non commettere omicidio, non rubare  facendo violenza, non prendere un pezzo di carne da un animale vivo; e una  prescrizione: stabilire un sistema legale per vigilare sull’applicazione di questi  divieti). Questa versione dei comandamenti è stata fissata nel II secolo d.C.  Ma la più antica versione conosciuta si trova nel Libro dei Giubilei (7,20-39)  che risale probabilmente all’epoca di Giovanni Ircano (129-104 a.C.), che aveva  sottomesso gli edomiti costringendoli ad adottare il giudaismo. 
  Nella sua  risoluzione, Giacomo riprende soltanto quattro comandamenti di Noè: il culto  degli idoli, le colpe sessuali (come l’incesto, l’adulterio e le unioni  proibite), il mangiare carne di animali soffocati contenente sangue e  l’omicidio. Come dice il v. 21, chiunque avesse avuto minimamente a che fare  con i giudei che vivevano nelle città dell’impero era senza dubbio a conoscenza  di questa normativa giudaica riguardante i non circoncisi. Infatti i cristiani  provenienti dal paganesimo accoglieranno questa risoluzione non come un peso  supplementare ma come un gesto di comunione e con grande gioia (cf. 15,31). 
  Per alcuni  commentatori i quattro precetti richiamati da Giacomo sarebbero presi dal libro  del Levitico 17-18. Difatti, la versione orientale, chiamata Testo Alessandrino  (TA) sottolinea l’aspetto rituale o cultuale dei precetti, mentre quella  occidentale, chiamata Testo Occidentale (TO) sottolinea l’aspetto morale (cf.  At 15,20-29 e 21,25). Di conseguenza ci si chiede: perché imporre ai pagani  convertiti alcuni comandamenti di ordine rituale, quando li si esenta  dall’osservanza della Legge? La risposta chiarificatrice, in questo caso, è in  Lv 17-18, che riporta nello stesso ordine i quattro precetti in questione,  indicando che sono rivolti al popolo ebraico e ad ogni "straniero  dimorante in mezzo a loro" Queste regole avevano lo scopo di rendere  possibile la coesistenza tra giudei e pagani. E ciò che Giacomo intende  salvaguardare è appunto la coesistenza tra credenti di origine diversa. 
  La  lettera apostolica 
  22 Allora gli apostoli, gli anziani e tutta la Chiesa decisero di eleggere  alcuni di loro e di inviarli ad Antiochia insieme a Paolo e Barnaba: Giuda  chiamato Barsabba e Sila, uomini tenuti in grande considerazione tra i  fratelli. 23 E consegnarono loro la seguente lettera: «Gli apostoli  e gli anziani ai fratelli di Antiochia, di Siria e di Cilicia che provengono  dai pagani, salute! 24 Abbiamo saputo che alcuni da parte nostra, ai  quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con i loro  discorsi sconvolgendo i vostri animi. 25 Abbiamo perciò deciso tutti  d'accordo di eleggere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri  carissimi Barnaba e Paolo, 26 uomini che hanno votato la loro vita  al nome del nostro Signore Gesù Cristo. 27 Abbiamo mandato dunque  Giuda e Sila, che vi riferiranno anch'essi queste stesse cose a voce. 28 Abbiamo  deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori  di queste cose necessarie: 29 astenervi dalle carni offerte agli  idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia. Farete cosa  buona perciò a guardarvi da queste cose. State bene».
  I  delegati ad Antiochia 
  30 Essi allora, congedatisi, discesero ad Antiochia e riunita la  comunità consegnarono la lettera. 31 Quando l'ebbero letta, si  rallegrarono per l'incoraggiamento che infondeva. 32 Giuda e Sila,  essendo anch'essi profeti, parlarono molto per incoraggiare i fratelli e li  fortificarono. 33 Dopo un certo tempo furono congedati con auguri di  pace dai fratelli, per tornare da quelli che li avevano inviati. 34 .  35 Paolo invece e Barnaba rimasero ad Antiochia, insegnando e  annunziando, insieme a molti altri, la parola del Signore.
  La decisione  presa da Giacomo viene messa per iscritto per entrare nella tradizione vivente  del popolo di Dio. Ma il decreto deve essere proclamato a viva voce. Lo scritto  sarà dunque inviato tramite alcuni delegati "che devono riferire a voce  queste cose" (v. 27). Il decreto avrà effettivamente valore di legge  soltanto là dove sarà comunicato per iscritto e a parole, cioè nelle Chiese di  Antiochia, della Siria e della Cilicia (v. 23). 
  Come  portavoce del decreto vengono scelti due uomini, che devono accompagnare Paolo  e Barnaba: un certo Giuda, figlio di Sabba, e Sila. 
  Dopo  l’indicazione delle motivazioni e la notizia dell’invio dei due delegati di  Gerusalemme, il testo della decisione della Chiesa-madre si apre in maniera  solenne: "E’ sembrato bene allo Spirito Santo e a noi" (v. 28). Il  decreto promulgato dagli anziani indica come "indispensabili" alcune  osservanze richieste ai credenti di origine pagana. Tali osservanze sono  necessarie per superare le tensioni derivanti dal carattere composito delle  Chiese in questione. Lo Spirito Santo le ha suggerite perché si riesca a vivere  insieme l’unanimità, rispettando nello stesso tempo la via della fede di  ciascuno. 
  La lettera  termina con un’espressione positiva e incoraggiante: "Agirete bene!"  (v. 29). Questo finale della lettera si muove in senso contrario rispetto alla  posizione di coloro che erano venuti dalla Giudea (v. 1) pretendendo che la  circoncisione fosse necessaria per la salvezza. La gioia e la pace ritrovate  dai cristiani di Antiochia conferma che lo Spirito Santo è l’autore di questa decisione. 
  In questo  genere di conflitti è possibile la riconciliazione se le fazioni opposte  accettano di ascoltare il vissuto di ciascuno; ciò spiega l’importanza del  racconto degli avvenimenti (14,27; 15,3-4.12). Di conseguenza è indispensabile  la reciproca fiducia in ciò che l’altro ha sperimentato, una fiducia fondata  sulla certezza che il medesimo Dio ha incontrato ciascuno lungo la sua strada. 
  I delegati  di Gerusalemme rimangono ad Antiochia per un certo periodo di tempo (v. 33),  svolgendo il proprio ministero profetico di consolazione e di incoraggiamento  in mezzo ai credenti. Paolo e Barnaba continuano la loro opera di insegnamento  e di evangelizzazione. 
  IV.  LE MISSIONI DI PAOLO 
  Paolo  si separa da Barnaba e si aggrega Sila 
  36 Dopo alcuni giorni Paolo disse a Barnaba: «Ritorniamo a far visita  ai fratelli in tutte le città nelle quali abbiamo annunziato la parola del  Signore, per vedere come stanno». 37 Barnaba voleva prendere insieme  anche Giovanni, detto Marco, 38 ma Paolo riteneva che non si dovesse  prendere uno che si era allontanato da loro nella Panfilia e non aveva voluto  partecipare alla loro opera. 39 Il dissenso fu tale che si  separarono l'uno dall'altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s'imbarcò per  Cipro. 40 Paolo invece scelse Sila e partì, raccomandato dai  fratelli alla grazia del Signore.
  41 E attraversando la   Siria e la   Cilicia, dava nuova forza alle comunità.
  La questione  delle condizioni richieste per una comunione di vita tra credenti di estrazione  giudaica e credenti di origine pagana ha trovato a Gerusalemme una soluzione  "consolante" per la comunità di Antiochia (cf. 15,31). Ora Paolo può  partire per il suo giro apostolico. Ha l’avallo della Chiesa-madre. Il suo  compagno Barnaba era, al suo fianco, il testimone esemplare della comunità di  Gerusalemme. Ma ora i due si dividono a causa di Giovanni Marco, cugino di  Barnaba. Barnaba, infatti, ha deciso di dare nuovamente fiducia a Giovanni  Marco e di associarlo all’équipe, nonostante l’episodio della sua mancata  partenza per l’altipiano anatolico, considerata da Paolo come una defezione  (cf.13,13). Per Paolo non si scherza con l’opera (v. 38); chi la  intraprende è consegnato alla grazia (14,26; 15,26.40). Non sappiamo  tuttavia la precisa ragione del disaccordo tra i due. 
Barnaba parte con Giovanni Marco, dirigendosi verso l’isola dove era nato, Cipro. Paolo invece sceglie come suo collaboratore Sila, membro importante della comunità di Gerusalemme, che insieme a Giuda Bar Sabba era stato inviato ad Antiochia dalla comunità di Gerusalemme. Tramite questo nuovo compagno, Paolo mantiene i suoi legami con la Chiesa-madre. La divisione dell’équipe non sembra un episodio tragico; infatti fornisce l’occasione per uno sdoppiamento, paragonabile allo sviluppo di una cellula vivente. Lo scopo del viaggio è presentato come una "visita" alle comunità fondate durante il viaggio precedente attraverso l’Anatolia.
Capitolo 16 
  In  Licaonia Paolo si aggrega Timoteo 
  1 Paolo si recò a Derbe e a Listra. C'era qui un discepolo chiamato  Timòteo, figlio di una donna giudea credente e di padre greco; 2 egli  era assai stimato dai fratelli di Listra e di Icònio. 3 Paolo volle  che partisse con lui, lo prese e lo fece circoncidere per riguardo ai Giudei  che si trovavano in quelle regioni; tutti infatti sapevano che suo padre era  greco. 4 Percorrendo le città, trasmettevano loro le decisioni prese  dagli apostoli e dagli anziani di Gerusalemme, perché le osservassero. 5 Le  comunità intanto si andavano fortificando nella fede e crescevano di numero  ogni giorno.
  Paolo  completa la sua équipe prendendo con sé Timoteo (che significa colui che  onora Dio). Egli nutre molto affetto per questo fedele collaboratore  come risulta soprattutto dalla Lettera ai Filippesi (1,1;2,19-23) e da quelle  lettere dette "pastorali" che secondo la Tradizione sono state  indirizzate da Paolo a questo suo caro compagno di missione. Benché suo padre  sia greco, Timoteo è giudeo per parte di sua madre Eunice (2Tm 11,5), una  giudea diventata cristiana; egli osserva dunque la Legge ed è con pieno diritto  un figlio di Israele, dal momento che l’appartenenza giudica è trasmessa dalla  madre. Paolo si preoccupa che venga circonciso, non solo per non provocare i  giudei della regione, ma anche perché sia ben chiaro che l’annuncio cristiano  non viene trasmesso da giudei apostati. Del tutto diverso sarà il caso di Tito:  trattandosi di un greco, Paolo si opporrà decisamente alla sua circoncisione  (cf. Gal 2,3-5).
  Traversata  dell'Asia Minore 
  6 Attraversarono quindi la   Frigia e la regione della Galazia, avendo lo Spirito Santo  vietato loro di predicare la parola nella provincia di Asia. 7 Raggiunta  la Misia, si  dirigevano verso la Bitinia,  ma lo Spirito di Gesù non lo permise loro; 8 così, attraversata la Misia, discesero a Troade. 9  Durante la notte apparve a Paolo una visione: gli stava davanti un  Macedone e lo supplicava: «Passa in Macedonia e aiutaci!». 10 Dopo  che ebbe avuto questa visione, subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che  Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore.
  L'arrivo  a Filippi 
  11 Salpati da Troade, facemmo vela verso Samotracia e il giorno dopo  verso Neapoli e 12 di qui a Filippi, colonia romana e città del  primo distretto della Macedonia. Restammo in questa città alcuni giorni; 13  il sabato uscimmo fuori della porta lungo il fiume, dove ritenevamo che  si facesse la preghiera, e sedutici rivolgevamo la parola alle donne colà  riunite. 14 C'era  ad ascoltare anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della  città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per  aderire alle parole di Paolo. 15 Dopo esser stata battezzata insieme  alla sua famiglia, ci invitò: «Se avete giudicato ch'io sia fedele al Signore,  venite ad abitare nella mia casa». E ci costrinse ad accettare.
  Lo Spirito  Santo impedisce ai missionari di "predicare la Parola nella provincia di  Asia" (v. 6) e di dirigersi verso la Bitinia (v. 7). Luca non chiarisce le circostanze  di questo cambiamento di programma. Il racconto di questo lungo giro (circa 1500 chilometri)  occupa soltanto tre versetti (vv. 6-8). Luca non si propone di narrare le  peripezie della missione; il suo obiettivo è mostrare che è lo Spirito Santo  che ne determina la traiettoria. Paolo si vede costretto dallo Spirito Santo a  modificare i suoi progetti. Una notte, a Tròade, gli apparve in sogno un  Macedone che gli dice: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (v. 9).  Incomincia la missione in Europa. 
  Sbarcati nel  porto di Neapoli, Paolo e i suoi entrano a Filippi, una "colonia"  romana. Era popolata dai veterani delle legioni vincitrici congedate dopo la  battaglia di Antonio e Ottaviano contro Bruto e Cassio (42 a.C.), ai quali si era  aggiunto un contingente di persone che Ottaviano aveva esiliato da Roma dopo la  battaglia di Azio (31 a.C.). 
  Gli ebrei  erano pochi a Filippi, e non esisteva una sinagoga. C’era soltanto un  "luogo di preghiera" fuori dalle mura, vicino al fiume. 
  Recandosi in  questo luogo, in giorno di sabato, Paolo incontra un gruppo di donne che si  sono radunate per pregare. Fra queste donne c'è Lidia, originaria di Tiàtira,  che dirige una piccola azienda tessile utilizzando la porpora del suo paese. Il  cuore di Lidia si apre per aderire alle parole della buona notizia annunciata  da Paolo. Riconoscendo in lei la fede nel Signore, Paolo la battezza subito, con  tutta la sua "casa". La donna allora offre ospitalità ai missionari,  invitandoli ad educare e a nutrire la sua fede appena nata. E li accoglie in  casa sua. 
  In questo  modo viene fondata la prima comunità d’Europa, a partire da un gruppo di donne  che pregano il Dio unico e che credono nel Signore Gesù. La comunità di  Filippi, sulla quale Luca fornisce poche notizie, rimarrà molto cara al cuore  di Paolo. L’apostolo nutrirà per i Filippesi molto affetto, che sarà ben  ricambiato, e scriverà loro anche una lettera che ancora si legge in tutte le  Chiese: la Lettera  di Paolo apostolo ai Filippesi. 
  Paolo  e Sila in prigione 
  16 Mentre andavamo alla preghiera, venne verso di noi una giovane  schiava, che aveva uno spirito di divinazione e procurava molto guadagno ai  suoi padroni facendo l'indovina. 17 Essa seguiva Paolo e noi  gridando: «Questi uomini sono servi del Dio Altissimo e vi annunziano la via  della salvezza». 18 Questo fece per molti giorni finché Paolo, mal  sopportando la cosa, si volse e disse allo spirito: «In nome di Gesù Cristo ti  ordino di partire da lei». E lo spirito partì all'istante. 19 Ma  vedendo i padroni che era partita anche la speranza del loro guadagno, presero  Paolo e Sila e li trascinarono nella piazza principale davanti ai capi della  città; 20 presentandoli ai magistrati dissero: «Questi uomini  gettano il disordine nella nostra città; sono Giudei 21 e predicano  usanze che a noi Romani non è lecito accogliere né praticare». 22 La  folla allora insorse contro di loro, mentre i magistrati, fatti strappare loro  i vestiti, ordinarono di bastonarli 23 e dopo averli caricati di  colpi, li gettarono in prigione e ordinarono al carceriere di far buona  guardia. 24 Egli, ricevuto quest'ordine, li gettò nella cella più  interna della prigione e strinse i loro piedi nei ceppi.
  Nell’ambiente  latino e militare di Filippi, non stupisce che qualcuno si faccia promotore del  mantenimento dell’ordine e accusi Paolo e gli altri testimoni della Parola di  introdurre pratiche contrarie alle usanze romane (vv. 20-21). Qual è l’episodio  che scatena questa opposizione? Un semplice gesto di liberazione. Pietro e  Giovanni, come ricorderete, si erano trovati in prigione dopo che avevano  guarito lo zoppo che stava alla porta Bella del Tempio (4,3). Ora anche Paolo e  Sila perdono la libertà perché liberano una giovane schiava. Tipico esempio  dello "scambio" evangelico! La ragazza procurava molti guadagni ai  suoi padroni praticando la divinazione, non come veggente, ma attraverso modi  di parlare fuori dal normale: "urlava" (v. 17). L’oracolo che  continua a ripetere è pura verità: "Questi uomini sono servi del Dio  Altissimo, i quali vi annunciano una via di salvezza" (v. 17). La ragazza  non si sente chiamata in causa da questo fatto; il suo avvertimento è rivolto  agli altri: "essi vi annunciano". Le sue parole hanno il  carattere ripetitivo e disumanizzante degli slogan pubblicitari. E’ evidente  che si tratta di un’alienata. Luca dice che è posseduta da uno "spirito  pitone", con riferimento al serpente che custodiva l’oracolo di Delfi, di  cui era sacerdotessa Pizia. Anche nel Vangelo ci sono dei demoni che gridano a  Gesù la pura verità: "So chi tu sei: il Santo di Dio!" (Lc 4,34) –  "Tu sei il Figlio di Dio" (Lc 4,41). Ma Gesù li fa tacere. La buona  notizia è portata da testimoni che impegnano la propria vita, non da uomini  ridotti ad altoparlanti. 
  Non potendo  sopportare una simile degradazione, Paolo pronuncia l’esorcismo liberatore:  Dice allo "spirito pitone": "Ti comando, nel Nome di Gesù  Cristo, di uscire da lei!" (v. 18). Lo spirito esce e con lui se ne va  anche la speranza del guadagno su cui puntavano i padroni della ragazza. La  loro reazione è estremamente violenta: trascinano Paolo e Sila nella piazza del  tribunale. Il capo d’accusa è semplice: attentato all’ordine pubblico, infrazione  delle leggi romane, perché: "Questi uomini gettano il disordine nella  nostra città; sono giudei e predicano usanze che a noi Romani non è lecito  accogliere né praticare" (v. 21). 
  I magistrati  non ritengono neppure necessario verificare l’esattezza dell’accusa e ordinano  che Paolo e Sila siano bastonati e messi in prigione. E’ il luogo dove vanno a  finire normalmente i testimoni della Parola. La cosa non sconcerta i due  evangelizzatori, i quali, con una coerenza sconcertante alla loro missione, trasformano  la prigione in un luogo di preghiera. 
  Liberazione  miracolosa dei missionari 
  25 Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio,  mentre i carcerati stavano ad ascoltarli. 26 D'improvviso venne un  terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito  tutte le porte si aprirono e si sciolsero le catene di tutti. 27 Il  carceriere si svegliò e vedendo aperte le porte della prigione, tirò fuori la  spada per uccidersi, pensando che i prigionieri fossero fuggiti. 28 Ma  Paolo gli gridò forte: «Non farti del male, siamo tutti qui». 29 Quegli  allora chiese un lume, si precipitò dentro e tremando si gettò ai piedi di  Paolo e Sila; 30 poi li condusse fuori e disse: «Signori, cosa devo  fare per esser salvato?». 31 Risposero: «Credi nel Signore Gesù e  sarai salvato tu e la tua famiglia». 32 E annunziarono la parola del  Signore a lui e a tutti quelli della sua casa. 33 Egli li prese  allora in disparte a quella medesima ora della notte, ne lavò le piaghe e  subito si fece battezzare con tutti i suoi; 34 poi li fece salire in  casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per  avere creduto in Dio.
  35 Fattosi giorno, i magistrati inviarono le guardie a dire: «Libera  quegli uomini!». 36 Il carceriere annunziò a Paolo questo messaggio:  «I magistrati hanno ordinato di lasciarvi andare! Potete dunque uscire e  andarvene in pace». 37 Ma Paolo disse alle guardie: «Ci hanno  percosso in pubblico e senza processo, sebbene siamo cittadini romani, e ci  hanno gettati in prigione; e ora ci fanno uscire di nascosto? No davvero!  Vengano di persona a condurci fuori!». 38 E le guardie riferirono ai  magistrati queste parole. All'udire che erano cittadini romani, si  spaventarono; 39 vennero e si scusarono con loro; poi li fecero  uscire e li pregarono di partire dalla città. 40 Usciti dalla  prigione, si recarono a casa di Lidia dove, incontrati i fratelli, li  esortarono e poi partirono.
  Gli  avvenimenti che si svolgono nel carcere di Filippi vanno accostati alla prima  Pentecoste a Gerusalemme (At 2). I terremoti sono frequenti in questa regione;  da allora ad oggi hanno devastato più volte l’antica città di Filippi. Luca non  dice di che natura sia il sisma che scuote la prigione, ma certamente è una  manifestazione di Dio che scende in quel luogo per irrompere nella vita della  guardia del carcere e dei suoi familiari (v. 33). Quando la guardia vede le  porte del carcere aperte pensa di non poter far altro che suicidarsi. Lasciar  fuggire i detenuti era una colpa che meritava al carceriere la stessa pena a  cui essi erano condannati (cf: 2,17; 27,42). Piuttosto che rischiare la  decapitazione, egli preferisce uccidersi. Soltanto le parole di Paolo riescono  a dissuaderlo. Tremando come Mosè alla vista del roveto ardente (cf. 7,32), la  guardia si getta ai piedi di Paolo e Sila. La presenza divina irrompe nella sua  vita. Senza esitazione pone ai due annunciatori del Vangelo la domanda che apre  alla fede e al battesimo: "Signori, cosa devo fare per essere  salvato?" (v. 30). La risposta di Paolo e Sila è chiara: "Credi nel  Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia" (v. 31). 
  Segue una  breve catechesi, la celebrazione del battesimo e la cena (eucaristica?), con  grande gioia di tutti. 
  Nella finale  di questo episodio Paolo e Sila non pretendono le pubbliche scuse dai  magistrati della città; vogliono solamente che si ristabilisca e si riconosca  la verità dei fatti. Erano stati accusati di gettare il disordine nella città  di Filippi e di predicare usanze contro la legge dei romani (cf. v. 21), ora  esigono che il potere romano riconosca come prive di fondamento giuridico le  procedure che condannano come illecite le usanze cristiane. L’autore degli Atti  dunque riconosce al diritto romano la competenza e la capacità di intervenire  con efficacia nel campo dei rapporti sociali tra uomini di religioni diverse,  ma sottolinea nello stesso tempo la sua incompetenza in materia propriamente  religiosa: "Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di  Dio" (Lc 20,25). 
Capitolo 17 
  A  Tessalonica. Difficoltà con i Giudei 
  1 Seguendo la via di Anfipoli e Apollonia, giunsero a Tessalonica,  dove c'era una sinagoga dei Giudei. 2 Come era sua consuetudine  Paolo vi andò e per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture, 3  spiegandole e dimostrando che il Cristo doveva morire e risuscitare dai  morti; il Cristo, diceva, è quel Gesù che io vi annunzio. 4 Alcuni  di loro furono convinti e aderirono a Paolo e a Sila, come anche un buon numero  di Greci credenti in Dio e non poche donne della nobiltà. 5 Ma i  Giudei, ingelositi, trassero dalla loro parte alcuni pessimi individui di  piazza e, radunata gente, mettevano in subbuglio la città. Presentatisi alla  casa di Giasone, cercavano Paolo e Sila per condurli davanti al popolo. 6 Ma  non avendoli trovati, trascinarono Giasone e alcuni fratelli dai capi della  città gridando: «Quei tali che mettono il mondo in agitazione sono anche qui e  Giasone li ha ospitati. 7 Tutti costoro vanno contro i decreti  dell'imperatore, affermando che c'è un altro re, Gesù». 8 Così  misero in agitazione la popolazione e i capi della città che udivano queste  cose; 9 tuttavia, dopo avere ottenuto una cauzione da Giasone e  dagli altri, li rilasciarono.
  Nuove  difficoltà a Berea 
  10 Ma i fratelli subito, durante la notte, fecero partire Paolo e Sila  verso Berèa. Giunti colà entrarono nella sinagoga dei Giudei. 11 Questi  erano di sentimenti più nobili di quelli di Tessalonica ed accolsero la parola  con grande entusiasmo, esaminando ogni giorno le Scritture per vedere se le  cose stavano davvero così. 12 Molti di loro credettero e anche  alcune donne greche della nobiltà e non pochi uomini. 13 Ma quando i  Giudei di Tessalonica vennero a sapere che anche a Berèa era stata annunziata  da Paolo la parola di Dio, andarono anche colà ad agitare e sobillare il  popolo. 14 Allora i fratelli fecero partire subito Paolo per la  strada verso il mare, mentre Sila e Timòteo rimasero in città. 15 Quelli  che scortavano Paolo lo accompagnarono fino ad Atene e se ne ripartirono con  l'ordine per Sila e Timòteo di raggiungerlo al più presto.
  Tutto il  racconto della missione a Filippi era rivolto a sottolineare che quel primo  annuncio della Parola si svolgeva in un mondo tipicamente romano in cui  dovevano regnare il diritto e la giustizia. Nei due racconti che seguono in cui  Paolo e i suoi compagni proclamano il Vangelo a Tessalonica (l’attuale  Salonicco) e a Berea, due altre città della Macedonia, l’atteggiamento degli  ambienti giudaici dell’impero ritorna in primo piano ed è caratterizzato da  un’aperta ostilità. In entrambe le città i cristiani sono ben presto travolti  dalla violenza della persecuzione che si abbatte su Paolo per iniziativa dei  giudei. 
  Tessalonica  era abitata da una popolazione cosmopolita di cui facevano parte commercianti e  soldati, viaggiatori e funzionari, uomini liberi e schiavi. Non lontano dalla  città sorgeva il monte Olimpo, ritenuto la dimora degli dèi e delle dee della  mitologia greca. Paolo, arrivato in città si reca "secondo la sua  usanza" alla sinagoga. L’apostolo avvia senza indugio un dialogo con i  giudei, portandolo avanti per tre sabati. A partire dalla rivelazione di Dio,  il cui disegno di salvezza è descritto nei libri sacri; Paolo presenta Gesù  come il personaggio storico in cui il messaggio biblico trova la sua perfetta  realizzazione. L’effetto della predicazione dei missionari a Tessalonica è  simile a quello di Antiochia di Pisidia: solo alcuni giudei credono; tra i  figli delle nazioni, invece, i convertiti sono molto numerosi: "aderirono  a Paolo e Sila un buon numero di Greci credenti in Dio e non poche donne della  nobiltà" (v. 4). 
  Anche in  questa città i capi dei giudei reagiscono e suscitano una persecuzione. Ma non  avendo trovato Paolo e Sila che erano ospitati in casa di Giasone, afferrarono  Giasone e lo trascinarono con alcuni cristiani davanti ai magistrati della  città. L’accusa addotta è ingegnosa. In primo luogo viene sottolineato il  disordine provocato "in tutto l’universo" 
  (v. 6) dagli  imputati a cui Giasone aveva dato alloggio. Paolo e Sila vengono accusati di  agire contro i decreti di Cesare, perché affermano "che c’è un altro re,  Gesù" (v. 7). Ma i politarchi (= i governanti della città) non si lasciano  ingannare. Agiscono con prudenza e moderazione, chiedendo a Giasone e agli  altri cristiani di versare una cauzione. 
  Giasone e i  fratelli cristiani capiscono che le vite di Paolo e di Sila sono in pericolo e  li fanno partire, durante la notte, per Berea, un piccolo paese di montagna  situato a una sessantina di chilometri di distanza. Qui esiste un’importante  sinagoga. Diversamente da ciò che è accaduto a Tessalonica, l’accoglienza è  calorosa. Gli uditori sono ben disposti , gli ascoltatori ricevono la Parola "con tutto  l’impegno". A partire da questa espressione meta pases prothymias (con tutto l’impegno), che occupa un posto centrale nel testo, l’autore  presenta l’atteggiamento degli ascoltatori di Paolo a Berea come un modello per  l’esegesi contemporanea: ascolto attento, critica esigente, approfondimento  della fede. 
  Giorno dopo  giorno, nel luogo deputato allo studio e nelle case, interrogano le Scritture a  proposito della figura del Messia sofferente e risorto, con riferimento a Gesù  che Paolo annuncia loro come il Messia. Molti di questi ebrei giungono alla  fede cristiana e con loro "anche alcune donne greche della nobiltà e non  pochi uomini" (v. 12). In questa atmosfera serena arrivano velocemente i  giudei di Tessalonica, i quali vogliono allontanare Paolo da Berea. Dopo nuove  proteste e nuovi tumulti, Paolo è costretto a fuggire in gran fretta. Sila e  Timoteo resteranno ancora un po’ a Berea. Giunto ad Atene, Paolo si congeda dai  suoi accompagnatori e dà loro l’ordine per Sila e Timoteo di raggiungerlo al  più presto. A questo punto Paolo si trova di nuovo sulla strada, cacciato di  città in città. Anche Gesù era stato scacciato da Nazaret (cf. Lc 4,29-30), era  stato respinto dai samaritani (cf. Lc 9,52) e aveva concluso la sua vita come  un escluso; e aveva predetto la stessa sorte ai suoi inviati (cf. Lc 10,10-11;  12,11-12). Paolo, discepolo fedele del suo Maestro, continua il suo viaggio tra  le nazioni. 
  Paolo  ad Atene 
  16 Mentre Paolo li attendeva ad Atene, fremeva nel suo spirito al  vedere la città piena di idoli. 17 Discuteva frattanto nella  sinagoga con i Giudei e i pagani credenti in Dio e ogni giorno sulla piazza  principale con quelli che incontrava. 18 Anche certi filosofi  epicurei e stoici discutevano con lui e alcuni dicevano: «Che cosa vorrà mai  insegnare questo ciarlatano?». E altri: «Sembra essere un annunziatore di  divinità straniere»; poiché annunziava Gesù e la risurrezione. 19 Presolo  con sé, lo condussero sull'Areòpago e dissero: «Possiamo dunque sapere qual è  questa nuova dottrina predicata da te? 20 Cose strane per vero ci  metti negli orecchi; desideriamo dunque conoscere di che cosa si tratta». 21  Tutti gli Ateniesi infatti e gli stranieri colà residenti non avevano  passatempo più gradito che parlare e sentir parlare.
  La città di  Atene, in quell’epoca, aveva perduto il suo antico splendore, ma anche se la  sua importanza politica era ormai tramontata, manteneva fieramente la sua  prerogativa di capitale culturale dell’universo. Era dunque il luogo ideale per  l’incontro del messaggio evangelico con la sapienza dei greci. Di fronte  all’Aeròpago, il Vangelo inaugura ufficialmente il suo cammino tra le nazioni. 
  Arrivato nel  centro commerciale di Atene, Paolo nota il gran numero di statue che  raffigurano le divinità del paganesimo. Mentre visita questi monumenti, il suo  cuore di buon giudeo si indigna, spingendolo a prendere la parola per esprime  la sua disapprovazione. Ciò che lo colpisce è la quantità enorme delle immagini  che rappresentano le divinità: tutte quelle statue fanno apparire a Paolo la  città di Atene come kateidolon polin, una città dedita all’idolatria. Il  geografo Pausania (II secolo a.C.) scrive: "Atene possiede più statue di  quante se ne possano trovare in tutto il resto della Grecia" (Periesegi  della Grecia XVII,24). E secondo Petronio, un autore latino del tempo di  Paolo, "ad Atene è più facile incontrare un dio che un essere umano"  (Satiricon I,17). 
  Paolo,  com’era sua abitudine, dialoga con i suoi fratelli giudei nella sinagoga di  Atene. Nello stesso tempo si mette a conversare ogni giorno in piazza con i  primi venuti. E’ gente che ama discorrere: l’inflazione della parola fa eco  alla proliferazione delle immagini. Tra questi Paolo incontra dei filosofi  stoici ed epicurei. Gli stoici prendono nome dal fatto che si radunavano sotto  il portico dipinto (stoa poikile), chiamato anche portico di Attalo. Per  quanto riguarda gli epicurei, essi si rifanno all filosofo Epicuro (342-271 a.C.) che aveva insegnato  nel "Giardino". Alcuni di loro vedono in Paolo uno spermologos ("che beccuzza granelli", e quindi "scroccone",  "plagiatore sfacciato", "pappagallo ignorante"), uno di  quei parlatori che mettono insieme dei luoghi comuni e frasi fatte, senza molta  logica e costrutto. Altri lo considerano un "predicatore di divinità  straniere" (v. 18), che annuncia forse una nuova coppia di dèi: Gesù e  Anastasia. La risurrezione (in greco anastasis) viene presa per il nome  di una dea. Questo equivoco sul nome "risurrezione" lascia intendere  una profonda resistenza nell’accogliere il Vangelo da parte degli ascoltatori  di Paolo. 
  All’improvviso,  Paolo viene preso e condotto davanti al tribunale dell’arconte-re (archon  basileus), che presiede l’alta corte di Atene, chiamata Aeròpago (colle  di Ares). Al tempo di Paolo, la corte era formata da un centinaio di  membri, in particolare ex-arconti. A quanto sembra, lo si sospetta ancora una  volta di turbare l’ordine pubblico con innovazioni religiose, e in particolare  con l’introduzione di "divinità straniere" (xenia daimonia). 
  Il testo  degli Atti fa notare il difetto fondamentale degli ateniesi che spiegherà la  loro allergia all’insegnamento di Paolo sulla risurrezione. L’unica cosa che  interessa loro è "dire o ascoltare quello che c’è di più nuovo" (v.  21). Sono ossessionati dell’ultima novità e sempre pronti a dar credito alla  notizia più recente. Non c’è spazio per qualcosa di definitivo, né all’origine  né alla fine; non si riconosce alla storia nessuna consistenza, al di là di  quella del tempo che scorre (la cronaca). L’annuncio che Paolo farà di un  "giorno" del giudizio, permetterà a coloro che si convertono di  liberarsi da questa nevrosi, dando alle loro vicende storiche un ancoraggio  sicuro a cui faranno riferimento tutti gli uomini e tutto il cosmo. 
  Discorso  di Paolo davanti all'Areopago 
  22 Allora Paolo, alzatosi in mezzo all'Areòpago, disse:
  «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli  dei. 23 Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto,  ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate  senza conoscere, io ve lo annunzio. 24 Il Dio che ha fatto il mondo  e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in  templi costruiti dalle mani dell'uomo 25 né dalle mani dell'uomo si  lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dá a  tutti la vita e il respiro e ogni cosa. 26 Egli creò da uno solo  tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della  terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio, 27  perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni,  benché non sia lontano da ciascuno di noi. 28 In lui infatti  viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno  detto: Poiché di lui stirpe noi siamo.
  29 Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la  divinità sia simile all'oro, all'argento e alla pietra, che porti l'impronta  dell'arte e dell'immaginazione umana. 30 Dopo esser passato sopra ai  tempi dell'ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di  ravvedersi, 31 poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà  giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato,  dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti».
  32 Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo  deridevano, altri dissero: «Ti sentiremo su questo un'altra volta». 33 Così  Paolo uscì da quella riunione. 34 Ma alcuni aderirono a lui e  divennero credenti, fra questi anche Dionigi membro dell'Areòpago, una donna di  nome Dàmaris e altri con loro.
  Il discorso  presentato qui è un modello di annuncio del Vangelo ai figli delle nazioni. Il  punto di arrivo del discorso è l’affermazione del v. 31: "Poiché egli  (Dio) ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia  per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col  risuscitarlo dai morti". Questa è la chiave della buona notizia proclamata  da Paolo. Del resto, è proprio su questo preciso argomento che è invitato a  fornire spiegazioni. In realtà non si tratta di un insegnamento, ma della  testimonianza di un evento decisivo, che apre la via che conduce alla vita (cf.  11,18). Di fronte all’alta corte di Atene come di fronte al sinedrio di  Gerusalemme, le menti e i cuori si dividono sulla risurrezione, quella  parola-evento "incredibile" (cf. 26,8) che tuttavia è l’unica luce di  perdono che brilla sulla nostra storia, l’unico metro su cui tutto deve essere  giudicato (cf. Lc 6,37-38). 
  Ma la fede  nella risurrezione di Gesù presuppone la fede nel Dio che ha risuscitato Gesù.  Per questo vedremo Paolo soffermarsi a lungo a parlare di questo Dio  sconosciuto, ignorato. La risurrezione è il punto di partenza e nello stesso  tempo il punto di arrivo del discorso. Eppure il missionario si sforza dal  principio alla fine di condurre i suoi ascoltatori a riconoscere il Dio unico,  senza pronunciare una sola volta il nome di Gesù. Di questo Dio viene messa in  evidenza l’assoluta libertà: non ha bisogno né di templi, né di offerte. I  culti pagani, dunque, non hanno più nessun fondamento. Sulla scia della  rivelazione del Dio unico, i vv. 26-29 svelano l’identità dell’uomo nella sua  unicità: l’uomo è fatto per abitare la terra e per cercare Dio. E Dio non si  tiene a distanza dall’uomo e non gli è estraneo: noi siamo della sua stirpe,  siamo fatti a sua immagine, viviamo di lui e per lui. 
  In sintesi,  la sostanza dell’annuncio di Paolo davanti all’alta corte di Atene è questa:  ignoranza umana della realtà di Dio, rivelazione del Dio unico, identità  dell’uomo, giudizio di perdono ed esigenza di impegno. Si tratta dunque di una  parola di rivelazione sul Dio che ha creato il cosmo e l’umanità, che dà a  tutti vita e respiro, e che in questo giorno offre il perdono e suscita  nell’uomo l’atto decisivo della fede. 
  Pur essendo  "i più sensibili alla religione", gli ateniesi riconoscono  pubblicamente una certa ignoranza; lo dimostra l’iscrizione che Paolo dice di  aver trovato su un piedestallo: "A un dio sconosciuto". Questo  monumento ha un significato ambiguo: può trattarsi di una confessione di  ignoranza da parte degli ateniesi, ma può trattarsi anche dell’ambizioso  proposito di fare di Atene una città che onora tutti gli dèi. Di fatto un  monumento del genere può avere entrambi i significati. Nel discorso di Paolo  l’alternativa all’ignoranza non sarà la conoscenza, ma la conversione (metanoia:  v. 30). 
  Il modo in  cui Paolo presenta Dio "che ha fatto il mondo e tutto ciò che  contiene" (v. 24) e "che dà a tutti vita e respiro e tutte le  cose" (v. 25) è molto vicino al modo in cui si esprime Isaia 42,5:  "Così dice il Signore che ha fatto il cielo e l’ha reso saldo, che ha  consolidato la terra e ciò che vi si trova, e che dà il respiro al popolo che è  su di essa, e lo spirito a coloro che su di essa camminano". Paolo mette  l’accento sul significato della creazione: essa è in vista di un dialogo  dell’uomo con Dio. L’universo è un poema da leggere e da ascoltare. Il compito  dell’uomo è di decifrare il poema della creazione per giungere al creatore. 
  L’allusione  alla Provvidenza di Dio è rivolta sia a respingere la filosofia epicurea,  secondo cui gli dèi non si curano degli uomini, sia a tendere la mano allo  stoicismo, che vede nell’ordine del mondo una prova della sollecitudine degli  dèi nei confronti degli uomini. 
  Sulle orme  dei profeti, e facendo appello alla validità della visione poetica, Paolo cita  due autori greci per dimostrare che i suoi ascoltatori hanno la possibilità di  accedere a una conoscenza intima di Dio. La citazione di Arato permette a Paolo  di proseguire nella sua argomentazione contro l’idolatria grossolana, che cede  alla tentazione di confondere la presenza divina con le sue espressioni:  "Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità  sia simile all’oro…"(v. 29). Un parallelo interessante si trova negli  scritti di Seneca: "Non è necessario alzare gli occhi al cielo, né pregare  il custode del tempio perché ti permetta di accostare l’orecchio alla statua,  come se ciò potesse avere come risultato che il dio ti ascolti meglio. Dio è  vicino a te, è con te, è in te" (Lettere a Lucilio 41,1). 
  La  conversione proposta a tutti e dovunque consiste unicamente nell’apertura alla  Parola di Dio che penetra l’uomo per rivelargli la sua perversione e  restituirgli la sua dignità; per demolirlo e ricostruirlo secondo ciò che è  veramente: "stirpe di Dio". La nuova creazione – la risurrezione dei  morti - viene a sconvolgere l’uomo nella fiducia che riponeva in se stesso e lo  conduce a realizzarsi pienamente nella sua vocazione più fondamentale. Questa  nuova creazione si manifesta in un giudizio attuato un giorno da un uomo  "che egli (Dio) ha designato, dandone a tutti prova sicura col  risuscitarlo dai morti" (v. 31). 
  La reazione  degli ateniesi è quella di sempre. Alcuni fanno dell’ironia, altri aderiscono  alla fede. Le conversioni non sono molto numerose. Luca ricorda due nomi:  Dionigi l’Aeropagita, che sembra in qualche modo rappresentare l’aristocrazia  ateniese, Dàmaris e altri con loro. 
  Nello  sviluppo di questo brano si opera un capovolgimento di prospettiva. All’inizio,  la domanda degli Aeropagiti si colloca sul piano del "conoscere":  essi ritengono di poter valutare l’insegnamento del predicatore straniero.  Paolo invece finisce col rivelare loro un uomo-evento che giudica la loro  ricerca e il loro agire. Il Dio che viene loro annunciato e che parla  attraverso la parola del missionario è il Dio della vita. Non si colloca a livello  di ideologia, ma li chiama in causa sul piano della realtà. E’ possibile  raggiungerlo, come a tentoni, a partire dalle sua opere e si offre agli uomini  come un evento storico. Ogni uomo è interpellato e invitato a corrispondere  all’alleanza che Dio instaura con lui dandogli "la vita, il movimento e  l’essere" (v. 25). Si avvia in tal modo una dinamica di libertà che  implica, da parte di Dio, un giudizio di grazia e di salvezza. Questo giudizio  si manifesta in forma sfolgorante nella vittoria della vita sulla morte, che  Paolo rivela come il punto culminante del suo messaggio: la risurrezione di  Gesù. 
  La Chiesa di tutti i tempi  deve imparare questo discorso missionario per andare incontro alle aspirazioni  concrete dell’uomo e rivelargli in Gesù Cristo la profondità delle sue radici  divine. L’episodio di Atene è l’esempio tipico del dialogo della Chiesa col  mondo. 
Capitolo 18 
  Fondazione  della chiesa di Corinto 
  1 Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. 2 Qui  trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima  dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che  allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro 3 e poiché  erano del medesimo mestiere, si stabilì nella loro casa e lavorava. Erano  infatti di mestiere fabbricatori di tende. 4 Ogni sabato poi  discuteva nella sinagoga e cercava di persuadere Giudei e Greci.
  5 Quando giunsero dalla Macedonia Sila e Timòteo, Paolo si dedicò  tutto alla predicazione, affermando davanti ai Giudei che Gesù era il Cristo. 6  Ma poiché essi gli si opponevano e bestemmiavano, scuotendosi le vesti,  disse: «Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente; da ora in  poi io andrò dai pagani». 7 E andatosene di là, entrò nella casa di  un tale chiamato Tizio Giusto, che onorava Dio, la cui abitazione era accanto  alla sinagoga. 8 Crispo, capo della sinagoga, credette nel Signore  insieme a tutta la sua famiglia; e anche molti dei Corinzi, udendo Paolo,  credevano e si facevano battezzare.
  9 E una notte in visione il Signore disse a Paolo: «Non aver paura, ma  continua a parlare e non tacere, 10 perché io sono con te e nessuno  cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città». 11  Così Paolo si fermò un anno e mezzo, insegnando fra loro la parola di  Dio. 
  Gli  avvenimenti narrati in questo capitolo si svolgono a Corinto. Qui Paolo deve  affrontare ancora una volta la riluttanza dei giudei ad assumere fino in fondo  la loro vocazione di popolo di Dio, mentre il proconsole romano, sollecitato a  prendere posizione su questo scontro, si rifiuta di intervenire. 
  La città di  Corinto era stata devastata e incendiata nel 146 a.C. dall’esercito del  generale romano Lucio Mummio. Cent’anni dopo, nel 44 a.C., l’imperatore Giulio  Cesare fondò una colonia romana sulle rovine dell’antica città greca. 
  Venendo da  Atene, dopo un viaggio di 70   chilometri, Paolo scopre una città ricostruita di  recente e in piena espansione. E’ stata ripopolata da coloni romani, che sono  guardati con disprezzo dai greci. Corinto è abitata da un’accozzaglia di  stranieri incolti, che si sono arricchiti depredando tombe e monumenti antichi.  La nuova Corinto sembra aver ereditato i difetti dell’antica. Quest’ultima era  nota come città dei piaceri, con il famoso santuario di Afrodite Pandemos (o Venere popolare) costruito sull’Acrocorinto, uno sperone roccioso che  domina la città. Il geografo Strabone (64 a.C.–21 d.C.) scrive che in quel santuario  vivevano circa mille prostitute sacre. Comunque fosse la situazione, rimane il  fatto che Corinto, nella sua condizione di città portuale, favoriva la  prostituzione. 
  Corinto è la  capitale della provincia senatoria dell’Acaia. Qui la parola di Dio non ha più  a che fare con semplici strateghi, come a Filippi, ma è chiamata a comparire  davanti al tribunale titolare di una delle più importanti magistrature  dell’impero, il proconsole Lucio Giunio Gallione. Un’iscrizione trovata a Delfi  permette di stabilire che fu proconsole dell’Acaia dal primo luglio del 50 (o  51) al 30 giugno del 51 (o 52). E’ una notizia importante per la cronologia di  Paolo. 
  In questo  brano per la prima volta vediamo comparire il nome di Roma. A partire da  Corinto, viene annunciata la meta precisa della missione. Le due successive  ricorrenze del nome di Roma fanno vedere che questa meta si iscrive nel  progetto di Dio. Nel primo caso si tratta di ciò che lo Spirito Santo  suggerisce a Paolo durante il suo soggiorno ad Efeso: "Bisogna che io veda  anche Roma" (19,21). Nel secondo caso si tratta dell’obiettivo che il  Signore assegna a Paolo dopo il suo arresto a Gerusalemme: "Bisogna che tu  renda testimonianza anche a Roma" (23,11): 
  Il giudeo  con cui Paolo fa conoscenza a Corinto si chiama Aquila; sua moglie si chiama  Priscilla. Aquila e Priscilla non sono due semplici operai. Il termine  "mestiere" indica che appartengono alla categoria degli artigiani, il  che li distingue dalla manodopera non qualificata. Paolo, che esercita il  mestiere di fabbricatore di tende, decide di lavorare e di abitare con loro.  Dandoci questa notizia, Luca prepara la dichiarazione che il missionario farà  agli anziani di Efeso: "Voi sapete che per le mie necessità e per quelle  di coloro che erano con me, hanno provveduto queste mie mani" (20,34; cf.  1Cor 4,12). 
  Come ha  sempre fatto, Paolo si rivolge in primo luogo ai suoi fratelli giudei: ogni  sabato dialoga con loro nella sinagoga, cercando di convincerli della verità di  ciò che annuncia. Ma anche qui vediamo ripetersi la scena drammatica che si era  svolta nella sinagoga di Nazaret con il rifiuto opposto a Gesù (Lc 4,28-29) e  quella avvenuta nella sinagoga di Antiochia di Pisidia, con il rifiuto opposto  a Paolo (13,50): la parola del profeta non viene accolta. L’opposizione dei  giudei di Corinto si manifesta in violente bestemmie (v. 6) al punto che Paolo,  secondo il comando evangelico (cf. Lc 10,10-11) deve andarsene scuotendo la  polvere dai suoi vestiti. La   Parola di Dio, quando viene rifiutata, assume la forma di un  giudizio. Il v. 6 potrebbe essere parafrasato così: "Voi siete  responsabili (il vostro sangue ricada sul vostro capo) della resistenza  che opponete al compimento. Tutta la missione che voi vi rifiutate di assumere  sarà ugualmente compiuta: io stesso andrò alle nazioni". Si tratta di un  ordine impartito dal Messia, che ha inviato i suoi ad "annunciare una luce  al popolo (dei giudei) così come alle nazioni" (26,23). Se un inviato  viene meno al suo servizio e al suo invio in missione, come ha fatto Giuda il  traditore, Dio ne suscita due che si aggiungono agli inviati (cf. 1,23-26). 
  Dopo questi avvenimenti,  Paolo prende le distanze dall’ambiente giudaico e si inserisce nell’ambiente  pagano. Il Signore in persona si manifesta in visione a Paolo durante la notte,  per confermare la sua testimonianza e rivelargli la missione che l’attende in  quella città, nella quale rimarrà per un anno e mezzo a insegnare la Parola di Dio (v. 11). 
  Attraverso  la visione notturna del Macedone a Tròade, Paolo era stato chiamato a offrire  il suo aiuto al mondo pagano in Europa. Qui la Parola del Signore  interviene a fortificare Paolo nella realizzazione della sua missione. Questo  testo richiama in modo abbastanza immediato la vocazione di Geremia: "Non  temerli, perché io sono con te per proteggerti" (Ger 1,8). La stessa  garanzia era stata data da Dio al suo servo Mosè: "Io sarò con te"  (Es 3,12) e al suo servo Giosuè: "Non temere, perché è con te il Signore  tuo Dio, dovunque tu vada" (Gs 1,9). Sulla linea di questi grandi  personaggi, Paolo è configurato al popolo di Israele servo di Dio; infatti, lo  vediamo prendere su di sé la vocazione "profetica" di questo popolo,  secondo il testo di Isaia 41,8-11: "Ma tu, Israele mio servo, tu Giacobbe,  che ho scelto, discendente di Abramo mio amico (…). Non temere, perché io sono  con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e anche ti  vengo in aiuto e ti sostengo con la mia destra vittoriosa. Ecco, saranno  svergognati e confusi quanti s’infuriavano contro di te". 
  La parola  che il Signore rivolge a Paolo, suo testimone, lo colloca sulla linea dei servi  di Dio per mezzo dei quali viene radunato e salvato il suo popolo.  "Continua a parlare e non tacere!": Il Signore conferma il suo  inviato nel suo servizio, che consiste nel "testimoniare ai giudei e ai  greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù" (20,21). 
  Paolo  tradotto in tribunale dai Giudei 
  12 Mentre era proconsole dell'Acaia Gallione, i Giudei insorsero in  massa contro Paolo e lo condussero al tribunale dicendo: 13 «Costui  persuade la gente a rendere un culto a Dio in modo contrario alla legge». 14  Paolo stava per rispondere, ma Gallione disse ai Giudei: «Se si trattasse  di un delitto o di un'azione malvagia, o Giudei, io vi ascolterei, come di  ragione. 15 Ma se sono questioni di parole o di nomi o della vostra  legge, vedetevela voi; io non voglio essere giudice di queste faccende». 16  E li fece cacciare dal tribunale. 17 Allora tutti afferrarono  Sòstene, capo della sinagoga, e lo percossero davanti al tribunale ma Gallione  non si curava affatto di tutto ciò.
  Con  l’entrata in scena di Lucio Giunio Gallione, che è fratello maggiore del  filosofo Seneca, viene di nuovo messo in evidenza il legame tra Corinto e Roma.  Questa volta Paolo viene condotto davanti ad una autorità che è alle dirette  dipendenze dell’imperatore Claudio, citato nei versetti precedenti.
  Guardando  con un po’ di attenzione, ci si rende conto che i capi d’accusa hanno sempre  una radice giudaica. Gli accusatori sono presentati esplicitamente come giudei  che rimproverano a Paolo di insegnare un modo di venerare Dio che essi  ritengono contrario alla Legge. E Gallione li rimanda alla loro Legge:  "Vedetevela voi!" (v. 15). Se vogliono accusare Paolo, devono farlo  in quella sede. 
  Scacciati  dal tribunale romano, gli accusatori si mettono a litigare tra loro e  percuotono il capo della loro sinagoga. L’impero romano non ha nulla a che  vedere con un Messia giudaico, soprattutto se è già morto. Nella persona di  Gallione, l’impero definisce chiaramente la propria neutralità nei confronti  dell’annuncio del Vangelo, preoccupandosi soltanto di mantenere l’ordine  pubblico. Ricordiamo che la politica imperiale diventerà anticristiana soltanto  dieci anni dopo, intorno al 62, quando Nerone sposerà una donna giudea, Poppea.  La decisione di far ricadere sui cristiani la responsabilità dell'incendio di  Roma del 64 sarà una conseguenza di questa inversione di rotta. 
  Il problema  posto dalla comparizione di Paolo davanti a Gallione è quello del rapporto tra  Dio e Cesare (cf. Lc 20,20-25), e quindi della competenza del potere civile in  materia religiosa: Chi agisce come rappresentante di Cesare deve conoscere e  accettare i limiti della propria giurisdizione.; chi è stato chiamato da Dio a  svolgere una missione deve portarla a termine senza cercare di servirsi del  diritto civile per far trionfare la propria causa. 
  Ritorno  ad Antiochia e partenza per il terzo viaggio 
  18 Paolo si trattenne ancora parecchi giorni, poi prese congedo dai  fratelli e s'imbarcò diretto in Siria, in compagnia di Priscilla e Aquila. A  Cencre si era fatto tagliare i capelli a causa di un voto che aveva fatto. 19  Giunsero a Efeso, dove lasciò i due coniugi, ed entrato nella sinagoga si  mise a discutere con i Giudei. 20 Questi lo pregavano di fermarsi  più a lungo, ma non acconsentì. 21 Tuttavia prese congedo dicendo:  «Ritornerò di nuovo da voi, se Dio lo vorrà», quindi partì da Efeso. 22 Giunto  a Cesarèa, si recò a salutare la   Chiesa di Gerusalemme e poi scese ad Antiochia.
  23 Trascorso colà un po’ di tempo, partì di nuovo percorrendo di  seguito le regioni della Galazia e della Frigia, confermando nella fede tutti i  discepoli.
  In questi  sei versetti Luca riassume un viaggio di 3.500 chilometri,  metà per mare e metà via terra. A Cencre, prima di imbarcarsi, Paolo si fa  radere il capo: E’ il segno dell’adempimento di un voto fatto durante la permanenza  a Corinto. Luca non dice né l’oggetto del voto, né le circostanze in cui è  stato emesso. 
  Quando Paolo  giunge ad Efeso si reca subito alla sinagoga, com’era sua abitudine, per  dialogare con i giudei. Tuttavia si tratta solo di un primo contatto. Quando  essi lo pregano di restare un po’ di tempo con loro, Paolo non accetta, ma  promette loro che tornerà da loro "se Dio vorrà" (v. 21). Soltanto  dopo lunghi mesi, probabilmente nel 54, la volontà di Dio lo condurrà  nuovamente ad Efeso, dove rimarrà per due anni (19,10), o forse anche più a  lungo, dato che nel suo testamento parlerà di "tre anni" (20,31) di  prove e tribolazioni. Il motivo per cui Paolo ha fretta di lasciare Efeso dopo  questo primo contatto è spiegato dal testo occidentale al v. 21: "Bisogna  proprio che io faccia la prossima festa a Gerusalemme". Se si tratta della  Pasqua celebrata all’inizio della primavera, era necessario che Paolo si  imbarcasse nell’autunno del 52, prima che la stagione invernale rendesse  impossibile la navigazione. 
  Spinto dalla  medesima sollecitudine apostolica che l’aveva indotto a partire per l’Asia dopo  l’assemblea di Gerusalemme, ancora una volta Paolo compie questo lungo viaggio  per "rafforzare nella fede tutti i discepoli" (v. 23). 
  Apollo 
  24 Arrivò a Efeso un Giudeo, chiamato Apollo, nativo di Alessandria,  uomo colto, versato nelle Scritture. 25 Questi era stato ammaestrato  nella via del Signore e pieno di fervore parlava e insegnava esattamente ciò  che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni. 26  Egli intanto cominciò a parlare francamente nella sinagoga. Priscilla e  Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore  accuratezza la via di Dio. 27 Poiché egli desiderava passare  nell'Acaia, i fratelli lo incoraggiarono e scrissero ai discepoli di fargli  buona accoglienza. Giunto colà, fu molto utile a quelli che per opera della  grazia erano divenuti credenti; 28 confutava infatti vigorosamente i  Giudei, dimostrando pubblicamente attraverso le Scritture che Gesù è il Cristo.
  Luca narra  gli inizi del ministero di Apollo. Alessandria, la sua città natale, era un  brillante centro di cultura giudeo-ellenistica, dove era stata realizzata la  traduzione greca della Bibbia nota come "versione dei Settanta".  Apollo possedeva una straordinaria capacità di interpretare le Scritture.  Inoltre era in grado di insegnare con precisione "le cose che riguardano  Gesù" (v. 25). Che cosa mancava ad Apollo se, come dice il testo,  conosceva solo il battesimo di Giovanni Battista? Gli mancava il battesimo  cristiano. Il battesimo cristiano è un rito di unione al mistero del Cristo  morto e risorto, e in quanto tale conduceva a una vita nuova, liberata dal  peccato. Il grande sapere di Apollo ha ancora un notevole cammino da percorrere  fino a lasciarsi illuminare dal mistero pasquale: allora l’intelligenza di  Apollo potrà aprirsi alla piena conoscenza delle Scritture. Per questo  intervengono Aquila e Priscilla e gli espongono con maggiore precisione  "la via di Dio" (v. 26) nella persona di Gesù. 
  Munito di  lettere di raccomandazione, indirizzate dai fratelli di Efeso alla comunità di  Corinto, Apollo si imbarca per l'Acaia. Qui incontra i credenti e suscita in  loro un grande stupore. Egli non parla più soltanto degli avvenimenti della  vita di Gesù, ma fa vedere ai giudei, alla luce delle Scritture, "che Gesù  è il Messia". Apollo "ribollente nello Spirito" (v. 25), già  parlava e insegnava secondo lo stile di Paolo. 
  Ci sono  ormai tutti i presupposti per affrontare l’ultima tappa della grande missione  di Paolo: il suo soggiorno per più di due anni a Efeso. Questa tappa  rappresenta il culmine dell’opera di fondazione di Paolo, al termine della  quale l’apostolo andrà a Gerusalemme, come il suo Signore, per vivere la sua  passione-testimonianza. 
Capitolo 19 
  I  seguaci di Giovanni a Efeso 
  1 Mentre Apollo era a Corinto, Paolo, attraversate le regioni  dell'altopiano, giunse a Efeso. Qui trovò alcuni discepoli 2 e disse  loro: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?». Gli  risposero: «Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo». 3  Ed egli disse: «Quale battesimo avete ricevuto?». «Il battesimo di  Giovanni», risposero. 4 Disse allora Paolo: «Giovanni ha  amministrato un battesimo di penitenza, dicendo al popolo di credere in colui  che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Gesù». 5 Dopo aver udito  questo, si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù 6 e, non  appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e  parlavano in lingue e profetavano. 7 Erano in tutto circa dodici  uomini.
  Al tempo di  Paolo, Efeso era la capitale della provincia di Asia, sede del senatore romano  che ricopriva la carica di proconsole. Era una delle città più belle  dell’impero. Aveva tra i 200.000 e i 300.000 abitanti. Questa grande città  asiatica doveva la sua ricchezza non solo al porto, ma anche al tempio dedicato  ad Artèmide, figlia di Zeus e di Leto, una delle sette meraviglie del mondo. A  partire dall’VIII secolo a.C. gli abitanti dell’Asia minore l’avevano  proclamata la loro divinità nazionale. Era la dea della fecondità. Il culto di  Artèmide era molto popolare: da tutto l’impero affluivano pellegrini con le  loro offerte, fonte di notevoli entrate per la città. 
  Paolo arriva  a Efeso e qui trova alcuni discepoli, che avevano ricevuto soltanto il  battesimo di Giovanni Battista e non avevano neppure sentito parlare del  battesimo nello Spirito Santo. Paolo li battezza e impone loro le mani perché  ricevano lo Spirito Santo. 
  Questo brano  è in stretta relazione con il capitolo 2. Un indizio significativo è il numero  degli uomini che costituiscono il primo nucleo della chiesa di Efeso: sono una  dozzina come i Dodici discepoli scelti da Gesù e che a Pentecoste avevano  ricevuto la confermazione di rappresentare il nuovo popolo di Dio. Arrivato al  punto di narrare la conclusione dell’opera missionaria di Paolo, l’autore ci  riconduce agli inizi per farci meglio percepire la coerenza del disegno  divino e la sua portata universale, già segnalata dall’eterogeneità della folla  giudaica presente a Gerusalemme quando lo Spirito santo viene effuso sulla  prima comunità cristiana. Paolo si è chiaramente assunto la missione affidata  al popolo di Dio per la totalità di tutte le nazioni e la sta portando  efficacemente a termine. 
  Fondazione  della chiesa di Efeso 
  8 Entrato poi nella sinagoga, vi poté parlare liberamente per tre  mesi, discutendo e cercando di persuadere gli ascoltatori circa il regno di  Dio. 9 Ma poiché alcuni si ostinavano e si rifiutavano di credere  dicendo male in pubblico di questa nuova dottrina, si staccò da loro separando  i discepoli e continuò a discutere ogni giorno nella scuola di un certo  Tiranno. 10 Questo durò due anni, col risultato che tutti gli  abitanti della provincia d'Asia, Giudei e Greci, poterono ascoltare la parola del  Signore.
  Gli  esorcisti giudei 
  11 Dio intanto operava prodigi non comuni per opera di Paolo, 12 al  punto che si mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a  contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano.
  13 Alcuni esorcisti ambulanti giudei si provarono a invocare anch'essi  il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, dicendo: «Vi  scongiuro per quel Gesù che Paolo predica». 14 Facevano questo sette  figli di un certo Sceva, un sommo sacerdote giudeo. 15 Ma lo spirito  cattivo rispose loro: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?». 16  E l'uomo che aveva lo spirito cattivo, slanciatosi su di loro, li afferrò  e li trattò con tale violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e coperti  di ferite. 17 Il fatto fu risaputo da tutti i Giudei e dai Greci che  abitavano a Efeso e tutti furono presi da timore e si magnificava il nome del  Signore Gesù. 18 Molti di quelli che avevano abbracciato la fede  venivano a confessare in pubblico le loro pratiche magiche 19 e un numero  considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i  propri libri e li bruciavano alla vista di tutti. Ne fu calcolato il valore  complessivo e trovarono che era di cinquantamila dramme d'argento. 20 Così  la parola del Signore cresceva e si rafforzava.
  I vv. 8-10  descrivono i primi tre mesi del ministero di Paolo, che parla liberamente nella  sinagoga di Efeso. Dopo questo periodo riservato ai giudei, Paolo prende una  decisione memorabile; lascia la sinagoga e continua il dialogo nella scuola di  Tiranno: un luogo pubblico aperto a tutti, dove giudei e non giudei possono  ritrovarsi liberamente. Questo passaggio da un luogo all’altro sembra avere una  particolare importanza, perché manifesta un distacco deciso. Nel Libro degli  Atti non lo vedremo più pronunciare la Parola nella sinagoga. Abbandonandola, Paolo  "mette da parte i discepoli" (v. 9), come egli stesso e Barnaba erano  stati "messi da parte" per lo Spirito Santo ad Antiochia di Siria  (13,2), in vista dell’"opera della grazia". Questo passo segna  indubbiamente una fase nuova nell’attuazione del disegno salvifico di Dio. La  testimonianza dei discepoli andrà ampiamente al di là degli ambienti giudaici,  raggiungendo tutti gli abitanti della città, senza distinzioni. 
  Per due  anni, tra il 55 e il 58, l’annuncio della Parola del Signore risuona con  potenza nella città e nei suoi dintorni. Paolo evidentemente non agisce da  solo: le sue lettere parlano del ministero di Epafra a Colossi, e poi a  Laodicea e a Gerapoli con Filèmone e Archippo (Col 1,7; 4,12-13), mentre  all’evangelizzazione di Efeso lavoravano con lui Erasto e Timòteo (At 19,22),  Gaio e Aristarco (19,29), Tito e alcuni altri (2Cor 12,18). 
  La Parola di Dio dispiega la  sua grazia a favore di "coloro che sono infermi" (vv. 11-12) e così  manifesta la potenza unica del Nome del Signore Gesù, principio di salvezza per  ogni uomo. Ma alcuni esorcisti giudei tentano di impadronirsi del Nome di Gesù  e di pronunciarlo sbrigativamente sugli indemoniati (vv. 13-17). La potenza del  Nome di Gesù non può essere usata in un modo qualsiasi. Ci vogliono dei  testimoni che si siano lasciati pervadere dalla Parola di Dio. I sette figli  del sommo sacerdote Sceva pretendono di pronunciare una parola attraverso la  quale possa agire la signoria di Gesù, ma senza un impegno personale nei suoi  confronti. E’ evidente che non hanno accettato come Signore della loro vita  "quel Gesù che Paolo proclama". A causa della dissociazione tra la  parola che gli esorcisti pronunciano e la realtà della loro vita, l’esorcismo  pronunciato nel nome del Signore Gesù degenera in formula magica, separata  dalle sue radici concrete nell’evento Gesù. Di conseguenza lo spirito maligno  non ha difficoltà a mettere a nudo l’impostura del loro potere. E poiché non si  sono consegnati al Signore Gesù per la loro salvezza, sono sottomessi alla  signoria degli spiriti cattivi per la loro punizione: "E l’uomo che aveva  lo spirito cattivo, slanciandosi su di loro, li afferrò e li trattò con tale  violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e coperti di ferite" (v.  16). 
  Rivolgendosi  ai giudei e ai greci, l’annuncio missionario raggiunge tutti e produce frutti  di fede: "Molti di quelli che avevano creduto venivano, confessando e  denunciando le loro azioni" (v. 18). Coloro che ormai intendono camminare  sulla via del Signore rinunciano pubblicamente alle loro pratiche magiche e,  pieni di ardore per le vere Scritture, gettano nel fuoco il loro libri di  magia, con lo slancio con cui i primi discepoli del Signore risorto liquidavano  i loro beni (4,32-37). Luca mette in risalto l’enorme patrimonio che va in  fumo: l’equivalente del salario di 50.000 giornate di lavoro. 
  La  predicazione della Parola a tutti gli abitanti della regione di Efeso produce  una grande crescita di credenti e fa presagire una nuova tappa nella missione  di Paolo. Infatti, nel versetto seguente il racconto compie una svolta,  svelando la meta ultima del disegno di Dio. Paolo si reca a Gerusalemme con la  ferma convinzione di dover raggiungere Roma: "Dopo essere stato là devo  vedere anche Roma" (v. 21). 
  V. LA FINE DEI VIAGGI. 
  IL  PRIGIONIERO DEL CRISTO 
  I  progetti di Paolo 
  21 Dopo questi fatti, Paolo si mise in animo di attraversare la Macedonia e l'Acaia e di  recarsi a Gerusalemme dicendo: «Dopo essere stato là devo vedere anche Roma». 22  Inviati allora in Macedonia due dei suoi aiutanti, Timòteo ed Erasto, si  trattenne ancora un po’ di tempo nella provincia di Asia.
  In questo  breve passo degli Atti, Paolo decide, come Gesù, di salire a Gerusalemme. Nella  città santa vivrà anch’egli la sua passione, unito al Mistero pasquale di  Cristo. Come il suo Maestro, verrà messo in carcere dai giudei e verrà  consegnato nelle mani dei pagani (21,11; cf. Lc 18,31-33). Paolo sta terminando  la sua corsa (20,24); è venuto per lui il momento di salire là dove era salito  il Signore Gesù (cf. Lc 19,28). Il racconto fa una breve allusione al lungo  giro che Paolo si propone di compiere prima di raggiungere la meta: vuole  attraversare la Macedonia  e l’Acaia, ricapitolando tutto il suo viaggio missionario. Poi il suo sguardo  spazia più lontano: "Dopo essere arrivato là, devo vedere anche Roma"  (v. 21). Queste parole indicano l’orientamento della quinta e ultima sezione  degli Atti (21,15--28,31). 
  A  Efeso. La sommossa degli orefici 
  23 Verso quel tempo scoppiò un gran tumulto riguardo alla nuova  dottrina. 24 Un tale, chiamato Demetrio, argentiere, che fabbricava  tempietti di Artèmide in argento e procurava in tal modo non poco guadagno agli  artigiani, 25 li radunò insieme agli altri che si occupavano di cose  del genere e disse: «Cittadini, voi sapete che da questa industria proviene il  nostro benessere; 26 ora potete osservare e sentire come questo  Paolo ha convinto e sviato una massa di gente, non solo di Efeso, ma si può  dire di tutta l'Asia, affermando che non sono dei quelli fabbricati da mani  d'uomo. 27 Non soltanto c'è il pericolo che la nostra categoria cada  in discredito, ma anche che il santuario della grande dea Artèmide non venga  stimato più nulla e venga distrutta la grandezza di colei che l'Asia e il mondo  intero adorano».
  28 All'udire ciò s'infiammarono d'ira e si misero a gridare: «Grande è  l'Artèmide degli Efesini!». 29 Tutta la città fu in subbuglio e  tutti si precipitarono in massa nel teatro, trascinando con sé Gaio e Aristarco  macèdoni, compagni di viaggio di Paolo. 30 Paolo voleva presentarsi  alla folla, ma i discepoli non glielo permisero. 31 Anche alcuni dei  capi della provincia, che gli erano amici, mandarono a pregarlo di non  avventurarsi nel teatro. 32 Intanto, chi gridava una cosa, chi  un'altra; l'assemblea era confusa e i più non sapevano il motivo per cui erano  accorsi.
  33 Alcuni della folla fecero intervenire un certo Alessandro, che i  Giudei avevano spinto avanti, ed egli, fatto cenno con la mano, voleva tenere  un discorso di difesa davanti al popolo. 34 Appena s'accorsero che  era Giudeo, si misero tutti a gridare in coro per quasi due ore: «Grande è  l'Artèmide degli Efesini!». 35 Alla fine il cancelliere riuscì a  calmare la folla e disse: «Cittadini di Efeso, chi fra gli uomini non sa che la  città di Efeso è custode del tempio della grande Artèmide e della sua statua  caduta dal cielo? 36 Poiché questi fatti sono incontestabili, è  necessario che stiate calmi e non compiate gesti inconsulti. 37 Voi  avete condotto qui questi uomini che non hanno profanato il tempio, né hanno  bestemmiato la nostra dea. 38 Perciò se Demetrio e gli artigiani che  sono con lui hanno delle ragioni da far valere contro qualcuno, ci sono per  questo i tribunali e vi sono i proconsoli: si citino in giudizio l'un l'altro. 39  Se poi desiderate qualche altra cosa, si deciderà nell'assemblea  ordinaria. 40 C'è  il rischio di essere accusati di sedizione per l'accaduto di oggi, non  essendoci alcun motivo per cui possiamo giustificare questo assembramento». 41  E con queste parole sciolse l'assemblea.
  I termini  "economici" si sono improvvisamente accumulati sotto la penna d Luca,  dopo aver fatto la loro comparsa con l’indicazione della somma corrispondente  al valore dei libri bruciati sul rogo: il salario di 50.000 giornate lavorative  (v. 19). Con l’episodio degli orefici veniamo introdotti nel mondo degli  artigiani, persone che maneggiano denaro e ricercano il profitto. Questi  difendono gelosamente la loro professione (v. 27), legata al benessere (v. 25)  che la statua "caduta dal cielo" (v. 35) procura alla città di Efeso.  Usciamo dunque dal mondo della Parola efficace, attenta ai deboli e ai piccoli,  per entrare nel mondo della ricchezza economica e del benessere. La grande  Artèmide, venerata in tutta l’Asia, incarna molto bene i valori di fecondità  materiale, di prosperità e di prestigio su cui si fonda la società degli  Efesini. 
  Il culto  della grande dea è dunque legato alla potenza economica, il che conferisce  all’episodio il suo significato particolare. Il santuario di Artèmide svolgeva  infatti il ruolo del banchiere e del proprietario terriero, con la corporazione  degli amministratori della proprietà e dei grandi della finanza. Al servizio  della dea provvedevano un collegio di sacerdoti e un grande numero di ragazze  vergini, le "api", guidato dalla grande sacerdotessa che veniva  eletta di anno in anno. 
  In una  situazione del genere, è facile capire quanto fossero laceranti i problemi  suscitati dall’annuncio del regno di Dio. E’ la prima volta che Luca segnala  una reale ostilità dei pagani alla predicazione di Paolo. 
  Nella città  di Artèmide non c’è posto per il Dio unico che fa gesti di potenza per  soccorrere coloro che sono infermi. Al contrario, gli artigiani di Efeso sono  orgogliosi di fabbricare oggetti votivi d’argento in onore degli dei costruiti  da mani umane (cf. 17,24). E’ il mondo alla rovescia! I fabbricanti di ex voto  e di tempietti in miniatura cercano di accaparrare a proprio vantaggio la  potenza del Signore "che ha fatto il cielo, la terra e il mare e tutte le  cose che sono in essi" (4,24). Fanno assegnamento sulla potenza pervertita  del denaro. Quello che cercano è il loro profitto personale e la stabilità  della loro professione. Demetrio, il loro portavoce, presenta abilmente il loro  punto di vista materialistico e interessato mascherandolo da patriottismo  religioso. E si fa zelante paladino dell’attività turistica di una città che  vede affluire molti pellegrini. Se la parola del Signore trova ascolto a Efeso,  tutto questo sistema di valori verrà completamente sconvolto. 
  Di fronte a  un mondo in cui i beni di consumo regolano tutti i rapporti tra gli uomini, si  erge la grandezza del regno di Dio. La sua via consiste nel riconoscere  l’assoluta iniziativa di Dio, nel riporre la propria fiducia nella potenza  della Parola e nel servirsi delle proprie mani per aiutare i deboli. La parola  di Dio scalza i valori che Artèmide rappresenta: il profitto, la fama, la  sicurezza, il benessere. Si capisce così la violenta reazione degli orefici, che  vedono minacciati i loro diritti più fondamentali e le basi stesse della loro  sicurezza materiale. 
  Il racconto  di Luca fa chiaramente vedere dove sta il vero problema: a Efeso, come in ogni  società dei consumi, c’è una stretta dipendenza del mondo religioso dal denaro.  La Parola  libera da questa schiavitù e rivela ciò che deve essere convertito nel campo  dei valori umani. 
  La violenza  che esplode ad Efeso, come a Corinto, manifesta il carattere quasi impossibile  della conversione richiesta. Come si era comportato il notabile ricco di cui ci  parla il vangelo di Luca: « Gesù gli disse: "Una cosa ancora ti manca:  vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei  cieli; poi vieni e seguimi". Ma quegli, udite quelle parole, divenne assai  triste, perché era molto ricco» (Lc 18,22-23). In quella circostanza, coloro  che ascoltavano Gesù dissero: " Allora chi potrà essere salvato?". Ed  egli rispose : "Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio"  (Lc 18,27). Solo Dio può liberare gli uomini dall’idolo mammona, da ciò che  possiedono. 
Capitolo 20 
  Paolo  abbandona Efeso 
  1 Appena cessato il tumulto, Paolo mandò a chiamare i discepoli e,  dopo averli incoraggiati, li salutò e si mise in viaggio per la Macedonia. 2 Dopo  aver attraversato quelle regioni, esortando con molti discorsi i fedeli, arrivò  in Grecia.
  3 Trascorsi tre mesi, poiché ci fu un complotto dei Giudei contro di  lui, mentre si apprestava a salpare per la Siria, decise di far ritorno attraverso la Macedonia. 4 Lo  accompagnarono Sòpatro di Berèa, figlio di Pirro, Aristarco e Secondo di  Tessalonica, Gaio di Derbe e Timòteo, e gli asiatici Tìchico e Tròfimo. 5 Questi  però, partiti prima di noi ci attendevano a Troade; 6 noi invece  salpammo da Filippi dopo i giorni degli Azzimi e li raggiungemmo in capo a  cinque giorni a Troade dove ci trattenemmo una settimana.
  I primi  quattro versetti del cap. 20 descrivono la decisione presa da Paolo di  "andare a Gerusalemme" (19,21). Nel racconto della partenza vengono  messi in luce tre aspetti significativi dei legami del missionario con la  comunità: comunione, incoraggiamento e affetto. Il tratto più saliente di  questi versetti è il moltiplicarsi degli spostamenti per terra e per mare,  raccontati con molti particolari. Questo andare incessante è intervallato da  soste più o meno brevi, che si presentano come le tappe di un viaggio nel quale  Paolo teme di essere trattenuto. Nel v.16 leggiamo esplicitamente questa  fretta: "Paolo aveva deciso di passare al largo di Efeso per evitare di  subire ritardi nella provincia di Asia: gli premeva di essere a Gerusalemme, se  possibile, per il giorno di Pentecoste". Rimane a Corinto per tre mesi, ma  soltanto perché è costretto ad attendere la fine dell’inverno e la ripresa  della navigazione. 
  Paolo non è  solo. Per questo viaggio è scortato da sette compagni. Insieme, essi formano  una sorta di corona intorno all’apostolo, attestando la ricca messe da lui  raccolta lungo il cammino. 
  A  Troade. Paolo risuscita un morto 
  7 Il primo giorno della settimana ci eravamo riuniti a spezzare il  pane e Paolo conversava con loro; e poiché doveva partire il giorno dopo,  prolungò la conversazione fino a mezzanotte. 8 C'era un buon  numero di lampade nella stanza al piano superiore, dove eravamo riuniti; 9  un ragazzo chiamato Eutico, che stava seduto sulla finestra, fu preso da  un sonno profondo mentre Paolo continuava a conversare e, sopraffatto dal  sonno, cadde dal terzo piano e venne raccolto morto. 10 Paolo allora  scese giù, si gettò su di lui, lo abbracciò e disse: «Non vi turbate; è ancora  in vita!». 11 Poi risalì, spezzò il pane e ne mangiò e dopo aver  parlato ancora molto fino all'alba, partì. 12 Intanto avevano  ricondotto il ragazzo vivo, e si sentirono molto consolati.
  In occasione  della liturgia domenicale, la sera precedente la partenza, Paolo celebra  l’eucaristia con la comunità. Paolo prolunga il colloquio fino a tarda ora.  Mentre Paolo fa l’omelia, un ragazzo di nome Eutico (che significa Buona  Fortuna), preso dal sonno, cade dalla finestra del terzo piano sulla quale si  era seduto per ascoltare Paolo. Paolo scende, abbraccia il ragazzo e annuncia  che di nuovo "la sua anima è in lui". Poi sale per spezzare il pane e  continua la sua omelia, discorrendo fino alla luce del giorno. 
  Quest’ultima  celebrazione eucaristica a Tròade è il memoriale del Signore che Paolo lascia  alle sue comunità. Ormai non potrà più essere presente di persona per  esortarle. Ma dopo la sua partenza esse potranno trovare in questo memoriale  "un conforto senza misura" (v. 12).
  Da  Troade a Mileto 
  13 Noi poi, che eravamo partiti per nave, facemmo vela per Asso, dove  dovevamo prendere a bordo Paolo; così infatti egli aveva deciso, intendendo di  fare il viaggio a piedi. 14 Quando ci ebbe raggiunti ad Asso, lo  prendemmo con noi e arrivammo a Mitilène. 15 Salpati da qui il  giorno dopo, ci trovammo di fronte a Chio; l'indomani toccammo Samo e il giorno  dopo giungemmo a Milèto. 16 Paolo aveva deciso di passare al largo  di Efeso per evitare di subire ritardi nella provincia d'Asia: gli premeva di  essere a Gerusalemme, se possibile, per il giorno della Pentecoste.
  Paolo e i  suoi compagni sbarcano a Mileto dopo aver percorso circa 300 chilometri in  cinque giorni di navigazione. Paolo ha evitato intenzionalmente lo scalo di  Efeso, per paura di essere trattenuto. Luca non precisa il motivo di questo  timore. La Pentecoste  si avvicina e Paolo desidera arrivare a Gerusalemme in tempo per celebrare la  festa.
  Addio  agli anziani di Efeso 
  17 Da Milèto mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa.  18 Quando essi giunsero disse loro: «Voi sapete come mi sono  comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto  questo tempo: 19 ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le  lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. 20 Sapete  come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di  predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, 21 scongiurando  Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. 22  Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere  ciò che là mi accadrà. 23 So soltanto che lo Spirito Santo in ogni  città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. 24 Non  ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la  mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere  testimonianza al messaggio della grazia di Dio.
  25 Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali  sono passato annunziando il regno di Dio. 26 Per questo dichiaro  solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che  si perdessero, 27 perché non mi sono sottratto al compito di  annunziarvi tutta la volontà di Dio. 28 Vegliate su voi stessi e su  tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a  pascere la Chiesa  di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. 29 Io so che  dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il  gregge; 30 perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare  dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. 31 Per questo  vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di  esortare fra le lacrime ciascuno di voi.
  32 Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il  potere di edificare e di concedere l'eredità con tutti i santificati. 33 Non  ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. 34 Voi  sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto  queste mie mani. 35 In  tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i  deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia  nel dare che nel ricevere!».
  36 Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. 37 Tutti  scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, 38  addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto  il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave.
  Giunto a  Mileto, Paolo invia un messaggio agli anziani della chiesa di Efeso per  salutarli e invitarli a recarsi da lui. Questi anziani saranno i primi  ascoltatori del suo testamento spirituale. Attraverso di loro Paolo si rivolge  a tutte le comunità cristiane di origine pagana e ai falsi maestri che  minacciano la loro fede. 
  In tutto il  libro degli Atti è l’unica volta che Luca ci riporta un discorso di Paolo ad  ascoltatori cristiani. Si tratta di un bel esempio di quelle parole di  esortazione che il missionario rivolgeva alle giovani comunità da lui fondate.  Questa volta però ci troviamo di fronte a un addio ai suoi discepoli che gli  sono tanto cari, che ha generato nella fede e che non vedranno più il suo  volto. 
  Paolo  comincia col ricordare i suoi anni di ministero a Efeso: egli si è comportato  da servo del Signore nelle sofferenze subite e nella testimonianza resa a  Cristo con la Parola  che conduce alla conversione. Egli dichiara di essersi comportato umilmente da  fedele discepolo del suo Maestro. L’umiltà però non l’ha spinto a tacere. Egli  ha saputo prendersi le proprie responsabilità di testimone per condurre i  giudei e i pagani alla conoscenza del Dio unico e alla fede in Gesù risorto. 
  Paolo svela  loro il suo destino. Lo Spirito santo stesso conferma a Paolo che lo attendono  tribolazioni e catene a Gerusalemme. Ed egli, come Gesù, si mette in viaggio in  piena libertà. Con questa salita a Gerusalemme ha inizio per Paolo un altro  modo di essere testimone e di portare a termine il servizio che gli è stato  affidato: bisogna che egli renda testimonianza alla buona notizia della grazia  di Dio. 
  Egli  annunzia agli anziani che il suo destino sarà ormai strettamente legato a  quello di Gesù che aveva dichiarato: "Saliamo a Gerusalemme, e tutto ciò  che è scritto attraverso i profeti a proposito del Figlio dell’uomo sarà  compiuto. Poi sarà consegnato ai pagani..."(Lc 18,31-32). Paolo trasmette  agli anziani il suo testamento. Ormai dovranno essere loro a farsi carico della  chiesa di Efeso. Se essi si allontanano da questo disegno di Dio o lasciano che  altri se ne allontanino, la responsabilità è loro: il loro sangue è sul loro  capo, e Paolo ne è innocente. 
  Il v. 28  costituisce il culmine della Parola rivolta agli anziani. Paolo delinea il  mistero della chiesa come gregge al servizio del quale gli anziani sono stati  costituiti "sorveglianti" o "episcopi" (episkopous). 
  I vv. 29-35  sviluppano le conseguenze di questo incarico: vigilanza di fronte ai nemici del  gregge, gratuità di vivere in solidarietà con i deboli, nel ricordo vivo e  operante delle parole di Gesù: "Vi è più gioia nel dare che nel  ricevere!". 
  In questo  brano ci troviamo di fronte all’unica volta in cui viene usato il termine  "sorvegliante" o "episcopo" negli scritti di Luca. .E’  usato per qualificare gli anziani e sottolinea l’ampiezza del loro compito  pastorale. L’accento non è posto su una dignità di notabili, ma sulla loro  responsabilità nei confronti del gregge. In particolare essi hanno il dovere di  smascherare i falsi maestri e le loro dottrine devianti. E devono far questo  non solo con la parola, ma anche con l’esempio di una vita totalmente  consegnata alla grazia di Dio. 
  Dopo aver  richiamato ancora una volta alla memoria degli anziani il proprio servizio,  svolto "per tre anni, notte e giorno, con lacrime", Paolo affida  tutti i presenti alle mani di Dio Padre, Figlio e Spirito santo. Nel cuore del  testamento di Paolo a Mileto si colloca la rivelazione del mistero di Dio, il  mistero della grazia offerta sia ai giudei che ai greci. 
  Le parole di  Paolo: "Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno"  (v. 33) evocano il terribile castigo che si era abbattuto sui uno dei notabili  d’Israele al tempo in cui Giosuè era entrato nella terra promessa. Acan, Figlio  di Zerach, era perito con tutta la sua famiglia per aver desiderato e rubato  argento, oro e un ricco mantello di Sennaar riservati a Dio (cf. Gs 7,16-26).  Quando è in gioco la grazia, non si può barare. Nel libro degli Atti,  l’episodio di Anania e Saffira lo mette tragicamente in evidenza (5,1-11).  Pietro aveva espresso lo stesso rifiuto di quelle realtà idolatriche quando  aveva detto allo zoppo della porta Bella: "Non possiedo né oro né argento,  ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!"  (3,6). 
  Se dunque  gli anziani vogliono comportarsi da testimoni della grazia e manifestarne tutta  la gratuità, devono ispirarsi alla condotta di Barnaba, che "avendo  venduto un campo che aveva, ne portò il ricavato e lo mise ai piedi degli  apostoli" (4,37). E non devono dimenticare il modo in cui lo stesso Paolo  non solo aveva cercato di non essere a carico di nessuno nel periodo che aveva  trascorso tra loro, ma aveva anche lavorato con le sue mani per aiutare i suoi  compagni (cf. 1Ts 2,9; 4,11; 1Cor 4,12; 9,15). 
  A differenza  di ciò che avviene nel mondo, dove la felicità consiste nel ricevere, o  addirittura nel prendere, la beatitudine del regno di Dio consiste nel dare:  "E’ più beato dare che ricevere". L’ultima parola rivolta da Paolo  agli anziani unifica tutto il discorso con la sua insistenza sull’attività del  dono, caratteristica di Dio che fa grazia in Gesù. Paolo colloca in tal modo il  suo agire e quello degli anziani di Efeso, sulla stessa linea dell’agire di  Cristo. 
  Paolo si  congeda da tutti inginocchiandosi a pregare. I presenti scoppiano allora in un  grande pianto. Ciò che affligge gli anziani radunati è la prospettiva di non  rivedere più il volto di Paolo. Essi lo accompagnano fino alla nave, simbolo  della partenza e della separazione, del pericolo e della precarietà, del  viaggio verso l’ignoto. 
Capitolo 21 
  La  salita a Gerusalemme 
  1 Appena ci fummo separati da loro, salpammo e per la via diretta  giungemmo a Cos, il giorno seguente a Rodi e di qui a Pàtara. 2 Trovata  qui una nave che faceva la traversata per la Fenicia, vi salimmo e prendemmo il largo. 3 Giunti  in vista di Cipro, ce la lasciammo a sinistra e, continuando a navigare verso la Siria, giungemmo a Tiro,  dove la nave doveva scaricare. 4 Avendo ritrovati i discepoli,  rimanemmo colà una settimana, ed essi, mossi dallo Spirito, dicevano a Paolo di  non andare a Gerusalemme. 5 Ma quando furon passati quei giorni,  uscimmo e ci mettemmo in viaggio, accompagnati da tutti loro con le mogli e i  figli sin fuori della città. Inginocchiati sulla spiaggia pregammo, poi ci  salutammo a vicenda; 6 noi salimmo sulla nave ed essi tornarono alle  loro case. 7 Terminata la navigazione, da Tiro approdammo a  Tolemàide, dove andammo a salutare i fratelli e restammo un giorno con loro.
  8 Ripartiti il giorno seguente, giungemmo a Cesarèa; ed entrati nella  casa dell'evangelista Filippo, che era uno dei Sette, sostammo presso di lui. 9  Egli aveva quattro figlie nubili, che avevano il dono della profezia. 10  Eravamo qui da alcuni giorni, quando giunse dalla Giudea un profeta di  nome Agabo. 11 Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si  legò i piedi e le mani e disse: «Questo dice lo Spirito Santo: l'uomo a cui  appartiene questa cintura sarà legato così dai Giudei a Gerusalemme e verrà  quindi consegnato nelle mani dei pagani». 12 All'udir queste cose,  noi e quelli del luogo pregammo Paolo di non andare più a Gerusalemme. 13 Ma  Paolo rispose: «Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il  cuore? Io sono pronto non soltanto a esser legato, ma a morire a Gerusalemme  per il nome del Signore Gesù». 14 E poiché non si lasciava  persuadere, smettemmo di insistere dicendo: «Sia fatta la volontà del  Signore!».
  Lasciando la  spiaggia di Mileto, Paolo e i suoi compagni si distaccano dalle persone care e  partono per l’isola di Cos e di lì, attraverso un viaggio di 650 chilometri,  arrivano a Tiro. Paolo approfitta dello scalo per far visita alla piccola  comunità cristiana del luogo. Anche qui lo Spirito Santo gli predice un futuro  di sofferenza. I discepoli si appellano allo Spirito per cercare di trattenere  Paolo perché non andasse a Gerusalemme. Paradossalmente, questa preoccupazione  di proteggere Paolo è provocata dallo stesso Spirito Santo che suscita in lui  il desiderio di andare a Gerusalemme. Ciascuno dunque coglie le mozioni dello  Spirito secondo le proprie responsabilità e le proprie inclinazioni. Lo Spirito  infatti non costringe le persone, ma le mette in una condizione di libertà.  Soltanto la preghiera e l’obbedienza permettono di superare le contraddizioni e  le tensioni che ne derivano. Ed è proprio nella preghiera che tutti i discepoli  si ritrovano radunati sulla spiaggia che si stende sui due lati della città. 
  A Cesarea,  in casa di Filippo che era uno dei Sette incaricati di occuparsi degli  ellenisti (cf. 6,5), giunge un profeta dalla Giudea di nome Agabo. Già in 11,28  l’intervento di questo profeta aveva permesso alla chiesa di Antiochia di  esprimere concretamente la sua riconoscenza nei confronti della comunità-madre  di Gerusalemme inviando degli aiuti per mezzo di Barnaba e Saulo in occasione  di una grave carestia al tempo dell’imperatore Claudio. Come i profeti  dell’Antico Testamento, Agabo incomincia con l’esprimere attraverso un’azione  mimica il messaggio che deve trasmettere. Prendendo la cintura di Paolo, se  l’annoda ai piedi e alle mani. Il gesto viene spiegato dalle parole che l’accompagnano:  "Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà  legato così dai giudei a Gerusalemme e verrà quindi consegnato nelle mani dei  pagani" (v. 11). 
  La reazione  dei compagni è immediata: si uniscono alla gente del luogo in un coro di  proteste. Paolo non è insensibile alla desolazione di coloro che lascerà  orfani, ma la sua decisione è incrollabile. Svolgerà la sua missione fino in  fondo, fino alla morte, per servire il suo Signore. La stessa determinazione  era stata descritta da Luca nei confronti di Gesù (Lc 22,33). Paolo non si  lascia persuadere dalle lacrime degli amici i quali smettono di insistere,  accettando di fare la volontà del Signore. 
  Arrivo  di Paolo a Gerusalemme 
  15 Dopo questi giorni, fatti i preparativi, salimmo verso Gerusalemme. 16  Vennero con noi anche alcuni discepoli da Cesarèa, i quali ci condussero  da un certo Mnasone di Cipro, discepolo della prima ora, dal quale ricevemmo  ospitalità.
  17 Arrivati a Gerusalemme, i fratelli ci accolsero festosamente. 18 L'indomani Paolo  fece visita a Giacomo insieme con noi: c'erano anche tutti gli anziani. 19  Dopo aver rivolto loro il saluto, egli cominciò a esporre nei particolari  quello che Dio aveva fatto tra i pagani per mezzo suo. 20 Quand'ebbero  ascoltato, essi davano gloria a Dio; quindi dissero a Paolo: «Tu vedi, o  fratello, quante migliaia di Giudei sono venuti alla fede e tutti sono  gelosamente attaccati alla legge. 21 Ora hanno sentito dire di te  che vai insegnando a tutti i Giudei sparsi tra i pagani che abbandonino Mosè,  dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non seguire più le nostre  consuetudini. 22 Che facciamo? Senza dubbio verranno a sapere che  sei arrivato. 23 Fa’ dunque quanto ti diciamo: vi sono fra noi  quattro uomini che hanno un voto da sciogliere. 24 Prendili con te,  compi la purificazione insieme con loro e paga tu la spesa per loro perché  possano radersi il capo. Così tutti verranno a sapere che non c'è nulla di vero  in ciò di cui sono stati informati, ma che invece anche tu ti comporti bene  osservando la legge. 25 Quanto ai pagani che sono venuti alla fede,  noi abbiamo deciso ed abbiamo loro scritto che si astengano dalle carni offerte  agli idoli, dal sangue, da ogni animale soffocato e dalla impudicizia».
  26 Allora Paolo prese con sé quegli uomini e il giorno seguente, fatta  insieme con loro la purificazione, entrò nel tempio per comunicare il  compimento dei giorni della purificazione, quando sarebbe stata presentata  l'offerta per ciascuno di loro.
  La lunga  tappa di 100   chilometri da Cesarea a Gerusalemme viene suddivisa in  due parti: Paolo e i suoi compagni si fermano in un villaggio, dove sono  ospitati da Mnasone. Poi ripartono per raggiungere Gerusalemme. Giacomo e gli  anziani attendono i viaggiatori. Dopo averli salutati, Paolo racconta ciò che  Dio ha realizzato tra i pagani per mezzo del suo "servizio". Dopo  aver ascoltato Paolo, i presenti glorificarono Dio. Ma l’attenzione di Giacomo  e degli anziani si sposta subito su un altro tema: bisogna evitare che Paolo  diventi un nuovo motivo di discordia tra i giudei. 
  Per un  giudeo, l’obbligo di osservare la   Legge è fuori discussione. E siccome la pratica missionaria  di Paolo suscita dovunque il sospetto dei suoi fratelli giudei, Giacomo e gli  anziani gli offrono l’occasione per chiudere la bocca ai suoi accusatori  facendo vedere che si è comportato bene osservando la Legge (v. 24). Per questo  gli chiedono di manifestare chiaramente l’osservanza della Legge compiendo un  gesto di pietà e di solidarietà sostenendo le spese della cerimonia di richiesta  per lo scioglimento di un voto, a favore di quattro fratelli bisognosi. Luca ha  già mostrato la fedele osservanza di questa pratica da parte di Paolo, alla sua  partenza da Corinto (18,18). 
  La  celebrazione dello scioglimento di un voto aveva un costo notevole in denaro e  sacrifici: un agnello per l’olocausto; una pecora per il sacrificio per il  peccato; un ariete per il sacrificio di comunione; un canestro di pani azzimi  fatti con fior di farina e intrisi di olio, con le relative oblazioni e libazioni  (cf. Nm 6,14-15). Per Paolo poteva essere anche un modo per dare alla comunità  le elemosine e le oblazioni da lui raccolte "per la sua nazione"  (24,17). 
  Nella  raccomandazione fatta da Giacomo a Paolo c’è anche un altro elemento da tenere  presente. Rientrando da un viaggio in terra pagana, un buon giudeo doveva  "purificarsi", sottoponendosi ad aspersioni di acqua il terzo e il  settimo giorno di una settimana. Questa richiesta di solidarietà e di  osservanze, di fatto, costerà a Paolo la libertà (cf. vv. 27ss). 
  L'arresto  di Paolo 
  27 Stavano ormai per finire i sette giorni, quando i Giudei della  provincia d'Asia, vistolo nel tempio, aizzarono tutta la folla e misero le mani  su di lui gridando: 28 «Uomini d'Israele, aiuto! Questo è l'uomo che  va insegnando a tutti e dovunque contro il popolo, contro la legge e contro  questo luogo; ora ha introdotto perfino dei Greci nel tempio e ha profanato il  luogo santo!». 29 Avevano infatti veduto poco prima Tròfimo di Efeso  in sua compagnia per la città, e pensavano che Paolo lo avesse fatto entrare  nel tempio. 30 Allora tutta la città fu in subbuglio e il popolo  accorse da ogni parte. Impadronitisi di Paolo, lo trascinarono fuori del tempio  e subito furono chiuse le porte. 31 Stavano già cercando di  ucciderlo, quando fu riferito al tribuno della coorte che tutta Gerusalemme era  in rivolta. 32 Immediatamente egli prese con sé dei soldati e dei  centurioni e si precipitò verso i rivoltosi. Alla vista del tribuno e dei  soldati, cessarono di percuotere Paolo. 33 Allora il tribuno si  avvicinò, lo arrestò e ordinò che fosse legato con due catene; intanto  s'informava chi fosse e che cosa avesse fatto. 34 Tra la folla però  chi diceva una cosa, chi un'altra. Nell'impossibilità di accertare la realtà  dei fatti a causa della confusione, ordinò di condurlo nella fortezza. 35 Quando  fu alla gradinata, dovette essere portato a spalla dai soldati a causa della  violenza della folla. 36 La massa della gente infatti veniva dietro,  urlando: «A morte!».
  37 Sul punto di esser condotto nella fortezza, Paolo disse al tribuno:  «Posso dirti una parola?». «Conosci il greco?, disse quello, 38 Allora  non sei quell'Egiziano che in questi ultimi tempi ha sobillato e condotto nel  deserto i quattromila ribelli?». 39 Rispose Paolo: «Io sono un  Giudeo di Tarso di Cilicia, cittadino di una città non certo senza importanza.  Ma ti prego, lascia che rivolga la parola a questa gente». 40 Avendo  egli acconsentito, Paolo, stando in piedi sui gradini, fece cenno con la mano  al popolo e, fattosi un grande silenzio, rivolse loro la parola in ebraico  dicendo:
  Paolo viene  arrestato nel Tempio proprio mentre esegue le richieste fatte da Giacomo e  dagli anziani di Gerusalemme. I suoi aggressori sono giudei venuti dall’Asia,  cioè dalla regione di Efeso. Essi colgono l’occasione per compiere la propria  vendetta accusandolo di aver introdotto nel Tempio un pagano loro compatriota.  Così Paolo viene accusato di aver profanato il Tempio proprio mentre si era  presentato con quattro giudei per purificarsi con loro (v. 26). Colui che  portava al suo popolo e al Tempio l’oblazione del mondo sta per essere ucciso  per il suo popolo, per la Legge  e per il Tempio proprio dai suoi stessi fratelli giudei. Paolo comincia la sua  passione nel Tempio della città santa.
  Per quale  motivo la folla dimostra tanto accanimento? La risposta ce la dà il v. 28:  "Questo è l’uomo che va insegnando a tutti e dovunque contro il popolo,  contro la Legge  e contro questo luogo; ora ha introdotto perfino dei Greci nel tempio e ha  profanato il luogo santo". La   Parola può avere un effetto sovversivo: i capi di Gerusalemme  si erano sentiti minacciati dalla testimonianza di Stefano; i commercianti di  Efeso avevano avvertito il pericolo che la predicazione di Paolo rappresentava  per i loro interessi. Accusare Paolo di profanare il Tempio significa mettere  in agitazione tutta Gerusalemme e provocare l’intervento dei romani. 
  La reazione  dei romani è immediata. Paolo viene sottratto alla folla eccitata che grida:  "A morte!", come aveva fatto nei confronti di Gesù trent’anni prima  (cf Lc 23,18). Luca descrive la scena mostrando il tribuno Claudio Lisia che si  occupa personalmente del prigioniero. Il comandante della guarnigione sembra  convinto di aver arrestato uno di quei terroristi che incitano il popolo alla  rivolta. Dopo aver dato le proprie generalità al tribuno, Paolo chiede di poter  parlare alla folla. Lo fa in mezzo a un grande silenzio, parlando in aramaico  (non in ebraico!), la lingua comunemente usata da tutti i giudei. 
Capitolo 22 
  Arringa  di Paolo ai Giudei di Gerusalemme 
  1 «Fratelli e padri, ascoltate la mia difesa davanti a voi». 2 Quando  sentirono che parlava loro in lingua ebraica, fecero silenzio ancora di più. 3  Ed egli continuò: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma  cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide  norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi. 4  Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in  prigione uomini e donne, 5 come può darmi testimonianza il sommo  sacerdote e tutto il collegio degli anziani. Da loro ricevetti lettere per i  nostri fratelli di Damasco e partii per condurre anche quelli di là come  prigionieri a Gerusalemme, per essere puniti.
  6 Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno,  all'improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; 7 caddi  a terra e sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? 8  Risposi: Chi sei, o Signore? Mi disse: Io sono Gesù il Nazareno, che tu  perseguiti. 9 Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono  colui che mi parlava. 10 Io dissi allora: Che devo fare, Signore? E  il Signore mi disse: Alzati e prosegui verso Damasco; là sarai informato di  tutto ciò che è stabilito che tu faccia. 11 E poiché non ci vedevo  più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni,  giunsi a Damasco.
  12 Un certo Anania, un devoto osservante della legge e in buona  reputazione presso tutti i Giudei colà residenti, 13 venne da me, mi  si accostò e disse: Saulo, fratello, torna a vedere! E in quell'istante io  guardai verso di lui e riebbi la vista. 14 Egli soggiunse: Il Dio  dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il  Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, 15 perché  gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e  udito. 16 E ora perché aspetti? Alzati, ricevi il battesimo e lavati  dai tuoi peccati, invocando il suo nome.
  17 Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui  rapito in estasi 18 e vidi Lui che mi diceva: Affrettati ed esci  presto da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza su di me. 19  E io dissi: Signore, essi sanno che facevo imprigionare e percuotere  nella sinagoga quelli che credevano in te; 20 quando si versava il  sangue di Stefano, tuo testimone, anch'io ero presente e approvavo e custodivo  i vestiti di quelli che lo uccidevano. 21 Allora mi disse: Va’,  perché io ti manderò lontano, tra i pagani».
  In questo  discorso al popolo, notiamo l’impiego massiccio della prima persona singolare:  40 volte in 21 versetti. Giustamente dunque si parla di autodifesa e non di  proclamazione. E’ l’apologia di un testimone giudeo che spiega ai suoi fratelli  e ai suoi padri come Dio l’ha costituito testimone, presso tutti gli uomini,  del Giusto perseguitato e glorificato. 
  Il luogo in  cui Paolo rende la sua testimonianza è particolarmente simbolico: la gradinata  che conduce al Tempio di Gerusalemme, dimora dell’Altissimo, e alla fortezza  Antonia, rivolge in aramaico, agli altri in greco. 
  Ricordando  la sua vita di testimone, Paolo mette in luce la testimonianza a cui è chiamato  Israele. La vocazione dei giudei, nella sua radice, esige che ci si lasci  inviare alle nazioni (cf. Libro di Giona). E’ normale per un giudeo sentirsi  ricordare che Israele ha la missione di portare la salvezza di Dio fino  all’estremità della terra (cf. Is 49,6: "E’ troppo poco che tu sia mio  servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele.  Ma io ti renderò luce delle nazioni perché tu porti la mia salvezza fino  all’estremità della terra"). Il problema è il modo in cui Paolo  realizza questa testimonianza. Il suo comportamento è simile a quello di un  nemico del popolo, perché ne mette a repentaglio la sua stessa esistenza, le  sue usanze, il suo culto. Come si può capire tutto questo? Paolo dichiara di  aver ricevuto da Dio l’incarico di essere testimone del Nazoreo perseguitato e  glorificato. Lasciandosi battezzare nel Suo Nome, si è impegnato a seguirlo nel  suo mistero di passione-risurrezione. Se i suoi fratelli presteranno orecchio  al messaggio profetico che Dio indirizza loro attraverso gli avvenimenti della  sua vita, capiranno di essere chiamati a diventare anch’essi come lui (cf.  26,29). E non come singoli individui, ma come popolo di Israele in quanto tale.  Dunque l’intero Israele, per essere il popolo testimone delle meraviglie di  Dio, deve accettare di passare attraverso il mistero della  passione-risurrezione del suo Messia. 
  L’apologia  di Paolo mette il popolo d’Israele di fronte alla sua vocazione di testimone.  Israele accetterà di andare alle nazioni per essere testimone vivente del  Cristo morto e risorto? 
  Ciò che  Paolo vuole dimostrare in questo discorso è la propria obbedienza agli ordini  del Signore che gli è apparso sulla via di Damasco (v. 8), mandandolo da Anania  (v.10) che gli aveva rivelato la sua missione (vv. 14-16), confermata in  seguito dal Signore stesso. 
  Paolo,  cittadino romano 
  22 Fino a queste parole erano stati ad ascoltarlo, ma allora alzarono  la voce gridando: «Toglilo di mezzo; non deve più vivere!». 23 E  poiché continuavano a urlare, a gettar via i mantelli e a lanciar polvere in  aria, 24 il tribuno ordinò di portarlo nella fortezza, prescrivendo  di interrogarlo a colpi di flagello al fine di sapere per quale motivo gli  gridavano contro in tal modo.
  25 Ma quando l'ebbero legato con le cinghie, Paolo disse al centurione  che gli stava accanto: «Potete voi flagellare un cittadino romano, non ancora  giudicato?». 26 Udito ciò, il centurione corse a riferire al  tribuno: «Che cosa stai per fare? Quell'uomo è un romano!». 27 Allora  il tribuno si recò da Paolo e gli domandò: «Dimmi, tu sei cittadino romano?».  Rispose: «Sì». 28 Replicò il tribuno: «Io questa cittadinanza l'ho  acquistata a caro prezzo». Paolo disse: «Io, invece, lo sono di nascita!». 29  E subito si allontanarono da lui quelli che dovevano interrogarlo. Anche  il tribuno ebbe paura, rendendosi conto che Paolo era cittadino romano e che  lui lo aveva messo in catene.
  Comparsa  davanti al sinedrio 
  30 Il giorno seguente, volendo conoscere la realtà dei fatti, cioè il  motivo per cui veniva accusato dai Giudei, gli fece togliere le catene e ordinò  che si riunissero i sommi sacerdoti e tutto il sinedrio; vi fece condurre Paolo  e lo presentò davanti a loro.
  "Lo  ascoltavano fino a questa parola…". Il popolo dei giudei sembra aver  capito bene la testimonianza di Paolo. L’appello che il Signore rivolge loro  attraverso la vita dell’apostolo potrebbe indurli a condividere la sua sorte.  Di qui la violenza della loro reazione: "Porta via dalla terra un tale  individuo!" (v. 22). E’ la richiesta che avevano già urlato in precedenza  (21,36). Ed è la stessa che trent’anni prima, forse nello stesso luogo, avevano  gridato verso Pilato a proposito di Gesù: "Porta via costui! Ora liberaci  Barabba!" (Lc 23,18). 
  Di fronte  alla nuova esplosione di furore omicida, il tribuno salva Paolo e lo fa  condurre nella fortezza. Decide poi di farlo interrogare immediatamente per  scoprire il motivo di tanto accanimento da parte del popolo. Durante  l’interrogatorio di un imputato, soprattutto se si trattava di uno schiavo, la  giustizia romana ricorreva spesso alla tortura per ottenere la confessione del  delitto. Mentre veniva legato per essere sottoposto ai colpi di frusta, Paolo  rivela la sua condizione di cittadino romano e chiede al tribuno di attenersi a  una procedura legale nei suoi confronti: prima di infliggere una pena deve  essere istituito un processo, e in ogni caso l’uso della frusta non è ammesso  quando l’imputato è un cittadino romano. 
  Paolo aveva  presentato la sua difesa davanti ai suoi fratelli dimostrando loro la sua piena  fedeltà alla vocazione giudaica garantita dalla Legge. Ora invita i romani a  salvaguardare la giustizia e a rispettare quelle leggi che sono il fondamento  stesso del loro impero. 
  Dopo la  dichiarazione sensazionale di Paolo, i soldati si ritirano e il tribuno è colto  dal timore. Il tribuno osserverà la legge per paura del governatore Felice e  Festo, successore di Felice, farà lo stesso per paura dell’imperatore. 
  Il tribuno  voleva conoscere il motivo dell’accanimento della folla nei confronti di Paolo  (v. 24). Il breve dialogo con il prigioniero non gli ha fornito una risposta su  questo punto. Bisognerà dunque che applichi una procedura legale, interrogando  gli accusatori di Paolo. 
  Sotto la  protezione dei romani, Paolo affronta le autorità giudaiche radunate nel  sinedrio per ordine del tribuno. 
Capitolo 23 
  1 Con lo sguardo fisso al sinedrio Paolo disse: «Fratelli, io ho agito  fino ad oggi davanti a Dio in perfetta rettitudine di coscienza». 2 Ma  il sommo sacerdote Anania ordinò ai suoi assistenti di percuoterlo sulla bocca.  3 Paolo allora gli disse: «Dio percuoterà te, muro imbiancato! Tu  siedi a giudicarmi secondo la legge e contro la legge comandi di percuotermi?».  4 E i presenti dissero: «Osi insultare il sommo sacerdote di Dio?». 5  Rispose Paolo: «Non sapevo, fratelli, che è il sommo sacerdote; sta  scritto infatti: Non insulterai il capo del tuo popolo ».
  6 Paolo sapeva che nel sinedrio una parte era di sadducei e una parte  di farisei; disse a gran voce: «Fratelli, io sono un fariseo, figlio di  farisei; io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella  risurrezione dei morti». 7 Appena egli ebbe detto ciò, scoppiò una  disputa tra i farisei e i sadducei e l'assemblea si divise. 8 I  sadducei infatti affermano che non c'è risurrezione, né angeli, né spiriti; i  farisei invece professano tutte queste cose. 9 Ne nacque allora un  grande clamore e alcuni scribi del partito dei farisei, alzatisi in piedi,  protestavano dicendo: «Non troviamo nulla di male in quest'uomo. E se uno  spirito o un angelo gli avesse parlato davvero?». 10 La disputa si  accese a tal punto che il tribuno, temendo che Paolo venisse linciato da  costoro, ordinò che scendesse la truppa a portarlo via di mezzo a loro e  ricondurlo nella fortezza. 11 La notte seguente gli venne accanto il  Signore e gli disse: «Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme,  così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma».
  Questi  versetti mettono in evidenza un elemento centrale della predicazione di Paolo:  la speranza costituita dalla risurrezione dei morti (v. 6). Delle  due scene, la prima (vv. 1-5) sottolinea l’incomprensione di cui vengono  circondati i profeti, la seconda (vv. 7-10) mostra i danni causati dalla  mancanza di ascolto. La conclusione fa vedere come Dio sostiene i suoi  testimoni (v. 11). Assistiamo a un duplice capovolgimento della situazione: i  giudici si scoprono giudicati dal loro stesso atteggiamento nei confronti di  Paolo. Il sommo sacerdote si squalifica come capo del popolo perché fa  percuotere Paolo sulla bocca (profetica), atteggiamento contrario alla Legge:  il potere, soprattutto quando ha torto, usa la violenza! I membri del sinedrio  si giudicano da sé dividendosi sulla questione importante della speranza del  popolo e della venuta del Messia, con la sua conseguenza concreta: la  risurrezione dei morti. 
  Nel suo  discorso Paolo si colloca immediatamente sul piano della propria responsabilità  davanti a Dio, come ogni buon cittadino responsabile risponde della propria  condotta davanti all’autorità civile. Ma questo è proprio ciò che non piace al  sommo sacerdote Anania. 
  Anania di  Nebedeo, appartenente al casato di Guryon, ricoprì la carica di sommo sacerdote  dal 47 al 59. Aveva fama di essere un intrigante, un uomo crudele e avido, un  collaboratore di Roma. In questo racconto, urtato dalla disinvoltura del tono  di superiorità di Paolo, ordina di percuoterlo. Questo capo indegno si rifiuta  di ascoltare un profeta e facendo percuotere l’imputato prima che questi si sia  difeso, viola la Legge  che sarebbe tenuto per primo a rispettare e a far rispettare (cf. Lv 19,15). La  reazione di Paolo scandalizza i presenti. L’apostolo pronuncia una prima parola  profetica: "Sei tu che Dio sta per percuotere, o muro imbiancato!".  E’ chiara l’allusione al muro di cui parla Ezechiele (Ez 13,10-15), il muro che  dovrebbe difendere la città e che i falsi profeti di turno ricoprono  incessantemente di fango perché non si veda che è pericolante. Dio stesso sta  per abbatterlo. Per dovere di cronaca ricordiamo che otto anni più tardi, dopo  aver visto la sua casa incendiata dagli zeloti, Anania morirà in una fogna,  assassinato insieme a suo fratello Hezechias. 
  Paolo si  sente rispondere: "Tu insulti il sommo sacerdote di Dio!". In realtà  Paolo ha pronunciato una parola profetica, svelando il peccato e annunciando il  castigo. Inoltre, anche se è investito della carica di sommo sacerdote,  quell’uomo non si comporta come tale. Il suo atteggiamento è quello di un  nemico della Legge e dei Profeti, mentre il profeta Paolo è sempre vissuto  nella fedeltà alla Legge, come aveva ricordato un momento prima. E’ molto  probabile che sia questo il significato il significato della frase di Paolo: "Io  non sapevo, fratelli, che è il sommo sacerdote" (v. 5): infatti è  difficile pensare che Paolo non avesse individuato colui che presiedeva il  sinedrio. Paolo aggiunge subito una frase tratta dal codice dell’alleanza, che  comanda a chi subisce una condanna a non lasciare esplodere il proprio  risentimento maledicendo Dio e i giudici: "Non bestemmierai Dio; non  maledirai il capo del tuo popolo" (Es 22,27 LXX). 
  Dopo questo  fatto, Paolo, in mezzo al sinedrio, grida di essere stato messo sotto accusa  "a proposito della speranza e della risurrezione dei morti". Sulla  risurrezione dei morti i sadducei e i farisei sono in contrasto tra loro. I  primi affermano che bisogna attenersi alla lettera del solo Pentateuco; i  secondi attualizzano la Legge  alla luce dei testi profetici e sapienziali. Già nel Vangelo i sadducei avevano  discusso con Gesù sull’argomento della risurrezione (Lc 20,27-40). E Gesù aveva  denunciato il loro errore. Negli Atti li abbiamo visti irritarsi per  l’insegnamento di Pietro e di Giovanni che annunciavano nella persona di Gesù  la risurrezione dei morti (4,2). Questa credenza, per loro, era estranea alla  Scrittura, mentre i farisei vedevano in essa il compimento delle promesse fatte  ai padri e una conseguenza dell’alleanza. 
  Al grido di  Paolo (v. 6) risponde quello dei membri del sinedrio (v. 9), divisi dalla  parola provocatoria del profeta. La discussione si inasprisce e si trasforma in  insurrezione (stasis: vv. 7.10). E poiché il sommo sacerdote, senza  volerlo, aveva trattato Paolo come un profeta, alcuni farisei, sentendosi  toccati nel vivo della loro fede, riconoscono l’innocenza dell’accusato. Egli  diventa per loro un segno del compimento della loro speranza. 
  Ancora una  volta il racconto ci mette di fronte a un’iniziativa sorprendente: il tribuno fa  entrare i soldati nella sala delle udienze e porta via Paolo. Il racconto  conclude con una conferma a Paolo da parte di Gesù stesso: «La notte seguente  gli venne accanto il Signore e gli disse: "Coraggio! Come hai testimoniato  per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a  Roma"» (v. 11). 
  Complotto  dei Giudei contro Paolo 
  12 Fattosi giorno, i Giudei ordirono una congiura e fecero voto con  giuramento esecratorio di non toccare né cibo né bevanda, sino a che non  avessero ucciso Paolo. 13 Erano più di quaranta quelli che fecero  questa congiura. 14 Si presentarono ai sommi sacerdoti e agli  anziani e dissero: «Ci siamo obbligati con giuramento esecratorio di non  assaggiare nulla sino a che non avremo ucciso Paolo. 15 Voi dunque  ora, insieme al sinedrio, fate dire al tribuno che ve lo riporti, col pretesto  di esaminare più attentamente il suo caso; noi intanto ci teniamo pronti a  ucciderlo prima che arrivi».
  16 Ma il figlio della sorella di Paolo venne a sapere del complotto; si  recò alla fortezza, entrò e ne informò Paolo. 17 Questi allora  chiamò uno dei centurioni e gli disse: «Conduci questo giovane dal tribuno,  perché ha qualche cosa da riferirgli». 18 Il centurione lo prese e  lo condusse dal tribuno dicendo: «Il prigioniero Paolo mi ha fatto chiamare e  mi ha detto di condurre da te questo giovanetto, perché ha da dirti qualche  cosa». 19 Il tribuno lo prese per mano, lo condusse in disparte e  gli chiese: «Che cosa è quello che hai da riferirmi?». 20 Rispose:  «I Giudei si sono messi d'accordo per chiederti di condurre domani Paolo nel  sinedrio, col pretesto di informarsi più accuratamente nei suoi riguardi. 21  Tu però non lasciarti convincere da loro, poiché più di quaranta dei loro  uomini hanno ordito un complotto, facendo voto con giuramento esecratorio di  non prendere cibo né bevanda finché non l'abbiano ucciso; e ora stanno pronti,  aspettando che tu dia il tuo consenso».
  22 Il tribuno congedò il giovanetto con questa raccomandazione: «Non  dire a nessuno che mi hai dato queste informazioni».
  Paolo è un  prigioniero in attesa di giudizio; la sua sorte ormai non è più nelle sue mani,  ma si gioca tra i giudei che vogliono la sua morte e i romani a cui si è  affidato e che lo proteggono. Quaranta uomini si sono impegnati a non mangiare  e bere finché non avranno versato il suo sangue. Come abbiamo visto, gli zeloti  non avevano problemi a punire personalmente coloro che ritenevano colpevoli di  gravi trasgressioni della Legge. Qui li vediamo agire come sicari, cioè come  quei terroristi che si mescolavano alla folla armati del loro pugnale (sica)  e lo affondavano tra le costole delle loro vittime. 
  Veniamo a  sapere che Paolo ha una sorella a Gerusalemme. Il figlio di questa viene a  conoscenza del complotto e ne parla con lo zio, che a sua volta si rivolge al  centurione. Per realizzare il loro piano, quei giudei attendono che l’ufficiale  romano organizzi una nuova riunione del sinedrio. 
  Trasferimento  di Paolo a Cesarea 
  23 Fece poi chiamare due dei centurioni e disse: «Preparate duecento  soldati per andare a Cesarèa insieme con settanta cavalieri e duecento  lancieri, tre ore dopo il tramonto. 24 Siano pronte anche delle  cavalcature e fatevi montare Paolo, perché sia condotto sano e salvo dal  governatore Felice». 25 Scrisse anche una lettera in questi termini:  26 «Claudio Lisia all'eccellentissimo governatore Felice, salute. 27  Quest'uomo è stato assalito dai Giudei e stava per essere ucciso da loro;  ma sono intervenuto con i soldati e l'ho liberato, perché ho saputo che è  cittadino romano. 28 Desideroso di conoscere il motivo per cui lo  accusavano, lo condussi nel loro sinedrio. 29 Ho trovato che lo si  accusava per questioni relative alla loro legge, ma che in realtà non c'erano a  suo carico imputazioni meritevoli di morte o di prigionia. 30 Sono  stato però informato di un complotto contro quest'uomo da parte loro, e così  l'ho mandato da te, avvertendo gli accusatori di deporre davanti a te quello  che hanno contro di lui. Sta’ bene».
  31 Secondo gli ordini ricevuti, i soldati presero Paolo e lo condussero  di notte ad Antipàtride. 32 Il mattino dopo, lasciato ai cavalieri  il compito di proseguire con lui, se ne tornarono alla fortezza. 33 I  cavalieri, giunti a Cesarèa, consegnarono la lettera al governatore e gli  presentarono Paolo. 34 Dopo averla letta, domandò a Paolo di quale  provincia fosse e, saputo che era della Cilicia, disse: 35 «Ti  ascolterò quando saranno qui anche i tuoi accusatori». E diede ordine di  custodirlo nel pretorio di Erode. 
  Di fronte  alla determinazione dei congiurati, il tribuno decide la partenza immediata del  prigioniero per Cesarea, alle nove di sera (tre ore dopo il tramonto).  L’ufficiale che comanda la guarnigione non è un giudice: prima o poi avrebbe  dovuto trasferire il prigioniero al suo superiore gerarchico. Solo il procuratore  della Giudea, che risiede a Cesarea, detiene il potere giudiziario per la  regione da lui governata. Il tribuno svuota le sue caserme della metà degli  effettivi per scortare il prigioniero, temendo un’imboscata lungo la via. 
  In questo  racconto Luca ci fa toccare con mano la sollecitudine con cui l’amministrazione  imperiale garantisce la sicurezza di un cittadino romano. Inoltre sottolinea la  precisione delle procedure, parlando del rapporto che deve essere redatto in un  caso del genere. 
  I cavalieri  che scortano Paolo arrivano a destinazione e consegnano al governatore il  rapporto del tribuno Lisia. Da un rapido interrogatorio Felice viene a sapere  che Paolo è originario della regione della Cilicia. Avrebbe dunque potuto farlo  giudicare là. Ma non vuol costringere gli accusatori a fare un lungo viaggio e  forse teme di perdere un’occasione di tornaconto politico… o finanziario.  Preferisce quindi di occuparsi personalmente del caso, impegnandosi a far  comparire in giudizio Paolo e i suoi accusatori. 
  Comincia  così, per Paolo, una lunga carcerazione preventiva. Rimarrà per due anni  rinchiuso nel pretorio di Erode, in attesa di un processo sempre rimandato. 
Capitolo 24 
  Il  processo davanti a Felice 
  1 Cinque giorni dopo arrivò il sommo sacerdote Anania insieme con  alcuni anziani e a un avvocato di nome Tertullo e si presentarono al  governatore per accusare Paolo. 2 Quando questi fu fatto venire,  Tertullo cominciò l'accusa dicendo: 3 «La lunga pace di cui godiamo  grazie a te e le riforme che ci sono state in favore di questo popolo grazie  alla tua provvidenza, le accogliamo in tutto e per tutto, eccellentissimo  Felice, con profonda gratitudine. 4 Ma per non trattenerti troppo a  lungo, ti prego di darci ascolto brevemente nella tua benevolenza. 5 Abbiamo  scoperto che quest'uomo è una peste, fomenta continue rivolte tra tutti i  Giudei che sono nel mondo ed è capo della setta dei Nazorei. 6 Ha perfino  tentato di profanare il tempio e noi l'abbiamo arrestato. 7 . 8  Interrogandolo personalmente, potrai renderti conto da lui di tutte  queste cose delle quali lo accusiamo». 9 Si associarono nell'accusa  anche i Giudei, affermando che i fatti stavano così.
  Luca rimane  fedele alla traiettoria che aveva tracciato: da Gerusalemme alle nazioni  pagane, di cui la città di Cesarea è il simbolo. E Roma comincia a profilarsi  all’orizzonte dal momento che Paolo si appella a Cesare (24,11). 
  La città di  Cesarea non aveva un carattere giudaico, anche se molti dei suoi abitanti erano  giudei; le truppe di origine pagana e il governatore potevano risiedervi senza  che questo risultasse provocatorio per i giudei. La scelta di Cesarea da parte  dei romani rispettava il carattere religioso di Gerusalemme. A questo aspetto  psicologico si aggiungeva una motivazione strategica; la città infatti sorgeva  sulla riva del mare: in caso di insurrezione, c’erano meno rischi che il  governatore rimanesse intrappolato, e le comunicazioni con Roma erano più  facili. 
  Il capitolo  24 descrive ciò che avviene sotto la giurisdizione di Felice. L’argomento decisivo  dei due discorsi che Paolo pronuncia a propria difesa è la fede nella "  risurrezione dei morti" (24,15.21 e 26,23).
  Una  delegazione giudaica, formata dal sommo sacerdote Anania e da alcuni membri del  sinedrio, scende da Gerusalemme a Cesarea per sporgere ufficialmente querela  contro Paolo davanti al procuratore romano. Gli accusatori esprimono le loro  lagnanze in termini di attentato all’ordine pubblico. L’arringa di Tertullo,  abituato a parlare per la sua conoscenza del diritto romano e per la sua  pratica della lingua greca, obbedisce pienamente ai dettami dell’arte oratoria  allora in vigore. Tertullo presenta il prigioniero a tinte fosche: quell’uomo è  "una peste", che aizza il popolo contro i suoi capi, fomentando in  continuità tumulti e disordini. Il contagio si è diffuso ovunque trai giudei.  Lo dimostrano le insurrezioni che scoppiano in tutto l’universo. L’avvocato  attribuisce a Paolo la responsabilità dei movimenti di rivolta contro Roma che  sorgono in continuità nel popolo giudico, e conclude pregando il procuratore di  fare la propria indagine; non avrà nessuna difficoltà a trovare testimoni  pronti a confermare tutte le imputazioni. I delegati del sinedrio si limitano a  dare ragione a Tertullo.
  Discorso  di Paolo davanti al governatore romano 
  10 Quando il governatore fece cenno a Paolo di parlare, egli rispose:  «So che da molti anni sei giudice di questo popolo e parlo in mia difesa con  fiducia. 11 Tu stesso puoi accertare che non sono più di dodici  giorni da quando mi sono recato a Gerusalemme per il culto. 12 Essi  non mi hanno mai trovato nel tempio a discutere con qualcuno o a incitare il  popolo alla sommossa, né nelle sinagoghe, né per la città 13 e non  possono provare nessuna delle cose delle quali ora mi accusano. 14 Ammetto  invece che adoro il Dio dei miei padri, secondo quella dottrina che essi  chiamano setta, credendo in tutto ciò che è conforme alla Legge e sta scritto  nei Profeti, 15 nutrendo in Dio la speranza, condivisa pure da  costoro, che ci sarà una risurrezione dei giusti e degli ingiusti. 16 Per  questo mi sforzo di conservare in ogni momento una coscienza irreprensibile  davanti a Dio e davanti agli uomini. 17 Ora, dopo molti anni, sono  venuto a portare elemosine al mio popolo e per offrire sacrifici; 18 in occasione di  questi essi mi hanno trovato nel tempio dopo che avevo compiuto le  purificazioni. Non c'era folla né tumulto. 19 Furono dei Giudei  della provincia d'Asia a trovarmi, e loro dovrebbero comparire qui davanti a te  ad accusarmi, se hanno qualche cosa contro di me; 20 oppure dicano i  presenti stessi quale colpa han trovato in me quando sono comparso davanti al  sinedrio, 21 se non questa sola frase che gridai stando in mezzo a  loro: A motivo della risurrezione dei morti io vengo giudicato oggi davanti a  voi!».
  La controinquisitoria  di Paolo fa vedere che è impossibile considerarlo un agitatore di popolo,  perché non avrebbe neanche avuto il tempo di agire in tal senso. Era andato in  pellegrinaggio a Gerusalemme dodici giorni prima e quindi non avrebbe avuto  neanche una settimana per preparare la presunta insurrezione. La formulazione  di questa accusa contro di lui aveva dunque l’unico scopo di far scivolare la  questione sul terreno dell’ordine pubblico. Egli afferma che i suoi accusatori  non sono in grado di fornire le prove dei crimini che denunciano contro di lui.  Anche qui, per due volte, Paolo riconduce il dibattito al suo oggetto reale,  passato sotto silenzio dalla requisitoria: la sua fede nella risurrezione  dei morti. L’origine del conflitto si colloca precisamente in quell’affermazione  che ha diviso gli stessi membri del sinedrio e che ha provocato la sospensione  della riunione: "Io sono giudicato oggi davanti a voi riguardo alla  risurrezione dei morti" (23,6; 24,21). Con queste parole, Paolo rivela  chiaramente che il contrasto non si potrà risolvere senza una spiegazione  all’interno del giudaismo, di fronte alla "via" aperta dal Messia di  Nazaret. Se si è realizzata una simile speranza promessa da Dio, tutto sarà  necessariamente rivoluzionato. Chi sarà ora il capo del popolo? Chi si dovrà  riconoscere come Signore dell’universo? Quale sarà d’ora in poi la missione di  Israele? A quale vita si dovranno invitare i popoli pagani? Se Gesù Cristo,  Figlio di Dio, è risorto, tutto deve essere relativizzato rispetto a questo evento  decisivo, e il vecchio ordinamento deve lasciare posto a questa formidabile  novità. 
  La  cattività di Paolo a Cesarea 
  22 Allora Felice, che era assai bene informato circa la nuova dottrina,  li rimandò dicendo: «Quando verrà il tribuno Lisia, esaminerò il vostro caso». 23  E ordinò al centurione di tenere Paolo sotto custodia, concedendogli però  una certa libertà e senza impedire a nessuno dei suoi amici di dargli  assistenza.
  24 Dopo alcuni giorni Felice arrivò in compagnia della moglie Drusilla,  che era giudea; fatto chiamare Paolo, lo ascoltava intorno alla fede in Cristo  Gesù. 25 Ma quando egli si mise a parlare di giustizia, di  continenza e del giudizio futuro, Felice si spaventò e disse: «Per il momento  puoi andare; ti farò chiamare di nuovo quando ne avrò il tempo». 26 Sperava  frattanto che Paolo gli avrebbe dato del denaro; per questo abbastanza spesso  lo faceva chiamare e conversava con lui.
  27 Trascorsi due anni, Felice ebbe come successore Porcio Festo; ma  Felice, volendo dimostrare benevolenza verso i Giudei, lasciò Paolo in  prigione. 
  Il racconto  riprende mostrandoci il governatore Felice che, dopo aver udito le parti in  causa, pensa sul come trarre profitto dalla vicenda. Annuncia quindi che è  necessario un supplemento d’inchiesta; prima di pronunciarsi attenderà l’arrivo  del tribuno Lisia, l’unico vero testimone imparziale. Nello stesso tempo  concede all’imputato di essere trattato con riguardo, concedendogli un regime  di favore che permette ai suoi amici di occuparsi di lui. Per due volte Luca scrive  che Felice fa chiamare Paolo per ascoltarlo sulla fede in Cristo Gesù (vv.  24-26). Questa propensione di Felice ad ascoltare Paolo non sfocia tuttavia in  un cammino di conversione. Gli argomenti trattati da Paolo in questi colloqui  sono piuttosto duri per la coppia che si intrattiene con lui: la giustizia e la  padronanza di sé non sono le virtù preferite dal governatore, ed è probabile  che Drusilla, in situazione irregolare, rimanga spesso contrariata. Felice  spera segretamente che Paolo gli offra una somma di denaro in cambio della  libertà. Secondo Luca, è questo il vero motivo per cui lo manda spesso a  chiamare. 
  Nonostante i  due anni trascorsi (si tratta con ogni probabilità della massima durata ammessa  dalla legge romana per la detenzione preventiva) senza che nulla intervenga a  modificare la situazione, Felice continua a tenere Paolo in carcere. Fino  all’ultimo, il governatore vuole assicurarsi il favore dei giudei, che sono  suoi alleati politici a Gerusalemme. Ma l’abilità con cui amministra la sua  provincia non impedirà che il suo destino precipiti: intorno all’anno 60, non  essendo riuscito a reprimere alcune sommosse scoppiate a Cesarea, viene  richiamato a Roma da Nerone per rendere conto delle sue malversazioni e viene  destituito. Suo fratello Pallante intercede per lui presso Nerone, ma non  sappiamo che cosa gli succede quando Pallante cade in disgrazia e viene  avvelenato nel 62. L’imperatore designa come suo successore Porcio Festo. 
Capitolo 25 
  Paolo  si appella a Cesare 
  1 Festo dunque, raggiunta la provincia, tre giorni dopo salì da  Cesarèa a Gerusalemme. 2 I sommi sacerdoti e i capi dei Giudei gli  si presentarono per accusare Paolo e cercavano di persuaderlo, 3 chiedendo  come un favore, in odio a Paolo, che lo facesse venire a Gerusalemme; e intanto  disponevano un tranello per ucciderlo lungo il percorso. 4 Festo  rispose che Paolo stava sotto custodia a Cesarèa e che egli stesso sarebbe  partito fra breve. 5 «Quelli dunque che hanno autorità tra voi,  disse, vengano con me e se vi è qualche colpa in quell'uomo, lo denuncino».
  6 Dopo essersi trattenuto fra loro non più di otto o dieci giorni,  discese a Cesarèa e il giorno seguente, sedendo in tribunale, ordinò che gli si  conducesse Paolo. 7 Appena giunse, lo attorniarono i Giudei discesi  da Gerusalemme, imputandogli numerose e gravi colpe, senza però riuscire a  provarle. 8 Paolo a sua difesa disse: «Non ho commesso alcuna colpa,  né contro la legge dei Giudei, né contro il tempio, né contro Cesare». 9 Ma  Festo volendo fare un favore ai Giudei, si volse a Paolo e disse: «Vuoi andare  a Gerusalemme per essere là giudicato di queste cose, davanti a me?». 10 Paolo  rispose: «Mi trovo davanti al tribunale di Cesare, qui mi si deve giudicare. Ai  Giudei non ho fatto alcun torto, come anche tu sai perfettamente. 11 Se  dunque sono in colpa e ho commesso qualche cosa che meriti la morte, non  rifiuto di morire; ma se nelle accuse di costoro non c'è nulla di vero, nessuno  ha il potere di consegnarmi a loro. Io mi appello a Cesare». 12 Allora  Festo, dopo aver conferito con il consiglio, rispose: «Ti sei appellato a  Cesare, a Cesare andrai».
  Assumendo le  sue funzioni a Gerusalemme, Porcio Festo non sa di avere soltanto due anni di  vita. Questo patrizio energico e integerrimo è ben deciso a riportare la calma  in quella provincia agitata. Appena arrivato in Oriente si trova subito a dover  affrontare la realtà: salito a Gerusalemme "tre giorni dopo" il suo  arrivo, riceve i sommi sacerdoti e i notabili della città. Questi gli chiedono,  come dono grazioso (charis: vv. 3.9) per il felice evento, di far  comparire davanti a loro il prigioniero Paolo. Ma la "grazia" non  viene loro concessa. Notiamo, tuttavia, che attraverso le manovre politiche, si  delinea il progetto di Dio. 
  Il nuovo  procuratore imprime allo sviluppo degli avvenimenti un’accelerazione che  contrasta con le lungaggini del suo predecessore. Meno di due settimane dopo il  suo insediamento, lo troviamo in tribunale ad ascoltare ciò di cui i giudei  accusano Paolo. Le accuse sono molte e gravi, ma non ci sono le prove. Quelle  persone non possono provare né una disobbedienza alla Legge, né un sacrilegio  compiuto nel tempio, né un attentato a Cesare. Paolo riprende la sua difesa che  aveva già presentato due anni prima davanti a Felice. 
  Al v. 9  ricompare l’espressione "fare un favore (charis) ai giudei".  E’ evidente che il governatore è sottoposto a forti pressioni. A Cesarea (come  a Roma: Claudio e Nerone) l’ostilità dei giudei nei confronti dei cristiani  riesce a influire sulle decisioni del potere. Festo indubbiamente non ha  accolto l’accusa di attentato alla sicurezza dello stato (v. 8; cf. vv.  18-19.25-26), ma è pronto a concedere, almeno in parte la "grazia"  richiesta dai sommi sacerdoti e dai notabili (v. 3). Dal momento che la  controversia riguarda questioni religiose, perché non far salire il prigioniero  a Gerusalemme, in modo che venga giudicato davanti al sinedrio?
  Ma Paolo è  categorico: «"Mi trovo davanti al tribunale di Cesare, qui bisogna  (greco: deî) che io sia giudicato. Ai giudei non ho fatto alcun torto, come  anche tu sai perfettamente. Se dunque sono in colpa e ho commesso qualcosa che  meriti la morte, non rifiuto di morire; ma se nelle accuse di costoro non c’è  nulla di vero, nessuno ha il potere di consegnarmi a loro. Io mi appello a  Cesare". Allora Festo, dopo aver conferito con il consiglio, rispose:  "Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai"» (vv. 10-12). Questo  "bisogna" è in primo luogo un dovere giuridico, perché Paolo è  un cittadino romano e non intende rinunciare a questa prerogativa. Ma si tratta  anche, più profondamente, della volontà di Dio che vuole così. Ricordiamo  l’importanza della parola "bisogna-d?î" nei testi di Luca (è presente  18 volte nel Vangelo e 24 negli Atti): è un termine "tecnico" che  significa una precisa volontà di Dio. 
  La reazione  di Paolo non è dettata dal desiderio di sfuggire alla morte o dalla volontà di  rivendicare un proprio diritto. Paolo nega di poter essere giudicato  dall’autorità dei sommi sacerdoti o del sinedrio. Essi non obbediscono alla  loro missione quando distorcono la   Legge a proprio vantaggio e si oppongono al disegno di Dio  manifestato nel suo Cristo, che è il vero capo e giudice del popolo (cf.  7,27.35, che cita Es 2,14). Essi, dunque, non sono più le autorità dalle quali  deve essere giudicato e a cui deve obbedienza, mentre come cittadino romano ha  il dovere di essere giudicato dall’autorità civile da cui dipende per volontà  di Dio (cf. Rm 13,1-5: "Ciascuno sia sottomesso alle autorità  costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono  stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine  stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna.  I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa  il male. Vuoi non avere da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode,  poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora  temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per  la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi  non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza."). 
  Paolo non  dice esplicitamente queste cose perché Festo non potrebbe comprenderle, ma il  lettore sa che le cose stanno in questi termini, come risulta dalle precedenti  affermazioni di Pietro (10,42) e di Paolo (17,31). E’ sufficiente dunque, per  Paolo, ricordare al procuratore che è in grado di riconoscere da sé  l’inconsistenza delle prove. 
  Appellandosi  a Cesare, Paolo offre a Festo un mezzo pienamente legale per liberarsi da un  caso difficile. Il ricorso a Cesare infatti sospende l’azione di tutte le  giurisdizioni provinciali, rendendole inoperanti. Se l’appello viene dichiarato  ammissibile, il caso diventa di competenza del tribunale imperiale. E’ ciò che  Festo esamina con i suoi consiglieri, ben contento di poter pronunciare una  sentenza che lo liberi da quel processo imbarazzante. 
  La  cittadinanza romana, dichiarata da Paolo in 22,22-29 (cf.16,37), in quella fase  della vicenda era servita all'apostolo come salvacondotto per sfuggire ai suoi  avversari e arrivare vivo a Cesarea. Ora gli permette di compiere un nuovo  passo: "andare da Cesare" e in tal modo "rendere testimonianza  anche a Roma", secondo la volontà del Signore manifestata in 23,11. E’ dunque  nella sua duplice qualità di giudeo e di cittadino romano che Paolo può  condurre a termine la sua missione. 
  Paolo  compare davanti al re Agrippa 
  13 Erano trascorsi alcuni giorni, quando arrivarono a Cesarèa il re  Agrippa e Berenìce, per salutare Festo. 14 E poiché si trattennero  parecchi giorni, Festo espose al re il caso di Paolo: «C'è un uomo, lasciato  qui prigioniero da Felice, contro il quale, 15 durante la mia visita  a Gerusalemme, si presentarono con accuse i sommi sacerdoti e gli anziani dei  Giudei per reclamarne la condanna. 16 Risposi che i Romani non usano  consegnare una persona, prima che l'accusato sia stato messo a confronto con i  suoi accusatori e possa aver modo di difendersi dall'accusa. 17 Allora  essi convennero qui e io senza indugi il giorno seguente sedetti in tribunale e  ordinai che vi fosse condotto quell'uomo. 18 Gli accusatori gli si  misero attorno, ma non addussero nessuna delle imputazioni criminose che io  immaginavo; 19 avevano solo con lui alcune questioni relative la  loro particolare religione e riguardanti un certo Gesù, morto, che Paolo  sosteneva essere ancora in vita. 20 Perplesso di fronte a simili  controversie, gli chiesi se voleva andare a Gerusalemme ed esser giudicato là  di queste cose. 21 Ma Paolo si appellò perché la sua causa fosse  riservata al giudizio dell'imperatore, e così ordinai che fosse tenuto sotto  custodia fino a quando potrò inviarlo a Cesare». 22 E Agrippa a  Festo: «Vorrei anch'io ascoltare quell'uomo!». «Domani, rispose, lo potrai  ascoltare».
  23 Il giorno dopo, Agrippa e Berenìce vennero con gran pompa ed  entrarono nella sala dell'udienza, accompagnati dai tribuni e dai cittadini più  in vista; per ordine di Festo fu fatto entrare anche Paolo. 24 Allora  Festo disse: «Re Agrippa e cittadini tutti qui presenti con noi, voi avete  davanti agli occhi colui sul conto del quale tutto il popolo dei Giudei si è  appellato a me, in Gerusalemme e qui, per chiedere a gran voce che non resti  più in vita. 25 Io però mi sono convinto che egli non ha commesso  alcuna cosa meritevole di morte ed essendosi appellato all'imperatore ho deciso  di farlo partire. 26 Ma sul suo conto non ho nulla di preciso da  scrivere al sovrano; per questo l'ho condotto davanti a voi e soprattutto  davanti a te, o re Agrippa, per avere, dopo questa udienza, qualcosa da  scrivere. 27 Mi  sembra assurdo infatti mandare un prigioniero, senza indicare le accuse che si  muovono contro di lui».
  A questo  punto, a Festo non resta che preparare una relazione perché il processo  d’appello a Roma si svolga legalmente. Provvidenzialmente per lui, dopo qualche  giorno arrivano a Cesarea il re Agrippa e la sua amata sorella Berenice, di un  anno minore di lui. Vengono a far visita al nuovo governatore. Festo, sapendo  che il suo ospite è molto interessato alle discussioni sulla Legge, coglie  l’occasione per esporgli il caso del prigioniero Paolo. I vv. 14-21 sono la  ripresa del racconto precedente, ma contengono un particolare di estrema  importanza: il motivo di contrasto tra i giudei e Paolo è tutto incentrato su "un  certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere vivo" (v. 19). Il racconto  di Luca raggiunge qui il suo punto culminante, mostrando Paolo che affronta un  romano e un giudeo, entrambi rispettosi della sua persona e del messaggio di  cui è portatore. Con Festo ed Agrippa, anche noi siamo desiderosi di ascoltare  questo messaggio direttamente dalla bocca di Paolo. 
  Questa  comparizione di Paolo davanti a Festo e ai suoi ospiti non è un vero processo,  ma piuttosto una "conferenza" a cui sono invitati tutti i tribuni militari  e le persone importanti della città. Convocando questa assemblea Festo aveva  anche l’obiettivo di raccogliere dalla bocca di Paolo il materiale per  preparare il dossier da inviare a Roma. Infatti, sarebbe stato irragionevole e  biasimevole inviare un prigioniero al tribunale dell’imperatore senza un atto  di accusa grave e circostanziato. Dal momento poi che si trattava di questioni  religiose, la presenza di un esperto d’eccezione come il re Agrippa poteva  essergli di valido aiuto. Festo, il rappresentante dell’imperatore, sollecita  il parere di un’assemblea in cui sono presenti giudei e pagani, senza partito  preso. Lo stesso Agrippa presiederà la seduta e darà la parola a Paolo. 
Capitolo 26 
  Discorso  di Paolo davanti al re Agrippa 
  1 Agrippa disse a Paolo: «Ti è concesso di parlare a tua difesa».  Allora Paolo, stesa la mano, si difese così: 2 «Mi considero  fortunato, o re Agrippa, di potermi discolpare da tutte le accuse di cui sono  incriminato dai Giudei, oggi qui davanti a te, 3 che conosci a perfezione  tutte le usanze e questioni riguardanti i Giudei. Perciò ti prego di ascoltarmi  con pazienza. 4 La mia vita fin dalla mia giovinezza, vissuta tra il  mio popolo e a Gerusalemme, la conoscono tutti i Giudei; 5 essi  sanno pure da tempo, se vogliono renderne testimonianza, che, come fariseo,  sono vissuto nella setta più rigida della nostra religione. 6 Ed ora  mi trovo sotto processo a causa della speranza nella promessa fatta da Dio ai  nostri padri, 7 e che le nostre dodici tribù sperano di vedere  compiuta, servendo Dio notte e giorno con perseveranza. Di questa speranza, o  re, sono ora incolpato dai Giudei! 8 Perché è considerato  inconcepibile fra di voi che Dio risusciti i morti?
  9 Anch'io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro  il nome di Gesù il Nazareno, 10 come in realtà feci a Gerusalemme;  molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l'autorizzazione avuta dai sommi  sacerdoti e, quando venivano condannati a morte, anch'io ho votato contro di  loro. 11 In  tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e,  infuriando all'eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città  straniere.
  12 In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con  autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno 13  vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che  avvolse me e i miei compagni di viaggio. 14 Tutti cademmo a terra e  io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi  perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo. 15 E io  dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: Io sono Gesù, che tu  perseguiti. 16 Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso  infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di  quelle per cui ti apparirò ancora. 17 Per questo ti libererò dal  popolo e dai pagani, ai quali ti mando 18 ad aprir loro gli occhi,  perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano  la remissione dei peccati e l'eredità in mezzo a coloro che sono stati  santificati per la fede in me.
  19 Pertanto, o re Agrippa, io non ho disobbedito alla visione celeste; 20  ma prima a quelli di Damasco, poi a quelli di Gerusalemme e in tutta la  regione della Giudea e infine ai pagani, predicavo di convertirsi e di  rivolgersi a Dio, comportandosi in maniera degna della conversione. 21 Per  queste cose i Giudei mi assalirono nel tempio e tentarono di uccidermi. 22  Ma l'aiuto di Dio mi ha assistito fino a questo giorno, e posso ancora  rendere testimonianza agli umili e ai grandi. Null'altro io affermo se non  quello che i profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, 23 che  cioè il Cristo sarebbe morto, e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe  annunziato la luce al popolo e ai pagani».
  La testimonianza  di Paolo, il cui contenuto è molto simile a quello del discorso da lui  pronunciato davanti al popolo mentre veniva condotto fuori dal tempio  (22,3-21), segue lo schema classico dell’apologia. La situazione tuttavia è  diversa da quella del capitolo 22, dove si trattava di fronteggiare una folla  ostile; ed è diversa anche da quella del capitolo 24, dove Felice era investito  della funzione di giudice. Qui si va al di là dell’ambito giudiziario. Questo  discorso introduce una nuova maniera, annunciata da Gesù (cf. Lc 21,15): per  "presentare la vostra difesa, io vi darò bocca profetica e sapienza alla  quale non potranno opporsi o contraddire tutti i vostri oppositori" .
  L’esordio  consiste in un’espressione di deferenza nei confronti del re Agrippa. Paolo è  contento di presentare "oggi" la propria difesa davanti a un  "conoscitore di tutte le usanze che vigono presso i giudei, così come  delle loro dispute" (v. 3). Con queste parole Paolo reinserisce la  questione nel suo vero contesto, così come si è sempre premurato di fare (23,6;  24,21). Sono i giudei infatti che lo accusano. Egli riassume così la triplice  accusa formulata contro di lui: sedizioso, seguace di Gesù di Nazaret,  profanatore del tempio. 
  Con  l’accenno alla sua fede farisaica, Paolo colloca al centro della propria  speranza la risurrezione dei morti. E’ proprio questo, infatti, il nocciolo  della questione. 
  La speranza  della risurrezione si fonda sulla promessa inconfutabile "avvenuta ai  nostri padri" (cf. Gen 15,6) per disposizione divina (cf. 23,6; 24,15.21).  Tale promessa sta alla base della costituzione del popolo delle dodici tribù, e  si manifesta concretamente attraverso il culto incessante (cf. 7,7) che viene  celebrato nel tempio di Gerusalemme in una prospettiva messianica, cioè rivolta  alla venuta del compimento, che è il Messia risorto. Ciò dunque che si  rimprovera a Paolo è di voler portare la sua fede di fariseo al pieno  compimento. Se questa speranza viene dimenticata da coloro che dovrebbero  mantenerla viva, Paolo la vede affidata a sé: ha il dovere di proclamarla. 
  Paolo pone  la domanda fondamentale per gli ascoltatori di allora e di tutti i tempi:  "Perché tra di voi è considerato incredibile che Dio risusciti i  morti?". Questa domanda vuol costringere Israele a fare i conti con la propria  speranza. Lo "scisma" (cf. 23,7) tra sadducei e farisei dimostra che  questa speranza non produce quell’unità del popolo che invece dovrebbe  realizzare. La risurrezione di Gesù ha dato a questa speranza un’attualità  straordinaria e definitiva. 
  Di questa  risurrezione Paolo ha già fatto esperienza quando Gesù, sulla via di Damasco,  gli ha ordinato: "Alzati e mettiti in piedi; io ti sono apparso infatti  per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto di me e di  quelle per cui ti apparirò. Ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti  mando ad aprire loro gli occhi, e perché si convertano dalle tenebre alla luce  e dal potere di satana a Dio e ottengano il perdono dei peccati e l’eredità in  mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me." (vv. 16-18).  Quest’ordine ricorda quello che era stato rivolto al profeta Ezechiele:  "Figlio dell’uomo, àlzati, ti voglio parlare" (Ez 2,1). Raccontando  la propria vocazione e collocandola nella scia di quella di Ezechiele, Paolo  intende mettere i suoi ascoltatori giudei, e in particolare Agrippa, di fronte  alla vocazione del popolo d’Israele. Ciò risulta chiaro se si prosegue nella  lettura del libro di Ezechiele: "Lo spirito entrò in me, mi fece alzare in  piedi e io ascoltai colui che parlava. Mi disse: "Figlio dell’uomo, io ti  mando agli Israeliti, alle (nazioni) ribelli, che si sono rivoltate contro di  me. Essi e i loro padri hanno peccato contro di me fino ad oggi. Quelli ai  quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: Così  parla il Signore Dio. Ascoltino o non ascoltino – perché sono una genìa di  ribelli – sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro. Ma tu,  figlio dell’uomo, non li temere, non aver paura delle loro parole; saranno per  te come cardi e spine e ti troverai in mezzo a scorpioni; ma tu non temere le  loro parole, non t’impressionino le loro facce, sono una genìa di ribelli. Tu  riferirai loro le mie parole, ascoltino o no, perché sono una genìa di ribelli.  E tu, figlio dell’uomo, ascolta ciò che ti dico e non essere ribelle come  questa genìa di ribelli; apri la bocca e mangia ciò che io ti do" (Ez  2,2-8). 
  Il v. 18 ci  richiama anche la vocazione del servo-Israele: "Io, il Signore, ti ho  chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito  come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai  ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che  abitano nelle tenebre" (Is 42,6-7). 
  Paolo  conclude questa parte del suo discorso dicendo: "Null’altro affermo se non  quello che i Profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, che cioè il  Cristo avrebbe dovuto soffrire e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe  annunziato la pace al popolo e ai pagani" (vv. 22b-23).E’ in quest’ordine  che egli ha citato le Scritture, di cui indica il compimento nella persona di  Gesù, secondo la parola pronunciata dallo stesso Gesù quando, dopo la  risurrezione, "stette" in mezzo ai suoi discepoli: «"Bisogna che  sia compiuto tutto ciò che è scritto di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e  nei Salmi". Allora aprì la loro intelligenza per comprendere le Scritture  e disse loro: "Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risorgere dai  morti, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il  perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Voi siete testimoni di  questo"» (Lc 24,44-48). 
  Reazioni  dell'uditorio 
  24 Mentr'egli parlava così in sua difesa, Festo a gran voce disse: «Sei  pazzo, Paolo; la troppa scienza ti ha dato al cervello!». 25 E  Paolo: «Non sono pazzo, disse, eccellentissimo Festo, ma sto dicendo parole  vere e sagge. 26 Il re è al corrente di queste cose e davanti a lui  parlo con franchezza. Penso che niente di questo gli sia sconosciuto, poiché  non sono fatti accaduti in segreto. 27 Credi, o re Agrippa, nei  profeti? So che ci credi». 28 E Agrippa a Paolo: «Per poco non mi  convinci a farmi cristiano!». 29 E Paolo: «Per poco o per molto, io  vorrei supplicare Dio che non soltanto tu, ma quanti oggi mi ascoltano  diventassero così come sono io, eccetto queste catene!».
  30 Si alzò allora il re e con lui il governatore, Berenìce, e quelli  che avevano preso parte alla seduta 31 e avviandosi conversavano  insieme e dicevano: «Quest'uomo non ha fatto nulla che meriti la morte o le  catene». 32 E Agrippa disse a Festo: «Costui poteva essere rimesso  in libertà, se non si fosse appellato a Cesare».
  Le parole  che il Risorto aveva detto a Paolo sulla via di Damasco, ora Paolo le rivolge  ai suoi ascoltatori, che in quel momento occupano il posto che egli aveva  occupato nella visione di Damasco. Questo è anche ciò che comprendono, ciascuno  a suo modo, Festo e Agrippa.
  Festo si  rende conto della forza dell’argomentazione del prigioniero, anche se il  nocciolo del discorso gli sfugge. Egli ha colto l’essenziale della  controversia, dal momento che l’ha riassunta correttamente ad Agrippa: "un  certo Gesù che è morto, e che Paolo dichiara che vive". Ma ritiene di  trovarsi di fronte a un illuminato che ha letto troppe "scritture":  una situazione che confina con la pazzia. 
  Paolo è  considerato pazzo dal governatore, mentre il suo discorso profetico è recepito  dal re. Inoltre Paolo sottolinea che "il caso Gesù" non può essere  sfuggito a un uomo come Agrippa: "ciò non è accaduto in un angolo  segreto". In effetti la vicenda di Gesù non si è svolta in un angolo  segreto: per un giudeo, Gerusalemme è il centro del mondo; per Luca, è il luogo  della salvezza. E in questo momento, tramite Paolo, la salvezza è messa alla  portata del re: "Per poco non mi persuadi che mi hai fatto cristiano"  (v. 28). 
  L’ultima  parola spetta a Paolo: "Per poco o per molto, io vorrei supplicare Dio  che, non soltanto tu, ma tutti quelli che oggi mi ascoltano, diventino come  sono io, eccetto queste catene!" (v. 29). Questo augurio esprime il desiderio  più profondo dell’apostolo e l’oggetto della sua missione. 
  La seduta è  tolta. Festo e i suoi ospiti lasciano la sala delle udienze e concludono  dicendo: "Quest’uomo non ha fatto nulla che meriti la morte o le catene…  Costui poteva essere rimesso in libertà, se non si fosse appellato a  Cesare" (vv. 31b-32). Ci troviamo di fronte a un’ultima dichiarazione di  innocenza, che ricorda quella di Pilato a proposito del Cristo (Lc 23,4.14.22). 
Capitolo 27 
  La  partenza per Roma 
  1 Quando fu deciso che ci imbarcassimo per l'Italia, consegnarono  Paolo, insieme ad alcuni altri prigionieri, a un centurione di nome Giulio  della coorte Augusta. 2 Salimmo su una nave di Adramitto, che stava  per partire verso i porti della provincia d'Asia e salpammo, avendo con noi  Aristarco, un Macèdone di Tessalonica. 3 Il giorno dopo facemmo  scalo a Sidone e Giulio, con gesto cortese verso Paolo, gli permise di recarsi  dagli amici e di riceverne le cure. 4 Salpati di là, navigammo al  riparo di Cipro a motivo dei venti contrari 5 e, attraversato il  mare della Cilicia e della Panfilia, giungemmo a Mira di Licia. 6 Qui  il centurione trovò una nave di Alessandria in partenza per l'Italia e ci fece  salire a bordo. 7 Navigammo lentamente parecchi giorni, giungendo a  fatica all'altezza di Cnido. Poi, siccome il vento non ci permetteva di  approdare, prendemmo a navigare al riparo di Creta, dalle parti di Salmóne, 8  e costeggiandola a fatica giungemmo in una località chiamata Buoni Porti,  vicino alla quale era la città di Lasèa.
  In questa  tappa finale verso Roma fa la sua ultima comparsa il "noi" che verrà  utilizzato fino a 28,16. E’ la traccia di un "diario di viaggio",  oppure un artificio letterario destinato a dare l’impressione della  testimonianza diretta, oppure un segno del coinvolgimento del lettore nel  racconto? Paolo rimarrà costantemente al centro della narrazione. Con lui c’è  almeno un compagno di viaggio cristiano, il macedone Aristarco, che era già  stato con Paolo a Efeso (19,29) e poi aveva attraversato con lui la Macedonia (20,4) prima  del suo ritorno a Gerusalemme. 
  Molto  probabilmente Paolo fa parte di un gruppo di prigionieri affidati dal  procuratore al centurione Giulio, che era il comandante della coorte chiamata Augusta.  Avendo trovato una nave da carico immatricolata nel porto di Adramitto e che  faceva cabotaggio lungo la costa dell’Asia minore, il centurione fa imbarcare i  prigionieri in un giorno d’autunno dell’anno 60. Luca dice subito che questo  centurione prova simpatia per Paolo e gli permette di sbarcare a Sidone, il  primo scalo sulla costa fenicia, per andare a salutare i fratelli cristiani  della comunità locale e usufruire della loro premurosa assistenza. Poi la nave  riprende il suo viaggio che viene descritto dettagliatamente dall’autore.  Notiamo l’importanza che Luca attribuisce ai venti che ostacolano il cammino  della nave. Più che un semplice fenomeno meteorologico, questa forza cosmica  rimanda a una potenza sovrumana (cf. Lc 8,22-25). 
  La  tempesta e il naufragio 
  9 Essendo trascorso molto tempo ed essendo ormai pericolosa la  navigazione poiché era già passata la festa dell'Espiazione, Paolo li ammoniva  dicendo: 10 «Vedo, o uomini, che la navigazione comincia a essere di  gran rischio e di molto danno non solo per il carico e per la nave, ma anche  per le nostre vite». 11 Il centurione però dava più ascolto al  pilota e al capitano della nave che alle parole di Paolo. 12 E  poiché quel porto era poco adatto a trascorrervi l'inverno, i più furono del  parere di salpare di là nella speranza di andare a svernare a Fenice, un porto  di Creta esposto a libeccio e a maestrale.
  13 Appena cominciò a soffiare un leggero scirocco, convinti di potere  ormai realizzare il progetto, levarono le ancore e costeggiavano da vicino  Creta. 14 Ma dopo non molto tempo si scatenò contro l'isola un vento  d'uragano, detto allora «Euroaquilone». 15 La nave fu travolta nel  turbine e, non potendo più resistere al vento, abbandonati in sua balìa,  andavamo alla deriva. 16 Mentre passavamo sotto un isolotto chiamato  Càudas, a fatica riuscimmo a padroneggiare la scialuppa; 17 la  tirarono a bordo e adoperarono gli attrezzi per fasciare di gòmene la nave.  Quindi, per timore di finire incagliati nelle Sirti, calarono il galleggiante e  si andava così alla deriva. 18 Sbattuti violentemente dalla  tempesta, il giorno seguente cominciarono a gettare a mare il carico; 19 il  terzo giorno con le proprie mani buttarono via l'attrezzatura della nave. 20  Da vari giorni non comparivano più né sole, né stelle e la violenta  tempesta continuava a infuriare, per cui ogni speranza di salvarci sembrava  ormai perduta.
  21 Da molto tempo non si mangiava, quando Paolo, alzatosi in mezzo a  loro, disse: «Sarebbe stato bene, o uomini, dar retta a me e non salpare da  Creta; avreste evitato questo pericolo e questo danno. 22 Tuttavia  ora vi esorto a non perdervi di coraggio, perché non ci sarà alcuna perdita di  vite in mezzo a voi, ma solo della nave. 23 Mi è apparso infatti questa notte  un angelo del Dio al quale appartengo e che servo, 24 dicendomi: Non  temere, Paolo; tu devi comparire davanti a Cesare ed ecco, Dio ti ha fatto  grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione. 25 Perciò non  perdetevi di coraggio, uomini; ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato  annunziato. 26 Ma è inevitabile che andiamo a finire su qualche  isola».
  27 Come giunse la quattordicesima notte da quando andavamo alla deriva  nell'Adriatico, verso mezzanotte i marinai ebbero l'impressione che una qualche  terra si avvicinava. 28 Gettato lo scandaglio, trovarono venti  braccia; dopo un breve intervallo, scandagliando di nuovo, trovarono quindici  braccia. 29 Nel timore di finire contro gli scogli, gettarono da  poppa quattro ancore, aspettando con ansia che spuntasse il giorno. 30 Ma  poiché i marinai cercavano di fuggire dalla nave e già stavano calando la scialuppa  in mare, col pretesto di gettare le ancore da prora, Paolo disse al centurione  e ai soldati: 31 «Se costoro non rimangono sulla nave, voi non  potrete mettervi in salvo». 32 Allora i soldati recisero le gòmene  della scialuppa e la lasciarono cadere in mare.
  33 Finché non spuntò il giorno, Paolo esortava tutti a prendere cibo:  «Oggi è il quattordicesimo giorno che passate digiuni nell'attesa, senza  prender nulla. 34 Per questo vi esorto a prender cibo; è necessario  per la vostra salvezza. Neanche un capello del vostro capo andrà perduto». 35  Ciò detto, prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e  cominciò a mangiare. 36 Tutti si sentirono rianimati, e anch'essi  presero cibo. 37 Eravamo complessivamente sulla nave  duecentosettantasei persone. 38 Quando si furono rifocillati,  alleggerirono la nave, gettando il frumento in mare.
  39 Fattosi giorno non riuscivano a riconoscere quella terra, ma  notarono un'insenatura con spiaggia e decisero, se possibile, di spingere la  nave verso di essa. 40 Levarono le ancore e le lasciarono andare in  mare; al tempo stesso allentarono i legami dei timoni e spiegata al vento la  vela maestra, mossero verso la spiaggia. 41 Ma incapparono in una  secca e la nave vi si incagliò; mentre la prua arenata rimaneva immobile, la  poppa minacciava di sfasciarsi sotto la violenza delle onde. 42 I  soldati pensarono allora di uccidere i prigionieri, perché nessuno sfuggisse  gettandosi a nuoto, 43 ma il centurione, volendo salvare Paolo,  impedì loro di attuare questo progetto; diede ordine che si gettassero per  primi quelli che sapevano nuotare e raggiunsero la terra; 44 poi gli  altri, chi su tavole, chi su altri rottami della nave. E così tutti poterono  mettersi in salvo a terra.
  Nel piccolo  porto di Creta i responsabili tengono consiglio. Non è lontano l’inverno che  impedisce ogni viaggio di una certa importanza per mare. Anche Paolo dice la  sua: "Uomini, vedo che la navigazione comincia ad essere rischiosa e molto  dannosa, non solo per il carico e per la nave, ma anche per le nostre  vite" (v. 10). Ma le sue parole restano inascoltate. In materia di  navigazione il centurione preferisce affidarsi alla competenza del capitano  della nave e del suo pilota. D’altra parte, secondo il parere dei più, il luogo  non era adatto per una sosta di qualche mese. Alla fine prevale il parere della  maggioranza. Ed ecco, puntuale la tempesta, con la conseguente perdita della  nave e del suo carico. Si salvano solo le persone. Di questa lunga descrizione  facciamo solo un breve commento al discorso di Paolo (vv. 21-26). Per tre volte  ritorna l’espressione "bisognava" (v. 21), "bisogna" (vv.  24.26), che indica la volontà di Dio per tutti quegli uomini e la necessità che  tutti si sottomettano ad essa. Questo progetto di Dio è stato rivelato a Paolo  da un messaggero del cielo: "bisogna" che Paolo, in nome di Israele,  renda la sua testimonianza presentando la sua difesa davanti a Cesare, giudice  supremo di questo mondo. 
  Dopo aver  esortato i compagni a condividere la sua fede nella parola dell’angelo del Signore  (v. 25), Paolo li invita a partecipare al suo gesto di speranza prendendo cibo  (v. 33). Tutti prendono parte alla "condivisione del pane" in  quell’"oggi" della salvezza. In quel cibo mangiato insieme "per  la salvezza", l’allusione all’eucaristia è chiarissima. Paolo desidera  vivere con loro una comunione che evoca la frazione del pane (2,42; 20,7.11)  dei fratelli, memoriale della cena di Gesù alla vigilia del suo passaggio al  Padre e annuncio della vita nuova offerta a quelle 276 persone salvate per grazia  dalla morte. 
Capitolo 28 
  Soggiorno  a Malta 
  1 Una volta in salvo, venimmo a sapere che l'isola si chiamava Malta. 2  Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a  un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era  freddo. 3 Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo  gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. 4  Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro:  «Certamente costui è un assassino, se, anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia  vivere». 5 Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun  male. 6 Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto  sul colpo, ma, dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di  straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio.
  7 Nelle vicinanze di quel luogo c'era un terreno appartenente al  "primo" dell'isola, chiamato Publio; questi ci accolse e ci ospitò  con benevolenza per tre giorni. 8 Avvenne che il padre di Publio  dovette mettersi a letto colpito da febbri e da dissenteria; Paolo l'andò a  visitare e dopo aver pregato gli impose le mani e lo guarì. 9 Dopo  questo fatto, anche gli altri isolani che avevano malattie accorrevano e  venivano sanati; 10 ci colmarono di onori e al momento della  partenza ci rifornirono di tutto il necessario.
  Gli  avvenimenti di Malta riferiti in questo brano corrispondono a quelli di Creta  (27,9-20). Lì la decisione ostinata degli uomini li aveva condotti vicino alle  porte della morte; qui la grazia di Dio annunciata da un angelo (27,24) fa  rifiorire la vita. La vittoria sul serpente annuncia quella su satana, predetta  dal Signore: "Ecco: vi ho dato l’autorità di calpestare serpenti e  scorpioni e tutta la potenza del nemico" (Lc 10,18-19). E’ per opera del  diavolo, nemico del genere umano, che il peccato e la morte sono entrati nel  mondo (cf. Sap 2,24; Rm 5,12-13). La vittoria sulla malattia è la conseguenza  più immediata. Malta appare come la terra in cui può manifestarsi la grazia  della vita nuova. 
  Il nome  dell’isola, Malta, significa l’ape o il miele. La gente di Creta  era stata inospitale, l’accoglienza dei maltesi, invece, è caratterizzata da  una simpatia umana fuori dal comune. Invece di rapinare i sopravvissuti, come i  pirati dei poemi antichi, questi uomini li aiutano a radunarsi e a riscaldarsi  a un falò acceso per loro. Ritroviamo l’atmosfera del salmo 107, 23-30, dove si  ringrazia Dio per la liberazione dalla potenza del mare. 
  A questo  punto avviene un segno che colpisce profondamente gli abitanti del luogo. Paolo  viene morso a una mano da una vipera uscita da un fascio di legna che stava  gettando sul fuoco. I presenti vedono in questo episodio un messaggio sinistro.  Per la Bibbia  il serpente è un animale ambiguo, portatore di morte e di vita; può infatti  uccidere, punendo il malvagio (Sir 39,30;Ger 8,17), ma può anche essere segno  di un intervento di Dio (Nm 21,9; Es 7,9). Lo stesso simbolismo è presente  anche presso i greci e i romani. Ciò che accade a Paolo potrebbe essere un  intervento della giustizia divina che colpisce un criminale, o un intervento di  Dio che salva il suo apostolo. A Paolo non succede nulla di male, anzi, butta  nel fuoco la vipera. Questo gesto ci ricorda la visione dell’Apocalisse  (19,20). Convinti in un primo momento che Paolo fosse un criminale, i maltesi  ora cambiano parere e credono che sia un dio. 
  I naufraghi  sono condotti nella tenuta di Publio, il magistrato che amministra Malta in  qualità di delegato del pretore di Sicilia. E la grazia della salvezza si  manifesta attraverso la mani di Paolo. Il primo a beneficiarne è il padre di  Publio. Molte altre persone colpite da infermità sono guarite da Paolo. Gesù  presente nel suo inviato continua la sua opera di salvezza. 
  Da  Malta a Roma 
  11 Dopo tre mesi salpammo su una nave di Alessandria che aveva svernato  nell'isola, recante l'insegna dei Diòscuri. 12 Approdammo a  Siracusa, dove rimanemmo tre giorni 13 e di qui, costeggiando,  giungemmo a Reggio. Il giorno seguente si levò lo scirocco e così l'indomani  arrivammo a Pozzuoli. 14 Qui trovammo alcuni fratelli, i quali ci  invitarono a restare con loro una settimana. Partimmo quindi alla volta di  Roma. 15 I fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero  incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese  grazie a Dio e prese coraggio.
  16 Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un  soldato di guardia.
  Finalmente  Paolo arriva a Roma ed è accolto dai fratelli cristiani. La loro presenza e il  loro affetto lo rincuorano dopo tante peripezie. Invece del carcere, vengono  concessi a Paolo gli arresti domiciliari, che gli permetteranno di ricevere  visite, come vedremo subito nel seguito del racconto. 
  Presa  di contatto con i Giudei di Roma 
  17 Dopo tre giorni, egli convocò a sé i più in vista tra i Giudei e  venuti che furono, disse loro: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio  popolo e contro le usanze dei padri, sono stato arrestato a Gerusalemme e  consegnato in mano dei Romani. 18 Questi, dopo avermi interrogato,  volevano rilasciarmi, non avendo trovato in me alcuna colpa degna di morte. 19  Ma continuando i Giudei ad opporsi, sono stato costretto ad appellarmi a  Cesare, senza intendere con questo muovere accuse contro il mio popolo. 20  Ecco perché vi ho chiamati, per vedervi e parlarvi, poiché è a causa  della speranza d'Israele che io sono legato da questa catena». 21 Essi  gli risposero: «Noi non abbiamo ricevuto nessuna lettera sul tuo conto dalla  Giudea né alcuno dei fratelli è venuto a riferire o a parlar male di te. 22  Ci sembra bene tuttavia ascoltare da te quello che pensi; di questa setta  infatti sappiamo che trova dovunque opposizione».
  Dichiarazione  di Paolo ai Giudei di Roma 
  23 E fissatogli un giorno, vennero in molti da lui nel suo alloggio; egli  dal mattino alla sera espose loro accuratamente, rendendo la sua testimonianza,  il regno di Dio, cercando di convincerli riguardo a Gesù, in base alla Legge di  Mosè e ai Profeti. 24 Alcuni aderirono alle cose da lui dette, ma  altri non vollero credere 25 e se ne andavano discordi tra loro,  mentre Paolo diceva questa sola frase: «Ha detto bene lo Spirito Santo, per  bocca del profeta Isaia, ai nostri padri:
  26 Va’ da questo popolo e dì loro: 
  Udrete con i vostri orecchi, ma non comprenderete; guarderete con i  vostri occhi, ma non vedrete. 
  27 Perché il cuore di questo popolo si è indurito: 
  e hanno ascoltato di mala voglia con gli orecchi; 
  hanno chiuso i loro occhi 
  per non vedere con gli occhi 
  non ascoltare con gli orecchi, 
  non comprendere nel loro cuore e non convertirsi, 
  perché io li risani. 
  28 Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta  ai pagani ed essi l'ascolteranno!». 29 . 
  Epilogo 
  30 Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione  e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, 31 annunziando il  regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta  franchezza e senza impedimento. 
  Il finale  degli Atti degli apostoli ci lascia perplessi. Molti commentatori hanno cercato  in diversi modi di spiegare la brusca interruzione del racconto e la delusione  di chi si aspettava il resoconto e la conclusione del processo di Paolo, oppure  la narrazione della sua morte. Ci si interroga anche sul significato della  profezia dell’indurimento del popolo, tratta da Isaia, con la quale Luca  termina la sua opera. 
  Cerchiamo di  capire questo finale. Paolo è giunto a Roma dove, secondo la parola del  Signore, deve "testimoniare riguardo a Gesù" come aveva fatto a  Gerusalemme (23,11). 
  Essendo agli  arresti domiciliari Paolo non può fare visita alla comunità ebraica, come era  solito fare, ma chiama a casa sua le persone più importanti tra i giudei di  Roma. Luca riferisce il discorso di Paolo che riassume ai visitatori le vicende  del suo recente passato. Come se fosse sotto processo, Paolo comincia con  l’affermare la sua innocenza riguardo alle accuse dei giudei di Gerusalemme. La  sua innocenza è stata verificata dai magistrati dell’impero. Queste parole ci  richiamano alla memoria la predizione di Agabo: "I giudei lo legheranno a  Gerusalemme e lo consegneranno nelle mani delle nazioni" (21,11). Le  stesse parole erano state usate da Gesù per annunciare la propria morte (Lc  9,44; 18,32). La passione di Gesù si profila dunque dietro a quella di Paolo,  dandole il suo vero significato. 
  Durante  questo primo incontro chiarificatore, i giudei di Roma rispondono a Paolo che  nessun rapporto sfavorevole è giunto a loro dalla Giudea sul suo conto e quindi  non hanno pregiudizi nei suoi confronti. Chiedono dunque di ascoltare ancora  Paolo, secondo il suo desiderio, per potersi pronunciare sull’affidabilità del  suo insegnamento ed eventualmente eliminare la contraddizione che esiste a  questo proposito con i giudei di Gerusalemme e con i romani. Viene dunque  fissato un nuovo incontro per riprendere il colloquio. 
  Il giorno  stabilito, i giudei tornano a far visita a Paolo nel suo alloggio. Questa volta  sono più numerosi e passano con lui un’intera giornata. Il contenuto  dell’esposizione di Paolo è il Regno di Dio. Nel Vangelo di Luca e negli Atti  il Regno di Dio si identifica con Gesù stesso: la sua persona, la sua vita, la  sua azione nel mondo. In questa espressione possiamo vedere un richiamo  all’inizio degli Atti (1,3), dove si parla dell’insegnamento impartito dal  Risorto durante i quaranta giorni che precedono la sua ascensione al cielo.  Paolo, attraverso la sua parola e la sua vita, continua l’opera iniziata da  Gesù. 
  Per tutto il  giorno, dunque, Paolo cerca di persuadere i suoi ascoltatori riguardo a Gesù,  come aveva già fatto tante volte, a partire dalla Legge di Mosè e dai Profeti  (cf. 13,27; 17,2-3). E’ sulla base delle Scritture che i giudei di Roma,  rappresentanti qualificati del popolo d’Israele, possono credere che Paolo  identifichi la loro speranza con il Regno di Dio presente in Gesù risorto. 
  La reazione  è quella che, a partire dalla Pentecoste (2,12-13), ha sempre fatto seguito  all’annuncio del Regno da parte dei testimoni: fede o non-fede, accoglienza o  incredulità. La "Parola di grazia" continua ad essere "segno di  contraddizione" dovunque. La parola di Dio che Isaia aveva rivolto ai loro  padri ora viene rivolta da Paolo ai loro figli. Il loro rifiuto non è una  novità; era già incluso nel messaggio del profeta. La non-fede del popolo  d’Israele di fronte al Vangelo è scandalosa e incomprensibile, ma si colloca  sulla linea di tutta la storia biblica, nel corso della quale Israele spesso è  stato sordo alla voce dei suoi profeti. La citazione di Isaia è dunque un  giudizio profetico che costituisce un ultimo richiamo alla conversione,  lasciando a Israele la possibilità di una salvezza finale (cf. Rm 11,11-12). 
  Gli ultimi  due versetti degli Atti, più che una conclusione, sono un ultimo sommario.  Paolo rimane fedele alla sua missione: "proclamare il Regno di Dio e  insegnare le cose riguardo al Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza"  (vv. 30-31). Questa proclamazione è rivolta a tutti; nessuno è escluso, giudeo  o pagano che sia. Ciò che Paolo insegna è la presenza del Regno di Dio nel  mondo tramite l’azione nascosta del Risorto. I tre titoli "Signore Gesù  Cristo" sono una sintesi di tutto l’annuncio cristiano proclamato da Paolo  "con tutta franchezza e senza ostacoli" (v. 31). 
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Fonte: http://www.padrelinopedron.it/data/edicola/Padre%20Lino%20Pedron%20-%20Catechesi/ATTI%20DEGLI%20APOSTOLI.doc
Autore del testo: Pedron Lino
Parola chiave google : Atti degli apostoli tipo file : doc
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