Scienze delle religioni

 

 

 

Scienze delle religioni

 

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Il cristianesimo di fronte al pluralismo delle religioni

Due sono le possibili prospettive dell’approccio cristiano al pluralismo religioso: 1) l’elaborazione teologica cristiana della presenza di altre religioni portatrici di una promessa per l’uomo, alcune delle quali strettamente legate all’esperienza cristiana (ebraismo ed islam); 2) l’interpretazione storica del dato della pluralità di religioni, e l’individuazione di schemi di confronto tra le stesse. Le due diverse prospettive istituiscono rispettivamente gli ambiti della teologia delle religioni e della storia delle religioni.

1) Il cristianesimo e le altre religioni
Nella storia del cristianesimo si possono riconoscere due tendenze costanti: 1.Cipriano di Cartagine, Innocenzo III contro albigesi e catari, Pio IX contro l’indifferentismo: extra ecclesia nulla salus; 2.Giustino: le “rationes seminales”; Nostra aetate,2: le altre religioni “non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini” meritando così un “sincero rispetto”.
Si tratta di due differenti atteggiamenti, l’uno esclusivo (cioè esclude che altre religioni o stili di vita possano consentire all’uomo di salvarsi), l’altro inclusivo (include la possibilità che ogni uomo anche non cristiano possa conoscere la via della salvezza per la propria esistenza).
Le parole attribuite dai vangeli a Gesù sembrerebbero confortare entrambe le posizioni; in due luoghi diversi infatti Cristo afferma 1. “Chi non è con me, è contro di me” (Mt 12,30); 2. “Chi non è contro di noi è per noi” (Mc 9,40 e Lc 9,50). Estrapolate dal loro contesto e messe sullo stesso piano le due affermazioni si contraddicono; risulta necessario riferirsi al loro contesto prossimo e remoto. La prima, di carattere esclusivo, è pronunciata in un discorso che mette in antitesi Gesù e Beelzebul, un discorso dunque che esige una scelta netta; la seconda, di carattere inclusivo, riguarda invece un tale che guariva i malati in nome di Gesù pur senza esserne autorizzato, dunque si pone nell’ambito di una riflessione sul bene, che da chiunque sia compiuto è in sintonia con l’insegnamento e la vita di Cristo. Pertanto: tutto ciò che è bene non si oppone a Cristo, mentre vi si oppone solamente chi si mette dalla parte del principe del male.
Nella storia della chiesa si è accentuata per lo più la posizione dell’extra ecclesia nulla salus, quella esclusiva, anche in forme violente; tuttavia la tradizione cristiana ha conservato come valida anche l’altra posizione inclusiva, giungendo a questa sintesi: è Gesù l’unico salvatore, ma Dio salva secondo le sue vie, anche al di fuori della stessa chiesa di Gesù.
C’è chi dice, per bypassare il problema, che la vera chiesa non è solo quella istituzionale che conta i battezzati “effettivi”, ma l’insieme dei salvati, che lo sappiano o meno. K. Rhaner parla di “cristiani anonimi”: in realtà in questo modo si sposta la questione ma non la si elimina, perché i non-cristiani che sono consapevolmente tali non accettano di essere cristiani anonimi, come se fosse comunque indispensabile essere cristiani per salvarsi.
Il nocciolo del problema è dunque questo: è indispensabile essere cristiani per salvarsi? La risposta tradizionale del magistero ecclesiastico non basta: sta bene che chi non ha conosciuto Dio e Gesù Cristo può comunque essere salvato, ma colui che, anche avendo conosciuto il cristianesimo, abbraccia un’altra fede, o smette di credere?
Anche oggi la riflessione cristiana, superati gli atteggiamenti di condanna e minaccia tipici di qualche secolo fa, si raccoglie su due posizioni: 1. chi sostiene la legittimità e la bontà di tutte le religioni che riflettono qualche raggio della verità che è Cristo, ma che da sole non hanno alcun potere di salvare (cristocentrismo); 2. chi sostiene in modo più convinto il pluralismo delle religioni, per cui pur riconoscendo in Cristo la manifestazione perfetta dell’amore di Dio e nella chiesa la depositaria di tale annuncio, non afferma che senza la chiesa non ci sarebbe salvezza per gli uomini, poiché è pur sempre Dio nei suoi imperscrutabili disegni a salvare gli uomini (teocentrismo); questa posizione concepisce Dio come una realtà nascosta e inconoscibile, di cui gli uomini colgono alcuni aspetti, anche diversi tra loro. La posizione maggioritaria nell’ambito del cristianesimo è comunque la prima.
Si tratta, per concludere, della questione della ‘verità’. Per il cristianesimo la verità coincide con l’amore, è verità il fatto che Dio ama gli uomini e li chiama a all’amore reciproco: il cristianesimo ha in sé i germi per costruire tra gli uomini una cultura dell’accoglienza, della solidarietà reciproca, poiché la sua idea di verità non è una verità “contro”, conflittuale, ma accogliente ed inclusiva (anche verso gli intolleranti, a giudicare dalla testimonianza di Gesù Cristo che esorta alla conversione nell’accoglienza – e non all’accoglienza in subordine alla conversione…). Quando invece il cristianesimo si è posto come il depositario della verità in forme impositive, ha tradito il contenuto stesso della verità che annuncia.


2) Le religioni secondo le scienze religiose

Premessa: il concetto di “religione” è tipicamente occidentale: altre culture non lo possiedono, o lo possiedono in forma diversa (ad es. non separato dal resto della vita pubblica e privata, come per l’Islam, oppure concernente la sola sfera interiore).
Tuttavia esistono in ogni epoca e presso ogni popolo dei fenomeni ricorrenti, che possiamo accogliere entro il nostro concetto di religione.

Non esistono un’epoca o un territorio privi di religione: la religione è una costante antropologica.
Allo stesso tempo non c’è una religione, ma religioni. Si parla di pluralismo religioso (più religioni) ed endoreligioso (più correnti all’intermo di una religione: scismi, confessioni, sette, scuole, ecc.).
Ogni religione vive nella storia ed è soggetta al mutamento, secondo uno schema piuttosto ricorrente: apparire-diffondersi-declino o trasformazione radicale.
Quando essa appare, deve giustificare la propria pretesa di esistere: di conseguenza può considerare le altre religioni in due modi
1) degenerazione di una rivelazione originaria
“Abramo non era né ebreo né cristiano; era monolatra, tutto dedito a Dio [=musulmano] e non era un politeista” (III,67)
2) religione incompleta da completare:
“La dottrina di Mosè è il bocciolo, la dottrina di Cristo è il fiore, il Caodismo è il frutto. Il fiore non distrugge il bocciolo, il frutto non distrugge il fiore, ma ogni stadio successivo dello sviluppo della pianta è perfezionamento dello stato precedente”. (La Contitution religieuse du Caodaisme, Paris, 1953)
Lo stesso cristianesimo si è tradizionalmente posto nei confronti del giudaismo nei termini del compimento ultimo delle promesse di IHWH al suo popolo.
Lo sviluppo di una religione può avvenire secondo due dinamiche: 1- continuità: sviluppo del principio originario; 2- degenerazione e declino
Una questione controversa: la religiosità dell’uomo primitivo = solo ipotesi (testimonianze artistiche presuppongono l’omogeneità dell’arte del paleolitico inferiore – 30.000/8.500 a.C.).
Teorie evoluzionistiche: assenza di religione>religiosità semplice>forme più complesse. *XVIII sec.: spiegazione psicologica, paura e meraviglia all’origine, fino all’utilità pratica funzionale. *impostazione filologica: i nomi delle divinità = personificazioni della natura, ma muore per il troppo materiale. *teoria feticista (Comte): tre stadi 1.feticismo: adorazione dei grandi feticci naturali (sole, luna, ecc.); 2.spiritualizzazione: personificazione degli elementi in molti dei, con propri campi di azione; 3.monoteismo. *teoria animistica: fede nell’anima degli antenati>loro divinizzazione>gerarchizzazione>monoteismo. *teoria del monoteismo originario (rivoluzionaria e contestatissima): dal monoteismo originario rivelato ai primitivi, ad un indebolimento degenerato nel politeismo.
Poco convincente l’ultima (degenerativa), ma troppo aprioristiche le altre (ascendenti); tuttavia si può, senza pretese di assolutezza, ipotizzare uno sviluppo ascendente (in particolare politeismo>enoteismo>monoteismo).

Confronto tra religioni: possibile solo secondo il metodo tipologico = sceglie alcuni caratteri comuni ad ogni religione che sintetizza in “concetti tipici”, per poterli poi così confrontare. Un aspetto positivo di tale confronto è che esso permette la conoscenza e la gerarchizzazione di molti aspetti; un suo limite è che parte sempre da schemi a priori.
Un confronto particolare può essere svolto sulla inclusività/esclusività dell’appartenenza alle religioni (soprattutto induismo e buddismo si qualificano come inclusive), o sull’idea di verità (la verità inclusiva del cristianesimo). Tali prospettive consentono di misurare le fedi – o meglio le loro declinazioni storico-sociali e culturali – sulla loro capacità di custodire l’esigenza di giustizia insita in ogni essere umano.

 

Autore : non identificabile dal documento

Fonte: http://www.gpeano.org/simonini/files/Teologia-e-scienze-delle-religioni.doc

 


 

Scienze delle religioni

Introduzione alla Filosofia della Religione
Albert Lang

Prefazione

La fede in DIO è stata nei tempi moderni in vario modo minacciata: per tale ragione si è finora creduto che il compito della filosofia della religione consistesse fondamentalmente nella “fondazione della religione” e si è data così la centralità alle prove dell’esistenza di DIO, concedendosi spesso all’autentico problema della filosofia della religione solo un posticino del tutto secondario.

Concetto di filosofia della religione

Per dominare questo immenso materiale la scienza della religione fu costretta a differenziarsi in una lunga serie di singole discipline: storia delle religione con le sue molteplici diramazioni, fenomenologia della religione, psicologia della religione e sociologia della religione.
Non si possono esaminare ed indagare i fenomeni della vita religiosa senza che affiorino problemi filosofici che esigono una soluzione; così, innanzitutto, il problema dei tratti essenziali che caratterizzano l’ambito religioso e lo distinguono da altri fenomeni analoghi, come anche il problema della validità e della legittimità delle esigenze religiose. Si tratta di problemi profondi ed essenziali. Poiché entra in gioco il problema di DIO, del senso della vita e della salvezza dell’uomo, tali problemi non solo impegnano l’interesse teorematico, ma destano anche la più intensa partecipazione soggettiva e pratica.
Ma è sopratutto ad Agostino che spetta il merito di aver indagato a fondo sulla religione e sui suoi problemi, si che a ragione lo si è potuto dire un orante che pensa e un pensatore che prega.
L’uomo dotato di ragione ha il diritto e il dovere di esaminare la legittimità e il valore anche delle esperienze irrazionali ed emotive dell’anima, e poi, sulla base di questo esame, di approvarle o respingerle, di promuoverle od ostacolare o reprimerle. Questi lati vitali dell’anima non devono essere abbandonati alla tirannia dell’intelletto o ad una violentazione da parte di esso, ma debbono venire sottoposti alla sua direttiva e al suo controllo.
Il provarne la validità, lo svilupparne e l’approfondirne il contenuto, l’impedire che queste pre-decisioni si trasformino in pregiudizi unilaterali e insostenibili è compito di una riflessione filosofica sistematica.
Analogamente la filosofia della religione può servire ad illuminare e regolare la vita religiosa, a promuovere ciò che in questa è autentico valore, a reprimere quel che invece si manifesta come in autentico e mortificante, a conferirle e conservarle così sicurezza e ampiezza.
La religione colloca l’uomo e ciò che è temporale sotto il giudizio di DIO e dell’eterno. Volerla portare davanti al tribunale della ragione umana è irriverente tracotanza.
LA conoscenza approfondita della natura e del significato della religione, la garanzia criticamente raggiunta del suo oggetto, come anche l’esame delle sue condizioni e dei suoi presupposti soggettivi, possono conferire ad essa orientamento nuovo e nuovo slancio. L’essere fatta oggetto di una speculazione consapevole e saggia, lunghi dal minacciare e danneggiare la religione, finirà anzi col giovarle rendendo più chiara e limpida la coscienza che essa può avere di sé.

 

Fonte: http://www.panasur.it/CODICE001/ok%20libro%20imp%20-%20Introduzione%20alla%20filosofia%20della%20religione%20(A.Lang).doc

 

SPUNTI DI TEOLOGIA DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA
p. Giovanni Patton

STAT 21 febbraio 2008

La trilogia del sacramento della Penitenza
Una corretta comprensione del sacramento si raggiunge quando lo si mette in relazione con le esperienze che lo presuppongono: quella del peccato e quella della conversione.
Per definizione infatti, il sacramento è rivolto al peccatore, ma al peccatore che si converte e perciò chiede e ottiene il perdono: peccato conversione e perdono sono dunque i tre poli della riflessione.
Il sacramento della penitenza inoltre, è rivolto a dei cristiani, ma, almeno nella S. Scrittura, i termini di peccato e conversione si riferiscono innanzitutto ad un passaggio/ritorno dalla non credenza alla vera fede da parte del popolo. Nel Nuovo Testamento, specialmente, l’accoglienza del dono della salvezza è così radicale, che risulta, per certi versi, inconcepibile che il cristiano possa ancora peccare (1Gv ) e sappiamo bene che l’applicazione della penitenza ai cristiani era considerata un’eccezione. E tuttavia anche la comunità cristiana del NT ci testimonia una prassi di riconciliazione dei propri membri che hanno peccato dopo il battesimo.

Il peccato
Nell’AT il peccato viene compreso in prima battuta come disobbedienza e violazione della legge, ma questa affermazione si precisa e si approfondisce mettendo in luce atteggiamenti più profondi e generali dell’uomo rispetto a Dio: il non ascoltare e il disprezzare la sua parola e i doni da lui ricevuti; il non ricordarsi più di essere stati da lui liberati, e dimenticare le grandi opere da lui compiute, non voler servire. Si precisa e condensa così l’idea del peccato come incredulità, mancanza di fede, tradimento. Questa realtà, poi, viene predicata come comune a tutti gli uomini non tanto per una natura metafisica, ma perché tutti hanno peccato, e perché costituiscono e sostengono una solidarietà nel peccato (la città peccatrice). Questo linguaggio relazionale, non elimina la concretezza e la dimensione morale del peccato: ingiustizia e oppressione, e rovina dell’uomo stesso, sono infatti i frutti di questi atteggiamenti. Non elimina nemmeno la responsabilità personale. Ognuno infatti non solo è concepito nel peccato, solidale con la generazione malvagia e con la città peccatrice, ma a sua volta sceglie di peccare.
Anche nel NT il peccato è rifiuto di Dio. Per il cristiano il Dio rifiutato è quello trinitario, rivelatosi in Cristo. Nella morte di Cristo il peccato mostra la sua radicalità nel rifiuto di Dio, poiché Cristo è il luogo concreto dell’incontro con Dio. Se il peccato è azione, o desiderio contro la legge eterna, nel NT, questa è la stessa vita divina comunicata all’uomo è la legge è la legge nuova: Cristo e il suo Spirito. Allora il peccato si comprende fuori dall’ambito di impurità legale e di colpevolezza. Va compreso nell’ambito di un essere davanti a Dio. L’uomo è fin dall’inizio colui che vive ed è chiamato al Patto con Dio. Il peccato è tirarsi fuori da questa condizione del patto ed entrare nel vuoto. La Bibbia infatti colloca il discorso sul peccato nel contesto dell’Alleanza: è il rifiuto di questo rapporto vitale con il Dio della creazione e dell’alleanza. E’ in sostanza il rifiuto della vocazione e del senso dell’esistenza dell’uomo In senso cristiano è la negazione del Regno; è il rifiuto di essere come Cristo, come l’uomo nuovo rivelato a Pasqua.

Conversione
Nell’AT il termine più spesso usato, ha una caratteristica dinamica. Ritornare, che trova il suo emblema nel ritorno dall’Esilio, ha il significato anche di ristabilire relazioni. Dio e l’uomo ritornano uno verso l’altro. In particolare l’uomo ritorna a Dio all’amore di Dio (metafora matrimoniale) e più precisamente all’Alleanza, ma ciò comporta anche un riprendere l’osservanza della Legge e poter di nuovo accedere al Tempio. Dio torna al suo popolo, dopo aver distolto e rivolto la sua faccia altrove. Tuttavia per Dio il ritornare, non avviene da un luogo distante dal popolo, ma dice piuttosto la fedeltà a se stesso e al suo amore. Questo movimento nasce dopo che il popolo ha sperimentato la rovina a cui l’ha condotto il peccato, perciò esso grida a Dio: “Facci ritornare”. Dio stesso peraltro non attende la preghiera e tantomeno la conversione dell’uomo per tornare verso di lui, anzi è lui stesso che provoca il ritorno, sia con gli inviti e le promesse dei profeti, sia con i mali che capitano al popolo infedele, intesi come strumento pedagogico di Dio. La conversione è dunque anch’essa, opera di Dio.
In pratica la conversione consiste nel radunare e ricostituire come comunità del Signore il popolo disperso e rimetterlo in comunione piena con lui (Tempio).
Nel NT la conversione è annunciata all’inizio della predicazione di Gesù come atteggiamento adeguato alla presenza potente del Regno che egli inaugura, questo per gli Israeliti è l’invito al vero e definitivo ritorno a Dio, per i Gentili si tratta di entrare nel definitivo Israele. Più che il punto di partenza però, è importante il punto di arrivo, verso chi ci si converte. E questo è senz’altro il mistero di Cristo, e quindi in definitiva verso Dio, perciò ci si deve allontanare da tutto ciò che è estraneo a questo mistero.
Nel NT il termine viene associato a quello di penitenza, cambiamento di cuore e mente, e ciò sottolinea la sincerità della conversione e la sua radicalità, non ci si può accontentare di un gesto rituale esterno. Si tratta, insomma di pentirsi. A ciò va aggiunto che il termine viene legato al credere, quindi convertirsi e credere sono l’atteggiamento da assumere verso Cristo. Conseguenze di questo cammino sono simili a quelle dell’AT: il perdono (alleanza) e la partecipazione alla comunità dei santificati attorno a Cristo risorto (Chiesa/nuovo Tempio), e in tali condizioni è possibile la autentica conoscenza di Dio e vera sapienza.
Ancor più nel NT la conversione dell’uomo è conseguenza. Il dato principale è invece la venuta e la presenza di Dio tra gli uomini. E’ la manifestazione dell’amore di Dio in Gesù Cristo e comunicato nello Spirito santo che provoca la conversione dei peccatori. Tale rivelazione , se accolta, mette l’uomo di fronte al volto nuovo di Dio, è allora scoperta di questo volto, riconoscersi inseguito e raggiunto dalla grazia. Questo riconoscere Dio porta a ratificare nella vita questo appartenere all’amore misericordioso. Ciò significa anche credere in Gesù Cristo morto e risorto, manifestazione suprema dell’amore del Padre. Ciò comporta anche l’inserimento nella Chiesa, luogo dove Dio realizza per tutti tale misericordia.

Perdono
Se questo è vero il perdono di Dio viene a coincidere con la giustificazione, con la salvezza offerta all’uomo che aderisce alla fede e perciò ritrova la comunione con Dio, la santità della vita e la comunione con i fratelli.
Il NT ricorda però anche l’esperienza del perdono o remissione di peccati offerto ai cristiani, a coloro che hanno già ricevuto la piena grazia nel battesimo.
Il testo emblematico che evidenzia il senso di questa prassi del perdono cristiano è: Mt. 18. Si possono qui isolare due dati importanti: l’insegnamento sulla correzione fraterna e sul perdono; la potestà di legare e sciogliere. Quanto al primo elemento Matteo evidenzia questa sequenza: perdono misericordioso di Dio (perdono del I servo); dovere di perdonare il fratello come conseguenza del perdono ricevuto da Dio. Il perdono richiesto è illimitato (70x7) e incondizionato (di cuore). Tale perdono suppone la richiesta del debitore e questa è compatibile con la correzione fraterna. Essa è finalizzata ancora una volta ad avvicinare il peccatore al perdono, a far si che egli si converta. L’amore che perdona, è amore che salva sia in Dio, che nel fratello che perdona, e non lascia perciò l’uomo così com’è, con una cancellazione esteriore del debito, ma tende a convertire, a cambiare la persona, a salvarla. Si tratta di un evento personale di incontro con Dio che perdona-salva. Fatto teologico, più che morale.
Il tema della remissione dei peccati, con una precisa azione ecclesiale, e di fronte a singole colpe, viene espresso dai versetti famosi Mt 18,18-19: legare e sciogliere. Il contesto è quello della scoperta del peccato nella comuità e di come essa possa difendersene. Se il peccato è un pericolo inevitabile, il peccatore non deve disperare della salvezza. Infatti la comunità gli viene incontro sia con la sollecitudine dei capi (buon pastore) sia con la correzione fraterna, prassi a tre gradi. È al termine di questo percorso che si dichiara il peccatore come pagano e pubblicano (scomunica-separazione) e successivamente c’è il detto sul potere di legare e sciogliere. Il legare da parte della comunità indica tale separazione ecclesiologica (Paolo direbbe consegna a satana, nel senso che necessariamente fuori della comunità dove scorre la vita di Cristo e la sua forza salvifica si è in balia di Satana) e imposizione delle condizioni di riammissione. Il riferimento allo “sciogliere” dice che tale situazione non è definitiva, ma può essere cambiata. Qui non si dice esattamente chi possa/debba legare /sciogliere, ma nella tradizione biblica e nella prassi giudaica del tempo (Sinagoga, Qumran) tale compito era riservato ai capi, per cui si può pensare che così intendessero anche i cristiani. Inoltre non si tratta di due azioni semplicemente contrarie, ma piuttosto descrivono l’insieme dell’attività della comunità in vista del perdono del peccatore. Che questa azione poi abbia effetto anche in cielo, dice come il Cristo opera efficacemente con dei segni che, pur esterni, hanno effetti reali nel rapporto con Dio, sacramentalità dell’agire ecclesiale.
A complemento va ricordato il testo di Gv.20,22-23, (peraltro esplicitamente definito dla Concilio di TN come testo istitutivo del sacramento della penitenza). i discepoli possono, per il dono dello Spirito Santo, continuare la missione di Gesù, togliendo i peccati non solo predicando e battezzando ma anche con un'altra azione che cambia interiormente il peccatore. Il modo secondo il quale possono esercitare una tale attività, qui non è indicato.
In conclusione il testo matteano sottolinea l’aspetto ecclesiologico, quello giovanneo, l’aspetto pneumatologico dello stesso fatto: giustificazione del peccatore da parte di Dio per il ministero della Chiesa.

Elementi di teologia del sacramento della penitenza
La teologia del sacramento che tuttora la Chiesa insegna è sostanzialmente quella definita nel Concilio di TN che vi ha dedicato una Sessione apposita (XIV) con Decreto e Canoni.
Le affermazioni, ovviamente mirano a controbattere le contestazioni di Lutero. Si dichiara innanzitutto l’autentica sacramentalità della penitenza, istituito da Cristo per il perdono dei battezzati (can1), e se ne indicano le differenze rispetto al battesimo(can.2) fondandole sul testo di Gv.20,22-23 (can3). Si descrive poi la realtà del sacramento con gli atti del penitente espressamente nominati: contrizione, confessione e soddisfazione (quasi materia) (can.4) e con particolare attenzione alla contrizione (can.5). Viene poi ricordata la istituzione e necessità della confessione di diritto divino (can.6) e la necessità di diritto divino della confessione di tutti e singoli i peccati mortali che si ricordano dopo diligente esame di coscienza (can 7). Si definisce poi l’assoluzione del sacerdote come atto giudiziale (can. 9), si definisce il ministro dell’assoluzione (sacerdote vescovo) (can.10).
Richiamo solo alcuni temi teologici che sono stati i più discussi e che esprimono più chiaramente la dottrina del Concilio.

Le parti del sacramento (can.4)
Il riferimento a questi precisi atti come quasi materia rifiuta la visione protestante che intende la confessione come terrore della coscienza cui segue la fede.
Si parla di quasi materia per lasciare aperta la discussione di scuola circa il modo e la misura per cui questi atti concorrono all’integrità del sacramento. Per alcuni erano solo disposizioni in vista, o in voto del sacramento, per altri avevano un ruolo più decisivo, fermo restando che l’essenza del sacramento viene dall’assoluzione: è questa che produce l’effetto proprio: riconciliazione con Dio e perdono. Un articolo specifico è dedicato alla contrizione, rifiutata dai luterani. La contrizione definita come dolore e detestazione del peccato commesso con la volontà di non peccare, è necessaria , indica il cuore stesso della confessione, il rifiuto del peccato. Se questa nasce dalla carità è detta perfetta e può ottenere il perdono, ma ciò comporta almeno il desiderio del sacramento; se è imperfetta, mossa cioè dal desiderio del perdono e che esclude la volontà di peccare, è sempre buona disposizione e frutto dello Spirito. Non rientra in questo il motivo di paura. La libertà pur minima dell’uomo deve esserci.

Istituzione e necessità per diritto divino della confessione (can.6)
Di diritto divino è la necessità della confessione. Non si fa accenno alla penitenza canonica, proprio per definire la necessità di diritto divino della confessione in quanto tale, e non alle sue forme. Anche la successiva formulazione dice soltanto che la prassi attuale è compatibile con l’istituzione di Cristo, e negando che sia quindi una invenzione umana, nello stesso tempo non prende posizione sulle forme storiche.

Istituzione di diritto divino della confessione integra di tutti i peccati mortali (can.7)
Tale disposizione va a colpire la posizione protestante della libera manifestazione dei propri peccati al ministro. Il principio dell’integrità tuttavia era secolare (LatIV e Fiorentino). Si aggiunge “dopo debita e diligente meditazione”, negando quindi l’impossibilità (can.8) e la tormentosità evocate da Lutero. Non si tratta di una integrità materiale, ma formale (quelli che si possono ricordare dopo diligente esame) Si aggiunge poi il dovere di confessare anche i peccati occulti e di desiderio e le circostanze che ne mutano la specie. Il motivo di fondo per tale integrità risiede nel legame tra confessione e assoluzione: in particolare l’insistenza sul carattere giudiziale dell’assoluzione propone la confessione come una causa penale in cui bisogna conoscere bene i capi di accusa per pronunciare la sentenza di assoluzione, cioè di esercitare e non svuotare il potere di legare e sciogliere, e per poter stabilire la proporzione tra colpa e pena. È evidente poi che ci sarebbe una contraddizione in chi confessasse solo alcuni peccati mentre la radice di essi è unica, e d’altra parte la misericordia di Dio non si manifesta a sprazzi, ma salva sempre l’uomo totalmente.
La necessità di confessare i peccati occulti indica più in profondità che l’assoluzione non si limita alla disciplina comunitaria, e quindi agli atti esterni, ma ha un valore sacramentale anche nel rapporto personale dei singoli con Dio. Non si dice nulla sull’obbligo di confessare peccati rimessi, anche se non esplicitamente confessati (es. dimenticanza). L’obbligo di confessione riguarda i peccati mortali, ma non vengono chiaramente definiti. Certamente non è solo l’incredulità, ma anche altri peccati di cui nel NT ci sono vari elenchi (es. Mc.7; 1Cor 6,9-10). Per i peccati veniali non è obbligo, ma la confessione non è inutile per essi. La menzione delle circostanze acquista importanza perché fanno parte dell’integrità necessaria per il giudizio.

Il senso dell’indole giudiziale del sacramento
L'indole giudiziale (nel senso che la chiesa, per la realizzazione della sua missione, esige un contatto visibile e personale tra il singolo e la comunità) del potere di perdonare i peccati, è fondata nel Nuovo Testamento; non è invece dal Nuovo Testamento una determinata struttura della procedura del segno sacramentale. Il contesto storico antecedente conferma questa osservazione di principio. Se è così, diventa più chiaro il perché nelle formule scritturistiche, specialmente in quelle giovannee, non viene indicato il modo per mezzo del quale il potere di perdonare i peccati dev’essere esercitato.
Un cristiano peccatore, per essere perdonato, deve rivolgersi alla chiesa con la stessa necessità con la quale occorre ricorrere alla chiesa per la propria giustificazione prima per mezzo del battesimo. Rivolgersi al potere giudiziale della chiesa include il riconoscimento di essere peccatore davanti ad essa. La riparazione non potrà avvenire senza l'intervento di tutta la chiesa, strutturata gerarchicamente. Certamente esiste nella chiesa un’autorità giudiziale che può sentenziare circa l'appartenenza o l'esclusione di un membro della comunità. Ma dal Nuovo Testamento appare che questa autorità di scomunica riguarda particolarmente casi gravi. Perciò, questo potere non può essere senz'altro identificato con il potere giudiziale normale che la chiesa esercita sui suoi membri peccatori nel sacramento della penitenza. Pertanto, possiamo affermare che non è evidente come debba essere esercitato il potere di perdono per i peccati commessi dopo il battesimo. La struttura giudiziale, perciò, come il Tridentino l'ha determinata, sta a significare che è cosa normale che, nell'esercizio di un potere di grazia, si esamini come si deve perdonare; tanto più che si tratta di "alieni beneficii dispensatio". Pertanto si può pensare che l'universale potere giudiziale concesso da Cristo alla chiesa, includa anche la determinazione il modo con il quale i fedeli devono ricorrere a questo potere di perdono. La determinazione del modo concreto dipende unicamente da esigenze di carattere pastorale.

Lo sviluppo dottrinale del Vaticano II
Il Concilio Vaticano II non ha espresso molte posizioni dogmatiche, ma un importante sviluppo è quello proposto da LG 11 riguardo al sacramento della Penitenza: “Coloro che accedono al sacramento della penitenza, ottengono dalla misericordia di Dio il perdono dell’offesa a lui recata e simultaneamente sono riconciliati con la Chiesa che col peccato hanno ferito e che collabora alla loro conversione con la carità, l’esempio e la preghiera.” Il testo mette accanto (“simul”) perdono dell’offesa a Dio e riconciliazione con la Chiesa. Non viene individuato il rapporto tra i due risultati del sacramento. Non fa propria neppure la tesi, che gode di ampio consenso tra i teologi moderni, che la riconciliazione con la Chiesa sarebbe l’effetto immediato (res et sacramentum) del sacramento. Tuttavia vengono messi in luce interessanti aspetti: Tutti i peccati presentano un aspetto ecclesiale; tutti feriscono la Chiesa; ogni volta che si celebra la penitenza avviene la riconciliazione con la Chiesa e con Dio. Va peraltro aggiunto che non tutti i peccati feriscono la Chiesa e separano il peccatore da essa allo steso modo. La riconciliazione infatti è azione diversa dalla liberazione dalla scomunica (peccati più gravi). Il peccato contraddice sempre all’intima natura della Chiesa, popolo santo di Dio. Il testo conciliare dice anche una parte positiva, che la Chiesa non interviene nei confronti del peccatore solo attraverso l’assoluzione sacramentale, ma nella globalità della sua vita e segnatamente con la carità, l’esempio e la preghiera.

Per una presentazine sintetica del sacramento
Possiamo sottolinearne quattro elementi fondamentali.
Misterico-pasquale: l’incontro dell’uomo con l’opera di Dio realizzata a Pasqua avviene in tutti i sacramenti, specie nel battesimo e nell’Eucaristia, ma ognuno con la propria specificità. Nel sacramento della penitenza il cristiano ricorda/rivive la Passione (dolore-rifiuto del peccato) e la risurrezione (assoluzione-riconciliazione) di Cristo e da testimonianza di vita nuova (soddisfazione, opera penitenziale), annunciando che la vittoria sul peccato sarà un giorno piena e la riconciliazione tra gli uomini completa per dono di Dio.
Ecclesiale-liturgico: la riconciliazione con Dio si manifesta nel segno della riconciliazione con la Chiesa. La riconciliazione tra i cristiani, e perciò con Dio, avviene sempre con un intervento della comunità (capi o correzione fraterna Mt18,15ss preghiera 1Gv.5,16; Gc 5,16). La riconciliazione con Dio, reintroduzione nel mistero pasquale tramite una nuova effusione dello Spirito oggi avviene di fatto nella Chiesa. È dunque riunendosi alla Chiesa che l’uomo si riunisce anche con Dio. Infatti se la ricostituzione del’uomo nell’amore di Dio è stato il fine dell’opera, della vita e della morte di Cristo, questa prosegue e produce i suoi effetti lungo i secoli, per mezzo della Chiesa. Infatti è la Chiesa che ha ricevuto da Cristo il compito di comunicare la vita nuova del risorto e l’annuncio della salvezza realizzata da Dio per l’uomo, con la predicazione della Parola, con la celebrazione dei sacramenti e con la testimonianza della carità. Ciò avviene per opera dello Spirito che Cristo ha effuso e che rende viva la Chiesa.
Il sacramento è poi liturgia perché culto di lode a Dio e santificazione dell’uomo. Ciò avviene sia con gli atti del penitente che esercita così il suo sacerdozio battesimale (lode-culto di vita nuova), sia con la preghiera, l’esempio e la carità della Chiesa che lo sostiene, sia con l’esercizio del ministero del vescovo e del sacerdote che attestano che tale perdono è dono gratuito di Dio, e comunione con Cristo e da parte di Dio, comunicano il suo Spirito che risana e rinnova la vita da figli (assoluzione).
Personale-storico: il sacramento della penitenza ha di caratteristico il fatto che lo sforzo personale fa parte del sacramento stesso. Senza gli atti del penitente, pur suscitati dalla grazia, il sacramento stesso non esiste. Sviluppa pienamente la sua efficacia nella storia e adesione personale del penitente.
Il pentimento è un rifiuto deciso del peccato nel suo significato religioso, con una rinnovata assunzione dell’impegno battesimale della vita nuova, e questo nella carità (si rifiuta il peccato perché si desidera rispondere all’amore di Dio, e si combatte l’egoismo nell’amore dei fratelli). Questa carità ha naturalmente una storia che può partire da atteggiamenti minimi e mescolati con parti di egoismo, ma proprio nella celebrazione si rafforza l’impegno ed esso è portato a gesto di salvezza dalla relazione con Cristo.
La confessione dei peccati manifesta questo pentimento interno perché l’essere umano ha sempre una dimensione esteriore, sociale ed ecclesiale, che viene raggiunta anche dal pentimento. Questo è però un atteggiamento di fede, non uno sfogo psicologico, una terapia ansiolitica.
La soddisfazione (penitenza) ha scopo medicinale, tende a far guarire dal meccanismo disgregatore del peccato con una ripresa della capacità operativa del bene, una lotta più intensa contro le abitudini malvage. Tali opere hanno senso se fatte nella fede, cioè come partecipazione alla croce di Cristo (amore totale) e alla lotta quotidiana della chiesa contro il peccato.
Collegamento con il Battesimo e l’Eucaristia: l’Eucaristia è il segno sintetico e principale della Pasqua. Ad essa si collegano tutti gli altri sacramenti. Essa sottolinea la vittoria sul peccato e la festa dei fratelli riconciliati e riuniti nella famiglia di Dio. La penitenza dunque tende all’Eucaristia che ne perfeziona la comunione con Dio e con i fratelli. La necessità del perdono per i peccati mortali, prima di partecipare pienamente all’eucaristia, nasce dal fatto che l’Eucaristia celebra la pienezza della comunione con Dio e con i fratelli, mentre la Penitenza dice l’impegno di conversione.
Uno stretto legame c’è anche con il sacramento del Battesimo: entrambi perdonano i peccati e stabiliscono la comunione con Dio. Anticamente tali legami venivano espressi con i termini di “battesimo delle lacrime” e “seconda tavola di salvezza”. Le diversità espresse nei segni e negli effetti mettono in luce come la penitenza supponga il battesimo di cui riattiva il dono della grazia di figlio adottivo di Dio, la rende operativa; ricostruisce la comunione ecclesiale; chiama in causa il sacerdozio battesimale.

La riforma del Rito dopo il Vaticano II ha sottolineato in particolare due aspetti: L’importanza centrale della Parola di Dio. Se questo vale per tutti i sacramenti, per la penitenza riporta in luce la dimensione di fede e non semplicemente etica, o addirittura psicologica del sacramento. Il mio pentimento nasce dalla misericordia che mi è annunciata, e il perdono si compie ancora come annuncio efficace dell’opera di Cristo.
La dimensione ecclesiale che visibilmente si esprime nella forma di celebrazione comunitaria, è però sempre presupposta. Non si tratta mai di un rapporto individualistico, perché la grazia è data nel popolo di Dio ai singoli, e lo stesso perdono rimanda alla partecipazione nuova e piena alla comunione ecclesiale.

Conclusione
L’esperienza del perdono attraverso il sacramento della penitenza esprime il suo significato se vissuta come momento della relazione di Dio con l’uomo, quindi nella fede. Perché a questo livello si pone la precedente rottura (peccato) che chiede tale riconciliazione.
Ma sia il peccato, sia il perdono ha sempre anche una dimensione comunitaria, poiché davanti a Dio ognuno fa parte di una comunità santa ed è la salvezza di questa comunità, come espressione storica e simbolica della comunione escatologica di tutti i figli con Dio, che Dio persegue. I singoli partecipano di tale santità sempre in costruzione, vi contribuiscono, ma nello stesso tempo possono anche ferirla o “diminuirla” con i loro peccati, con le loro infedeltà alla salvezza ricevuta. Ecco perché il perdono viene concretamente e anche essenzialmente offerto come celebrazione della Chiesa.

 

Fonte: http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/DiocesiCEI/objects/obj_14160/files/formazione/formazione_sacramenti_patton.doc

 

 

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