Sociologia dei processi culturali e comunicativi

 


 

Sociologia dei processi culturali e comunicativi

 

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Appunti di Sociologia dei processi culturali e comunicativi

autore: Davide Dell'Ombra
Prof.ssa Rossana Sampugnaro, A.A. 2006/2007

 

Prima parte
TEORIE DELLA COMUNICAZIONE DI MASSA

Testi di riferimento:

  • Bentivegna, S., Teoria delle comunicazioni di massa, Laterza, 2005 (capp. 1-10);
  • Morgan, M. & Signorielli, N., Cultivation Analysis: concettualizzazione e metodologia, 1990, in Marinelli, A. & Fratelli, G. (a cura di), Tele-visioni. L'audience come volontà e rappresentazione, Meltemi, 2002 (pp. 23-46);
  • DeFleur, M. & Ball-Rokeach, S. J., Teorie delle comunicazioni di massa, Il Mulino, 1995 (cap. XI).

Introduzione
Nonostante l'autonomia scientifica della communication research sia stata pienamente raggiunta, come testimoniano gli studi nel settore e l'istituzionalizzazione accademica della disciplina, anche in Italia, resta vero anche che, come afferma Craig, «la scienza della comunicazione è ancora in uno stato preparadigmatico», cioè manca di un approccio che sia largamente condiviso.
Afferma Bourdon che «per essere buoni specialisti dei media, bisogna essere sociologi», dunque condividere un approccio che abbia come oggetto (Lang & Lang, 1993):

  • la natura della comunicazione umana,
  • gli effetti delle comunicazioni di massa,
  • i nessi tra media e sistema sociale in cui si collocano i mezzi di comunicazione di massa.

Nel 1973 Noelle-Neumann dà una ricostruzione, per sommi capi, del susseguirsi delle teorie delle comunicazioni di massa secondo il seguente schema:

  • Anni Quaranta: teoria ipodermica (potere totale della comunicazione di massa);
  • Anni Sessanta: teoria degli effetti limitati (ridimensionamento di tale potere);
  • Anni Settanta: teoria dei media potenti (rivalutazione degli effetti a lungo termine).

Vediamo molto più nel dettaglio l'avvicendarsi delle principali teorie, a partire dalle pubblicazioni e dagli studi.

Prime concezioni di «società di massa»
Ben definisce “società di massa” Gili (1990): è quella società le cui istituzioni fronteggiano vasti aggregati di persone come unità indifferenziate. Il paragone che ricorre più frequentemente nella storia recente per definire la società contemporanea è quello con l'organismo vivente: Saint-Simon e Comte proponevano tale concezione che individua nella società una molteplicità di parti che operano tutte in modo coordinato. Comte avverte però che l'eccessiva specializzazione conduce a forme di disorganizzazione, a causa della distanza e dell'incomunicabilità tra gli individui. Un altro importante padre fondatore della sociologia, Tönnies, ricorre alla stessa metafora dell'organismo distinguendo però la “comunità”, intesa come un organismo davvero vivente e tanto genuino quanto duraturo, dalla “società”, che è invece «un aggregato e prodotto meccanico», una «convivenza passeggera e apparente».
Secondo Durkheim, solidarietà “organica” e “meccanica”, mettendo in luce, rispettivamente, l'eterogeneità tra gli individui e la marcata divisione del lavoro, contribuiscono – insieme – a creare talvolta, in una società atomizzata come quella di massa, situazioni definite di “anomia”: l'eccesso di specializzazione crea senso di separatezza, un venir meno della capacità di sentirsi parte di una comunità e di intrattenere significativi rapporti coi suoi membri.
Agli inizi del Novecento, infine, pensatori come Le Bon, Mosca, Pareto e Michels condividevano una “psicologia delle folle” in cui la massa è totalmente passiva e manovrabile da parte dell'élite, che però resta una parte di società che detiene i valori dell'otium, lontani dal negotium. Sono gli albori della teoria “ipodermica”. Prima della teoria ipodermica che si svilupperà interno agli anni Trenta del Novecento, vanno ricordati due ambiti di studio: la Scuola di Chicago e la Ricerca Amministrativa. Per la prima si ricorda lo studio di Park (1922) in cui, seguendo l'etnometodologia di Simmel, si indagava il ruolo di assimilatrice da parte della carta stampata in merito a immigrazione e integrazione di nuovi soggetti nella società americana, oltre che della professionalità del giornalismo a confronto con la propaganda. La seconda si basa invece quasi integralmente sullo studio di Lasswell (1927), tendente ad una ricerca di tipo quantitativa, che avrebbe prevalso a differenza della precedente, di tipo qualitativo.

La teoria ipodermica
Negli inizi del Novecento le dittature europee ebbero la loro culla, ma il timore serio per la propaganda politica si ebbe nel primo dopoguerra: la preoccupazione degli intellettuali a tal proposito portò all'adozione di modelli quali, da un lato, il comportamentismo di Watson e Skinner, e, dall'altro, il modello matematico-informazionale di Shannon e Weaver. Entrambi i modelli presuppongono una schema semplice: S -> R. Ad uno stimolo deve corrispondere una risposta: i messaggi veicolati dai media (soprattutto stampa e radio) sono potenti fattori di persuasione in grado di penetrare l'individuo – indifeso – come farebbe un «ago ipodermico». Inoltre, secondo la cosiddetta magic bullet theory, i messaggi sono ricevuti da tutti i membri della massa allo stesso identico modo.
I primi studi furono fatti intorno agli anni Trenta, con la nascita dei Payne Fund Studies (1929-1932).I primissimi furono quelli di Bogardus (scala di distanza sociale per misurare i pregiudizi razziali) e Thurstone (scala di intervalli per misurare qualsiasi tipo di atteggiamento), cui seguirono tre importanti studi sul cinema.
Il primo è quello di Dale (1935) che calcola nel 1922 in 40 milioni i biglietti venduti a settimana, e nel 1929 nella stessa quantità gli spettatori minorenni nei cinema; il cinema hollywoodiano rappresenta certamente la migliore possibilità di evasione per un pubblico sotto pressione geopolitica, ma Dale riferisce che i temi sono perlopiù “crimine”, “sesso” e “amore” (75% dei casi), nonché alcool e tabacco (vietati in quel periodo), delineando una situazione critica. Fu anche ineccepibile come indagine (quantitativamente): 1500 film selezionati in dieci anni di ricerche.
Il secondo studio, sugli atteggiamenti degli individui nei confronti del cinema, è quello di Peterson & Thurstone (1933). Analizzarono l'orientamento di bambini nei confronti di alcuni gruppi etnici, di soggetti di diversa nazionalità e di questioni sociali (come la pena di morte), prima e dopo la visione di un film. Riscontrarono un'influenza sui bambini, specie i più piccoli. E il mutamento d'atteggiamento era più rapido all'aumentare del numero di film visti su uno stesso tema. La metodologia seguita nella ricerca è da considerare all'avanguardia.
Il terzo studio è una pietra miliare della sociologia delle comunicazioni di massa. Riguarda gli effetti sul comportamento quotidiano (giochi, sogni, stili di vita) e fu condotto da Blumer (1933), con criteri metodologici – in questo caso – criticabili. Il cinema influenza, secondo Blumer, lo stile di vita degli adolescenti e, prima ancora, la psiche dei bambini (proponendo soggetti nei quali identificarsi). In tal modo Blumer supera il comportamentismo e punta alla funzione modellizzante dei media.
A superare il comportamentismo o, per meglio dire, la teoria ipodermica sarebbe, secondo Wolf, il modello di Laswell (1948), che si proponeva come suo “perfezionamento”. Ma non va dimenticato che il modello di Laswell, in realtà, ribadisce la passività del pubblico e la totale egemonia dell'emittente nella comunicazione di massa. Laswell opera una riorganizzazione della teoria, specificando le cinque “w” dell'atto comunicativo: «who says?, what in?, what channel to?, whom?, with what effects?». Dunque:

  1. ricerca sulle emittenti (che ha prodotto la sociologia delle professioni, da un lato, e la sociologia del lavoro e dell'organizzazione, dall'altro),
  2. analisi del contenuto (la metodologia di ricerca previde l'analisi degli slogan propagandistici durante la festa del primo maggio in Unione Sovietica e l'analisi delle tecniche di persuasione usate durante la prima guerra mondiale),
  3. analisi del mezzo,
  4. analisi dell'audience,
  5. analisi degli effetti.

Critiche al modello di Laswell non mancano. Wolf elenca le seguenti:

  • asimmetria della relazione emittente-destinatario (il processo comunicativo ha origine solo nell'emittente, il ricevente non ha alcun ruolo se non come tale),
  • indipendenza dei ruoli (emittente e destinatario non entrano mai in contatto né appartengono alla stessa compagine sociale e culturale),
  • intenzionalità della comunicazione (è sempre presente da parte dell'emittente, buona o cattiva che sia).

La teoria degli effetti limitati dei media
Lazarsfeld è considerato il fondatore della moderna ricerca sociale empirica. Si può dire forse che con lui si è passati da «effetti certi» a «certi effetti»: da “manipolazione” a “propaganda”, da “persuasione” fino a “influenza”. La teoria dell'influenza personale nonché delle “variabili intervenienti” è anticipata dagli studi di Roethlisberger & Dickson, di Cantril e di Stouffer.
Roethlisberger & Dickson (1939) condussero dei famosi esperimenti presso gli stabilimenti Hawthorne della Western Electronic Company (Chicago). Cominciarono col valutare l'incidenza dell'illuminazione sull'efficienza del lavoro e notarono che era nulla (la produttività restava costante al variare della luminosità); scavando più a fondo, introducendo operaie coscienti dell'esperimento e tenute sotto osservazione, si scoprì che esistono delle regole informali costruite sulle “opinioni di gruppo”:

  • se lavori troppo sei uno “sgobbone”;
  • se lavori poco sei un “perditempo”;
  • non devi mai fare “la spia”;
  • non devi calarti nel tuo ruolo con troppa rigidità.

Si scoprì dunque che è fondamentale l'appartenenza ad un gruppo nel determinare l'atteggiamento, in questo caso, lavorativo.
In The invasion from Mars: A study in the psycology of Panic, Cantril (1940) analizzò le reazioni di panico all'ascolto radiofonico di Orson Welles in La guerra dei mondi mandato in onda dalla CBS nel 1938. Cantril in primo luogo colse i fattori di “credibilità” del mezzo radiofonico nel:

  • tono realistico,
  • l'affidabilità del mezzo,
  • l'uso di esperti,
  • l'uso di località realmente esistenti,
  • la sintonizzazione dall'inizio del programma oppure a  programma già iniziato.

In secondo luogo, i messaggi, fu rilevato, non sono ricevuti tutti allo stesso modo da tutti: esiste una specifica ed individuale «abilità critica» del pubblico, presente solo nei primi due “tipi” di radioascoltatori che Cantril ha ipotizzato:

  1. soggetti in grado di controllare la coerenza “interna” del programma;
  2. soggetti che avevano attivati controlli “esterni” quale la visione di giornali in proposito;
  3. soggetti che pur effettuando controlli esterni ha creduto in un qualche fatto straordinario;
  4. soggetti che hanno creduto integralmente alla radio e non hanno effettuato alcun controllo.

L'abilità critica si correla, inoltre, in positivo, al grado d'istruzione e, in negativo, alla religiosità dei soggetti.
Nel terzo studio, The American Soldier, a cura di Stouffer (1949) si indagò sui soldati americani coinvolti nella seconda guerra mondiale. Insieme al lavoro di Shils (1950), si scoprì la rilevanza del “gruppo primario” come incentivo nel compiere determinati obblighi: la solidarietà col gruppo fornisce motivazione. Inoltre si colse il concetto di “privazione relativa” per cui è il gruppo a fornire lo “standard” cui aspirare (il soldato del reparto con minori possibilità di promozioni desidera di più la promozione).
I lavori di Lazarsfeld sono essenzialmente due: The People's Choice e Personal Influence.
Il primo è di Lazarsfeld, Berelson & Gaudet (1948) sulle elezioni presidenziali del 1940. Il secondo è di Katz & Lazarsfeld (1955) sul “leader d'opinione” (a Decatur, per mezzo di questionari a 800 donne). Entrambi i lavori trattano dell'influenza personale nelle comunicazioni di massa. Cosa determina questa rilevanza del contatto personale? I seguenti fattori:

  • i contatti personali sono casuali e non intenzionali, «l'influenza personale è più pervasiva e meno auto-selettiva di quanto lo siano i media»;
  • i contatti personali sono flessibili, tengono infatti conto della reazione immediata dell'interlocutore, cosa impossibile coi media;
  • i contatti personali offrono una “ricompensa” immediata se si condivide un'opinione, o al contrario l'emarginazione;
  • infine nei contatti personali hanno un ruolo importante la fiducia e il prestigio conferito ad una persona, i cosiddetti opinion leaders.

Nasce così l'idea del «flusso a due fasi della comunicazione» secondo cui tra radio e stampa, da un lato, e i settori meno attivi della popolazione, dall'altro, stanno i leaders d'opinione, che in genere sono molto più esposti ai mass media.
Inoltre Katz & Lazarsfeld differenziarono i tipi di leadership. Essa può essere:

  • “orizzontale”, un'influenza che si esercita tra simili (i giovani sugli anziani per il cinema, viceversa per gli acquisti domestici);
  • “verticale”, un'influenza tra soggetti di diversa estrazione sociale (generalmente top-down).

Un'ulteriore differenziazione fa Merton (1949) tra leader d'opinione “locale” e “cosmopolita”:

  • il primo ha sempre vissuto nella comunità, si interessa di aspetti di vita quotidiana ed è conosciuto (influenzando su aree diverse si considera “polimorfico”),
  • il secondo viene dall'esterno, ha pochi legami e consuma media più elevati e specialistici (è percepito come molto competente su aree ristrette e dunque si dice “monomorfico”).

Non mancarono, comunque, le critiche alla teoria di Lazarsfeld. In particolare tre. Van Den Ban (1969) la smentì – non convincendo molto per i metodi – dicendo che i leaders d'opinione:

  • non sono più esposti ai media rispetto agli altri,
  • hanno un consumo mediale differenziato (più stampa che radio),
  • non appartengono alla stessa categoria sociale degli influenzati.

Più solide le critiche di Robinson (1976) che introducono soggetti “che non discutono”, né influenzano né sono influenzati. Infine Greenberg (1964) precisa che solo gli argomenti detti “di nicchia” si diffondono perlopiù tramite contatti personali, dacché le notizie più generaliste (l'assassinio di Kennedy, ad esempio) sono diffuse più che altro dai media.
Preso atto della concezione formulata da Lang & Lang (1959) della «campagna permanente» (il clima mediale dell'opinione va tenuto in costante osservazione, non solo durante la campagna elettorale, ma anche tra una ed un'altra), la teoria degli effetti limitati è sostenuta – infine – da due studi importanti: quello di Hovland e quello di Klapper. Essendo infatti possibile distinguere i fattori di mediazione in quelli “rispetto al messaggio” e quelli “rispetto al pubblico”, Hovland si è occupato dei primi, Klapper degli ultimi.
Gli studi di Hovland in cui egli si propone di capire gli elementi che facilitano o ostacolano l'efficacia dei messaggi persuasori sono due: Hovland, Lumsdaine & Sheffield (1949) e Hovland, Janis & Kelley (1953). Tali elementi, emersi dalle rilevazioni eseguite anche in merito alla visione di film patriottici, sono i seguenti:

 

  • credibilità della fonte (il testimonial);
  • ordine e completezza delle argomentazioni (in testa o in coda l'affermazione che si vuol sostenere?);
  • esplicitazione delle conclusioni (contrari i più istruiti, favorevoli i meno).

La ricerca di Hovland lascia comunque senza risposta molti interrogativi sulla rilevanza delle differenze individuali, quali l'istruzione, l'interesse, etc.
Per quanto invece concerne il pubblico, il ricco e classico volume di Klapper (1960), partendo dagli studi di Lazarsfeld, Berelson & Gaudet sulle presidenziali del 1940 ed eseguendo un nuovo esperimento durante la campagna del 1954 di sensibilizzazione a favore dell'industria petrolifera nel Missouri, afferma che la comunicazione di massa «agisce assai più frequentemente come causa di rafforzamento che non di modificazione». Il pubblico, infatti, si sottrae a campagne che non condivide, attuando dei precisi fenomeni inconsci (i “meccanismi della selettività”), rilevati da vari studi:

  1. l'«esposizione selettiva» (Lazarsfeld, Berelson & Gaudet, 1948 e Cartwright, 1949), per cui un soggetto si espone “selettivamente” solo alla comunicazione del candidato preferito, evitando quella degli altri candidati;
  2. la «dissonanza cognitiva» (Festinger, 1963), per cui un soggetto è più propenso ad esporsi ad un messaggio che riduce la discrepanza tra l'effettivo comportamento e ciò in cui crede (il fumatore non gradisce campagne antifumo preferendo documenti che sminuiscono i danni del fumo);
  3. la «percezione selettiva» (Allport & Postman, 1945 e altri studi), per cui il messaggio viene distorto nell'interpretazione fino ad assumere i toni del sistema valoriale del soggetto;
  4. la «decodifica aberrante» (Eco & Fabbri, 1978 e Hall, 1980), per cui certi soggetti (ad esempio, con forti pregiudizi razziali) possono distorcere più di altri la lettura dei medesimi documenti;
  5. la «memorizzazione selettiva» (Klapper, 1960), per cui si costruisce un ricordo “depurato” dalla presenza di eventuali fonti di disturbo per il soggetto;
  6. l'«effetto Bartlett» (Bartlett, 1932), per cui il soggetto memorizza, nel tempo, solo gli aspetti più affini al proprio sistema di valori.

Inoltre, Klapper chiarisce che gli effetti delle comunicazioni di massa sono davvero difficili da operazionalizzare, comunque mai diretti.

Il funzionalismo
«Nel funzionalismo, la società è concepita come un insieme di parti interconnesse, nel quale nessuna parte può essere compresa se isolata dalle altre». Parsons (1971) parla di “imperativi funzionali” a proposito delle istituzioni atte a mantenere l'equilibrio del sistema sociale. Essi sono racchiusi nello schema detto AGIL (Adaptation, Goal attainment, Integration, Latency of structure):

  1. adattamento all'ambiente (assicurare e distribuire le risorse necessarie),
  2. raggiungimento di un fine (utilizzare le risorse per delle necessità, in ordine gerarchico),
  3. integrazione delle varie parti (mantenere unità e funzionalità dell'insieme),
  4. mantenimento della struttura latente – e gestione delle tensioni (verificare sempre la struttura di valori condivisi – e risolvere eventuali squilibri).

Il ruolo dei media è di soddisfare il bisogno di mantenere i valori sociali, rinforzando i modelli di comportamento esistenti.
Secondo Merton (1949) non tutte le istituzioni sono funzionali alla società, esistono bensì delle “disfunzioni” che riducono il grado di adattamento del sistema (per esempio, la burocrazia, quando applicata con eccessivo rigore), tenendo in larga considerazione anche e soprattutto le conseguenze di tale funzione/disfunzione, chiedendosi «funzionale o disfunzionale rispetto a chi?»: così Merton mette in crisi la concezione “conservatrice” funzionalista di una società compatta e agente sempre come un tutt'uno. Esistono persino conseguenze inattese (“funzioni latenti”), involontarie e dunque neanche riconosciute come tali; non solo quelle programmate e volontarie (“funzioni manifeste”).
Aggiunge Wright (1960) che i media svolgono dei peculiari ruoli:

  • rispetto al sistema sociale, producono
    • funzioni di
      • allertamento,
      • pubblicizzazione (strumentale, in questo caso)
    • disfunzioni quali
      • diffusione indiscriminata di notizie,
      • diffusione di panico;
  • rispetto agli individui, producono
    • funzioni di
      • controllo sull'ambiente (con diffusione di notizie) [ricerche di Berelson (1949) e Mondak (1995) su scioperi di giornalisti],
      • attribuzione di prestigio ai più informati,
      • rafforzamento delle norme sociali (moralizzazione),
    • disfunzioni quali
      • eccesso di informazione che comporta isolamento («disfunzione narcotizzante»), ossia un falso dominio dell'ambiente.

In questo contesto nasce la teoria detta «degli usi e delle gratificazioni», secondo cui gli individui si rivolgono ai media spinti dai loro bisogni per ottenere gratificazioni, concependo dunque la relazione media-spettatore in maniera diversa rispetto a prima: i soggetti non sono passivi ma attivi, alla ricerca dei media.
Un primo approccio fu offerto da Klapper (1960) che distinse le categorie di uso dei media in due:

  1. funzioni “semplici” come
    • offerta di relax,
    • stimolazione dell'immaginazione,
    • interazione sostitutiva (in casi di solitudine, si gode di una “voce in casa”),
    • creazione di un terreno comune (condivisione del consumo di un prodotto mediale);
  1. funzioni “complesse” come
    • distensione emotiva (immedesimandosi nel programma mediale),
    • scuola di vita (riprende il classico studio di Blumer del 1933).

L'approccio “maturo” è invece offerto da Katz, Blumler & Gurevitch (1974) pur condividendo col precedente la metodologia qualitativa (interviste con domande aperte, alcun interesse al rapporto tra le gratificazioni cercate e le origini socio-psicologiche del bisogno da soddisfare) che, essendo tale, non permette di trarre risultati ben individuabili. Viene spiegato però che esistono dei legami tra fattori sociali e bisogni soddisfatti:

  • il consumo mediale può allentare la tensione sociale,
  • la situazione sociale mette al corrente di temi che i media possono trattare,
  • i media soddisfano vicariamente dei bisogni che la situazione sociale non è in grado di soddisfare,
  • i prodotti mediali rinforzano i valori che la situazione sociale determina,
  • per poter sostenere la propria appartenenza ad un gruppo, gli individui sono tenuti a monitorare costantemente certi materiali mediali divenuti familiari per mezzo della situazione sociale.

Viene specificato inoltre che, assodato che esistono delle “alternative funzionali” (la possibilità per il consumatore mediale di disporre sempre di diversi mezzi mediali), diversi bisogni sono soddisfatti da media diversi, poiché ogni mezzo possiede specifiche qualità.
Quest'aspetto era stato discusso già nel lavoro di Katz, Gurevitch & Haas (1973) dopo aver effettuato una ricerca in Israele durante la guerra del Kippur: emerse una vera e propria “divisione del lavoro” tra i media, secondo cui cinema e libri soddisfacevano bisogni legati all'autogratificazione, mentre quotidiani, televisione e radio bisogni di integrazione sociale. Gli studiosi parlano infatti di cinque classi di bisogni che i media sono in grado di soddisfare:

  1. cognitivi;
  2. affettivi-estetici;
  3. integrativi a livello della personalità, per
    • rassicurazione,
    • status,
    • aumento della credibilità;
  1. integrativi a livello sociale (come il rafforzamento di rapporti interpersonali);
  2. di evasione (allentamento della tensione).

L'approccio presenta pro e contra. Da un lato c'è un rovesciamento di prospettiva, in base alla quale:

  • l'audience è attiva,
  • il sistema dei media compete con altre fonti per la soddisfazione dei bisogni (alternative funzionali),
  • il comportamento mediale è intenzionale e motivato,
  • molti fattori intervengono nella determinazione del comportamento mediale,
  • non sempre gli individui sono influenzati più dalle persone che dai media.

D'altro canto, però, esistono evidenti limiti:

  • si ignora il “consumo rituale” dei media (estraneo alla logica di questo approccio),
  • dubbia esistenza delle alternative funzionali,
  • non si considerano i rapporti tra i sistemi coinvolti, focalizzandosi solo sull'individuo.

Le teorie critica e culturologica
Una contrapposizione classica è quella che vede, da un lato, la cosiddetta “ricerca amministrativa” di fine anni Venti, che abbiamo visto adottare un metodo quantitativo e, dall'altro, la teoria cosiddetta “critica” che, sì, nasce nel 1923 con le teorie della Scuola di Francoforte, composta da filosofi come Marcuse, Fromm, Benjamin, Adorno e Horkheimer, ma che esporrà le proprie tesi più solide soltanto intorno alla fine degli anni Cinquanta del Novecento. Essi contestano al marxismo di «ridurre troppo semplicemente la cultura e l'arte all'economia». In particolare Adorno e Horkheimer (1947) studiano la nascita e l'affermazione dell'«industria culturale» partendo dal “critico” presupposto che «film e radio non hanno più bisogno di spacciarsi per arte. La verità che non sono altro che affari, serve loro da ideologia, che dovrebbe legittimare gli scarti che producono volutamente. Essi si auto-definiscono industrie, e le cifre pubblicate dei redditi dei loro direttori generali troncano ogni dubbio circa la necessità sociale dei loro prodotti». In questo sistema, governato da questi “direttori generali”, l'autonomia del consumatore non esiste, alla stregua – quasi – della concezione laswelliana della teoria ipodermica. Viene indotto infatti un “consumo distratto” (l'easy listening) che punta alla mediocrità e all'«inerzia intellettuale», ricorrendo all'uso dello “stereotipo”, da cui la nascita del “genere”, etichetta di un prodotto che al tempo stesso lo semplifica eccessivamente ma lo rende più facilmente rintracciabile. Per i due filosofi il genere resta, però, un emblema della manipolazione del pubblico da parte dell'industria culturale, della cosiddetta “pseudo-individualità”.
La teoria critica è a sua volta criticabile in quanto, metodologicamente, rifiuta la ricerca empirica sui soggetti e non presta attenzione alla classiche problematiche della comunicazione mediale (audience, modalità della fruizione, effetti, etc.), risultando artificiosa e astratta.
Si sottopone alle stesse critiche la teoria “culturologica” condotta soprattutto da Morin (1962). Egli conia il termine “mass media” (neologismo anglo-latino) facendo emergere l'«uomo dei consumi». Critica la standardizzazione dei grandi temi romanzeschi e la riduzione di «archetipi in stereotipi». La cultura di massa diviene “cultura del loisir”, ossia dello svago non solo nel tempo libero ma come consumo dei prodotti, facendo sì che la vita reale diventi subalterna a quella offerta dai prodotti di massa, indebolendo – tra l'altro – tutte le istituzioni. Le critiche a tale approccio si fanno esplicite con Bourdieu & Passeron (1963), accusandolo di essere catastrofico, non sistematico (senza dati, con affermazioni indimostrabili) e metafisico.

I «Cultural Studies»
Negli anni Cinquanta e Sessanta nasce un movimento di studi intorno al Centre for Contemporary Cultural Studies a Birmingham, ad opera di diversi autori. Sulle orme della Scuola di Chicago, l'interesse sociologico si concentra sulla vita quotidiana degli individui. Lo studio di Hoggart (1958) approfondisce per la prima volta i prodotti culturali della letteratura (musica, giornali, periodici, fumetti e fiction popolare). Williams (1974) si sofferma invece sulla televisione, elaborando il concetto di “flusso” secondo cui la sequenza dei programmi televisivi sarebbe talmente omologata da apparire come un tutt'uno. A questo proposito, un importante studio è quello di Fiske (1990) che, dopo aver chiarito il termine “codice”, distingue efficacemente i codici utilizzati dai media in due classi:

  • broadcast, che
    • sono di massa,
    • sono semplici,
    • non richiedono educazione per essere compresi,
    • sono orientati dalla comunità;
  • narrowcast, che invece
    • sono più definiti,
    • hanno audience più limitata,
    • richiedono apprendimento,
    • sono orientati alla persona,
    • possono conferire status.

Su queste basi, Eco & Fabbri (1978) formulano un modello detto “semiotico-informazionale” teso a superare quello di Shannon & Weaver della teoria comportamentista, con l'introduzione di “codici” e “sottocodici”. In questo modo il messaggio viene ricevuto prima sotto forma di significante e solo in un secondo momento, con l'elaborazione di codici e sottocodici, come significato da parte del ricevente. Il modello conferisce notevole importanza all'attribuzione del significato al messaggio pervenuto come significante. Arricchiscono tale modello, in seguito, con un altro, quello “semiotico-testuale”, secondo il quale i destinatari:

  • non ricevono messaggi singoli individualmente riconoscibili come tali, ma solamente “insiemi testuali”;
  • ricorrono a “pratiche testuali” (e non a codici riconoscibili) per decifrare i messaggi;
  • non ricevono mai un solo messaggio ma molti, sia sincronicamente che diacronicamente.

La “competenza testuale” si forma solo nelle vesti di consumatore mediale, dunque. Ma possono verificarsi dei casi di “decodifica aberrante” (cui si è già accennato), in particolare:

  1. incomprensione (rifiuto) del messaggio per carenza di codice,
  2. incomprensione del messaggio per disparità di codici (se ne ha conoscenza “connotativa” se del messaggio si coglie il significato primario ma gli si attribuisce connotazione diversa dall'originale, oppure “denotativa” quando si conosce male il significato del termine),
  3. incomprensione del messaggio per interferenze circostanziali (esigenze in conflitto conducono alla distorsione del messaggio per fargli assumere la connotazione valoriale favorita),
  4. rifiuto del messaggio per delegittimazione dell'emittente (è possibile una «guerriglia semiologica»).

Hall (1980) è lo studioso di maggior spicco e formula invece il modello detto “encoding-decoding”. Per Hall il sistema dei media assolve per lo più tre funzioni:

  • offerta selettiva di costruzione sociale,
  • visibilità di un'apparente pluralità di situazioni della vita sociale,
  • organizzazione e gestione dell'intera società.

I media, secondo Hall, provvedono dunque al mantenimento dell'ordine sociale dominante; e per fare ciò è necessaria la presenza di un codice, a sua volta dominante o “egemonico”, in grado di fornire la “lettura preferita” dei messaggi. Esistono infatti due tipi di codice:

  • il “codice egemonico”, che
    • riproduce l'intero universo dei significati che la società esprime,
    • non necessita di legittimazione,
    • dunque rappresenta il punto di vista dominante (naturale e scontato per tutti);
  • il “codice professionale”, che invece
    • accentua i caratteri della professionalità,
    • mantiene sullo sfondo il codice dominante.

Hall ipotizza nel suo modello tre modalità di decodifica:

  • “egemonica” o “preferita”, in base alla quale lo spettatore “sta al gioco” leggendo il messaggio nella sua interezza decodificandolo con lo stesso codice della sorgente;
  • “negoziata”, quando lo spettatore decodifica in modo dominante, per poi, però, farne un uso diverso “negoziando il significato” in base alle proprie necessità concrete;
  • “di opposizione”, quando il codice dominante viene compreso ma vi viene contrapposto un quadro di riferimento esterno ad esso.

Viene restituito così pieno potere allo spettatore. In particolare, della televisione si è occupato Lull (1980) individuando due dimensioni d'uso rispetto al pubblico:

  • dimensione “strutturale”, costituita da
    • uso ambientale (rumore di fondo),
    • uso regolativo (d'accompagnamento, incidendo anche sulle conversazioni);
  • dimensione “relazionale”, comprendente
    • occasioni di comunicazione (creazione di un terreno comune di interazione),
    • appartenenza al (o esclusione dal) gruppo,
    • apprendimento di valori e modelli,
    • competenza e dominio (con conseguente assunzione di determinati ruoli in famiglia).

Netti sono i punti di contatto con l'analisi fatta dall'approccio “degli usi e delle gratificazioni”, differendo però da questo per due aspetti: in primo luogo lì si studiavano usi privati, qui sociali; in secondo luogo si analizzano in questo caso vari momenti di comportamento dell'audience stessa, di discussioni di queste stesse persone sugli usi della televisione.

La teoria dell'«Agenda Setting»
La teoria nasce con Cohen (1963) quando afferma che «la stampa può nella maggior parte dei casi non essere capace di suggerire alle persone cosa pensare, ma essa ha un potere sorprendente nel suggerire ai propri lettori intorno a cosa pensare». Dopo circa dieci anni si ha la prima ricerca empirica, condotta da McCombs & Shaw (1972), che rileva il ruolo dei media in generale nell'organizzare l'orizzonte tematico del pubblico (definita “esperienza di second-hand” in confronto al riscontro diretto con la notizia). L'indagine riguardava la campagna per le elezioni presidenziali del 1968 presso Chapel Hill, e fu distinta in due fasi: nella prima si intervistarono 100 soggetti prescelti (in cerca di orientamento politico), nella seconda si registrarono gli argomenti presenti nei media della zona; confrontando i temi dei media con quelli del pubblico, trassero le conclusioni intese non come “prova”, ma perlomeno come “indice” della bontà della teoria. Successive ricerche chiarirono, nel caso di Zucher (1978), che può esserci una sostanziale disattenzione verso la natura dei temi, e, nel caso di Eyal (1981), che ci sono temi più “coinvolgenti” di altri. Lang & Lang (1981) a questo proposito parlano di “soglia alta” per indicare quei temi che risultano lontani dalla vita quotidiana dei soggetti (a differenza di quelli a “soglia bassa”) e che per questo stentano ad entrare nell'agenda del pubblico. McCombs (1976) precisa inoltre che la televisione agisce spesso come “spot-lighting” rispetto alla stampa, ovvero riorganizza i temi che la stampa “mette in agenda”. E' bene distinguere, a questo punto, l'agenda “del pubblico” dall'agenda “dei media”. La prima può essere:

  1. intrapersonale (i temi più importanti per il paese secondo il soggetto),
  2. interpersonale (i temi di cui si parla tra i conoscenti e nella famiglia del soggetto)
  3. relativa alla percezione del clima d'opinione (i temi che secondo il soggetto sono rilevanti per l'opinione pubblica).

La seconda invece è caratterizzata dalla competizione tra i temi, nell'arena dei media, per conquistare l'attenzione del pubblico (pur esistendo temi che non possono essere in competizione, data la loro rilevanza a prescindere da qualsiasi fattore), e si costruisce in base a:

  • la realtà esterna (un tema può attrarre se coinvolge situazioni realmente esistenti o incombenti),
  • le regole giornalistiche (i media possono sminuire o amplificare aspetti di una notizia, nonché selezionarle),
  • i rapporti di potere tra i vari soggetti.

Quest'ultimo punto viene ampiamente trattato da Reese (1991) che distingue quattro casi in cui il potere (o la sua assenza) dei media (il giornalismo tout court) incontra il potere (o la sua assenza) della fonte (generalmente politica):

  1. alto potere della fonte (politico autorevole) e alto potere dei media (giornale autorevole) -> situazione ottimale;
  2. alto potere della fonte e basso potere dei media -> il politico manipola il mezzo;
  3. basso potere della fonte e alto potere dei media -> l'emittente strumentalizza il pensiero della fonte;
  4. basso potere della fonte e basso potere dei media -> “stampa alternativa”.

Non a caso, una ricerca condotta da Sigal (1973) sul Washington Post e sul New York Times aveva messo in luce che il 70% delle fonti giornalistiche sono di origine governativa, contro il 17% di altro tipo. Si rileva dunque una prossimità tra sistema giornalistico e sistema politico che induce al sospetto. Entman (1989) spiega il fenomeno con l'analogia del mercato, secondo cui l'interesse dei giornalisti di ricorrere a fonti sicure è bilanciato dall'interesse dei politici a occupare spazio mediale. Entman parla anche di “news slant” riferendosi al fatto che i giornalisti spesso ricorrono ad opinioni espresse da politici per trattare un tema.
Ricordando che il frame di cui parla Goffmann è dato dalle strutture cognitive che guidano inconsciamente l'individuo su ciò che va notato di rilevante per la propria situazione sociale, ciò che in definitiva avviene con il fenomeno dell'agenda setting è, in termini goffmanniani, la costruzione e il passaggio continuo del frame, per mezzo del quale si tratta un particolare tema, dai giornalisti verso il pubblico. Il tema può, infatti, essere definito come un oggetto con particolari “attributi” che «ne completano l'immagine»; variando gli attributi di ciascun oggetto, i frames dei giornalisti e del pubblico fanno sì che si focalizzi l'attenzione su alcuni attributi distogliendola da altri. Il modo in cui i frames utilizzati dai media influenzano l'agenda del pubblico è definito il “secondo livello” dell'agenda setting.

La teoria della «spirale del silenzio»
La teoria sviluppata nel corso di vari anni (perlomeno tra il 1965 e il 1991) da Noelle-Neumann rappresenta la prima reazione, da parte degli studiosi di media, al predominio del paradigma degli “effetti limitati”. Noelle-Neumann (1991), ricordando le campagne elettorali tedesche tra il 1965 e il 1972, distingue in via preliminare due tipologie di opinione pubblica:

  • concezione “normativa” dell'opinione pubblica,
  • concezione “integrativa” dell'opinione pubblica.

Posta la prima come, se così si può dire, “gruppo di controllo”, la seconda si caratterizza per la pressione a conformarsi e per la paura dell'isolamento sociale che muove l'individuo. E' questa seconda concezione infatti a spiegare la formazione dell'opinione pubblica, intesa come «l'interazione tra il monitoraggio che l'individuo compie sull'ambiente sociale e gli atteggiamenti e i comportamenti dell'individuo stesso»: tale paura di isolamento induce gli individui a valutare costantemente il clima d'opinione, che a sua volta influisce sul comportamento pubblico, in particolare limitando la libertà di esprimere opinioni. Il fatto che le persone sono in grado di stimare «quanto sono forti le posizioni all'interno del dibattito pubblico» viene chiamato “competenza quasi statistica”, mentre effettuare valutazioni distorte del clima d'opinione (per esempio quando si tiene conto più della notizia diffusa tramite i media che non di quella ottenuta per via diretta) si parla di “ignoranza pluralistica”. Può verificarsi anche il caso di un “doppio clima d'opinione”: se chi segue il dibattito (politico) pubblico perlopiù attraverso i media (generalmente la televisione) si fa un'idea molto diversa rispetto a chi si tiene informato aldilà del mezzo di comunicazione di massa, si verifica quanto accadde in occasione delle elezioni in Germania nel 1976, che videro affermarsi la SPD a danno della CDU/CSU, effettuando, secondo i sondaggi, un rovesciamento di posizione di circa 20 punti. I media – in particolare la televisione – stimolano dunque l’emersione di posizioni maggioritarie attraverso tre meccanismi:

  • “consonanza”, ossia la presenza di argomentazioni molto simili all'interno della programmazione televisiva sugli stessi temi (un consumo mediale che si protrae per anni);
  • “cumulatività”, ossia la periodica ripetizione dei medesimi temi (stabilità dell'offerta mediale);
  • “abbattimento della selettività”, ossia il fatto che sia impossibile parlare ancora di “percezione selettiva” quando il mezzo televisivo è talmente diffuso e onnipresente.

Tale “spostamento dell’opinione pubblica” può avvenire anche in altri due modi:

  • coloro che hanno un punto di vista ritenuto o percepito minoritario sono maggiormente disposti ad esprimersi se sono supportati dai media;
  • la presenza intensa e l’esplicitazione di un determinato punto di vista dei media fornisce, a coloro che sposano tale punto di vista, il vantaggio di essere meglio equipaggiati nell’esprimerlo e difenderlo nelle interazioni sociali (“funzione di articolazione”).

La teoria di Noelle-Neumann si espone, infine, a diverse critiche: innanzitutto è difficile affermare che un paese democratico metta a tacere, per mezzo dei media, una parte delle posizioni in merito ad un tema; in secondo luogo, l'ubiquità del mezzo televisivo non implica, secondo Losito (1994), l'assenza di processi selettivi. Agli occhi di Moscovici (1991) risulta una macchinazione orwelliana presentare in maniera troppo semplice la cumulatività e la consonanza del mezzo televisivo.

 

La teoria della «coltivazione»
Il ruolo svolto dalla televisione nell'era delle comunicazioni di massa è oggetto di indagine anche da parte della teoria della “coltivazione”, il cui ispiratore è Gerbner. Oltre a lui, alcuni studiosi hanno conferito alla televisione le funzioni “affabulatoria”, per Casetti & Di Chio (1998), e “bardica”, per Fiske & Hartley (1978). Si distinguono in quanto la prima è legata alla natura orale del discorso televisivo, che racconta e propone storie in grado di soddisfare il bisogno di evasione dello spettatore, stimolando la sua immaginazione, mentre la seconda sottolinea la capacità della televisione di raccontare specificamente storie della comunità, tratte dalla realtà sociale. Secondo gli ultimi due studiosi, il ruolo bardico della televisione consiste nel:

  • l'individuare la realtà culturale,
  • coinvolgere i membri della cultura nel sistema di valori dominante (rafforzando l'ideologia sottesa),
  • celebrare e giustificare le azioni dei singoli rappresentati nei confronti del mondo esterno,
  • rassicurare la cultura in generale dell'adeguatezza pratica dell'ideologia sottesa,
  • svelare inadeguatezze pratiche della cultura per dar il via a nuove posizioni ideologiche,
  • convincere il destinatario che il suo status e la sua identità sono garantiti dalla cultura stessa,
  • trasmettere appartenenza culturale (sicurezza e coinvolgimento).

In definitiva, secondo Gerbner & al. (2002) la televisione è un sistema centralizzato di “storytelling”. Gerbner, Signorielli & Morgan (1990) diedero vita al progetto di ricerca Cultural Indicators che fu condotto negli Stati Uniti dal 1967 al 1974 (e oltre), centrato sul mezzo televisivo. La ricerca nacque con lo scopo di indagare la natura della violenza provocata da certi programmi televisivi con un monitoraggio a lungo termine; poi furono affrontati altri svariati temi nel corso degli anni.
La Cultivation Analysis inizia con l'identificazione e la valutazione dei modelli più stabili e ricorrenti nel contenuto televisivo, per poi tentare di accertare se coloro che passano più tempo davanti alla tv (i cosiddetti “consumatori forti”, fino a circa sette ore di esposizione al giorno) tendano a percepire la realtà in un modo che riflette i messaggi o meno, rispetto ai consumatori “deboli” (meno di due ore al giorno). Si costruisce così un “differenziale di coltivazione” frutto della sottrazione delle risposte dei deboli da quelle dei forti. I dati di una ricerca mostrano, ad esempio, che, in una serata televisiva:

  • sono più i maschi vittime rispetto a quelli che commettono violenza (11 contro 10),
  • sono molte di più le donne vittime che quelle che commettono violenza (16 contro 10),
  • il rapporto aumenta nel caso di donne straniere e minoranze (22 contro 10),
  • tra i gruppi con maggior probabilità di subire violenza, solo in un caso è un uomo anziano, per lo più si tratta di donne.

Si è sottolineato che donne, giovani, anziani e alcune minoranze «hanno maggiori probabilità di essere proposte come vittime dal mezzo televisivo», e i consumatori forti appartenente ad uno di questi gruppi «esprimono un forte senso di apprensione e sfiducia per il mondo reale» rispetto agli altri gruppi.
Inoltre, i fruitori deboli tendono ad essere esposti a più fonti di informazione, al contrario dei forti che si limitano alla fonte televisiva. Ad incidere sul grado di fruizione sono anche fattori quali il sesso, il reddito, l'istruzione, l'occupazione, la razza, l'uso del tempo, l'isolamento sociale e l'integrazione. Aspetto rilevante dell'analisi è che si interessa non dei macroscopici cambiamenti delle prospettive comuni, quanto invece delle modifiche lievi ma reiterate, pervasive, nella “coltivazione” di tali prospettive: «coltivazione dunque significa il saldo arroccamento sugli orientamenti più diffusi, nella maggior parte dei casi, e la sistematica ma alquanto impercettibile modificazione dei precedenti orientamenti, negli altri; in altre parole: conferma per i credenti e indottrinamento per i devianti».
L'analisi della coltivazione viene descritta come un terzo del progetto, che comprende infatti anche le analisi tanto dei processi istituzionali sottesi alla produzione del contenuto dei media, quanto delle immagini nel contenuto dei media. Infatti «la tv è divenuta uno dei più comuni e costanti ambienti formativi della nostra nazione (e in misura crescente del mondo)... è la più grande distributrice di immagini e modella il mainstream della nostra cultura popolare». Per “mainstream” si intende quel flusso di idee, sensazioni e atteggiamenti che caratterizza, spesso inconsapevolmente, la cultura dominante in e di una società. «Tale corrente predominante non rappresenta semplicemente la somma delle altre; piuttosto è una sorta di corrente principale più generale e stabile (anche se non statica), che rappresenta le dimensioni più ampie e comuni di significati e affermazioni condivisi», determinando tutte le altre “correnti”. Ebbene la televisione va considerata, secondo questo programma di ricerca, come «l'espressione primaria del mainstream della nostra cultura», dacché essa «coltiva prospettive comuni».
Oltre alle difficoltà rilevate dagli stessi autori nel capire con assoluta precisione gli effetti della coltivazione, a causa del fatto che un consumatore debole, o persino un dichiarato “non-consumatore”, può essere comunque informato da uno forte rendendo impossibile la rilevazione della reale incidenza del messaggio televisivo, non mancano le polemiche nei confronti di tale programma. Su tutte, quella di Hughes (1980), che critica l'assegnazione da parte di Gerbner dell'etichetta di variabile indipendente all'esposizione al mezzo televisivo: così facendo viene fornita un'interpretazione (di cause ed effetti) dei dati, non una rilevazione. Inoltre sono rintracciabili dei “problemi attuali” della ricerca:

  • Come si può verificare l'effetto della coltivazione?
  • Quanto e in che modo la coltivazione è influenzata dalle relazioni familiari e interpersonali?
  • Quali sono i livelli di coltivazione?
    • Rispetto ai “fatti della vita” (“primo grado”) e inferenze più generali su tali fatti (“secondo grado”)?
    • Livelli “sociale” e “personale”?
  • Che ruolo gioca l'esperienza personale nella coltivazione?
  • Gli orientamenti degli spettatori verso la televisione influenzano la coltivazione?
    • Visione “attiva”o “passiva”?
    • Visione “selettiva”?
    • Secondo “usi e gratificazioni”?
    • “Coinvolgimento”?
    • Interpretazioni consapevoli del contenuto televisivo e della realtà?
  • Quali sono i ruoli di programmi e generi specifici nella coltivazione?
    • Incidono di più le soap operas?
    • O i programmi “per famiglie”?
    • E gli orari dei programmi?
  • Come e cosa coltivano gli altri media?
  • Come le nuove tecnologie influenzano la coltivazione?
  • L'effetto della coltivazione si verifica anche in altri paesi?

Insomma, la teoria ha ancora molta strada da percorrere.

La teoria degli «scarti di conoscenza»
Lo studio di Star & Hughes (1950) sulla conoscenza delle Nazioni Unite a Cincinnati rivelò l'importanza dell'istruzione nella conoscenza di un tema, in quanto molla che spinge ad acquisire informazioni. In quell'occasione furono individuati dei precisi fattori:

  • le abilità comunicative degli individui (i più istruiti hanno più strumenti per ottenere le conoscenze desiderate),
  • l'informazione posseduta (quel che già si conosce – l'«enciclopedia» personale – facilita l'elaborazione di nuovi temi),
  • i contatti sociali (la discussione con gli altri è importante),
  • l'esposizione selettiva, l'accettazione e memorizzazione dell'informazione (accettazione dei meccanismi della selettività),
  • la natura del mezzo informativo (la stampa soddisfa di più gli istruiti, ad esempio).

Questo e altri studi simili condussero alla teoria del “knowledge gap” elaborata da Tichenor, Donohue & Olien (1970) che mette in luce un aspetto opposto dei mezzi di comunicazione di massa rispetto alle teorie or ora affrontate, cioè il fatto che, al contrario di produrre omologazione ed un terreno comune, essi creano la diversificazione delle conoscenze nella popolazione. In particolare si teorizza che:

  • l'acquisizione di conoscenza su temi molto pubblicizzati sarà molto più rapida per i soggetti più istruiti rispetto ai meno,
  • mentre si istituisce, ad un certo punto, una correlazione tra temi molto pubblicizzati dai media ed il livello d'istruzione, in realtà ciò non avviene per i temi meno pubblicizzati.

I tre studiosi portano il caso dell'allunaggio: in proporzione i laureati erano più propensi a pensarne realistica la possibilità, rispetto ai meno istruiti. Allo stesso modo il caso di 600 persone a cui era stato fatto leggere un articolo per poi rispondere a delle domande. I valori più alti furono ottenuti dagli articoli più pubblicizzati nel tempo, rispetto ai meno.
Nowak (1977) sintetizza parlando del fattore del “potenziale comunicativo”, cioè tutte le risorse che consentono il flusso maggiore di informazioni facilitando la comunicazione dell'individuo, dipendenti da tre caratteristiche:

  • personali (attitudini, personalità, facilità di comunicazione),
  • legate alla posizione sociale dell'individuo (reddito, educazione, età e sesso),
  • della struttura sociale in cui l'individuo vive (appartenenza a gruppi primari o secondari).

Della “chiusura dei gap” si occupano invece, prima Thunberg, Nowak & Rosengren (1982) e poi Gaziano (1983). Mentre il secondo rileva che la televisione (che richiede meno istruzione) può fungere da livellatore di conoscenze (a lungo termine), i primi identificano questa funzione negli “effetti soglia”:

  1. i privilegiati raggiungono un livello di informazione tale da potersi fermare e consentire il “recupero” dei meno privilegiati;
  2. può annullare lo scarto la ripetitività e la diffusione delle informazioni;
  3. la preoccupazione su un tema può omogeneizzare la sua diffusione;
  4. la conflittualità di un argomento spinge i meno privilegiati a competere per la sua diffusione;
  5. la chiusura degli scarti è più rapida all'interno di comunità omogenee (soprattutto coi leaders d'opinione).
  6. la televisione ha maggiore potenzialità di chiudere i gap rispetto alla stampa.

A riportare attuale la teoria degli scarti conoscitivi è stato il tema oggi molto discusso del “digital divide”. Vengono ad essere sempre più distinti gli “information haves” dagli “information have nots”, ossia i paesi più industrializzati da quelli dove l'informazione circola con più lentezza, ad esempio per l'assenza di reti Internet. Internet è un mezzo diversificato, personalizzabile, che richiede apprendimento, richiede capacità di scrittura e lettura, richiede la conoscenza dell'inglese e del computer.
Rogers (1995) ha redatto, a questo proposito, una “curva cumulativa a S della diffusione tecnologica”, dalla quale si evince che i paesi in difficoltà apprendono con ritardo netto le informazioni “globali”: si avviano, con Internet, il passaggio dal “broadcast” al “netcast” e la crisi della tv generalista.

La teoria della dipendenza dal sistema dei media
Proprio a proposito della televisione De Fleur & Ball-Rokeach (1976) discutono nella loro teoria. La tv non è un semplice svago ma assolve funzioni di integrazione sociale e personale, essendo possibile anche personalizzare il sistema mediale (con le nuove tecnologie). L'interesse della teoria che postula una dipendenza del pubblico dal sistema dei media – pur senza dimenticare l'influenza esercitata dalle relazioni sociali che l'individuo intrattiene – è ben più ampio, però. A parte il fatto che si interessa dei cambiamenti nell'uso dei media da parte del pubblico – che però generalmente avviene solo in casi di crisi o necessità, per poi tornare all'uso normale – il punto focale dell'intera teoria sta nella sua “ecologicità”, di impronta funzionalista: essa considera la società «come una struttura organica e analizza il modo in cui le componenti dei sistemi sociali micro (piccole) e macro (grandi) sono collegate tra loro, cercando così di spiegare il comportamento delle parti in gioco in riferimento a queste relazioni», costituite essenzialmente da “obiettivi” e “risorse” per ottenerli. I media sono “potenti” semplicemente perché controllano le tre seguenti risorse:

  1. la raccolta o creazione di informazione,
  2. il trattamento dell'informazione,
  3. la distribuzione dell'informazione alla massa.

Esiste una gamma di tipologie di relazioni individuali di dipendenza dai media:

  • comprensione
    • di sé,
    • sociale;
  • orientamento
    • all'azione,
    • all'interazione (come affrontare situazioni nuove o difficili);
  • svago
    • individuale,
    • sociale.

La teoria si avvale di aspetti che la accomunano a molte teorie classiche della sociologia. Il contributo del paradigma cognitivo conferisce alla teoria la larga considerazione di aspetti legati all'individuo e alla sua attiva propensione nei confronti del medium cui si rivolge. Con media specifici, è possibile enucleare quattro “fasi di dipendenza”:

  • il selezionatore è attivo e l'esposizione selettiva (quando non è casuale, ma è raro);
  • maggiore è l'intensità della dipendenza iniziale, più alto è il grado di stimolazione cognitiva e affettiva;
  • più forte è la stimolazione, maggiore è il coinvolgimento nel processo informativo;
  • maggiore è il coinvolgimento, più alta è la probabilità di effetti mediali cognitivi, affettivi e comportamentali.

Il contributo dell'interazionismo simbolico si evince, in primo luogo, dal ruolo svolto nella teoria dalle situazioni di minaccia, ambiguità o cambiamento sociale: in tutti questi casi le relazioni di dipendenza tendono a rafforzarsi. E, in secondo luogo, dal tenere in larga considerazione le relazioni interpersonali. Le influenze si suddividono, infatti, in:

  • influenza indiretta (risultante dall'esposizione cumulativa per lunghi periodi),
  • influenza indiretta tramite opinion leaders,
  • influenze dirette.

Il contributo del paradigma del conflitto e del funzionalismo è stato accennato in qualche modo prima: la teoria pone l'accento tanto sul cambiamento quanto sulla stabilità dell'uso mediale, senza dimenticare il ruolo del conflitto, da intendersi come «contesa per risorse limitate» che può rimanere latente per lunghi periodi e manifestarsi solo al momento opportuno (oppure come asimmetria tra il potere dei media e quello degli altri sistemi sociali).
Il contributo dell'evoluzionismo sociale postula il costante adattamento delle realtà sociali nei confronti dell'evoluzione verso forme sempre più complesse della società; ebbene la teoria non dimentica questa lezione e ne sottolinea la rilevanza in merito al rapporto politica-sistema dei media: la dipendenza è sempre in aumento ed è reciproca. Si parla di “effetto onda”: i cambiamenti che si verificano nella società si ripercuotono conflittualmente sui rapporti tra i diversi sistemi (politico, economico, mediale, etc.), quindi sulle organizzazioni (corporazioni, movimenti, etc.), poi sulle reti personali e dunque sugli individui.
Il sistema dei media, secondo tale concezione della dipendenza, è indispensabile, oggi, per tutti i sistemi sociali.


Seconda parte
CAMPAGNA ELETTORALE ED OPINIONE PUBBLICA

Testi di riferimento:

  • Mazzoleni, G., La comunicazione politica, Il Mulino, 2004 (capp. 1, 5-8);
  • Sampugnaro, R., Fare campagna fuori dai media. Tendenze postmoderne e persistenze tradizionali a Catania: un confronto fra Amministrative ed Europee, in Merletti, C. (a cura di), Il leader postmoderno, Franco Angeli, 2007;
  • Grossi, G., L'opinione pubblica. Teoria del campo demoscopico, Laterza, 2004.

Modelli e definizioni del «campo» della comunicazione politica
Il “campo della comunicazione politica” ha origini antiche, ritrovandosi nel pensiero di molti filosofi dell'antica Grecia, primi fra tutti Platone e Aristotele. Con la retorica latina, su tutti Cicerone, ha luogo il vero “laboratorio” delle dottrine politiche, coltivando quell'aspetto della comunicazione che è la persuasione. In senso pieno, però, la comunicazione “politica” per come oggi si intende si sviluppa nel Novecento, solo con l'avvento della comunicazione di massa.
A partire da ciò, il primo modello fondamentale che viene delineato è quello di Habermas, che ritiene il pubblico dei cittadini un pubblico attivo, informato e «depositario delle strutture e dei processi della democrazia, cioè del controllo e della gestione del potere, della rappresentanza della volontà popolare, della discussione e dell'opinione pubblica, della pubblicità». Dahlgren distingue, in quella che Habermas chiama “sfera pubblica”, una sfera pubblica “culturale” da una “politica”. Mentre nella prima circolano idee e discussioni sulla letteratura e sulle arti, la seconda si caratterizza per la relazione stretta con la democrazia, il luogo dove il pubblico dei cittadini può discutere degli interessi condivisi, essenziali per la democrazia. Poi Pizzorno criticherà la concezione di Habermas proponendo la “sfera pubblica” come, piuttosto, «il terreno della retorica discorsiva, della negoziazione, del confronto identitario»: infatti l'opinione pubblica non nasce dalla verità, come dice Habermas, bensì da giudizi di valore. I due elementi della “sfera pubblica” sono quindi tanto la democrazia quanto il mercato, nella fattispecie il “mercato delle idee” di cui parla Ginsberg.
Il secondo modello è detto “pubblicistico-dialogico” e consta di tre parti: il sistema politico, il sistema dei media e i cittadini, che condividono uno spazio ai cui bordi sta la comunicazione politica e al cui centro risiede la cosiddetta “comunicazione politica mediatizzata”. Tale modello è oggi superato da quello “mediatico”, terzo ed ultimo, che vede il sistema politico e i cittadini “immersi” nel sistema dei media, non più alla pari rispetto agli altri due bensì in veste di cornice, di sfondo, di territorio comune in cui si trovano gli altri due sistemi. Esistono dunque dei flussi tra i sistemi, secondo questo schema:

  • dal sistema politico
    • verso il sistema dei media, caratterizzato da
      • regolamentazione,
      • media information management” (il sistema politico cerca di manipolare i media tramite, ad esempio, la “lottizzazione”),
      • fonte di informazione (scambio tra le due parti),
    • verso il cittadino, caratterizzato da
      • comunicazione pubblica o istituzionale,
      • contatto personale,
      • pubblicità (non più propaganda);
  • dal cittadino
    • verso il sistema politico, per mezzo di
      • voto,
      • dibattito pubblico,
      • interazione diretta,
      • sondaggi di opinione (solo come ipotesi),
    • verso il sistema dei media, per mezzo del “feedback”;
  • dal sistema dei media
    • verso il sistema politico, caratterizzato da presenza di
      • informazione (tradizionale referenzialità giornalistica),
      • vigilanza e critica,
      • “collateralismo” (i media come portavoce di lobby politiche),
      • “mediatizzazione” («quando i media impongono i propri formati ai messaggi provenienti dal sistema politico»),
    • verso il cittadino, con mezzi quali
      • informazione (spesso “infotainment”),
      • manipolazione (con logiche di parte),
      • pubblicità del partito o del candidato.

Secondo Gerstlé quasi tutti i comportamenti politici implicano il ricorso ad una qualche forma di comunicazione, con tre fondamentali dimensioni: “pragmatica”, “simbolica” e “strutturale”. La prima serve a convincere, la seconda ingloba i riti del consenso e del conflitto e la terza è quella che transita sui canali istituzionali, mediali e interpersonali. Al contrario di chi crede che la comunicazione politica distorca  la politica stessa, per Wolton è la comunicazione politica a rendere possibile la politica nella democrazia di massa.
Gli studi sulla comunicazione politica sono ormai ben avviati a costituire una disciplina matura ed è già possibile stilare un elenco dei contributi europei a questo tipo di ricerche (anche se resta evidente l'influenza dei lavori d'oltreoceano):

  • il superamento del modello lazarsflediano,
  • una prospettiva olistica,
  • l'approccio cognitivo “misto”,
  • l'incorporamento della prospettiva normativa nell'analisi del sistema dei media nell'arena politica,
  • l'enfasi sull'interazione tra media e politica,
  • l'analisi longitudinale delle tendenze nella comunicazione politica.

Fare campagna fuori dai media: la comunicazione diretta
Si può condurre una campagna elettorale anche facendo a meno dei mezzi di comunicazione di massa nell'era dei media? Assolutamente si. Anzi, si sta verificando una rivalutazione della comunicazione diretta come strumento di mobilitazione sociale. E non si tratta di un “ritorno al passato”.
In un primo periodo la campagna era “local-active” (a raggio locale, puntando sul territorio) e i messaggi erano «perlopiù rivolti all'elettorato identificato e agli appartenenti al partito». In un secondo periodo (durante gli anni Sessanta fino agli Ottanta) le campagne diventarono «più centralizzate, professionali e costose». L'esperienza divenne più passiva e buona parte degli elettori divenne «distaccata e “disengaged”». Il terzo ed ultimo periodo, quello che Norris definisce “post-moderno”, comincia intorno agli anni Novanta. Si verifica una maggiore frammentazione dell'offerta cui si accompagna una segmentazione dei pubblici; si usano comunicazioni «più localizzate e interattive» e strumenti più moderni (digitali); ritorna la comunicazione diretta, “face to face”, potenziandosi il ruolo dello staff di consulenti (si crea il leader's office). Il punto è che lo staff è usato con difficoltà dai partiti politici occidentali in quest'epoca di «contrazione della membership», mentre è sfruttata al massimo dalle organizzazioni locali.
Qual'è il peso della comunicazione diretta nelle amministrative (2003) ed europee (2004)? Ne è risultato il seguente elenco:

  • meglio il “faccia a faccia” che il mailing o il telefono,
  • meglio se già conosciuti dal cittadino,
  • meglio se il contatto è ripetuto più volte,
  • meglio i volontari che le agenzie specializzate nella mobilitazione,
  • efficacia dell'«egocentric network» ossia «un set di stimoli provenienti dalle persone con le quali l'individuo è in contatto direttamente e senza mediazione»,
  • fondamentali risultano essere ampiezza e qualità del network individuale,
  • sono rilevanti anche gli “spatial dispersed network” ossia reti che congiungono soggetti “non omogenei” per residenza o per interessi),
  • gli sfidanti sono i candidati avvantaggiati (hanno più ampio margine di miglioramento).

La comunicazione diretta è rivalutata nelle campagne per far fronte alla mancanza di legittimità e alla crisi della rappresentanza, che coinvolgono i partiti. Si rende necessario perciò «aumentare la conoscenza dell'elettorato e investire su una comunicazione mirata e personalizzata». Secondo Gould (dello staff di Blair) è finita l'era del broadcast media, è iniziata quella dei mezzi personalizzati, del narrowcast. Le differenze fondamentali rispetto a prima riguardano:

  1. la scelta degli interlocutori;
  2. la scelta del messaggio, che con la segmentazione del potenziale elettorato e la targetizzazione del messaggio grazie alle nuove tecnologie deve adottare procedure come
    • la costruzione di messaggi differenziati (“different & truths”),
    • provvedere ad un'idonea consegna (“delivering”) cosicché la campagna sia “unique”;
  1. la meta-comunicazione (l'utilizzo mediatico) cioè come il sistema dei media discute gli incontri comunicativi.

Le occasioni di incontro tra i politici e l'elettorato possono essere di quattro tipi:

  1. forme di comunicazione “assicurate al candidato”, cioè all'interno di partiti con elettorato d'appartenenza;
  2. forme “promosse” ossia che richiedono un “minimo impegno dell'elettore” (comizi, incontri organizzati, per simpatizzanti);
  3. forme dette “moltiplicate” che implicano una “ricerca attenta dell'elettore indeciso” (“canvassing”) tentando di moltiplicare le occasioni di incontro per l'elettorato indistinto (sia “porta a porta” che in luoghi pubblici);
  4. forme “selettive”, simili alle “moltiplicate” ma si tratta di incontri “caldeggiati dal politico” e dunque con carattere più selettivo (incontri nei luoghi di lavoro, in case private, etc.).

La comunicazione deve essere voluta, con una conoscenza preventiva dell'elettorato, passando così dall'«interruption marketing», che prevedeva “i volantini infilati sotto la porta”, al «permission marketing» che invece offre un contatto voluto anche dall'elettore.
La vera e propria campagna elettorale al di fuori del campo dei media di massa si articola in tre fasi:

  • la ricerca della visibilità sociale, la cui applicazione in Sicilia produce ottimi risultati (l'83% dei soggetti presi in esame è in contatto personale con un candidato, in particolar modo in occasione delle amministrative e con una maggiore propensione per candidati del centro-destra), si ottiene tramite
    • la costruzione di eventi dove il candidato testimonia di aver raggiunto un obiettivo (inaugurazioni, report di ricerca, etc.),
    • la costruzione di eventi (convegni, concerti, feste, cene, etc.) che consentono al candidato di incontrare target selezionati e difficilmente raggiungibili,
    • la frequentazione di luoghi che raccolgono tradizionalmente molte persone (mercati rionali, eventi organizzati da altri soggetti, cerimonie religiose, etc.);
  • la scelta dei luoghi, con rilevanza delle comunicazioni “moltiplicate” e “selettive” (difatti il 33% delle occasioni di penetrazione sono quelle che i candidati tendono a moltiplicare nel corso della campagna);

 

  •  
  • l'attivazione delle reti, sia di quella “primaria” che di quella “secondaria” (cioè intermedia), secondo la nota “legge dei legami deboli” di Granovetter; la mobilitazione può, comunque,
    • distinguersi in
      • “diretta” (i partiti contattano i votanti per convincerli a votare per loro),
      • “indiretta” (la gente è spinta dai propri “social networks” ossia amici, parenti, colleghi e vicini di casa);
    • essere suddivisa, come fa McLung, in due tipi di “influenze”, che sono
      • informational contagion”, che comprende le ipotesi dette
        • “del volume”, per cui i contatti realizzati dal partito creano scambio di informazione politica nelle reti sociali spingendo la gente a parlarne,
        • “del contenuto”, per cui i contatti iniziali da parte delle élite politiche influiscono sul modo in cui gli individui parlano di politica,
      • behavioral contagion”, ossia l'ipotesi secondo la quale non importa cosa si dice di politica ma “contagia” già il solo essere “politicamente schierati” o “attivi”;
    • presentare diverse modalità di contatto, quali quelle
      • inter-personale (meno influente),
      • familiare,
      • mediata da un'associazione,
      • mediata da una rete di sostenitori,
      • mediata da un amico,
      • per lettera o mailing (risultata molto influente).

Si è ottenuta, così, una serie di risultati sulla campagna elettorale fuori dai media, ovvero:

  • una differente capacità di mobilitazione da parte dei due poli,
  • un'esposizione prevalente verso uno solo dei due poli da parte degli elettori,
  • il centro-destra più capace di mobilitare e attivare contatti a largo raggio (nel caso di contatto diretto),
  • riattivazione e rafforzamento piuttosto che conversione e recupero al voto dall'astensionismo,
  • il ruolo della famiglia come “cassa di risonanza” della campagna elettorale (in particolare nelle amministrative) per cui ogni contatto diventa “contatto familiare” (trasmettendo la comunicazione politica a giovani e donne),
  • le donne sono meno esposte all'attività dei candidati e ai riti della politica (leggero il divario nella comunicazione “moltiplicata”),
  • le donne occupate presentano maggiore esposizione alla politica rispetto alle non occupate,
  • buona esposizione dei giovani (16 – 29 anni).

Si può stabilire che l'attività diretta sul territorio, «condotta dai candidati con gli strumenti tradizionali della comunicazione politica, può migliorare la visibilità della campagna elettorale e determinare l'attivazione di un grande numero di contatti, anche in presenza di una disaffezione del cittadino nei confronti della politica», differentemente rispetto a quanto si verifica in occasione delle campagne che vengono affrontate con l'ausilio dei mezzi di comunicazione di massa.

La campagna elettorale nell'era dei media
Le ricerche sulle campagne elettorali esauriscono circa due terzi dell'intera produzione scientifica sulla comunicazione politica. Se ne distinguono due tipi:

  • la campagna elettorale dei soggetti politici, in cui il messaggio è
    • mirato,
    • persuasorio,
    • autoprodotto,
    • veicolato dai media;
  • la campagna elettorale dei mass media, in cui il messaggio è
    • non mirato
    • comunicazione informativa-referenziale
    • critico,
    • non persuasorio.

In questo secondo caso si parla di due schemi: o si attua il «noi contro loro», più usato in Europa, per cui il candidato fa leva sul “suo” pubblico senza rivolgersi alla parte restante del pubblico che non gli interessa o non può coinvolgere; oppure la «conquista di tutti», più usato in U.S.A., quando si fa riferimento alla totalità del pubblico indifferenziato, non a dei segmenti definiti. Tuttavia, si fa sempre meno ricorso a questo “doppio modello” in quanto superato ed eccessivamente teorico.
Sintomo primario della modernità delle campagne è senza dubbio l'uso dello spot. Per Devlin lo spot (il primo si realizzò nel 1952 per Eisenhower) può essere di vario tipo:

  • “mezzobusto” (solo il candidato che parla),
  • “negativo” (contro l'avversario, in certe nazioni è proibito),
  • “cinema-verità” (momenti della vita reale del candidato)
  • “documentario” (azioni realizzate col partito e meriti professionali del candidato),
  • “intervista alla gente” (dichiarazioni a sostegno del candidato da parte di gente comune),
  • testimonial” (personaggio famoso che incita il voto).

In Italia lo spot è entrato autonomamente alla fine degli anni Settanta ma poi fu proibito dalla “par condicio” nel 1996. Secondo Rodotà e Sartori si nascondono «astuzie ideologiche» in molte vittorie politiche recenti, mentre secondo Franklin il costo dello spot può avvantaggiare alcuni politici a scapito di altri. Eppure Popkin, ex consulente nella campagna di Carter, contesta queste astuzie e Trent & Friedenberg rilevano come le “dirty politics” erano una realtà ben prima dell'era televisiva. A rendere “moderna” la campagna elettorale, a parte la presenza dello “spot” che ha portato Franklin a dire che la televisione è l'essenza della campagna elettorale, sono tre fattori:

  • la laicizzazione e commercializzazione dell'arena politica (la perdita di rilevanza, per un partito, di una determinata ideologia o di una appartenenza subculturale),
  • l'aumento della disponibilità di canali mediali per la comunicazione politica (dove purtroppo la pluralità di canali non corrisponde spesso al pluralismo),
  • la professionalizzazione della politica e delle sue attività comunicative (teorizzata sin dal 1942 da Schumpeter, si sente l'esigenza di assumere consulenti professionisti non politici per affidare loro la strategia dell'intera campagna o di un singolo evento).

Insomma, il modo di fare campagna «perde i connotati un po' militaristici per acquisire quelli “mercantili”». Classico esempio rimane quello del presidente Nixon, la cui immagine fu ricostruita da professionisti come McGinnis (Come si vende un presidente), in occasione delle presidenziali del 1968. Vanno però distinti a livello terminologico il marketing sociale da quello politico o elettorale:

      • il marketing politico è quello attuato quando la caccia al voto è conclusa e si compete “in tempo di pace”;
      • il marketing elettorale è quello che implica strategie e strumenti tipici di una competizione “di conquista” (anche se in clima di “campagna permanente” è difficile distinguerlo dal marketing politico);
      • il marketing sociale è composto dalle attività svolte da enti pubblici o no-profit per informare e sensibilizzare su temi e problemi di interesse sociale.

In buona sostanza il marketing politico-elettorale corrisponde a quanto teorizzato da Machiavelli: bisogna puntare a un tempo sull'immagine e sullo spettacolo. Si può formulare così la definizione di “marketing politico” come «un insieme di tecniche aventi come obiettivo di favorire l'adeguamento di un candidato al suo elettorato potenziale, di farlo conoscere al maggior numero di elettori e a ciascuno di essi in particolare, di creare la differenza con i concorrenti e di ottimizzare il numero di suffragi che servono nella campagna». Maarek divide gli strumenti del marketing in tre categorie: le tecniche tradizionali, quelle audiovisive (tribune autogestite, spot, partecipazione a programmi culturali, etc.) e tecniche di marketing “diretto” (mailing, telemarketing, etc.). Tutto ciò, previa analisi del mercato da parte di consulenti, la cui professione è relativamente giovane: il termine risale al libro di Sabato (1981), The Rise of Political Consultants, mentre il primo caso di consulenza si registra nel 1934 per le elezioni del governatore della California da parte dell'agenzia Whitaker & Baxter, fondata per l'occasione.
Tuttavia, per Bongrand si tratta non di manipolare ma di «sedurre informando». In ogni caso, la spettacolarizzazione indubbia della politica ha condotto i politici «a costruire una fisionomia attraente più che vantare le qualità oggettive». Il fatto stesso di apparire in televisione diviene un marchio di “politico autentico da votare”.
Ci si rende presto conto che il mezzo televisivo è un attore a tutti gli effetti sul campo della politica: «la media politics implica la necessità di prevenire la notizia e di adattare le strategie di campagna a queste attese». Il potere “di agenda” dei media è determinato, secondo Arterton (1984), da diversi fattori:

  • la forza del sistema dei partiti (più forte è il partito, più il giornalista tenta di influire sulla sua agenda),
  • l'equilibrio tra servizio pubblico e sistema commerciale (una forte emittente commerciale spinge i giornalisti a incidere sull'agenda dei partiti allontanandosi dalle posizioni degli stessi),
  • il grado di competizione all'interno del sistema mediale stesso (la concorrenza spinge all'attenzione agli interessi del pubblico elettorale),
  • il rado di professionalizzazione della campagna (più operano consulenti, più ai newsmedia viene concesso potere discrezionale),
  • le differenze culturali (dove c'è più stima per la politica e per i politici, i media concedono più libertà di gestione dell'agenda),
  • l'orientamento ideologico dei media (influenzando i temi),
  • lo status del candidato (se uscente è avvantaggiato perché ha maggiori possibilità per condizionare i media informativi),
  • le regole di equità e di non faziosità dei giornalisti,
  • lo spazio informativo disponibile (la stampa ha generalmente più spazio rispetto alla tv).

Inoltre non va trascurato il ruolo del singolo giornalista in quanto “comunicatore primario” dell'informazione politica, elemento di attrazione e mediazione tra politici e pubblico. Tutto ciò porta i politici a considerare i media come un «elettorato alternativo».
Le tecniche utilizzate più spesso dai consulenti politici sono:

  • tenere un congruo numero di conferenze-stampa per richiamare l'attenzione sulle proprie posizioni,
  • organizzare incontri od eventi in tempo utile per la confezione dei giornali (televisivi e stampati),
  • assicurare ai media un messaggio preconfezionato secondo i loro canoni,
  • approfittare della concorrenza tra media per concedere “scoops”,
  • offrire assistenza di ogni tipo ai corrispondenti della campagna,
  • attaccare con pubblicità negativa gli avversari politici.

I media adottano a loro volta controstrategie che possono condurre a patteggiamenti o ad antagonismi.

I caratteri della copertura informativa
Le logiche dell'informazione elettorale sono molto semplici:

  • l'omogeneizzazione dei processi produttivi in base a
    • la “digeribilità” della notizia politica, la sua appetibilità per il grande pubblico,
    • la “commercializzazione”, preferendo il sensazionale all'abituale;
  • trovare gli elementi “notiziabili” nell'informazione “grezza”, per così dire, ottenuta alla fonte (per i media la notizia coincide con l'avvenimento);
  • la semplificazione dei meccanismi elettorali per facilitarne la copertura e la resa “agonistica”;
  • la riduzione dei contenuti del confronto tra partiti, per venire incontro «ai formati e alle finalità produttive dei vari newsmedia», che prediligono i “sound bites” (brevi e populistiche citazioni, slogans) rispetto alle discussioni approfondite.

Quelli che, invece, possono dirsi i generi di informazione elettorale sono due, con le loro suddivisioni:

  • la stampa
    • cronaca
    • semplice
    • di colore e/o satirica
    • informazione di servizio,
    • editoriale e commento,
    • intervista,
    • inchiesta o reportage speciale;
  • la televisione
    • telegiornale,
    • dibattito (storici quelli tra Kennedy e Nixon nel 1960, i primi dell'era televisiva),
    • talk shows (la forma più semplice di “infotainment”),
    • satira televisiva (genere poco studiato ma importante),
    • intervista.

Quest'ultimo genere merita particolare attenzione, non solo perché molto apprezzato dal pubblico per la sua “imprevedibilità”, ma anche perché conferisce visibilità al candidato (che generalmente preme affinché si faccia, allo scopo di poter esprimere le proprie opinioni pubblicamente) e rappresenta per il giornalista un'occasione per ottenere riconoscimenti all'interno della redazione così come per il politico può rappresentare un pericolo, cui generalmente sfugge per mezzo di diverse tecniche, quali:

  • ignorare la domanda,
  • riconoscerne il senso senza però rispondervi a tono,
  • chiedere chiarimenti,
  • smontarne le premesse,
  • attaccare l'intervistatore,
  • rifiutarsi di rispondere,
  • «alzare una cortina fumogena di ragionamenti politici»,
  • fornire una risposta incompleta,
  • ripetere una risposta ad una domanda precedente,
  • affermare che la domanda ha già avuto risposta in precedenza,
  • chiedere scusa.

Per quanto concerne invece le issues (i temi), esse si distinguono in:

  • “pure” (quelle non prodotte dal sistema politico né dal sistema dei media, come il tema giustizia),
  • “riflesse” (dai media, dunque create dai partiti),
  • “indotte” (dai media, dunque da essi creati).

Si possono poi classificare anche in:

  • political (la parte più astratta del confronto tra partiti, visioni ideologiche, etc.),
  • policy (le politiche governative, amministrative e legislative),
  • campaign (strategie delle campagne elettorali),
  • personal (vita e attività del singolo esponente politico).

La mediatizzazione in U.S.A. arriva a far prevalere le campaign issues sulle policy issues. In Italia le ricerche mostrano dati più confortanti, di una informazione non necessariamente distante dai problemi più concreti.
In ultimo, non va dimenticato il ruolo dei sondaggi pre-elettorali nei media: essi si integrano perfettamente, sin dalla loro nascita (negli anni Trenta), con i media grazie alla semplificazione, cui ricorrono peculiarmente, sia per la loro rilevanza (in America i sondaggisti sono considerati áuguri).
Si considerano due tipologie di effetti di sondaggi pre-elettorali e cioè

  • l'effetto “bandwagon” (“salire sul carro” del vincente),
  • l'effetto “underdog” (optare per il perdente)
  • restando libera la terza opzione di non subire nessuno dei due effetti, pensando che sia indifferente andare o no a votare.

I sondaggi, inoltre, sono importanti per il voto elettorale, producendo tre effetti, come afferma Ceri, ossia: sui politici, di legittimazione degli stessi e sugli elettori.
Nota Cayrol che la televisione stessa è la campagna, con la capacità di delocalizzare lo spazio d'azione della stessa (nei soli casi di programmi nazionali, comunque), anche per mezzo, aggiunge Selnow, di back-channels o canali informativi alternativi e new media.
Sicuramente tutto ciò si espone a delle riflessioni critiche, come nel caso della faziosità delle reti berlusconiane nella campagna elettorale del 1994 e, dall'altra parte, la parzialità del servizio pubblico a danno dello stesso Berlusconi. Ad ogni modo, le critiche si concentrano su:

  • la complicità (collateralismo, collusione, fiancheggiamento) di politici e giornalisti, argomentata in due modi e cioè
    • affermando che i giornalisti fanno parte della stessa élite dei politici, assicurandosi reciproca visibilità e prestigio,
    • affermando anche che i media sono obbligati a dipendere da fonti pubbliche per la “materia prima”, trovandosi dunque in posizione di debolezza rispetto al potere politico;
  • l'insistenza dei media sulle immagini, sugli pseudo-eventi, sul pettegolezzo penalizza l'attenzione alle cose serie, portando gli elettori a cogliere i messaggi politici sotto i filtri mediatici della personalizzazione e spettacolarizzazione (una «distorsione preoccupante»);
  • l'attivismo politico (vizio opposto al commercialismo) mina la stima e la fiducia verso la politica;
  • l'avversione preconcetta a politici e partiti da parte di molti giornalisti, che rende talvolta impossibile per gli elettori fidarsi di loro;
  • la routine di selezione degli eventi-notizia politici, spesso distante dall'opinione del pubblico;
  • l'effetto “setaccio” per cui solo i politici “telegenici” sono degni di essere considerati tali, «con immaginabili conseguenze sulla vita politica di un paese»;
  • l'ipermediatizzazione dei sondaggi elettorali (secondo Bourdieu).

Gli effetti della comunicazione politica sul cittadino-elettore
Sugli effetti è possibile ricostruire una vera e propria storia degli studi che, dopo la la teoria del proiettile magico, hanno approfondito tale aspetto. Dopo la Columbia School di Lazarsfeld, Merton, Berelson, Katz e altri di cui si è detto in precedenza, si ricorda in particolare la Michigan School del Survey Research Center, costituita da studiosi come Campbell, Converse e Miller, i quali hanno dato la luce – intorno alle presidenziali del 1952 – a scritti fondamentali come The People elect a President (1952), The Voter Decides (1954) e The American Voter (1960). Si afferma ivi che l'identificazione partitica spiega il voto, ovvero: è l'orientamento soprattutto di carattere affettivo che determina (o comunque influenza) la decisione di voto. Seguì difatti una crisi in occorrenza della caduta del sistema bipartitico su cui hanno scritto Nie, Verba & Petrocik (1976) con il loro The Changing American Voter, secondo cui «i media sono diventati i più importanti canali della comunicazione elettorale, i partiti il canale meno importante». Dopo la riscoperta del potere dei media, l'egemonia statunitense delle ricerche sulle comunicazioni di massa ha il suo epilogo.
L'«ambiente comunicativo», in cui il cittadino si trova a crescere, è formato da tre elementi o attori, secondo il seguente schema.

  • I mass media, come
    • fonte di conoscenza politica;
    • possibile strumento di persuasione;
    • fornitore di “chiavi interpretative” o “frames” della realtà politica, con determinate variabili
      • relative all'emittente, quali
        • la credibilità,
        • la capacità di attrazione (la tv telematica, con crescente differenziazione del prodotto, anche in radio, a danno della qualità),
      • relative al messaggio, classificate in base alla
        • forza “esterna”, quali
          • la “salienza” ossia il livello di interesse per l'uditore, che i media ottengono
            • scoprendo, prima, con ricerche di mercato, gli interessi, i gusti e le tendenze del pubblico potenziale,
            • rispondendo, poi, a tali gusti con un prodotto adatto,
            • creando infine nuova salienza attraverso tematizzazione,
          • la “intensità” ossia la copertura insistente di un tema (agenda setting),
          • la ripetizione, reiterazione e dunque familiarizzazione di un contenuto,
          • la differenziazione sia dei contenuti che del loro “confezionamento”,
        • forza “interna”, quali
          • la “unilateralità / dialetticità” del messaggio (in certi casi meglio non esporre l'obiezione, in altri è meglio sentire anche la controparte),
          • l'ordine di presentazione dei contenuti (legge della “primacy” o della “recency”).
  • L'interazione sociale o la comunicazione interpersonale, che si sviluppa su tre livelli, ossia
    • l'influenza tra due persone (il “two step flow” lazarsfeldiano), dove
      • l'uno ha maggiori competenze ed è più esposto all'informazione mediale,
      • l'influenza del leader d'opinione è più forte di quella esercitata dai media se c'è discordanza tra i due;
    • l'influenza tra gruppi di persone (più il gruppo è coeso più è influente);
    • l'influenza del clima d'opinione sull'individuo (la “spirale del silenzio” di Noelle-Neumann).
  • I soggetti politici, in particolar modo ideologie e dibattiti coinvolgenti anche la sfera affettiva ed emotiva.

Anche se «è impossibile che i media siano l'unica causa necessaria o sufficiente di un effetto, e il relativo contributo è assai difficile da soppesare», si possono rintracciare delle variabili dipendenti dell'azione comunicativa:

  • la socializzazione politica, ovvero il processo col quale «i bambini acquisiscono gli atteggiamenti e i comportamenti appropriati al ruolo di futuri cittadini» per poi venir trasmessi di generazione in generazione, distribuito nelle diverse età
    • prescolare (in cui non c'è ancora consapevolezza politica «come sfera distinta della vita umana»),
    • di 7 anni (in cui si comincia ad avere idea del “ruolo politico” vedendo i politici come importanti e potenti),
    • di 9-10 anni (in cui si capiscono le elezioni e le lotte tra i partiti per vincerle),
    • di 11 anni (in cui si comprende l'ordinamento gerarchico tra autorità pubbliche),
    • di 12 anni (in cui si ha consapevolezza che «in politica si prendono decisioni e c'è disaccordo tra i politici sul da fare»),
    • di 15-16 anni (in cui il conflitto tra i partiti è compreso come specchio del conflitto tra interessi e ideologie contrastanti);
  • l'apprendimento informativo, attraverso il quale il cittadino può
    • imparare a ricorrere a delle “scorciatoie” o “information short-cuts” per ottenere vantaggi col minimo sforzo (Popkin e Downs parlano di “razionalità a bassa informazione” o “low information rationality”), tanto che si pensa che l'opinione pubblica si fonderà sempre più su «credenze già consolidate e su scorciatoie intellettuali piuttosto che su un'analisi approfondita delle molte informazioni disponibili»; difatti i bene informati sono in minoranza, la maggior parte tende ad essere “generalista” sulle informazioni politiche e le disuguaglianze sono causate da
      • differenze individuali,
      • differenze sociali,
      • differenze economiche,
      • fattori come
        • motivazione,
        • interesse,
        • istruzione,
        • ambiente informativo;
    • incontrare “barriere” all'esposizione alla comunicazione politica, che Graber individua nel
      • lo scarto tra il tipo di informazione elettorale prodotta dalla copertura mediale e gli effettivi interessi del pubblico,
      • cattivo confezionamento dell'informazione, che risulta noiosa o insulsa, scoraggiando il pubblico ad esporvisi,
      • formato delle notizie, poco “user-friendly” e difficili da seguire,
      • la scorretta rilevazione del reale livello di conoscenze politiche dei cittadini (errori tecnici dei sondaggisti);
  • la partecipazione alla vita politica, che è definita «quell'insieme di atti e atteggiamenti diretti ad influenzare più o meno legalmente, più o meno direttamente, le decisioni dei detentori del potere politico» per conservare e modificare la struttura e i valori del sistema di interessi dominante; per Pasquino esiste la partecipazione
    • “visibile”, che è individuabile, attiva e studiabile,
    • e quella “invisibile”, che esiste pur non essendo attiva, per cui il voto è tutt'al più una “variante” della partecipazione (non è “conseguente”), partecipando solo per “sentirsi parte” di qualcosa o per interessi; alla luce di ciò, esistono diversi studi (pessimisti e ottimisti) che cercano di spiegare l'apatia o il disimpegno del cittadino,
      • il primo gruppo comprende gli studi di Lazarsfeld & Merton (1948)Paletz & Entman e Verba & Nie, secondo i quali i mass media svolgono, più che una funzione, una “disfunzione narcotizzante”, per cui la tv impedisce l'allargamento dell'impegno politico perché «addormenta sulla poltrona» (come nello sport); in Italia i “disimpegnati” e i “marginali” erano tra il 60 e il 75% dell'elettorato nel 1994 (Mannheimer & Sani), ma mentre negli U.S.A. si colpevolizza la tv, in Europa le si addossa la colpa contraria, cioè di non smuovere dalla passività l'elettore non votante;
      • il secondo gruppo comprende gli studi di Dayan & Katz e Weaver & Graber, secondo i quali almeno la tv assolve la funzione di informare chi altrimenti non potrebbe votare perché totalmente disinformato;
  • la formazione delle scelte di voto, il «mistero centrale» di tutte le indagini politologiche, presenta
    • tanto delle teorie cui fa capo, come
      • il determinismo sociale,
      • l'influenza personale,
      • l'identificazione di partito,
      • l'«issue voting»,
      • il «candidate evaluation»,
      • il modello del consumatore,
      • il modello del mercato elettorale,
      • la teoria “del prospetto”, elaborata da Tversky & Kahneman (1981), secondo la quale «la decisione del soggetto è fortemente condizionata dal modo in cui gli si prospettano i diversi possibili esiti delle alternative decisionali»;
    • quanto delle “variabili comunicative”, distinte topologicamente
      • in variabili valide in U.S.A, che sono
        • l'identificazione di partito,
        • l'immagine del candidato,
        • le posizioni del candidato sulle issues,
      • e in variabili valide in Italia, paese in cui,
        • secondo Mannheimer & Sani, il voto è “obbligato” perché contano
          • la preferenza politica negativa (l'odio per l'avversario),
          • l'identificazione partitica (come in U.S.A.),
          • l'identificazione di area (centro, destra e sinistra),
          • l'immagine del leader (generalmente il più “mass-mediatico”);
        • secondo Ricolfi, le elezioni di Berlusconi del 1994, che rilevarono un 38% di elettorato che decise di cambiare decisione di voto in suo favore in meno di un mese, se lette sulla base della programmazione Rai e Fininvest, possono essere interpretate affermando che le reti berlusconiane, concedendo più tempo a Forza Italia, limitavano la “libertà di rielaborazione” da parte dell'elettore in suo favore (3% di spostamenti da altri partiti di destra), anche se la stessa Rai aveva contribuito a spostare il 5% di voti da sinistra a destra (per un totale di un vantaggio dell'8% per Forza Italia); ad ogni modo, è un errore pensare che «la televisione nel suo complesso possa influenzare in un determinato senso coloro che vi si espongano»;
  • le dinamiche dell'opinione pubblica, la cui esistenza è già oggetto di indagine; difatti essa “non esiste”, tuttavia c'è chi pensa che non si tratti soltanto di un costrutto mentale, dando rilevanza ai suoi effetti reali; può essere anche vista sia come fenomeno individuale che come comportamento collettivo; va detto che
    • la gente reagisce criticamente agli stimoli nella misura in cui è informata,
    • si rielaborano gli schemi mentali ogni volta che c'è una nuova issue,
    • nel costruire l'opinione si consolida l'idea con maggiore salienza,
    • il pubblico si può dividere, per i sondaggi, in
      • pubblico “generale” (“mass opinion”),
      • pubblico “attento” (élite informata),
      • pubblico “attivo” (meno in U.S.A. che in Europa),
      • pubblico “degli elettori” (il più sondato in assoluto);
    • l'opinione pubblica diviene reale solamente nel momento in cui viene diffusa dai media divenendo attore politico vero e proprio (come in Italia nel 1994), perché produce opinione e influenza, auto-referenzialmente, proprio in base alla convinzione che i sondaggi stessi influenzino.

L'opinione pubblica
La democrazia, secondo Sartori, si può declinare come “videocrazia” e “sondocrazia”, tale e tanto è l'uso che si fa oggi di televisione e sondaggi. Per Cotta, invece, l'opinione pubblica è proprio «il senso della democrazia stessa».
Si possono ricordare alcuni casi “chiave” in cui l'opinione pubblica ha avuto la sua manifestazione storica più lampante, fino ad oggi, e cioè:

  • il «J'accuse» di Zola in occasione del caso Dreyfus (1898), processato ingiustamente per spionaggio, primo caso di mobilitazione dell'opinione pubblica;
  • la sfida di Gallup (1936) alla rivista Literary Digest sull'elezione di Roosevelt (per una sondaggistica più scientifica), promuovendo così la teoria populista dell'opinione pubblica;
  • Bernstein e Woodward del Washington Post che avviano lo scandalo “Watergate” su Nixon (1972), sottolineato da Lang & Lang (1983);
  • Bush che sacrifica la propria immagine pubblica, sfidando quella che sarà chiamata l'Opinione Pubblica Mondiale per la guerra “preventiva” contro l'Iraq di Saddam Hussein (2003).

Il termine “opinione pubblica” è stato coniato molto probabilmente da Rousseau tra il 1744 e il 1750 (o forse da Necker intorno agli stessi anni) e si basa su tre elementi:

  • la sovranità popolare,
  • l'uguaglianza politica,
  • le regole della maggioranza.

Si possono inoltre rilevare due tronconi della riflessione filosofica sulla democrazia, strettamente legata com'è allo sviluppo dell'opinione pubblica, e sono:

  • la tradizione liberal-democratica inglese del '600, con a capo figure come Bentham, per cui l'opinione pubblica è «il tribunale della politica», capace di errore ma non incorruttibile;
  • la tradizione illuministica francese del '700, radicale e post-rivoluzionaria, per cui l'opinione pubblica è quella di un ceto ristretto (Kant pensava che la “pubblicità” fosse uno strumento degli intellettuali per “ragionare” con lo Stato e col popolo).

Da qui derivano le concezioni dell'opinione pubblica che diedero vita al dibattito tra i padri fondatori, concezioni distinte in base a:

  • l'autodirezione, cioè la formazione dal basso (che poi fu accolta dai “populisti”, che ebbero la meglio, tra cui Jefferson),
  • l'eterodirezione, cioè la formazione dall'alto (posizione fatta propria dagli “elitisti” come Madison).

Solo la comunicazione mediale può però essere quell'elemento che conduce alla odierna concezione di opinione pubblica, oltre l'idea di democrazia e di sfera pubblica (introdotta da Habermas).
Il ruolo dei media è quello di “generalizzare” la sfera pubblica creando “pubblicità mediata”. Price (1992) a questo proposito parla di tre competenze:

  • di attrarre l'attenzione (fornire visibilità agli attori politici),
  • di sondare l'opinione (sostenendo orientamenti “come se fossero maggioritari”),
  • di “rifrazione” della realtà sociale dei media stessi (non neutralità dei media nel rappresentare la sfera pubblica, la politica, le varie dinamiche collettive).

Le teorie dell'opinione pubblica si possono suddividere in tre modelli e cinque paradigmi:

  • i tre modelli sono quelli di
    • Lazarsfeld (1957) che divide in
      • tradizione classica o “teorico-speculativa” (normative, astratte e cliniche),
      • tradizione contemporanea (empiriche, rigorose e scientifiche);
    • Crespi (1997) che divide in
      • “elitiste” (ruolo passivo del pubblico, realismo),
      • “populiste” (validità della partecipazione politica, attivo coinvolgimento del popolo nella politica),
    • Devereaux (2000) che divide in
      • “pessimiste” (il coinvolgimento non è necessario né desiderabile, come in Hobbes, Madison e Tocqueville),
      • “pragmatiche” (non è auspicabile ma è necessario, come in Machiavelli e Hume),
      • “ottimiste” (desiderabile e necessario per la democrazia, come in Locke, Rousseau e Bentham);
  • i cinque paradigmi sono invece quelli di
    • Lippmann (1922), che concettualizza per la prima volta la pubblica opinione definendola “un fantasma”, nel periodo della propaganda politica e della nazionalizzazione delle masse; essa ha più base cognitiva che razionale, ovvero usa “stereotipi”, rappresentazioni parziali e semplificate, oltre che acritiche, della realtà;
    • Habermas (1968), che rappresenta la generazione successiva a quella della “teoria critica” della Scuola di Francoforte, ed è accusato di essere astratto, intellettualistico ed intransigente; eppure
evidenzia il ruolo dei media (e delle “relazioni pubbliche”) nell'influenzare il clima d'opinione,
      •  
      • intende passare dal pubblico “culturalmente critico” a quello “consumatore di cultura”, in quanto sempre teso verso due obiettivi ovvero
        • l'emancipazione (del soggetto sociale che “partecipa”),
        • la critica (verso il potere politico e lo Stato);
      • pensa che il capitalismo metta in campo diverse forme di opinione che «non nascono dalla discussione ma dal consumo» e sono viste come oggetto di manipolazione allo scopo del consenso, e sono
        • le “opinioni informali, personali e non-pubbliche” (atteggiamenti e credenze private o diffuse che però non costituiscono “opinione pubblica”),
        • le “opinioni formali, autorizzate e quasi-pubbliche” (opinioni istituzionali e d'élite quindi non “opinione pubblica”),
      • cerca lo spazio per una “opinione pubblica critica” in competizione con le opinioni non-pubbliche e quasi-pubbliche;
    • Luhmann (1978), che ritiene che l'opinione pubblica
      • non sia un effetto ma uno «strumento ausiliare di selezione in un modo contingente»,
      • non serva a formare la “volontà generale” ma a «ridurre l'incertezza», ad «ordinare operazioni selettive»,
      • sia formata attraverso i temi, che anche la strutturano e la istituzionalizzano per mezzo della “pubblicità” che a sua volta è al servizio della politica;
    • Noelle-Neumann (1984), che ha teorizzato, con il modello della “spirale del silenzio”, il conformismo (seguendo così, tra Locke e Platone, il primo in quanto non vede l'opinione come un giudizio ma come consenso) per il controllo sociale e la predominanza della televisione sugli altri media e sulle fonti di “prima mano”;
    • Crespi (1997), che ha sottolineato come
      • l'opinione pubblica sia un processo, non uno “stato d'accordo” di un dato momento,
      • questo processo sia multidimensionale (opinione individuale e opinioni collettive, sociali e istituzionali, etc.),
      • l'opinione pubblica si origini dal conflitto su temi pubblici, non sul controllo sociale,
      • l'opinione pubblica, su un tema, agisca né dal basso né dall'alto, ma sia una transazione, comunicativa e legittimante (infatti è mutevole) agendo, nella fattispecie, in tre modi (“processo tridimensionale”) ossia con
        • transazioni tra individui e ambiente,
        • comunicazioni tra individui e collettività,
        • la legittimazione politica della collettività emergente.

La teoria del «campo demoscopico»
Del fenomeno dell'opionione pubblica rimane, oggi, solo la «concettualizzazione empirica», della quale le teorie e i modelli esistenti non parlano: in cosa cioè essa consista, come si articoli, come operi, quali elementi implichi, quali canali ed ambiti presupponga, etc. Una ricerca empirica in tal senso è quella di Lang & Lang (1983) sul caso “Watergate”.
Sembra conveniente argomentare tale concettualizzazione per mezzo di, in primo luogo, tre dilemmi e una risposta per ciascuno di essi, e in secondo luogo, quattro elementi costitutivi e quattro canali.
Per quanto riguarda la prima parte, si può schematizzare come segue:

  • Dilemma. Data la disuguaglianza nella distribuzione delle informazioni sulla politica (e la natura incerta del processo di formazione delle opinioni), come può un pubblico dare un'opinione comune? Dunque l'opinione pubblica è la somma delle opinioni individuali oppure è un prodotto sociale distinto?

Soluzione. Si spiega con l'adattamento continuo tra opinione individuale ed orientamento collettivo (ambivalenza dell'opinione pubblica).

  • Dilemma (già discusso da Tocqueville). L'opinione pubblica come orientamento maggioritario (caratterizzato dalla debole intensità nel sostenere l'opinione) oppure come opinione dominante (una minoranza ben determinata)? Consenso elettorale a danno delle posizioni più competenti? L'opinione pubblica va considerata come “input” o come “output” del sistema politico? Dunque pubblici attivi o passivi?

Soluzione. L'opinione presenta una “doppia dimensione”, con partecipazione intrinsecamente attiva e passiva, essendo input per la politica ed output persuasivo nei confronti del popolo.

  • Dilemma. L'opinione pubblica va considerata come dialogo, confronto razionale, oppure come relazione emotiva, seduttiva e manipolatoria? Ovvero come esito aggregato di opinioni individuali oppure come risultato di un processo discorsivo (nel tempo)?

Soluzione. Il modello “aggregato” di Gallup non può bastare, è necessario il modello “discorsivo” in base al quale l'opinione pubblica è in continuo cambiamento per favorire «un punto di vista più dialettico e articolato», è un fenomeno collettivo che si articola nel tempo.
Per quanto riguarda la seconda parte, gli elementi costitutivi sono:

  • i pubblici (esistendo diversi pubblici, si può considerare che l'approccio “aggregato” e quello “discorsivo” possano coesistere), distinguibili per
    • quantità, per i quali vale che solo l'interazione tra i diversi tipi contribuisce alla formazione dell'opinione pubblica, sono
      • pubblico generale (“opinione allargata”),
      • pubblico votante,
      • pubblico “attento” (informati e opinion leaders),
    • interesse (Nimmo, 1978; Yeric & Todd, 1983), per i quali vale invece che l'appartenenza ad un gruppo non impedisce di appartenere ad un altro gruppo, sono
      • pubblico monotematico (o “corporativo”),
      • pubblico organizzato (o “acculturato”),
      • pubblico ideologico (su base valoriale);
  • le élite, rappresentanti solo il 5% della popolazione, tematizzano i problemi, definiscono le issues, competono sul “mercato delle opinioni” e cercano di influenzare i pubblici “attento” e “generale”, pur venendo a loro volta influenzati;
  • i media, attore in senso stretto, incidono sulla configurazione del dibattito pubblico (Lazar afferma infatti che «l'opinione pubblica è inseparabile dai mass media»);
  • l'opinione pubblica, che secondo Lazar (1995) si può distinguere in base ai luoghi in cui si produce (differenziandola storicamente in “illuminata” nei cafè tra il '600 e il '700, “gridata” nelle piazze dell'800 e “sondata” e delocalizzata nel '900), è il condensato dello scambio tra i tipi di “prodotti cognitivi e simbolici”, e secondo McIver (1954) e Bottomore (1971) si può separare in
    • opinioni individuali,
    • temi,
    • consenso comune (credenze e convinzioni stabili e durature),

mentre per Nimmo (1978) si può, conforntandosi con Aristotele, dividere in

    • opinione di massa (l'aristotelica “tirannia”) ossia quella della massa intesa come “uno”,
    • opinione di gruppo (“oligarchia”),
    • opinione popolare (“democrazia”);

ad ogni modo è conveniente separare i seguenti tipi di opinione:

    • “allargata” (popolare ed aggregata),
    • “qualificata” (informata e di gruppo),
    • “comune” (consenso comune),
    • “mediale” (col contributo cognitivo dei media come produttori di opinione).

Mentre i canali sono i seguenti:

  • gli stessi media;
  • “le dicerie e i microambienti territoriali” (le prime soprattutto in momenti di crisi, paura e sfiducia generali nelle istituzioni, mentre esempio dei secondi è la federazione leghista di Zermeghedo);
  • le manifestazioni, intese come «una affermazione fisica di una opinione» (Champagne), elovutesi sin dai primi dell'Ottocento, esse diversamente dal sondaggio hanno più intensità cognitiva e danno visibilità alle minoranze (infatti hanno connotazione tipicamente antimaggioritaria);
  • gli opinion leaders, i cui primi rappresentanti furono i fisiocratici del Settecento, sono
    • porta-parola,
    • addetti stampa,
    • public relations men,
    • opinionisti (imbonitore, santone, guru)
    • esperti (commentatori politici, pollsters, osservatori)
    • professionisti del campo demoscopico.

I principi fondamentali della costruzione dell'opinione sono:

  • l'inclusione generalizzata (tutti tendono a rivendicare la propria opinione),
  • l'influenza (tutti possono cercare di influenzare le dinamiche di opinione),
  • la partecipazione differenziata («anche chi si limita a consumare o ad assistere rivendica pari dignità nel valutare poi ciò che vede, ascolta e consuma»).

Paradossalmente oggi l'unico polo democratico pare essere rimasto il campo demoscopico: «per l'esercizio quotidiano del potere democratico è sempre più necessaria non solo una legittimazione continua e “permanente” ma una base universalistica della medesima».
La “sfera pubblica” diventa quindi

        • “micro-sfera” nel caso delle chiacchere interpersonali tradizionali,
        • “meso-sfera” nella dimensione statale,
        • “macro-sfera” nella dimensione transnazionale, dunque comunità “virtuale”.

Sull'«opinion building», alcuni autori hanno prospettive diverse:

  • Lang & Lang (1983) affermano che l'opinione dipende dai media;
  • Crespi sottolinea la “prospettiva transazionale” per cui, cronologicamente,
    • prima si costituisce l'issue condivisa,
    • poi l'opinione,
    • dunque avviene la scomparsa dell'issue dall'agenda;
  • Nimmo (1978) pensa ad una diversa sequenzialità nella formazione dell'opinione, prevedendo
    • prima la costruzione personale (si prendono in considerazione gli eventi),
    • poi la costruzione sociale (espressione pubblica del pensiero privato),
    • infine la costruzione politica (che unisce le opinioni di gruppo e popolari alle attività dei pubblici ufficiali).

Può esserci anche una percezione erronea dell'opinione pubblica, secondo due tipi e tre modalità:

  • i tipi sono
    • prodotta da osservatori esterni al processo,
    • prodotta dai singoli cittadini nel quotidiano;
  • le modalità invece sono
    • sineddoche” (la parte per il tutto, cioè l'opinione della stampa viene scambiata per quella della maggioranza, ad esempio, o al contrario, di una parte per quella di massa), causata da
      • un interprete privilegiato,
      • effetti boomerang (l'opinione pubblica non è quella che si crede),
    • ignoranza pluralistica”, che si può avere in due casi
      • dall'alto, per cui i membri del pubblico ignorano il loro (tacito) accordo,
      • dal basso, per cui più individui percepiscono discrepanza tra la norma sociale vigente e il proprio modo di pensare, dando per scontato che gli altri siano invece in sintonia con tale norma,
    • terza persona”, per cui i più colti sovrastimano l'influenza dei media sugli altri sottovalutandola nei propri confronti.

Si possono anche considerare i dispositivi dell'opinione, ossia:

  • l'imprenditore cognitivo (od opinion leader), «portatore di “competenza” e “coinvolgimento” attivo e imprenditivo», svolge due funzioni
    • priming («stimola l'accessibilità collettiva a certi temi, sollecitando quindi l'attivazione di un confronto di opinione»)
    • framing (fornisce delle chiavi interpretative),

potendo esistere tre tipi di leadership e cioè

    • “formale” (politici, élite),
    • “comunicativa” (i canali informativi),
    • “informale” (i leaders d'opinione della vita quotidiana);
  • il dibattito pubblico mediato, dove gli imprenditori cognitivi si confrontano davanti agli spettatori,
  • il clima d'opinione, decisivo per la formazione dell'opinione pubblica, può essere di due tipi e cioè
    • “mediale” (tramite la percezione giornalistica),
    • “sociale” (tramite interazioni quotidiane).

Si parla inoltre di una vera e propria dualità fondamentale dell'opinione pubblica, tra “oggettivo” e “soggettivo”, che Sartori spiega distinguendola in

  • “positiva” (ruolo attivo, democrazia che sia autogoverna),
  • “negativa” (ruolo passivo, democrazia governata).

Dunque la costruzione dell'opinione si articola per cerchi concentrici in uno schema del seguente tipo:

  • il campo demoscopico contiene
    • i referenti sociali, produttori e consumatori (pubblici, media ed élite), che usano
      • i diversi tipi di opinione (allargata, qualificata, mediale e comune), che influenzano
        • coi dispositivi (imprenditori cognitivi, dibattito pubblico mediato e clima d'opinione), costituendo così
          • l'opinione pubblica.

 

Merita particolare attenzione, in ultimo, il sondaggio. Infatti «il modo in cui conosciamo la realtà coincide con le pratiche colle quali cerchiamo di spiegarla» (Garfinkel). Un discorso articolato nasce dall'affermazione critica di Bourdieu (1967) «l'opinione pubblica non esiste»: i sondaggi producono l'opinione pubblica come «prodotto autocostruito o dissimulato di un particolare approccio empirico che pretende di essere l'unica tecnica scientifica disponbile», il sondaggio stesso inteso come metodo razionalista da Bourdieu.
Si sollevano però quattro questioni su cui indagare:

  • l'oggetto del sondaggio (in Italia c'è chi pensa che sia efficace “a certe condizioni” e c'è chi pensa non colga colga la dimensione profonda dell'opinione pubblica), da stabilire secondo “condizioni preventive” per il formarsi dell'opinione, tra le quali
    • l'interesse,
    • l'attenzione,
    • la quantità di informazione;
  • la qualità del sondaggio (la sua capacità euristica), dovendo verificare il grado di coerenza tra tecniche impiegate e oggetto da analizzare;
  • la funzione del sondaggio nella politica, ovvero
    • rilevare e trasmettere domanda politica,
    • comunicare offerta politica,
    • verificare il consenso;
  • l'impatto del sondaggio sulla democrazia, perché si pensa che esprimere un'opinione tramite sondaggi oggi costituisca una forma di partecipazione democratica fondamentale, con un conseguente svuotamento del ruolo critico dell'opinione pubblica nei confronti del governo, alterando così la percezione collettiva della competizione politica e anticipandone l'esito finale trasformando la campagna elettorale in una gara vera e propria (non più confronto di opinioni politiche), con due ulteriori conseguenze e cioè che
    • quando resi pubblici, i sondaggi politici aumentano il consenso per chi viene visto come vincente (effetto bandwagon) oppure favoriscono chi visto come il perdente (effetto underdog),
    • i sondaggi influenzano le élite in competizione perché forniscono ai partiti dati sul mercato elettorale, contribuendo paradossalmente a costruire le candidature stesse.

Da più parti è auspicata l'adozione di un pluralismo metodologico nell'analisi dell'opinione pubblica. Secondo Crespi (1997) il sondaggio rileva solo una parte dell'opinione pubblica. Come il suo, esistono altri approcci proposti in merito, che sono:

  • approcci proposti da Crespi (1997)
    • survey (dati),
    • analisi storica di documenti istituzionali,
    • dibattito politico-filosofico sul ruolo dell'opinione pubblica;
  • approcci proposti da Nimmo (1978)
    • studi su dati aggregati,
    • survey,
    • studi sperimentali,
    • studi “ex post facto”,
    • analisi del contenuto,
    • studi etno-metodologici;
  • approccio proposto da Devereaux (2000)
    • sistema di “intelligence ambientale” con
      • scannerizzazione,
      • monitoraggio,
      • previsione ed analisi di trend;
  • approccio proposto da Fishkin (2003)
    • il sondaggio “deliberativo”, che informa il campione prima di rilevarne le risposte, pensato in fasi quali
      • si seleziona il campione casualmente,
      • viene visionato il materiale informativo,
      • si avvia il sondaggio “deliberativo” con una discussione cui partecipano specialisti,
      • si fa nuovamente la rilevazione (con cambiamenti notevoli di opinione, come quando il campione “competente” risultò d'accordo con le conclusioni della convenzione costituzionale, sull'elezione del presidente della Repubblica Australiana);
  • approcci proposti da altri
    • storico,
    • sociologico,
    • del conflitto,
    • del gruppo.

L'Opinione Pubblica Mondiale è una forma d'opinione pubblica di recente formazione; con l'«e-sphere», l'interazione sociale è “networked”. La globalizzazione ha portato ad una opinione pubblica «internazionale e trasversale». Però Thompson (1998) afferma efficacemente che «la diffusione è globale ma l'interpretazione (dei significati) [di un fatto] è sempre localizzata e contestualizzata».
In conclusione, non è che il sondaggio abbia dei difetti, deve però essere integrato con altre forme di rilevazione, dacché spesso «sollecita o costringe molti ad esprimere opinioni su problemi che non li interessano», su cui si hanno solo “non-opinioni”; allo scopo di cogliere la profondità della pubblica opinione.


Terza parte
CONSULENZA POLITICA

Testi di riferimento:

  • Sampugnaro, R., Dentro la campagna. Partiti, candidati e consulenza politica, Bonanno, 2006;
  • Roncarolo, F., Controllare i media, Franco Angeli, 1994 (pp. 83-90);
  • Bulli, G. & Vivoli, S., I consulenti politici italiani: una prima indagine empirica, Università di Firenze, 2006.

Tra comunicazione e politica: la nascita della consulenza politica
Tempo e denaro erano un tempo i soli mezzi per accedere alla politica, quando ancora i partiti erano “nobiliari” (tra le fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento) e il suffragio ristretto. Weber parla a questo punto di “professionalizzazione della politica” intendendo con ciò quel processo che condusse verso una nuova situazione politica: «accanto alla classe parlamentare (...) si sviluppa una nuova classe politica che farà della politica la sua professione, traendo risorse economiche dalle attività economiche connesse all'organizzazione dei partiti, alla mobilitazione politica degli iscritti e alla gestione delle campagne elettorali»; si distingue così chi vive “di” politica, che ne trae guadagno, da chi vive “per” la politica, dedicandovi passione e tempo, oltre che denaro. Ciò comporta un'organizzazione in cui aumentano le persone stipendiate dalla politica e diminuiscono gli attivisti volontari. C'è così chi fa politica ma non ne sa, come dice Sartori.
Si giunge così al partito “professionale-elettorale” di cui parla Panebianco, cioè quello di massa o “pigliatutto”, che riduce la formazione morale e intellettuale delle masse a fini quali la massimizzazione dei voti e la soddisfazione del popolo. C'è maggiore “volatilità elettorale” e minore “lealtà politica” dacché gli amatori sono sostituiti dai professionisti. Tuttavia, difronte alla disaffezione ai partiti che ne consegue, gli stessi si “statalizzano”, ovvero «accrescono il loro controllo sull'apparato statale e si preparano a scambiare le nuove risorse acquisite con i molteplici gruppi di interesse», non trascurando un altro aspetto: differenziarsi «in modo da far riconoscere il prodotto ma senza mai superare quel grado di differenziazione che potrebbe far temere al consumatore potenziale di “uscire dai confini”».
In un clima di crisi economica dei partiti (aumentando i costi e diminuendo gli iscritti) nasce inoltre la «collusione tra i partiti per l'acquisizione delle risorse pubbliche» ovvero la “cartellizzazione” del partito. Acquista perciò rilevanza la consulenza politica, solcando la differenza tra “burocrate” ed “esperto”: il primo proviene da una lunga militanza sul campo, il secondo invece da studi regolari che poi assume ruoli di staff (non di linea), ossia il caso del “party public office”. I leaders del partito di cartello hanno fatto carriera come politici di partito, divenendo un vero e proprio mestiere. La leadership politica condivide lo stesso background a prescindere dallo schieramento partitico. La formazione di un cartello migliora le possibilità di una rendita economica.
Nell'epoca “post-democratica” i partiti non sono più strutturati in modo tale che i dirigenti siano assistiti da consiglieri a loro volta seguiti dai rappresentanti parlamentari, sostenuti da tesserati ordinari ed elettori fedeli; adesso il dirigente arriva ai gruppi sociali in modo diretto, gruppi anche distanti dal partito. Avviene un interscambio tra partiti e lobbies, che hanno interessi negli affari del Governo (specialmente in servizi privatizzabili), interscambio detto delle “revolving doors” tra consulenti di partito e lobbisti nelle aziende: si creano “aspetti inquietanti” quando ex-politici occupano ruoli in società private (es. Perot e Berlusconi, ovvero il candidato sostituisce e finanzia l'intero partito).
La trasformazione della campagna elettorale è la stretta conseguenza di ciò, dunque:

        • negli anni Cinquanta, l'attività era “local-active” a stampo propagandistico,
        • negli anni Ottanta, si stabilisce sui tempi della tv e sui “flagship news programs”, secondo il criterio della vendita,
        • oggi (post-modernità), c'è la frammentazione dell'offerta e la segmentazione dei pubblici, con nuove fonti informative, sulla base del criterio del marketing.

Nella campagna “post-moderna”, la struttura è duplice: esistono infatti il “leader's office”, di personale fiducia del leader da cui dipende e a cui risponde direttamente, e la “war room”, dove vi sono gli esperti a vario titolo che producono, acquisiscono informazioni e prendono decisioni. Si tiene conto, inoltre, della campagna “permanente” per cui acquista importanza il “leader's office” (i consulenti) – comportando la lievitazione dei costi – che intende integrare, più che superare, la comunicazione diretta (“face to face”). Elementi distintivi di tale campagna sono:

  • la centralizzazione della campagna, decentralizzando alcune decisioni (ad alto contenuto simbolico), passando dalla personalizzazione della politica alla personalizzazione del potere (accentramento);
  • l'adeguamento alla logica dei media;
  • la tecnicizzazione (con esperti) e la rilevanza delle informazioni (come profili dell'elettore, numeri telefonici, etc., anche vendibili – aspetto “inquietante”, questo – a persone abbienti interessate);
  • l'aumento dei costi (“politica ad intensità di capitale”);
  • la segmentazione dell'elettorato (“marketing orientation”) e targetizzazione del messaggio (studiandone le opinioni, si conosce l'elettorato “per settori” piccoli su cui puntare l'attenzione e le risorse), come nel caso di Clinton e il “mapping geografico” (G.I.S.);
  • i vecchi strumenti che vengono “tecnologicamente orientati” come i nuovi.

Le dimensioni della professionalizzazione
In buona sostanza, la consulenza politica nasce per tre ordini di fattori (nonché “ipotesi d'indagine”):

          • come supporto o surrogato, ossia i partiti affrontano una crisi organizzativa che si può risolvere solo rivolgendosi all'esterno;
          • per il gap tecnologico, ossia i consulenti sono meglio attrezzati per utilizzare le nuovissime tecnologie al servizio della politica;
          • per emancipazione, ossia l'emancipazione dei candidati dai partiti costringe loro a costruire personali campagne “candidate-centered” competitive.

Come, però, il consulente diviene tale? L'acquisizione delle competenze da parte del consulente politico, all'interno del partito, avviene generalmente tramite:

  • l'autoistruzione del personale,
  • l'acquisizione di personale (per elezione, per inserimento o sul mercato),
  • l'acquisizione di esperto tramite legame politico (che può essere strumentalizzato per fini che non hanno a che vedere con la sua professionalità).

Come, inoltre, si identifica un consulente “professionista”? Con i seguenti criteri:

  • esclusività (dedica il tempo oppure fa altri lavori),
  • risorse economiche (solo partitiche o personali),
  • remunerazione (pagato o volontario),
  • identità del soggetto (rispetto alla politica),
  • identità professionale (rispetto al politico o ad una comunità professionale),
  • natura dell'expertise (interna o esterna al partito).

Per Panebianco, però, il professionista è colui il quale dedica tutto il tempo alla politica e ne vive. Detto ciò, si possono dunque considerare quattro gli ambiti della maturazione della domanda di comunicazione politica:

  • ambito dei media, per fasi e cioè
    • issue coverage”,
    • strategic coverage”,
    • meta-coverage”, cioè l'autoreferenzialità dei media;
  • ambito degli eletti e dei candidati, con
    • diffusione di cultura relativa alla comunicazione,
    • maggiore competenza,
    • richiesta di consulenze specialistiche;
  • ambito degli staff dei candidati e degli eletti (nascita dell'industria della consulenza);
  • ambito delle organizzazioni di partito (il partito cerca solo il voto, dunque sviluppa il “professionismo” come un aspetto della “professionalizzazione”).

Bisogna anche tener conto della struttura interna dei partiti, divisa in

  • risorse (budget),
  • gerachia interna (top-down con cultura organizzativa),
  • ideological outlook” (uso del marketing e della consulenza per i partiti di destra, strumenti conservatori per quelli di sinistra).

Dunque è possibile adesso delineare con più precisione i caratteri dell'offerta di consulenza. Essa si può pensare in base ai “tipi ideali” di consulente e in base alle categorie della prestazione:

  • i “tipi ideali” sono
    • il notabile (tramuta la centralità socio-economica in centralità politica),
    • il manager (capace di identificare i leaders “dalla nascita”),
    • l'imprenditore capitalistico della politica (“boss” di partito che convoglia le risorse economiche per il partito ricorrendo anche alla corruzione di magnati della finanza),
    • il burocrate di partito
      • “esecutivo” (che pensa ai militanti),
      • “rappresentativo” (che ha anche incarichi elettivi),
    • il professionista di staff (esperto tecnico),
    • il professionista occulto (fa politica a tempo pieno ma “finge” lavoro in enti pubblici o para-pubblici),
    • il semi-professionista (tra notabile ed esperto, dedica tempo alla politica ma è indipendente);
  • invece le categorie della prestazione consistono nella scelta tra consulenza
    • “residuale” (uso dell'expertise necessario, tecnici più che consulenti, per prestazioni circoscritte, uso dell'industria delle celebrità) oppure “strategica” (tecnica, di “processo” ovvero per gestire fenomeni ed eventi e prendere decisioni, dove il candidato deve delegare il suo “controllo”) basata sui principi della
      • circolarità dell'attività,
      • organicità tra le forme di comunicazione usate;
    • “occasionale” (singola competizione elettorale o referendaria) oppure “continuativa” (campagna “permanente”);
    • “interna” (per un solo soggetto politico) oppure “esterna” (disponibile per tutti, a determinate condizioni);
    • retribuita (per compenso monetario) oppure gratuita (per compensi di altra natura, come incarichi successivi o riconoscimenti politici);
    • “dentro la struttura” (dentro l'organizzazione che gestisce la campagna) oppure “con struttura autonoma” (tramite organizzazioni autonome quali “think thank”, agenzie di consulenze).

La consulenza statunitense
L'americanizzazione è un fenomeno diffuso nel mondo, anche nel campo della consulenza politica. Se non ci sono “prove” ci sono”indicatori” di questo “fascino” per la consulenza in stile americano. Ma bisogna chiedersi se sia consapevole in Europa oppure l'influenza sia subita. Il rischio è quello di identificare l'americanizzazione con la modernizzazione.
I modelli di americanizzazione possono essere due:

  • adoption model” (esplicito uso di canoni della consulenza americana),
  • shopping model” (“acquisto” per uso europeo).

Oppure si verifica una “convergenza” (tesi della “modernizzazione-convergenza”) per cui l'influenza è sia in un senso che nell'altro: l'Europa e gli U.S.A. si influenzano vicendevolmente, in base ai seguenti fattori:

  • la volatilità del comportamento elettorale che si lega al dealignment, ossia il contesto partitico americano contrassegnato
    • dal crollo della partecipazione elettorale,
    • dall’erosione dell’identità partitica dei votanti, dell’instaurazione di una situazione di governo diviso quale condizione abituale prevalente anziché eccezionale nella vita politica americana,
    • dall’instabilità delle maggioranze anche a livello di elezioni presidenziali;
  • la professionalizzazione della politica;
  • la dipendenza della campagna dalle tecnologie digitali (per le quali c'è un ampio “market of skills” per chiunque le richieda).

Le funzioni del consulente sono:

  • management della campagna,
  • scelta della strategia e successiva pianificazione della campagna,
  • ricerca (sondaggi, proiezioni, etc.),
  • cura dell'immagine del candidato.

Le figure di consulenti sono:

  • consulente “generalista” (si occupa di curare la campagna, viene affiancato dagli altri specialisti),
  • pollster” (confeziona i sondaggi prima e durante la campagna, valutando l'efficacia delle strategie comunicative adottate),
  • fund raiser” (ricerca i fondi per finanziare le attività e la campagna),
  • esperto del “direct mailing” (progetta, produce e invia materiale pubblicitario postale a specifici targets),
  • media adviser” (consiglia i candidati cerca la loro presenza sui media, controlla i materiali e le informazioni sulla campagna e le strategie di trasmissione, ovvero confezionamento e programmazione degli spot televisivi e gestione televisiva del candidato),
  • esperto del web (si occupa dei nuovi media).

Entrando più nel dettaglio, queste e altre attività professionali possono essere classificate nei tre seguenti modi:

  • strategists” (strategia complessiva), come
    • general consultant,
    • campaign manager,
    • polling firm,
    • media firm,
    • direct mailing firm;
  • specialists” (forniscono servizi indispensabili), come
    • research team,
    • telemarketing firm,
    • fund-raising firm,
    • media-buying firm,
    • speech writer;
  • vendors” (forniscono prodotti e servizi per la campagna), come
    • website developer,
    • printing firm,
    • voter file firm,
    • campaign software.

Le circostanze che hanno determinato la nascita del mercato della consulenza in U.S.A. furono:

  • la debolezza delle strutture di partito (mancanza di un “collante ideologico”), infatti «il partito americano che ha come base organizzativa un'alleanza di comitati, ufficiali e non, gestiti da “bosses”, si consolida come “macchina elettorale”», distinguendosi così il partito regolare dalle “macchine” capeggiate da “bosses”;
  • la spinta delle primarie, usate per «arginare la disaffezione dei cittadini per i partiti e per contenere il predominio dei “bosses” di partito»; il “boss” vuole solo i soldi ma, per quanto osteggi l'outsider, egli non promuove se non uomini capaci e validi (nel proprio interesse); le primarie e le “conventions” diventano il congegno ideale per aumentare la personalizzazione della politica; infine producono le “candidate-centered politics” (basate sulla capacità individuale) per cui esistono poi “presidenti senza partito” a danno di un “Governo di partito”, come nel caso di Reagan;
  • il finanziamento delle campagne (addossato al candidato); il F.E.C.A. (Federal Election Campaign Act) limita nel 1974 le ingerenze economiche sulle elezioni fissando l'ampiezza massima dei contributi, istituendo il finanziamento pubblico, cosicché chiunque può concorrere alla carriera presidenziale; ma i candidati creano i “no party committess” per finanziare le campagne, facendo così acquistare rilevanza ai P.A.C. (Political Action Committees) per cui corporazioni, sindacati e altri gruppi possono finanziare la campagna;
  • l'ampiezza della domanda, legata a
    • elezioni per svariate cariche,
    • l'ampiezza del mercato americano,
    • la “continuità temporale” delle competizioni.

Riguardo quest'ultimo quarto punto, è possibile individuare la domanda e l'offerta della consulenza negli Stati Uniti. Per quanto concerne la domanda, il consulente serve a gestire cose che il candidato non ha il tempo di fare e gli può suggerire le strategie perché conosce il mercato elettorale, puntando sull'«echo power» ossia l'imprimere sull'elettorato ciò che il candidato dice e fa, aumentando la visibilità del consulente stesso; per quanto riguarda l'offerta, invece, la nascita di associazioni professionali (American Association Political Consultants) e di studi regolarizzati dalle Università, come quella di George Washington o della Florida, garantiscono una certa professionalità istituzionale cosicché, mentre prima i consulenti venivano dal mondo degli affari, oggi vengono da studi (anche se ora si registra un ritorno al mondo degli affari). Dunque, domanda e offerta si presentano così:

  • la domanda si basa su
    • legittimazione ad agire,
    • diffusione,
    • indispensabilità del consulente,
    • attribuzione di visibilità al consulente,
  • l'offerta si caratterizza per
    • processo di differenziazione,
    • associazione professionale,
    • programmi formativi,
    • indipendenza dal committente.

Esistono però delle conseguenze negative:

  • il negative advertising (la trasformazione dell'informazione giornalistica, che relega i problemi veri sullo sfondo, usando solo “ciò che funziona”, adottando anche la tattica “to go negative” contro l'avversario politico, nei casi in cui
    • i dati sono verificabili,
    • il “client” è più “in basso” del previsto e la “risalita” appare difficile);
  • il populismo tecnologico (lievitati i costi della campagna, si tenta solo di “restare a galla” e il consulente apre la strada a questa via definita da Mancini, per cui il candidato perde la spinta all'innovazione per seguire solo i sondaggi e restarne dipendente; diviene più “combattivo” che “corporativo” il confronto, scendendo talvolta anche a compromessi);
  • l'astensionismo (che cresce, secondo due ipotesi ossia per
    • smog model” per cui la causa va rintracciata nelle strategie, che concentrano la campagna sui già propensi a votare e su i più informati,
    • snake oil model” per cui la causa è invece la diminuzione dell'uso del “faccia a faccia” preferendo il “polling”, la tv e le “mailing lists”; infatti non si ha più l'interesse a mobilitare il territorio locale perché la prossima carica, magari, non sarà più nello stesso luogo, atrofizzando così le risorse locali).

La consulenza politica ha dunque subito due trasformazioni importanti:

  • la stabilizzazione, ossia quando il politico eletto tende a “stabilizzare” la prestazione del consulente che lo ha fatto vincere, a lungo termine (negli Stati Uniti, restando nel suo “entourage”); desta “preoccupazione che i consiglieri degli eletti siano esperti di comunicazione e sondaggi piuttosto che di tematiche cruciali o esponenti di un partito;
  • l'internazionalizzazione, ossia la presenza consolidata di consulenti americani nel mondo, spesso per campagne “candidate-centered”, e dovuta alla crisi del mercato politico “in senso stretto”, tanto che i consulenti si dividono in
    • domestic consultants (lavorano solo negli Stati Uniti),
    • over-areas consultants (solo in un'area),
    • super consultants (almeno in due aree).

La consulenza inglese
Il Regno Unito testimonia come l'influenza americana non abbia stravolto l'esistenza dei partiti, la vita politica resta infatti “party-centered”. La campagna elettorale è attivata dai partiti politici (storicamente Whigs e Tories come partiti conservatori dell'Ottocento, e Labour come partito del lavoro del Novecento, mentre di recente formazione è il New Labour di Blair, per una socialdemocrazia liberale).
L'«era» Thatcher (1979), conservatrice, venne dopo il labourista Callaghan. Tecnicizza la campagna e usa i consulenti politici (Saatchi & Saatchi), vincendo le elezioni nel 1979 e nel 1983. Il rilancio del partito conservatore sarà ad opera di Hague, proveniente dal mondo degli affari, però. Con Hague nascono:

  • il National Conservative Convention per la collaborazione tra partiti e leadership,
  • il Conservative Network per incoraggiare i giovani iscritti al partito.

L'obiettivo è «entrare in sintonia» con l'elettorato. Tutto ciò con strategie “market-oriented”.
Kinnock (labourista) salì nel 1985 e impose al suo partito il professionismo per rilanciare la comunicazione. Incarica Mandelson di creare una commissione per monitorare “la comunicazione” del partito, con 200 esperti volontari. Però era un burocrate e tassò per sistemare il welfare. L'opera di consulenza tentò di riparare a questi aspetti negativi. Nel 1993 però il partito ricorre alle primarie per sostituirlo e vince Blair nel 1997, alla morte di Smith che vi era succeduto. Blair è un outsider che usa però una “logica della competizione” per vincere le elezioni. Egli rilancia il programma del partito labourista:

  • aumento dell'importanza del fund-raising, alla ricerca di business corporations e piccole aziende (nel 1983 la dipendenza dalle Unions era del 96%, nel 1997 del 40%);
  • apertura del partito “all'esterno” (modernizzazione, democratizzazione, apertura a processi e domande sociali, trasparenza);
  • riapertura dei canali di partecipazione diretta;
  • uso della consulenza politica;
  • la comunicazione è “strategica” per mezzo di
    • sistematicità degli incontri,
    • focalizzazione sul messaggio,
    • controllo dei messaggi provenienti dal partito,
    • unitarietà della cominicazione (con “memorandum”);
  • compattezza della “squadra” politica (ogni parlamentare conosce le issues care al partito e sa come rispondere e su cosa focalizzare l'attenzione).

Fonda il New Labour, nuovo rispetto a quello di Kinnock. Scompare la nazionalizzazione dei mezzi di produzione e la distinzione tra lavoro intellettuale e manuale (novità simboliche). Accoglie le concezioni della “terza via” (di Etzioni):

          • realizzazione individuale,
          • valore della comunità,
          • solidalismo (pur sempre nel libero mercato),
          • accettazione della globalizzazione.

Cerca la comunicazione diretta riappropriandosi di mezzi tradizionali: campagne locali più efficienti e meno costose, con il controllo dal centro, perché è riuscito a “personalizzare il potere” oltre che la politica. Ridimensiona i poteri della Conference, del National Executive Committee, delle Unions e degli attivisti, rafforzando invece l'esecutivo (come fece Thatcher per i Tories). Ottiene il controllo sugli orientamenti del partito e del Cabinet, organo del Governo costituito da 20 collaboratori tra cui i titolari dei dicasteri e i senior ministers.
Dal confronto tra Tories e Labourists emerge che i primi usano agenzie esterne per le strategie della campagna e rafforzano la comunicazione dall'interno, mentre i secondi guardano al loro interno per le risorse e le affidano ad agenzie esterne. In ambedue i casi la consulenza politica è full-time, a carattere continuativo. Entrambe giocano una campagna “postmoderna” per ottenere, con l'attenzione alla formulazione del messaggio e il ripensamento delle strutture interne, news management e controllo dell'agenda politica. Entrambi i partiti richiedono consulenza di non professionisti e a titolo gratuito, tendendo ad essere “candidate-centered” nelle campagne in corso.
Confrontando invece U.S.A. e Regno Unito, si può dire che i primi traggono risorse dall'esterno, il secondo dall'interno; i primi richiedono più competenza, il secondo più esperienza all'interno del partito (seleziona tra i funzionari), dunque per vicinanza ideologica non per mestiere. Il caso Forza Italia è esempio di similarità più nei confronti dei primi che del secondo.

La consulenza italiana
La consulenza politica in Italia è difficile da misurare, soprattutto perché sono pochi coloro i quali ne fanno una professione a tempo pieno e ancora pochi sono gli anni in cui le campagne elettorali sono state realizzate con questo supporto.
Questo settore non gode infatti di autonomia e indipendenza, rispetto ad altri ambiti della comunicazione politica. Generalmente si tratta di tecnici specializzati che offrono prestazioni circoscritte. Poco richieste sono le funzioni di fund-raising, gestione di data base e progettazione di siti web. Ancora è importante il contatto diretto con l'elettorato, per i consulenti italiani.
Si tratta di consulenti di recente formazione, non sempre giovani, con un passato di giornalismo, pubbliche relazioni o altro affine, con poche campagne curate (i primi hanno cominciato alla fine degli anni Settanta, ma erano pochissimi). I fattori determinanti per l'emergere della consulenza politica in Italia sono la crisi organizzativa dei partiti e l'elezione diretta dei sindaci (l'introduzione del sistema maggioritario). La consulenza in Italia è più richiesta per elezioni comunali, politiche ed europee (meno per provinciali e regionali), e i consulenti sono per la maggior parte del nord o centro-nord. Molto conta l'esperienza ma non quanto la laurea o il titolo post-laurea. Il fattore economico non è ancora ritenuto determinante nel settore, anche se alta è la consapevolezza di incidere sull'esito della campagna. Ultimamente (2006) si è passati da campagne centrate sul partito a campagne centrate sul leader.

 

fonte: http://www.sitosophia.org/documenti/appunti_dellombra_sociologia_sampugnaro_0607.rtf

autore: Davide Dell'Ombra
Università degli Studi di Catania - Facoltà di Lettere e Filosofia
Appunti di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
Prof.ssa Rossana Sampugnaro, A.A. 2006/2007

 

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