Visione cristiana del lavoro

 


 

Visione cristiana del lavoro

 

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Visione cristiana del lavoro

 

Appunti sulla visione cristiana del lavoro

Sr. Erika Perini
Suora Operaia della Santa Casa di Nazareth

 

Com’è noto, tra pochissimi giorni vivremo il grande evento della beatificazione di Giovanni Paolo II. Il nostro trovarci qui acquista maggior significato, se pensiamo che la beatificazione di Wojtyla è  in concomitanza con la ricorrenza dei trent’anni della lettera enciclica Laborem exercens (14 settembre 1981), oltre che dei vent’anni della lettera enciclica Centesimus annus (1° maggio 1991).
Giovanni Paolo II, che nella gioventù ha conosciuto come operaio la fatica e la bellezza del lavoro, ci ha regalato un alto magistero su Cristo redentore che fonda l’amore di Dio verso l’uomo e la sua dignità: «La Chiesa non può abbandonare l’uomo, la cui “sorte”, cioè la scelta, la chiamata, la nascita e la morte, la salvezza o la perdizione, sono in modo così stretto ed indissolubile unite al Cristo» .
Il “papa polacco” è un papa umanista nel senso teologico della parola, perché proclama fin dall’inizio che l’uomo è «la prima e fondamentale via della Chiesa» e che la Chiesa è solidale con i poveri che invocano giustizia (enciclica Dives in misericordia). La sollecitudine verso l’uomo e l’esigenza di una giustizia fondata sull’amore tornano nell’enciclica che commemora il novantesimo anniversario della Rerum novarum (15 maggio 1891), appunto la LE (il ritardo di alcuni mesi fu dovuto all’attentato in Piazza San Pietro subìto il 13 maggio).  
Giovanni Paolo II, dunque, nei primi anni del suo pontificato, focalizza l’attenzione su un tema importante per l’uomo: il lavoro.
Il lavoro, infatti, è una delle grandi caratteristiche dell’umanità: ha avuto inizio con la comparsa dell’uomo sulla terra e non avrà termine che con la consumazione del tempo.
Di fronte all’attività umana ci interroghiamo sul suo significato, ci domandiamo quali valori possieda, cerchiamo soprattutto quali siano i punti di riferimento che il cristiano deve tener presenti per inquadrarla e viverla in fede, speranza e carità.
Il tema su cui vogliamo riflettere questa sera meriterebbe molto tempo e non sarà certamente possibile svilupparlo in pienezza. Per aiutarci nel tratto di strada che percorriamo insieme, propongo di utilizzare alcune coordinate che ci aiutano a guardare il lavoro nell’ottica cristiana. Prendiamo spunto non solo dalla LE, ma anche dal Compendio della dottrina sociale della Chiesa che dedica il capitolo 6 (nn. 255-322) all’argomento .

  • Il lavoro… nella Sacra Scrittura

La seconda parte della LE (Il lavoro e l’uomo) evidenzia il nesso che da sempre esiste tra uomo e lavoro; legame testimoniato non solo dalle molteplici scienze umane, ma anche dalla fonte della Parola di Dio rivelata, alla quale attinge la Chiesa. Perciò, «quella che è una convinzione dell’intelletto acquista il carattere di una convinzione di fede» (n. 4).

  • Il compito di coltivare e custodire la terra

L’Antico Testamento presenta Dio come Creatore onnipotente, che plasma l’uomo a sua immagine, lo invita a lavorare la terra (cfr. Gen 2,5-6) e a custodire il giardino dell’Eden in cui lo ha posto (Gen 2,15) . Alla prima coppia umana Dio affida il compito di soggiogare la terra e di dominare su ogni essere vivente (Gen 1,28). Un dominio, però, non dispotico. L’uomo è chiamato a «coltivare e custodire» i beni creati da Dio e che ha ricevuto come dono prezioso, del quale avere cura con responsabilità. Coltivare la terra significa non abbandonarla a se stessa; esercitare il dominio su di essa è averne cura, così come un re saggio si prende cura del suo popolo e un pastore del suo gregge.
Nel disegno del Creatore, le realtà create, buone in se stesse, esistono in funzione dell’uomo.
Il lavoro è un’attività “transitiva”, cioè che ha inizio nel soggetto umano ed è indirizzata verso un oggetto esterno. Suppone uno specifico dominio dell’uomo sulla “terra” e a sua volta conferma e sviluppa tale dominio. La LE specifica che col termine «terra» di cui parla il testo biblico si deve intendere anzitutto quel frammento dell’universo visibile, del quale l’uomo è abitante. Per estensione, però, si può intendere tutto il mondo visibile, in quanto esso si trova nel raggio d’influsso dell’uomo e della sua ricerca di soddisfare le proprie necessità. «Le parole “soggiogate la terra” hanno un’immensa portata. Esse indicano tutte le risorse che la terra (e indirettamente il mondo visibile) nasconde in sé, e che, mediante l’attività cosciente dell’uomo, possono essere scoperte e da lui opportunamente usate» (n. 4). In tal senso, allora, quelle parole iniziali della Bibbia non smettono di essere attuali, abbracciando tutte le epoche –passate, presenti e future- della civiltà e dell’economia. L’uomo resta sempre «sulla linea di quell’originaria disposizione del Creatore, la quale resta necessariamente e indissolubilmente legata al fatto che l’uomo è stato creato, come maschio e femmina, “a immagine di Dio”» (idem). Questo processo è, al tempo stesso, universale: abbraccia cioè tutti gli uomini e si attua in ogni uomo, in ogni consapevole soggetto umano. L’umanità, di ogni dove e di ogni epoca, è sempre abbracciata e coinvolta in questo gigantesco processo.
«Il dominio dell’uomo sulla terra si compie nel lavoro e mediante il lavoro» (n. 5).
Il CDSC (cfr. n. 256) ci ricorda che il lavoro appartiene alla condizione originaria dell’uomo e precede la sua caduta; non è perciò né punizione, né maledizione. Esso diventa fatica e pena a causa del peccato di Adamo ed Eva, che spezzano il loro rapporto fiducioso ed armonioso con Dio (cfr. Gen 3,6-8), tentando di avere il dominio assoluto su tutte le cose, dimenticando di essere creatura e non Creatore. Tuttavia, il disegno del Creatore, il senso delle sue creature e, tra queste, dell’uomo, chiamato ad essere coltivatore e custode del creato, restano invariati.
«È meglio aver poco con il timore di Dio che un grande tesoro con l’inquietudine» (Pr 15,16).
Il lavoro è essenziale, ma è Dio, non il lavoro, la fonte della vita e il fine dell’uomo. L’attività umana va onorata, in quanto fonte di ricchezza o almeno di condizioni di vita decorose. È strumento efficace contro la povertà, ma non va idolatrato, perché non ha in sé il senso ultimo e definitivo della vita .
Vertice dell’insegnamento biblico sul lavoro è il comandamento del riposo sabbatico . Esso apre la prospettiva di una libertà più piena, quella del Sabato eterno (cfr. Eb 4,9-10). Il riposo consente agli uomini di ricordare e di rivivere le opere di Dio, dalla Creazione alla Redenzione, di riconoscersi essi stessi come opera sua, di rendere grazie della propria vita e della propria sussistenza a Lui, che ne è l’Autore. “Entrare nel riposo di Dio” ci permette di non ricadere in quella disobbedienza che ci allontana dal Signore e, quindi, dal vero significato della nostra esistenza. Sappiamo quanto è attuale, infatti, la tentazione di fare del lavoro un idolo; ma siamo anche consapevoli di dove ci porta questa idolatria.

  • Gesù, uomo del lavoro

Dice la LE: «Colui il quale essendo Dio è divenuto simile a noi in tutto, dedicò la maggior parte degli anni della sua vita sulla terra al lavoro manuale, presso un banco di carpentiere . Questa circostanza costituisce da sola il più eloquente “Vangelo del lavoro”…» (n. 6).
Nella sua predicazione, Gesù insegna ad apprezzare il lavoro; descrive la sua stessa missione come un operare: «Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco» (Gv 5,17) . I discepoli stessi del Signore sono da Lui designati come «operai nella messe» (cfr. Mt 9,37-38).
Gesù però insegna anche a non lasciarsi asservire dal lavoro: la priorità va data all’anima, perché guadagnare il mondo intero non è lo scopo della vita (cfr. Mc 8,36). Il lavoro non deve mettere in ansia: se è preso da molte cose, l’uomo trascura il regno di Dio e la sua giustizia (cfr. Mt 6,25-34) e il suo cuore si allontana dal vero tesoro che è nel Cielo e che non si consuma.
Il Compendio ci ricorda anche che durante il suo ministero terreno, Gesù lavora instancabilmente, compiendo opere potenti per liberare l’uomo dalla malattia, dalla sofferenza e dalla morte.
Il sabato, che l’AT aveva proposto come giorno di liberazione, è riaffermato da Gesù nel suo valore originario: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!» (Mc 2,27). Liberare dal male, praticare fraternità e condivisione è conferire al lavoro il suo significato più nobile, quello che permette all’umanità di incamminarsi verso il Sabato eterno. Qui il riposo diventa la festa cui l’uomo interiormente aspira.
Proprio in quanto orienta l’umanità a fare esperienza del sabato di Dio e della sua vita conviviale, il lavoro inaugura sulla terra la nuova creazione.
L’attività umana di arricchimento e di trasformazione dell’universo può e deve far emergere le perfezioni in esso nascoste, che nel Verbo increato hanno il loro principio e modello.
Il lavoro consente non solo di partecipare all’opera della creazione, ma anche a quella della redenzione. Chi sostiene la fatica del lavoro unendosi a Cristo, in un certo senso coopera con Lui alla sua opera redentrice. Si comporta da discepolo, perché porta la Croce, ogni giorno, nell’attività che è chiamato a compiere .

  • Il dovere di lavorare

Se «passa la figura di questo mondo» (1Cor 7,31), l’uomo non è esonerato da alcun impegno storico, tanto meno dal lavoro. Lo ricorda S. Paolo nella sua seconda lettera ai Tessalonicesi, ponendo se stesso come esempio di laboriosità, sia per non essere di peso ad alcuno, sia per soccorrere chi si trova nel bisogno. Il cristiano è chiamato a lavorare non solo per procurarsi il pane, ma anche per sollecitudine verso il prossimo più povero, al quale il Signore comanda di dare da mangiare, da bere, da vestire, accoglienza, cura e compagnia (cfr. Mt 25).
S. Ambrogio afferma che ciascun lavoratore è la mano di Cristo che continua a creare e a fare del bene.
Con il suo lavoro e la sua laboriosità, l’uomo, partecipe dell’arte e della saggezza divina, rende più bello il creato, il cosmo già ordinato dal Padre; suscita quelle energie sociali e comunitarie che alimentano il bene comune, a vantaggio soprattutto dei più bisognosi.
Permeato di carità e finalizzato ad essa, il lavoro diventa occasione di contemplazione, diventa preghiera, rivelazione dell’alleanza misteriosa, ma reale, tra l’agire umano e la Provvidenza divina.

  • Il lavoro… nel Magistero: La Laborem exercens

Pur volendo concentrare la nostra attenzione sull’enciclica di Giovanni Paolo II, mi sembra utile scorrere velocemente il cammino della Chiesa in fatto di DSC. Fermo restando che, come abbiamo visto sopra, il punto di partenza resta la Rivelazione che Dio ci ha fatto di Sé nella Parola di Dio.

Notoriamente, la prima enciclica sociale è la Rerum novarum (1891) di Leone XIII, nella quale il Pontefice, osservando la situazione sociale del suo tempo caratterizzata dalla lotta operaia, tratta la questione opponendo alle ideologie liberista e socialista la «filosofia cristiana», basata sul Vangelo e sul diritto naturale.
Successivamente, Pio XI si occuperà della questione sociale (Quadragesimo anno, 1931); Pio XII del problema dell’ordine internazionale (Radiomessaggio, 1941). Giovanni XXIII tratta le questioni della giustizia e della pace (Mater et magistra, 1961; Pacem in terris, 1963); discorsi che tornano nel Concilio Vaticano II, soprattutto nelle pagine della costituzione pastorale Gaudium et spes (1965). Infine, la Populorum progressio (1967) e la Octogesima adveniens (1971) di Paolo VI mettono in luce i temi dello sviluppo e della nuova civiltà.
Negli anni Ottanta, mentre si cammina verso il centenario della RN e verso l’inizio del terzo millennio dell’éra cristiana, sembra aprirsi un altro grande momento dell’insegnamento sociale della Chiesa. Di fronte ad una nuova civiltà tecnologica che avanza da Occidente e da Oriente, ogni individuo, ogni società sembrano rimessi in discussione.
Giovanni Paolo II, nella LE, si rivolge, indistintamente, ad ogni uomo, additandogli nel lavoro la fonte della sua dignità, riproponendogli nello spirito di servizio quella povertà evangelica proclamata da Cristo duemila anni fa, con cui ogni individuo può riscattare la propria anima e ottenere la salvezza.
Il Papa, con originalità di pensiero e di stile, riprende le principali tesi della dottrina sociale della Chiesa per organizzarle intorno al concetto e valore centrale del lavoro, chiave della questione sociale. Intorno al lavoro si crea così una profonda solidarietà umana, che abbraccia passato e presente ed è aperta al futuro.
Nel 1987, la Sollicitudo rei socialis constata il fallimento dei regimi comunista e capitalista. Quattro anni più tardi, il crollo del “socialismo reale” realizza le profezie di Leone XIII; a un secolo dalla RN, Giovanni Paolo II può ribadire, nella Centesimus annus (1991), che, fuori del Vangelo, non c’è soluzione della questione sociale, non c’è soluzione per i problemi più profondi e vitali dell’uomo.
Attualmente la dottrina sociale della Chiesa è prevalentemente contenuta nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, documento promulgato il 2 aprile 2004 dal Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, come raccolta elaborata per esporre in maniera sintetica, ma esauriente, l’insegnamento sociale della Chiesa. Non si tratta, però, di una semplice sintesi, bensì di una elaborazione sistematica che interpreta tutto il percorso compiuto dal Magistero sociale ed è offerta a tutti gli uomini per aiutarli ad orientarsi nella complessità del vivere. In particolare, il cap. 6 è dedicato al «Lavoro umano».
Il Compendio attinge alla Sacra Scrittura, alle decisioni dei Concili, al magistero papale (encicliche, esortazioni, lettere, messaggi, discorsi…), ai documenti ecclesiali (come il Catechismo della Chiesa Cattolica), ai documenti delle congregazioni e dei pontifici consigli, alle riflessioni dei Padri della Chiesa e di alcuni scrittori ecclesiastici, e al diritto internazionale. È in tutte queste fonti – non solo, dunque, nelle encicliche o nei documenti conciliari – che possiamo trovare il pensiero della Chiesa sul lavoro e su tutte le questioni sociali.
Al Compendio occorre aggiungere l’ultima enciclica sociale del Santo Padre Benedetto XVI Caritas in veritate (29 giugno 2009); documento molto atteso, in questo momento storico di crisi economica. In essa, il Pontefice si ponte in continuità con il Magistero, ribadendo la priorità dell’uomo sul lavoro e richiamando la questione centrale della difesa della vita.

  • Uno sguardo sulla Laborem exercens

Gli anni ’70 sono caratterizzati da una progressiva trasformazione del mondo del lavoro.
La società post-industriale passa dalla produzione di beni all’economia di servizi, alla preminenza di professionisti e tecnici, alla centralità del sapere teorico e tecnologico. È la rivoluzione cibernetica, che pone in questione non un aspetto o l’altro dell’uomo e della società, ma l’uomo stesso preso alla radice. Che una nuova “megamacchina”, questa volta di carattere elettronico, arrivi a schiacciare la dignità umana?
E il lavoratore? Se in passato la lotta era tra il dipendente e il proprietario di capitali, ora lo scontro fatto di discriminazione e di emarginazione è dato dal rapporto superiorità/inferiorità culturale.
Davanti al nuovo scenario, nasce la domanda se l’industrializzazione porta ad una crescita dell’uomo. Si pensava che la macchina liberasse il lavoratore da un’attività tediosa e ripetitiva, che aumentasse le qualifiche professionali. In realtà, la tecnologia libera l’uomo da un eccessivo sforzo fisico, aumentando forse il suo tempo libero, ma tende ad avere altre conseguenze non positive sulla sua salute fisica e mentale. La mobilità ad esempio crea problemi di cambiamenti o di perdita del lavoro con la successiva pressione della ricerca di un nuovo impiego. Mancano valori religiosi e morali. C’è la tendenza a far diventare gli strumenti di lavoro dei fini.
Nel bagaglio della LE entra anche il forte legame che il Pontefice ha con la sua patria, la Polonia; quindi le esperienze fatte in gioventù, proprio nel mondo del lavoro, come anche la difficile situazione economica e politica di quegli anni.
La LE potrebbe essere definita un’enciclica più che sul lavoro, sul lavoratore, sull’uomo che lavora. È questo il passaggio fondamentale, l’innovazione rispetto ai precedenti documenti.
«Il tema dell’enciclica è il lavoro umano. È impossibile riassumerla tutta nella sua complessità. Darò solo alcuni flash. Laborem è un accusativo, exercens è un nominativo. È chiaro che il soggetto è l’uomo. La primazialità non è perciò del lavoro, ma dell’uomo. E si inizia esattamente parlando di lui. Dopo avere scritto la sua prima enciclica Redentor hominis, la sua idea è esattamente quella che la redenzione dell’uomo e del lavoro umano può passare solo attraverso Cristo» .
Dallo sguardo dato fino ad ora risulta evidente come all’interno della questione sociale, in cui la Chiesa interviene, ampio spazio viene lasciato al definire alcune condizioni necessarie perché il lavoro sia il più giusto possibile, il più adatto alle necessità dei lavoratori. L’interesse è puntato sul lavoro. Ora, nella LE, ciò che conta è l’uomo e il lavoro come strumento al servizio dell’uomo. Si intravede nella struttura del documento un taglio antropologico-spirituale.

  • L’enciclica nelle sue parti

L’enciclica Laborem exercens è composta da una introduzione e da quattro parti:

  • Introduzione
  • Il lavoro e l’uomo
  • Il conflitto tra lavoro e capitale nella presente fase storica
  • I diritti degli uomini del lavoro
  • Elementi per una spiritualità del lavoro

Il concetto-cardine di questa enciclica è l’uomo. La LE evidenzia come l’uomo è autore, fonte e fine del lavoro. Un lavoro che è dovere, diritto e bene dell’uomo.
La LE introduce un’importante distinzione tra dimensione oggettiva e soggettiva del lavoro .
- Senso oggettivo . L’uomo domina la terra addomesticando e allevando gli animali, dai quali ricava per sé cibo e indumenti; estraendo dalla terra e dal mare diverse risorse naturali. Molto di più, l’uomo «soggioga la terra» quando comincia a coltivarla e comincia a rielaborare i suoi prodotti (agricoltura); coniuga le ricchezze della terra ed il lavoro umano, fisico o intellettuale (industria – ma anche settore dei servizi e della ricerca, pura o applicata).
Anche la tecnica è in rapporto con le parole della Genesi: essa è «il frutto del lavoro dell’intelletto umano e la conferma storica del dominio dell’uomo sulla natura» . L’enciclica mette in evidenza tanto i vantaggi, quanto gli svantaggi della tecnica: se essa rappresenta appunto lo sviluppo dell’uomo, è pur vero che talvolta può trasformarsi in avversaria dell’essere umano, quando la meccanizzazione del lavoro soppianta l’uomo. Il documento non può dunque non invitare a considerare una questione che a questo punto della storia non è più possibile ignorare.
- Il lavoro va poi inteso in senso soggettivo. «L’uomo deve soggiogare la terra, la deve dominare, perché come “immagine di Dio” è una persona, cioè un essere soggettivo capace di agire in modo programmato e razionale, capace di decidere di sé e tendente a realizzare se stesso. Come persona, l’uomo è quindi soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità, al compimento della vocazione ad essere persona, che gli è propria a motivo della stessa umanità» (n. 6) .
Questa distinzione è davvero la “chiave di volta” di tutto il documento, il fulcro dell’insegnamento sociale della Chiesa, perché mette al centro l’uomo (principio personalista della DSC ). Questo va compreso e assunto come metro di misura per tutte le questioni.
«Quel dominio, in un certo senso, si riferisce alla dimensione soggettiva ancor più che a quella oggettiva: questa dimensione condiziona la stessa sostanza etica del lavoro. Non c’è, infatti, alcun dubbio che il lavoro umano abbia un suo valore etico, il quale senza mezzi termini e direttamente rimane legato al fatto che colui che lo compie è una persona, un soggetto consapevole e libero, cioè un soggetto che decide di se stesso» .

  • La persona è il metro della dignità del lavoro

Ciò è giustificato da due motivi:

  • L’uomo è “immagine e somiglianza” di Dio Creatore, che gli ha dato un comando preciso (Gn 1,28), attraverso il quale dimostra questa somiglianza e partecipa della stessa opera divina.
  • «Colui, il quale essendo Dio è divenuto simile a noi in tutto, dedicò la maggior parte degli anni della sua vita sulla terra al lavoro manuale […]. Questa circostanza costituisce da sola il più eloquente “Vangelo del lavoro” [la “Buona Notizia”!], che manifesta come il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non sia prima di tutto il genere di lavoro che si compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una persona. Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non nella sua dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva» .

Ancora la LE: «Ciò non vuol dire che il lavoro umano, dal punto di vista oggettivo, non possa e non debba essere in alcun modo valorizzato e qualificato. Ciò vuol dire solamente che il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso, il suo soggetto. A ciò si collega subito una conclusione molto importante di natura etica: per quanto sia una verità che l’uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro”». Dunque si riconosce, in tal modo, la preminenza della dimensione soggettiva del lavoro su quella oggettiva.
Dimenticare tutto questo significa minacciare il giusto ordine dei valori (n. 7), come più volte la storia ci ha dimostrato e tutt’ora succede. Come nel caso del capitalismo, in cui l’uomo viene trattato al pari di tutti i mezzi materiali di produzione, come uno strumento e non secondo la sua vera dignità e come vero scopo di tutto il processo produttivo.
A partire da questo concetto, la LE sviluppa gli altri temi: il conflitto tra lavoro e capitale (cap. III), in particolare facendo risaltare il primato della persona sulle cose (quindi anche sul capitale come insieme di mezzi di produzione), il giusto significato della proprietà, della partecipazione come del lavoro in proprio… Sempre si dice «no» al “lavoratore-ingranaggio”, che è tale quando resta passivo nel processo produttivo perché considerato un semplice strumento di produzione piuttosto che un vero soggetto di lavoro, dotato di propria iniziativa (n. 15).
Se poi l’uomo è «corresponsabile e co-artefice al banco di lavoro», ne consegue che nascono alcuni diritti, corrispondenti all’obbligo del lavoro. A questo è dedicato il cap. IV in cui si sviluppano i temi del datore di lavoro «diretto» e «indiretto» (i vasti “meccanismi” d’influenza sulle politiche del lavoro), il problema dell’occupazione, quello del salario e delle altre prestazioni sociali, l’importanza dei sindacati, la dignità del lavoro agricolo, la persona handicappata nel mondo del lavoro e il problema dell’emigrazione. Varie sfaccettature, ma sempre e solo la persona al centro .

  • Il soggetto del lavoro… l’uomo

La LE, al cap. V, fornisce i principali «elementi per una spiritualità del lavoro». Questo perché «dato che il lavoro nella sua dimensione soggettiva è sempre un’azione personale, actus personae, ne segue che ad esso partecipa l’uomo intero, il corpo e lo spirito, indipendentemente dal fatto che sia un lavoro manuale o intellettuale» (n. 24).
Cosa comporta questo, in concreto, per l’essere umano?
Giovanni Paolo II sostiene che non si può giungere ad una corretta concezione del lavoro se non si considera il giusto concetto di uomo. Inoltre, anche in ambito psicologico si afferma che è l’uomo a fare la qualità e il significato del lavoro.
Essere il vero soggetto del lavoro richiede dunque all’uomo stesso un impegno per progredire sia nel cammino di maturità, che in quello della fede.
Ricordando che il lavoro non è la sola misura dell’essere, contribuisce a dare un senso all’essere, ma non lo esaurisce. Serve il “giusto sguardo” sul lavoro, che non lo tralascia, ma nemmeno lo enfatizza.

  • L’uomo che lavora si rafforza nella sua identità di uomo con una propria dignità: «mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”» (n. 9). Si percepisce come un essere «capace di agire in modo programmato e razionale, capace di decidere da sé, di tendere a realizzare se stesso» (n. 6) e acquista consapevolezza della sua libertà. «L’uomo, quando lavora, non soltanto modifica le cose e la società, ma perfeziona anche se stesso» (n. 26).
  • L’uomo che lavora cresce nell’esercizio delle virtù: «la virtù, come attitudine morale, è ciò per cui l’uomo diventa buono in quanto uomo» (n. 9). Il lavoro sviluppa nella persona svariate virtù morali e qualità, tra cui: la capacità di sopportare la fatica, la pazienza, la laboriosità, la perseveranza, il senso del dovere, la responsabilità.
  • L’uomo che lavora si apre all’altro: oltre a sostenere e realizzare se stesso, il lavoratore può adoperarsi per la formazione e il mantenimento della sua famiglia (vista come priorità a cui il lavoro è sostegno); è parte attiva ed integrante di un gruppo sociale e come suo membro si adopera per il bene comune; in nome della dignità di ogni uomo e della solidarietà tra lavoratori cammina verso l’unità.
  • L’uomo che lavora si apre al totalmente Altro e si riscopre cristiano: attraverso la sua attività, l’uomo si riscopre in relazione con Dio, di cui è immagine, cooperatore dell’opera creatrice e partecipe della redenzione dell’umanità, vivendo in Cristo la fatica del lavoro. Nel riposo, riscopre la bellezza di coltivare il legame con Dio. Lavorando, si inserisce nel cammino di sequela di Cristo, che per trent’anni ha vissuto nella casa del carpentiere di Nazareth guadagnandosi il pane con il sudore della fronte. Infine, lavorando l’uomo si riscopre inserito nel grande progetto d’amore originario del Padre che lo sogna dominatore e custode della creazione, in cammino verso il Regno.
  • Lavoro e…«Res novae»

Quali spunti, quali indicazioni, dunque, per vivere il lavoro oggi?
Il Compendio ce ne suggerisce alcuni (nn. 317-322).
Globalizzazione, frammentazione fisica del ciclo produttivo, innovazioni tecnologiche, precarietà e flessibilità… Sono le “cose nuove”, le nuove sfide di oggi.
Di fronte ad esse, la DSC ricorda ancora una volta che l’arbitro di questa complessa fase di cambiamento è ancora una volta l’uomo, che deve restare il vero protagonista del suo lavoro.
Non va dimenticato, poi, che il lavoro, al di là delle concezioni economicistiche, vale in quanto attività libera e creativa dell’uomo. Egli, a differenza di ogni altro essere vivente, ha bisogni non limitati solo all’avere, perché la sua natura e la sua vocazione sono in relazione inscindibile col Trascendente. Quindi, lavoro non solo come soddisfazione di bisogni materiali, ma anche come impulso ad andare oltre i risultati conseguiti, alla ricerca di ciò che può corrispondere più profondamente alle sue esigenze interiori. Un’attenzione, dunque, all’interiorità dell’uomo, dalla quale nemmeno l’attività lavorativa può essere disgiunta.
Sempre considerando la centralità dell’uomo, il Compendio ricorda che, se cambiano le forme storiche in cui si esprime il lavoro umano, vanno tenute ferme le sue esigenze permanenti, riassumibili nel rispetto dei diritti inalienabili dell’uomo che lavora. Bisogna perciò impegnare intelligenza e volontà per tutelare la dignità del lavoro, immaginando e costruendo nuove forme di solidarietà.
Solidarietà che va «globalizzata», come ricordava Giovanni Paolo II nel Discorso all’Incontro giubilare con il mondo del lavoro (1° maggio 2000). Lo sviluppo deve essere globale, in grado di coinvolgere tutte le zone del mondo, comprese quelle meno favorite.
E dato che gli uomini hanno una naturale propensione a stabilire relazioni, non bisogna dimenticare che il lavoro ha una dimensione universale, in quanto fondato sulla relazionalità umana. «La tecnica potrà essere la causa strumentale della globalizzazione, ma è l’universalità della famiglia umana la sua causa ultima» .
Dicevamo che a coronamento del Compendio sta la Caritas in veritate di Benedetto XVI.
Al cap. V, l’enciclica ricorda che «lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in vera comunione ed è costituita da soggetti che non vivono semplicemente l’uno accanto all’altro» (n. 53).
Proprio considerando i problemi dello sviluppo, Benedetto XVI richiama il nesso tra povertà e disoccupazione (n. 63): «i poveri in molti casi sono il risultato della violazione della dignità del lavoro umano». Già Giovanni Paolo II, il 1 maggio 2000, durante il Giubileo dei Lavoratori lanciò un appello per «una coalizione mondiale in favore del lavoro decente».
La famiglia umana aspira ad un «lavoro decente».
«Che cosa significa la parola “decenza” applicata al lavoro? Significa un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna:

  • un lavoro scelto liberamente;
  • che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità;
  • un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione;
  • un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare;
  • un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce;
  • un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale;
  • un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa.

“Decenza”, quindi, uguale “espressione della dignità dell’uomo e della donna”, in tutte le fasi della loro vita (lavorativa).
Ritorniamo alla LE: il lavoro è decente quando «è per l’uomo».
Da cristiani, quindi, siamo chiamati a guardare il lavoro illuminati dalla fede, dalla speranza e dalla carità: virtù teologali, doni di Dio che sogna la sua creatura con lo sguardo pulito, vero, felice.
La sfida di sempre, che chiama in causa anche noi, qui e oggi, è questa: essere profeti di speranza, in tutte le situazioni vitali e particolarmente nel mondo del lavoro.
“Profeti”: uomini e donne che, proprio perché hanno lo sguardo rivolto verso le «cose di lassù», sanno ancora testimoniare, in parole ed in opere, che l’uomo e la donna non cessano di essere i destinatari dell’Amore di Dio. Mai, nemmeno quando la fatica del lavoro appesantisce il cammino della loro vita.
«Amanti appassionati di Dio diventano necessariamente amanti appassionati dell’umanità», diceva S. Arcangelo Tadini.
L’uomo… Questa creatura che agli occhi del Creatore, al sesto giorno “lavorativo”, appare «cosa molto buona» (Gn 1,31), tanto da indurlo a fare finalmente festa e a mettergli a disposizione l’intera creazione, il giardino di Eden, che affida alle sue mani perché proprio lì possa emergere tutta l’«immagine e somiglianza» di cui è impastato.

 

 


Lettera enciclica Redemptor hominis, 4 marzo 1979, n. 14.

Idem; cfr. anche CA 53.

Senza dimenticare l’ultima enciclica sociale Caritas in veritate di Benedetto XVI (2009), che completa il Compendio del 2004.

Cfr. DSC 255.

Cfr. CDSC 257.

CDSC 258.

Idem, 259-263; LE 26.

Cfr. Mt 13,55; Mc 6,3; Lc 2,51.

Il verbo utilizzato nella precedente versione era “operare”.

LE 27. L’enciclica trova il senso della fatica del lavoro umano nella logica pasquale: come Cristo ha accettato la croce per salvarci, così l’uomo, mediante la fatica del lavoro, partecipa alla costruzione di quei “nuovi cieli e terra nuova”.  Certo, non si possono far coincidere progresso terreno e sviluppo del regno di Cristo; tuttavia, se il progresso reca beneficio alla società umana, è di grande importanza per il regno di Dio (cfr. Gaudium et spes).

Tratto da: Associazione Culturale Diocesana La Nuova Regaldi, Il pensiero sociale di Giovanni Paolo II nella Laborem exercens, 2 aprile 2007: in http://www.lanuovaregaldi.it/doc/evento/070402appunti.pdf.

Il Compendio, nei nn. 270-275, chiarisce ancor di più l’importanza di questa specificazione: «La distinzione è decisiva sia per comprendere qual è il fondamento ultimo del valore e della dignità del lavoro, sia in ordine al problema di un’organizzazione dei sistemi economici e sociali rispettosa dei diritti dell’uomo» (n. 270).

«In senso oggettivo (il lavoro umano) è l’insieme di attività, risorse, strumenti e tecniche di cui l’uomo si serve per produrre, per dominare la terra, secondo le parole del Libro della Genesi. […] Il lavoro in senso oggettivo costituisce l’aspetto contingente dell’attività dell’uomo, che varia incessantemente nelle sue modalità con il mutare delle condizioni tecniche, culturali, sociali e politiche» (idem, n. 270).

LE 5.

«Il lavoro in senso soggettivo è l’agire dell’uomo in quanto essere dinamico, capace di compiere varie azioni che appartengono al processo del lavoro e che corrispondono alla sua vocazione personale. […] In senso soggettivo (il lavoro) si configura come la sua dimensione stabile, perché non dipende da quel che l’uomo realizza concretamente né dal genere di attività che esercita, ma solo ed esclusivamente dalla sua dignità di essere personale» (LE 6).

Cfr. CDSC cap. III.

LE 6.

CDSC 271; LE 6.

LE 6.

Anche il Compendio, quando parla di «diritto al lavoro», rimanda alla necessità dello stesso per formare e mantenere la famiglia, per avere diritto alla proprietà, per contribuire al bene comune della famiglia umana… Mettere al centro l’uomo non equivale dunque a promuovere l’individualismo, al contrario: consente di promuovere la dignità umana in ogni ambito e in ogni situazione vitale.

CDSC 322.

 

Fonte: http://www.chiesacattolica.it/cci_new_v3/allegati/19962/Visione%20cristiana%20lavoro.doc

Sito web da visitare: http://www.chiesacattolica.it/

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