La civiltà industriale

 

 

 

La civiltà industriale

 

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La civiltà industriale

La civiltà industriale

 

1. Una rivoluzione economica e sociale.
L’insieme dei mutamenti socio-economici avvenuti in Inghilterra nell’arco di tempo compreso tra la fine del ‘700 e la prima metà dell’800, viene definita “Rivoluzione Industriale”. Il termine rivoluzione denota il totale cambiamento apportato nella società da questo fenomeno.

Definizione: Per rivoluzione industriale gli storici intendono un processo di evoluzione economica che, da un organismo “agricolo-artigianale-commerciale”, porta ad un sistema “industriale” moderno caratterizzato dall’uso generalizzato di “macchine” azionate da energia meccanica grazie all’utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate (come ad esempio i combustibili fossili quali il carbone).
I tre fattori che la caratterizzarono possono esser riassunti in:
1) Sostituzione delle abilità manuali umane con le macchine.
2) Sostituzione della forza lavoro umana e animale con fonti inanimate di energia.
3) La necessità e l’uso di ingenti quantità di materie prime.

La Rivoluzione industriale è considerata da molti storici come l’ultimo di una serie di cambiamenti che hanno trasformato l’Europa nel corso dell’età moderna, da terra sottosviluppata e poco popolata, qual’era all’inizio del Medioevo, nella zona più ricca, sviluppata e politicamente più potente del mondo, nel corso del 1700 fino agli inizi del 1900.
Il fenomeno, che investe i settori della produzione economica, è diretta conseguenza dell’aumento di conoscenze sul mondo naturale, e sulle sue caratteristiche, derivante dalla Rivoluzione scientifica. Fu, infatti, il nuovo Metodo scientifico inaugurato da Galileo a portare ad un aumento esponenziale delle conoscenze che si avevano sulla natura ed in particolar modo sulla materia e le sue proprietà.  Senza questo approccio la rivoluzione industriale non avrebbe potuto aver luogo. Condizioni particolarmente favorevoli nell’Inghilterra della metà del ‘700 consentirono, poi, a tali conoscenze scientifiche di tramutarsi in conoscenze tecniche e tecnologiche, finché esse cominciarono ad essere applicate nelle prime fabbriche tessili e nell’industria siderurgica, per una produzione di ferro ed acciaio che non ebbe paragoni nella precedente storia dell’umanità. Dal punto di vista tecnologico la Rivoluzione industriale si caratterizza in primo luogo per l’introduzione della macchina a vapore. Il 1700 è conosciuto anche come il secolo degli “automati”, i meravigliosi apparecchi mossi dall’energia meccanica automatica del vapore, prodotto dalla combustione dei minerali fossili. Nella storia dell’umanità il maggior vincolo alla crescita della produzione di beni indispensabili alla sussistenza è, infatti, quello energetico. Per molti secoli l’uomo è stato legato ai limiti dell’attività manuale disponendo solamente dell’energia offerta dal lavoro di uomini e animali, la qual cosa ha limitato fortemente la produzione e la produttività. La progressiva introduzione, a partire dal Medioevo, del mulino ad acqua e del mulino a vento rappresenta la prima innovazione di rilievo.
Gli elementi da ricordare riguardo alla rivoluzione industriale sono innanzitutto:

  • Quando: L’arco temporale, di quella che gli storici sono soliti definire anche la prima rivoluzione industriale, è compreso tra il 1760 ed il 1870.
  • Cosa: Il fenomeno riguarda la trasformazione di tre settori economici (il settore tessile, quello metallurgico e quello estrattivo), grazie all’introduzione del telaio meccanico e della macchina a vapore (un’apparecchiatura atta a produrre energia meccanica utilizzando, in vari modi, vapore d’acqua, in genere prodotto con il carbone o con la legna).
  • Dove: L’abbondante energia offerta dalla macchina a vapore viene applicata alle lavorazioni tessili a partire dall’Inghilterra.
  • Come: Il progressivo aumento della domanda, grazie all’incremento demografico che l’Inghilterra conobbe nel corso del XVIII secolo e al miglioramento della rete distributiva (strade, canali resi navigabili), rese evidenti le lacune della tradizionale produzione manifatturiera a domicilio, con la quale il grado di controllo della forza lavoro era basso, la qualità desiderata difficilmente ottenibile e i costi di trasporto molto alti. Questa crisi aprì nuovi scenari ad alcuni imprenditori che affrontarono i rischi d’investimento legati all’acquisto o all’affitto dei nuovi macchinari e di appositi luoghi produttivi destinati ad ospitarli insieme ai lavoratori, le fabbriche. L’introduzione delle macchine, la divisione del lavoro e lo spostamento delle lavorazioni all’interno di capannoni appositamente costruiti, rese possibile una più efficiente organizzazione della produzione. Anche le estrazioni minerarie e i trasporti furono rivoluzionati dall’introduzione delle macchine a vapore. Le attività minerarie furono le prime a beneficiare della forza della macchina a vapore sia nella fase di estrazione dell’acqua dalle miniere, permettendo di scavare a maggiore profondità, sia nel trasporto del minerale estratto. L’invenzione dei vagoni su rotaia si deve proprio alla necessità di portar fuori dai tunnel il minerale ed in seguito a portarlo a destinazione. Soltanto in un secondo tempo il trasporto su rotaia si convertirà nel trasporto di passeggeri con l’introduzione della Locomotiva.
  • Chi: Gli attori della produzione. I lavoratori che si spostavano dalla campagna per trasferirsi in città, dove sorgevano le fabbriche, formarono quella che in seguito sarà definita la classe operaia salariata che gli economisti futuri contrapporranno all’imprenditore, il proprietario della fabbrica e dei mezzi di produzione, il quale tenderà ad incrementare il profitto della propria attività.
  • Perché: come mai proprio l’Inghilterra? L’Inghilterra era l’unico paese in cui tale rivoluzione industriale potesse svolgersi. Le condizioni che resero possibile il fenomeno proprio in quel luogo d’Europa furono molte. Vediamo quali:

 

1) Andiamo indietro nel tempo, al periodo del governo di Elisabetta I. Questa sovrana aveva trasformato un paese povero nel padrone assoluto dei mari e con questo aveva fornito all’Inghilterra la flotta più potente del mondo, quindi i capitali necessari perché la rivoluzione industriale potesse decollare proprio da lì.
2) La rivoluzione agricola, sviluppatasi nel corso del Settecento, fu l’altra grande pre-condizione favorevole. Con sistemi di avanguardia, come la rotazione triennale programmata delle colture, in Inghilterra si agevolò lo sviluppo demografico. Inoltre, attraverso le trasformazioni dell’agricoltura, di cui fu protagonista, l’Inghilterra aveva un surplus di risorse che resero disponibili grandi quantità di capitali da investire. La crescita demografica, conseguente al miglioramento dell’agricoltura, inoltre liberò progressivamente forza lavoro dalla terra, garantendo all’industria nascente mano d’opera a basso costo. Il fenomeno delle enclosures (per cui molta terra demaniale da sempre lasciata al libero pascolo venne privatizzata e recintata) privò i contadini più poveri del libero diritto di pastorizia e alla raccolta e li spinse a trovare nuovo impiego nelle fabbriche che stavano nascendo nelle città, per i compensi decisi dall’imprenditore.
2) La posizione geografica. L’Inghilterra si trova in una posizione geografica favorevole ai commerci nell’Oceano Atlantico, mentre la sua insularità le consente una facile difesa dei propri confini, evitandole le periodiche devastazioni che, al contrario, dovette subire il resto dell’Europa per le svariate guerre sette-ottocentesche. Alla crescita demografica dunque (che garantiva la domanda interna), si affiancò la tradizione del commercio sui mercati internazionali (che favoriva la domanda estera), cui l’Inghilterra era dedita dai tempi di Elisabetta e che aveva arricchito l’isola di un’alta disponibilità di capitali di investimento e la possibilità inoltre di rifornirsi di materie prime come il cotone greggio.
3) Le risorse naturali. L’Inghilterra, inoltre,  era ricca di risorse naturali come carbone e ferro. La disponibilità ingente di manodopera a basso costo, unita alla grande disponibilità di materia prima per alimentare le macchine a vapore, contribuì in maniera fondamentale al decollo industriale del paese.
4) La crisi dell’industria a domicilio. Come abbiamo accennato, l’Inghilterra, in seguito alla crescita della domanda, conobbe lo sgretolamento dell’economia familiare. Questo spinse molti imprenditori “spigliati” a prendere decisioni drastiche e a tagliare i ponti con l’industria a domicilio ed a investire in macchinari e capannoni industriali che concentravano lavoratori e macchine in uno stesso luogo.
5) La specificità della situazione politico-culturale inglese. Un sistema costituzionale garante delle libertà individuali, una classe dirigente (nobili e borghesi) orientata al profitto ed all’imprenditoria, la precoce scomparsa dell’istituzione vetero-feudale, costituiscono fattori che segnarono la differenza tra l’Inghilterra ed il resto d’Europa.
6) Le innovazioni tecnologiche. Il fattore che più da vicino interessa l’instaurarsi del sistema produttivo industriale, è l’interazione tra i tre settori fondamentali dell’economia industriale inglese (tessile, metallurgico ed estrattivo). Vediamo.

2. Nuove tecnologie e sistemi produttivi
Nei tre settori della trasformazione produttiva si sviluppò un fenomeno a “botta e risposta” in cui la soluzione di un problema tecnologico crea squilibrio in un’altra fase della attività produttiva e stimola nuove soluzioni.

  • Nel settore tessile la rivoluzione riguardò innanzi tutto il cambio della materia prima. Prima dell’avvento della rivoluzione industriale, l’industria più importante era quella della Lana, dato che l’Inghilterra disponeva di ampie zone dove far pascolare le pecore. La sua lavorazione era però lenta e molto cara. Il cotone, si rivelò più adatto a rispondere al bisogno primario di vestirsi a costi inferiori godendo quindi di un bacino di consumatori molto più vasto, inoltre, essendo più resistente, si prestava meglio alla meccanizzazione della filatura. Questa si rese necessaria, quando, alle operazioni di tessitura, venne applicata la spoletta  meccanica o “navetta volante”, inventata da John Kay nel 1733, che permetteva di quadruplicare la produzione di tessuto in cotone. Il fatto mise in luce la lentezza del processo della precedente filatura manuale, sollecitando la necessità di innovazioni tecnologiche anche in questa fase produttiva. Con l’introduzione dei nuovi ed efficienti filatoi meccanici si ebbe un sensibile aumento della produzione e di abbattimento dei costi; questo a sua volta stimolò e provocò l’introduzione, negli anni trenta dell’800, del telaio meccanico, inventato per fronteggiare le conseguenti esigenze di tessitura. La qual cosa portò ad un abbassamento dei prezzi finali ed un conseguente aumento della domanda interna ed estera con un ovvio sviluppo delle esportazioni.
  • Nel settore siderurgico, l’Inghilterra, pur essendo ricca di ferro, importava ancora alla metà del settecento la ghisa* (detta ferraccio) dalla Svezia fondendola  a prezzi alti e con altissimo consumo di carbone di legna, ottenendo un prodotto di scarsa qualità. Nel 1709 l’utilizzo del Carbon Coke (uno speciale fossile sottoposto a cottura) in speciali altiforni permise di raddoppiare nel 1784 la produzione di prodotti ferrosi di qualità.

* La produzione della ghisa avviene generalmente per riduzione degli ossidi di ferro mediante combustione di carbone a contatto degli stessi, in apparecchiature chiamate altiforni. Il minerale viene disposto a strati, alternati con carbone a basso tenore di zolfo (solitamente coke); il ferro contenuto nel minerale, quando raggiunge lo stato fuso, cola verso il basso raccogliendosi in appositi contenitori.

  • La strozzatura si presentò a livello del processo di estrazione, quando, per soddisfare la crescente domanda di carbon fossile (di cui l’Inghilterra era ricca) si dovette aumentare la profondità dei pozzi. Più profondo era il pozzo, però, più era pieno d’acqua, il che impediva di proseguire se non a prezzo di toglierla secchio a secchio, con un sistema di carrucole oppure grazie all’impiego di ragazzi, in grado di infilarsi negli stretti pozzi. Alla rivoluzione industriale mancava qualcosa. La forza di 500 cavalli era sufficiente appena per issare un secchio in una miniera del Warwickshire.

Finalmente, nel 1775 James Watt brevettò una macchina a vapore in grado di pompare fuori l’acqua dai pozzi. Questa fu la l’invenzione fondamentale della cosiddetta prima rivoluzione industriale. Essa fornì all’industria intera una forza motrice potente, costante e flessibile tale da conferire, una volta perfezionata, enorme impulso all’intero processo di meccanizzazione.
La più importante applicazione della macchina a vapore fu senza dubbio la ferrovia, da quando il minatore Gorge Stephenson costruì la prima locomotiva applicando una macchina a vapore su un carrello da miniera. La macchina a vapore ha messo le ruote!!! La ferrovia fu un bene complesso, fu un mezzo per abbattere i costi di trasporto ed al contempo un nuovo settore trainante dell’economia, in quanto la sua complessità richiedeva l’attivazione di molti altri settori produttivi per sostenerne lo sviluppo.

Le fasi della rivoluzione.
Fase 1. 1760-1790. Meccanizzazione della filatura. Introduzione di nuovi metodi in siderurgia.
Fase 2. 1790-1830. Introduzione della tessitura meccanica e della macchina a vapore.
Fase 3. 1830-1850. Dominio della ferrovia.

 

3. Le Conseguenze.
Inevitabile fu il mutamento socio culturale introdotto da tale fenomeno produttivo.La rivoluzione industriale , infatti, produsse effetti non solo in campo economico e tecnologico ma anche sociale, in quanto l’aumentata produttività si tramutava in un aumento dei consumi e della quota del reddito, influenzando i rapporti fra classi sociali, la cultura, la politica, e le condizioni generali di vita, con effetti espansivi sul livello demografico. L’innalzamento delle rese agricole, grazie alle tecnologie impiegate, che consentirono un notevole incremento nella disponibilità delle risorse, i progressi nel campo igienico e sanitario, che abbatterono i tassi di mortalità e innalzarono l’età media della popolazione, la riduzione delle ricorrenti calamità, che da secoli colpivano le aree più popolate, come peste, colera, carestie di varia natura, sono tutti fattori che, congiuntamente, condussero nel giro di alcuni decenni ad un incremento della popolazione. Il generale stravolgimento delle strutture sociali dovuto all’inesorabile processo di industrializzazione comportò una radicale trasformazione delle abitudini di vita e anche dell’aspetto delle città.
Fu infatti prevalentemente nei centri urbani, specie se industriali, che si avvertirono maggiormente i mutamenti sociali, con la repentina crescita di grandi sobborghi a ridosso delle città, nei quali si ammassava il sottoproletariato che dalle campagne cercava lavoro nelle fabbriche cittadine. Si trattava per lo più di quartieri malsani e malfamati, in cui le condizioni di vita per decenni rimasero spesso al limite della vivibilità.
Una simile situazione, sia pure con diverse varianti e aspetti peculiari a seconda dell’epoca e dei paesi industriali, si è protratta fino a tempi più recenti, e ha dato spunto per una vasta letteratura, politica, sociologica, ma anche narrativa. Come non ricordare le brumose atmosfere che l’inglese
Charles Dickens ci regala nei suoi romanzi più celebri, come David Copperfield , Nicholas Nickleby o Oliver Twist, in cui si muove una umanità disperata e abbrutita dagli spietati meccanismi produttivi imposti dalla rivoluzione industriale. Nel suo cupo romanzo Hard Time, del 1854, la immaginaria città di Coketown, “piena di alte ciminiere e macchinari” è una potente metafora della società industriale di epoca vittoriana.  Impressionanti le miserevoli condizioni delle classi più umili nella Parigi dell’epoca di Emile Zola, che nel suo romanzo Germinal descrive la dura vita dei minatori della prima rivoluzione industriale. Ed è fuor di dubbio che siano state le condizioni umane e sociali delle masse operaie londinesi ad aver stimolato le riflessioni di John Ruskin che, anticipate in alcune (troppo trascurate) pagine di Adam Smith ritornano in molta della grande letteratura del primo socialismo, soprattutto nelle celebri indagini filosofiche di Karl Marx e Friedrich Engels che tanta importanza avranno nel panorama politico mondiale del ‘900.
Nonostante gli effetti negativi sul proletariato urbano, dovuti alle iniziali condizioni di sfruttamento economico e di urbanizzazione incontrollata, la rivoluzione industriale a lungo andare ha comunque senza dubbio contribuito ad elevare le condizioni di benessere di una sempre più vasta percentuale della popolazione, conducendo già dalla fine del XIX secolo ad un generale miglioramento delle condizioni sanitarie (non è casuale che dalla rivoluzione industriale in poi l’Europa non abbia più conosciuto l'incubo della peste e delle carestie di tipo agricolo), un sensibile prolungamento della vita media degli individui, un estendersi della alfabetizzazione, la disponibilità per un maggior numero di persone di beni e servizi che in altre epoche erano totalmente preclusi alle classi più povere.


L’avvento, concentrato in pochi decenni, di grandi scoperte in campo scientifico e medico, e di invenzioni come la ferrovia, l’illuminazione a gas, e in seguito, nella seconda fase della rivoluzione, l’energia elettrica, il telegrafo, la dinamite, il telefono e l’automobile, ha rapidamente trasformato la vita della popolazione e coinvolto l’intero quadro sociale dei paesi industrializzati, modificando alla radice secolari abitudini di vita e contribuendo ad un rapidissimo cambio di mentalità e di aspettative degli individui.

Anche i rapporti di classe furono profondamente modificati: l’aristocrazia, il cui potere era stato messo inesorabilmente messo in crisi dalla Rivoluzione francese, perse definitivamente, con la Rivoluzione industriale, il suo primato, a favore della borghesia produttiva. In parallelo, come già detto si formò per la prima volta una vasta classe, che sarà definita da Karl Marx “proletariato” che solo a distanza di decenni, lentamente e faticosamente, riuscirà a conquistare un suo peso sociale e politico nella vita dei paesi industrializzati.
Da parte di alcune classi di lavoratori le innovazioni vennero viste come un concorrente alle loro specializzazioni, al quale si opposero con la violenza. Del 1811 è la nascita del luddismo che si proponeva di distruggere le macchine.

4. La rivoluzione industriale migra in Europa.

La fine del blocco continentale voluto da Napoleone rese l’Inghilterra concorrenziale in Europa. Le industrie inglesi, più produttive di quelle europee, erano in grado di esportare merci d’alta qualità a basso costo. L’industrializzazione inglese funse così da sfida per le altre potenze europee, delle quali stimolò il rinnovamento tecnologico, inducendo i governi a politiche che favorirono lo sviluppo industriale.

  • Emulare l’Inghilterra divenne un imperativo politico prima ancora che economico.
  • Inoltre la tecnologia inglese migrò letteralmente sul continente, con i suoi tecnici che venivano assunti da imprenditori locali per installare filatoi meccanici, macchine a vapore o forni per la preparazione della ghisa.

Il processo di industrializzazione in Europa fu lento, molto più che in Inghilterra, e non privo di contrasti.


Forme di produzione tipiche della fase proto-industriale, come la manifattura a domicilio, sopravvissero a lungo in molte regioni d’Europa e convissero con i primi tentativi di meccanizzazione.

L’industrializzazione europea non avvenne ovunque con i medesimi tempi e i medesimi modi. I paesi più prossimi all’Inghilterra, maggiormente ricchi di bacini carboniferi e di vie di comunicazione e di forte vocazione produttiva e manifatturiera furono i primi, il Belgio e la Francia, (tra il 1830 e il 1860), seguiti da Germania (1870) e Russia (fine secolo XIX). L’Italia poté parlare di industrializzazione soltanto agli inizi del secolo XX. L’industrializzazione nei diversi paesi quanto più fu tardiva, tanto più si allontanò dal modello inglese. Il Belgio ad esempio che per mentalità imprenditoriale, tradizione manifatturiera (siderurgica e tessile) e per risorse naturali (ferro e carbone) somigliava di più all’Inghilterra fu il primo paese ad industrializzarsi. Quella ottocentesca fu Età del ferro e del carbone, fu ma anche Età della ferrovia.

  • La ferrovia costituì un modello di crescita auto-propulsiva, in quanto la “macchina di ferro” diede impulso alla domanda di energia (carbone e vapore), di carrozzerie per le locomotive (il ferro) quindi diede impulso alle industrie siderurgiche. Al contempo velocizzò i trasporti delle merci, abbattendo i costi, il che fu da stimolo, a sua volta, alla costruzione di altre ferrovie e così via.
  • Mobilitò gli investimenti di capitali e stimolò lo sviluppo del sistema bancario.
  • Questo nuovo sistema di trasporto determinò un ampliamento ed una progressiva unificazione dei mercati, mettendo i produttori in condizione di soddisfare aree sempre più vaste, stimolando così altra domanda e dunque della produzione.
  • Provocò un’accelerazione del processo complessivo di modernizzazione tecnologica, favorendo la crisi della manifattura tradizionale, che al riparo della concorrenza erano potute sopravvivere sino a quel momento.

Resta da ricordare che, se in Inghilterra l’imporsi del trasporto ferroviario si affiancò ad un processo di modernizzazione già in atto, in molte regioni d’Europa la ferrovia fu parte integrante del decollo industriale e la sua costruzione richiese che lo stato garantisse e sostenesse l’iniziativa privata, come in Germania (dove la ferrovia fu forza propulsiva del decollo poderoso dell’industria pesante) o venne addirittura prima del processo di modernizzazione, comportando alcuni iniziali disagi come in Russia (dove la sua imposizione comportò massicci interventi di capitale straniero, gravando lo stato di enormi interessi e non stimolò l’industria siderurgica, essendo ferro, binari e locomotive esclusivamente importati, ma anzi impoverì le arretrate manifatture locali, incapaci di fronteggiare l’afflusso di merci a basso costo). In ogni caso, l’Europa compì il suo “balzo in avanti” tra il 1850 e il 1870.
A) Le tecnologie importate dall’Inghilterra e B) lo sviluppo della ferrovia furono i maggiori responsabili di tale cambiamento, ma non dobbiamo dimenticare C) le trasformazioni del sistema finanziario e D) le politiche commerciali liberiste.

  • Alla banca di credito di vecchio stampo, una banca che forniva prestiti a breve e medio termine ai risparmiatori (per un negozio, un pollaio, una casa) si sostituì o si affiancò la banca di investimento per azioni, una società che raccoglieva i capitali dai risparmiatori e li utilizzava per grossi investimenti industriali.
  • L’elemento di maggior rilievo fu l’adozione da parte dei governi europei di politiche liberoscambiste, con l’abbandono delle tendenze protezionistiche dominanti sino alla metà dell’800.

Il contrasto tra liberismo e protezionismo risale già al ‘700.


I “fisiocratici francesi ed i “liberisti inglesi, facenti questi ultimi capo ad Adam Smith (1723-1790), sostenevano, gli uni, il libero commercio dei prodotti della natura (il grano), gli altri, la libera concorrenza e la libera circolazione delle merci, di tutte le merci, prodotte dal lavoro umano, senza alcun vincolo da parte dello stato. I Liberisti pensavano, come i Fisiocratici, che soltanto la libera concorrenza entro uno stato e fra stati consentissero il massimo sviluppo dell’economia, fungendo da stimolo per gli imprenditori a migliorare la produzione per guadagnare fette di mercato sempre più ampie e che la ricchezza si formasse nella fase della produzione e non in quella di scambio delle merci. In Inghilterra, questa posizione si scontrò con quella dei protezionisti che difendevano la “legge sul grano”, con la quale che intendevano “proteggere”, appunto, l’economia agricola nazionale imponendo un forte dazio sui prodotti d’importazione, specie dalla Russia, molto meno cari. Lo scontro era, di fatto, tra i grandi proprietari terrieri e gli imprenditori industriali. La battaglia fu vinta dai liberisti che ottennero nel 1846 l’abolizione dei dazi sul grano e di molte altre merci. Tra il 1860 e il 1870, furono firmati anche in Europa continentale, di tendenza inizialmente protezionista, una serie di trattati commerciali che riducevano fortemente i dazi su molte merci. L’epoca liberista durò poco più di dieci anni, ma con essa era nato il mercato mondiale delle merci. (da fare: Lettura pag. 219: perché bisogna abolire i dazi sul grano e confrontare con la posizione di Ricardo: pag. 271).
  • Le trasformazioni sociali nell’età dell’industria.

All’industrializzazione, che investì l’Europa nel corso dell’Ottocento, si accompagnò una forte crescita demografica, che nel giro di 100 anni raddoppiò la popolazione europea. Ad un alto tasso di natalità si accompagnò un tasso di mortalità più basso che nel passato, dovuto ad un miglioramento generale delle condizioni di vita (miglioramento delle diete alimentari e scomparsa delle carestie grazie ai progressi dell’agricoltura ed allo sviluppo di trasporti e commerci, miglioramento delle condizioni igienico sanitarie e riduzione delle epidemie, i progressi in campo medico scientifico ospedaliero, che consentirono di debellare i grandi flagelli del passato, il vaiolo e il colera, diminuzione della mortalità infantile). Lo sviluppo economico favoriva l’aumento della popolazione e questo stimolava la produzione, ampliando il mercato dei consumatori. L’aumento del numero di persone in Europa, generò, a sua volta, effetti di sovrappopolazione delle campagne, dove il numero delle nascite era ancora considerato una ricchezza, sovrappopolazione che fu all’origine di un imponente flusso migratorio dalle campagne alle città. Industrializzazione fa rima, infatti, con urbanizzazione.
La metropoli ottocentesca, vero polo d’attrazione, si gonfiò a dismisura dato che offriva possibilità di vita e lavoro. Essa divenne il simbolo stesso dell’età industriale e delle sue contraddizioni, caratterizzata com’era da un centro residenziale, commerciale e finanziario e da una periferia industriale ed operaia, in essa cioè i traffici, il progresso e la ricchezza si affiancavano alla povertà, allo sfruttamento, alle disuguaglianze sociali ed alla degradazione dei quartieri periferici, veri e propri dormitori maleodoranti, privi di strutture igieniche e di piani regolatori per gli operai che lavoravano nelle fabbriche fino a 15 ore al giorno. Nelle città la vita era più dura che nelle campagne, dove chi disponeva di un poco di terra da coltivare era da ritenersi un privilegiato. L’inquinamento, le condizioni igieniche inesistenti nelle abitazioni e nelle strade, putride e malsane, spesso prive di fognature, la prostituzione, l’alcolismo e la delinquenza rendevano la vita nei quartieri poveri un vero inferno metropolitano.
Questa situazione si ripercosse anche nella composizione e nell’organizzazione della società. Alla tradizionale contrapposizione proprietario-contadino, caratteristica della società agricola feudale, si sostituì quella di borghese-proletario, tipica del mondo industriale.
All’organizzazione sociale, semplice e statica, dell’Ancien regime, divisa in nobili, borghesi (mercanti, artigiani e professionisti) e contadini, dove il ruolo di ciascun agente era fissato in modo definitivo, come in un teatro, si sovrappose un nuovo ordine introdotto dall’industrializzazione, più complesso e dinamico, dove la possibilità di modificare la propria posizione sociale era sensibilmente aumentata, in quanto l’intraprendenza ed il successo divennero il vangelo della nuova società. In questo periodo s’iniziò a parlare di classi sociali, dove il termine indicava l’appartenenza ad un “insieme di individui che condividono il medesimo stile di vita, di abitudini e la medesima funzione produttiva”. Le figure sociali fondamentali sono il borghese, capitalista, colui che investe i propri capitali in un industria o in una proprietà per ricavarne un profitto e l’operaio, il proletario, colui che vende la propria forza lavoro in cambio di un salario. La borghesia, che possiamo distinguere al suo interno in imprenditoriale, finanziaria, intellettuale è la classe che nel corso dell’Ottocento dominò la scena economica e politica, dopo aver ingaggiato una dura lotta per la supremazia con i ceti aristocratici, che le contendevano il primato sociale e con gli altri protagonisti dell’industrializzazione, i proletari, che, come unica ricchezza dispongono della “prole” e della forza delle proprie braccia.
La condizione di salariato industriale o bracciante agricolo era grama. Salari bassissimi e condizioni di lavoro al limite della schiavitù. 6 giorni la settimana per 15 ore al giorno, in un ambiente malsano senza alcuna forma di tutela, di assicurazione, di prevenzione sociale. La solitudine accompagnava la miserrima vita dell’operaio, costretto a vivere con la famiglia (ridotta a non più di tre individui), in case fatiscenti, prive dei minimi servizi igienici, con turni massacranti di lavoro nelle fabbriche o nelle miniere (in queste ultime erano impiegati soprattutto i bambini, piccoli e perciò adatti ad entrare in stretti cunicoli). Nelle campagne la vita era dura, ma la famiglia era allargata e la giornata ruotava secondo ritmi più naturali. L’esistenza di quella che venne definita “questione sociale” venne percepita, presso le classi dirigenti come un pericolo per la sicurezza e tale consapevolezza diede vita ad iniziative di riforma quali le “leggi sulle fabbriche” atte a regolare il lavoro minorile e femminile, al fine di arginare la minaccia di un conflitto sociale. Nel 1858 il lavoro minorile venne proibito al di sotto degli 8 anni di età e  l’orario di lavoro di donne e minori venne limitato a 58 ore la settimana.

6. La “classe” operaia si organizza.
La classe operaia, dopo le iniziali rudimentali forme di protesta violenta ad opera dei luddisti, incominciò a maturare la consapevolezza della propria condizione e la conseguente necessità di doversi organizzare per difendere i propri diritti. Non era certo distruggendo le macchine che la situazione sarebbe migliorata, non si trattava di ingaggiare una donchisciottesca guerra alle macchine ma ad un “sistema” che andava modificato attraverso l’unione di persone che condividevano la medesima condizione. Nasce così quella che sarà definita “coscienza di classe”, all’interno del gruppo di lavoratori dell’industria.
Le prime forme di organizzazione operaia furono le società di mutuo soccorso, organizzazioni filantropiche di piccolo respiro, e i  primi sindacati (trade unions) che, da organizzazioni di mestiere di un piccolo territorio, divennero sempre più vaste fino ad affermarsi su scala nazionale nella seconda metà dell’Ottocento. L’aumento dei salari, la riduzione delle ore lavorative e la rivendicazione del diritto di associazione e di sciopero, proibiti in Inghilterra nel 1800 con il  Combination Act, repressi con licenziamento ed il ricorso alla forza pubblica e riconosciuti dal governo inglese soltanto a partire dal 1825, e da quello francese solo nel 1864.
Le organizzazioni operaie inglesi, nel 1838, presentarono al parlamento una Carta di rivendicazioni politiche atte ad ottenere un’ organizzazione sociale più democratica. Cruciale era ottenere il diritto al voto, in quel periodo limitato in base al censo (= reddito). Il movimento cartista non ottenne quel che chiedeva, ma la strada era ormai imboccata.

7. La Letteratura sociale.
La modificazione dell’assetto societario e la direzione imboccata dalla civiltà industriale sono bene individuate dalla rappresentazione letteraria. Intorno alla metà dell’Ottocento si afferma in Europa il genere letterario del Romanzo “realista”, con il quale l’artista intende rappresentare la realtà in cui vive nelle sue forme. Con Honoré de Balzac (1799-1850) il realismo si avvia a divenire il genere dominante, assumendo la forma del romanzo sociale, in cui non vi è un solo protagonista al centro della scena, come nel romanzo romantico, ma una miriade di personaggi, emblematici (= rappresentativi) dell’ambiente in cui vivono. Attraverso essi l’autore rappresenta la società del suo tempo, i rapporti di classe e di potere che in essa intervengono. La “commedia umana” di Balzac, i romanzi di Gustave Flaubert (1821-1880) e soprattutto di Emile Zola (1840-1902) che, nel suo romanzo Germinal, del 1888, rappresentò uno spaccato della violenta lotta del proletariato per l’affermazione dei propri diritti contro la classe dei proprietari borghesi, in cui proprio il titolo, riferito ad uno dei mesi primaverili, secondo il calendario rivoluzionario, richiama alla “rinascita”, alla fuoriuscita del seme dalla terra quando germoglia in primavera, riferendosi alla fuoriuscita dei minatori dall’incubo che li aveva tenuti sepolti in miniera ma anche alla nascita di una nuova consapevolezza la primavera dell’uguaglianza operaia, i germogli della rivoluzione. La fioritura delle piante diventa allora la metafora della rivolta operaia. La letteratura, vastissima, da Dickens a Zola, si arricchisce del contributo artistico di grandi illustratori come Gustave Doré (1832-1883), il suo gusto romantico e visionario (non per nulla è famoso per le sue illustrazioni della Divina commedia Dantesca) non appanna la lucidità con cui rappresenta il disagio nelle grandi città come Londra. Nelle  sue tavole ci regala immagini certamente enfatiche ma altamente suggestive ed evocative di un ambiente, dove la povertà si presenta come l’altra faccia della medaglia dorata della metropoli industriale. Le sue immagini di Londra come pure quelle di Fildes, le lavandaie di Daumier, i suoi attori girovaghi déracinés ed i miserabili clienti dei bistrò di Degas, sono tutti simboli e sintomi nello stesso tempo della nuova visione della realtà che le arti figurative assumono nella seconda metà dell’Ottocento.

 

  • Una civiltà da studiare con il sentimento.  I Romantici.

L’Europa stava politicamente vivendo una stagione di repressione dopo il congresso di Vienna, ma l’Illuminismo, la Rivoluzione francese e Napoleone non erano passati invano. In questo momento di profonda trasformazione economica, politica e sociale si fanno avanti problemi che favoriscono la discussione intellettuale, nonostante l’autoritarismo imperante e la censura delle polizie europee. È in questo periodo che nascono i grandi orientamenti ideologici, caratteristici della società industriale e viene elaborato un lessico in uso ancora oggi. All’indagine di economisti, filosofi e pensatori politici si presentarono i temi di riflessione legati al fenomeno della industrializzazione con tutto il suo carico di problemi, primo tra tutti il conflitto tra la nascente borghesia imprenditoriale, i ceti aristocratici e il proletariato. Il sistema economico della fabbrica, il rapido aumento della produzione, il fenomeno dell’urbanizzazione selvaggia e le condizioni disagiate degli operai fornirono materia di discussione agli intellettuali dell’epoca. Lo sfondo comune ai diversi orientamenti politici e culturali dell’Europa del primo Ottocento è costituito dal Romanticismo, un termine che designa un movimento essenzialmente letterario ed artistico rilevante anche su quello filosofico e politico. Un fenomeno complesso, al quale abbiamo dedicato una scheda a parte e che in questa sede ci limitiamo a definire un sentimento, un ambiente che si costituì in aperta e polemica contrapposizione all’Illuminismo ed al suo razionalismo. Riassumiamo brevemente le caratteristiche delle due concezioni “opposte” nella tabella che segue:

Illuminismo

  • Primato della ragione
  • Cosmopolitismo
  • Esaltazione del presente, illuminato dopo le tenebre della barbarie medievale
  • Razionalismo deista-ateismo
  • Natura intesa come meccanismo governato da leggi fisiche esprimibile in termini matematici e quantitativi

Romanticismo

  • Primato del sentimento
  • Identità nazionale
  • Rivalutazione della storia e del passato, in particolare del medioevo
  • Rivalutazione del sentimento religioso
  • Natura intesa come organismo vivente che si esprima attraverso legami di tipo qualitativo

L’esaltazione del sentimento nazionale, dell’orgoglioso senso di “appartenenza ad una Nazione” (intesa come l’insieme dei valori, delle tradizioni linguistiche-religiose-culturali e storiche di un popolo), è sostenuta dai romantici in senso polemico contro all’astratta professione di cosmopolitismo, che era propria dell’intellettuale illuminista, orgoglio romantico destinato a sfociare nel sentimento patriottico che darà vita ai movimenti di indipendenza nazionale e di ed ai moti che, a partire dal 1820 scuoteranno l’Europa fino al 1848. Le schematizzazioni, come al solito, sono comode, ma valide fino ad un certo punto, dato che, in verità, furono proprio i rivoluzionari francesi a parlare di nazione in senso moderno, quando la usarono in senso giuridico rivoluzionario, significativa dell’uguale diritto di tutti i francesi, tutti i cittadini risiedenti su suolo francese, all’uguaglianza ed alla libertà e soprattutto denotante una diversa fonte della sovranità, da ricercarsi non nel monarca, come voleva la concezione dell’assolutismo, ma nella nazione stessa e nel popolo che la incarna. Nella “volontà generale”, per Rousseau, risiedeva la fonte della sovranità, dunque i primi a parlare di Nazione, in senso giuridico-sociale, furono gli illuministi come Rousseau, ma per il Romanticismo tedesco, perché a partire dalla Germania si affermò il movimento, il concetto di nazione racchiudeva un significato afferente al sentimento di comunanza di sangue, di lingua e tradizioni, di cui parlavamo poc’anzi e non all’idea razionale e giuridica. La dominazione napoleonica in germnania favorì, in pensatori come Johann Gottfried Herder (1744-1803) e come Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) (con i suoi Discorsi alla nazione tedesca) l’idea di Nazione in senso etnico-religioso e linguistico ed i francesi vennero avversati e combattuti proprio in nome di quell’idea di nazione che essi per primi avevano portato alla ribalta sulla scena della storia. Il nuovo ordine imposto dal congresso di Vienna, venne combattuto in Europa proprio in nome di quest’ideale di nazionalità.
Allo stesso modo i romantici avversarono l’intellettualismo sterile degli illuministi, che avevano ridotto ad una presunta universalità ogni aspetto della sensibilità umana. Nei confronti della società industriale il romanticismo reagì in maniera integralista, respingendone recisamente gli aspetti esteriori. La sfrenata corsa all’arricchimento, che emerge come valore dominante nella società imprenditoriale; la degradazione dell’operaio a mero esecutore di operazioni meccaniche; il pericoli di una meccanizzazione eccessiva, il deturpamento dell’ambiente naturale, questi i temi di critica alla civiltà moderna portati dal romanticismo ai quali però non sa opporre alternative se non la nostalgia di medioevo, in cui le forme di vita comunitarie, il rispetto dei cicli naturali, i comportamenti morali fondati sul rispetto della tradizione religiosa ne fanno l’epoca d’oro a cui guardare con rimpianto.

9. L’economia politica nell’età dell’industria.
Il diverso il comportamento intellettuale degli economisti, che della civiltà industriale cercano di studiare i meccanismi produttivi al fine di prescrivere ai governi le scelte più adatte a favorire e gestire al meglio la crescita economica, ci da la misura di quanto la civiltà industriale abbia favorito lo svilupparsi in senso scientifico di una disciplina, nata nel 1700 a partire dai fisiocratici francesi e dallo scozzese Adam Smith, che ha come oggetto di studio particolare il tema della produzione e della distribuzione della ricchezza messo in essere proprio grazie all’industrializzazione. Proprio Adam Smith, aveva individuato nel liberismo la strada per stimolare la concorrenza e quindi la produzione ed era certo che lo sviluppo economico, favorito dalla libera concorrenza, avrebbe comportato la crescita della ricchezza complessiva e di conseguenza un naturale aumento dell’utilità collettiva. Purtroppo la realtà dei fatti, così come si andava affermando nel corso del XIX secolo contraddiceva in pieno le ottimistiche previsioni di Smith. Gli economisti a lui successivi dovettero fare i conti con i fenomeni di diseguaglianza e di conflitto sociale generati dall’industrializzazione.

  • Robert Malthus (1766-1834) enunciò la famosa legge per cui, mentre la popolazione cresce in progressione geometrica, le risorse crescono in progressione aritmetica, generando uno squilibrio tra l’aumento della popolazione e la scarsità delle risorse.
  • L’inglese David Ricardo (1772-1832), a partire dalla teoria di Smith detta del Valore-Lavoro, considera il problema della distribuzione della ricchezza tra i tre attori della produzione (lavoratori, imprenditori, proprietari terrieri) ai quali spettano rispettivamente i salari, il profitto e le rendite terriere. Il prezzo di una merce, che costituisce il suo valore di scambio sul mercato, è determinato dal lavoro globale in essa contenuto e costituito dalla somma del lavoro passato (le macchine, le attrezzature e gli edifici che servono a produrre una merce) con quello del lavoro presente (il lavoro dell’operaio). I conflitti si generano quando il proprietario dei mezzi di produzione pretende per se un profitto inversamente proporzionale al salario che corrisponde all’operaio, che in termini di valore assoluto ha impiegato meno lavoro del proprietario che ha comprato le macchine e così via. Il conflitto tra capitalista e operaio è minore rispetto a quello tra capitalista e proprietario terriero, in quanto la rendita fondiaria non produce ricchezza ma la consuma, grazie anche alla protezione daziaria di cui godono i proprietari terrieri in Inghilterra ai tempi di Ricardo, il quale ai tempi della battaglia per l’abolizione della legge sul grano assunse una posizione decisamente liberoscambista.
  • Vicino alla cultura romantica, lo svizzero Léonard de Sismondi (1773-1842) polemizza con gli economisti come Ricardo che considerano l’economia una scienza prescrittiva dei sistemi per accrescere la produzione invece di preoccuparsi di come possa realizzarsi il benessere sociale.  I governi devono intervenire per rendere più equa la distribuzione della ricchezza la dove, “c’è aumento di ricchezza solo là dove c’è aumento di felicità nazionale”.
  •  Le tre grandi ideologie politiche dell’Ottocento.

Nel corso dell’Ottocento i dibattiti politici, gli scontri ed i confronti avvennero alla luce di grandi ideologie che indicavano idee, programmi e principi differenti, ma tutte derivanti dalla necessità di concepire la società, interpretarla e risolverne i problemi.

Il termine “ideologia”, coniato sul finire del Settecento nell’opera Mémoire sur la faculté de penser di Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy (1754-1836), significa letteralmente “scienza delle idee”. Il filosofo Norberto Bobbio definisce il termine come un sistema di credenze e valori utilizzato, nella lotta politica per influire sul comportamento delle masse e orientare l’opinione pubblica in una direzione anziché un’altra, per ottenerne il consenso e fondare la legittimità del potere”. In tal modo possiamo parlare di ideologia progressista, rivoluzionaria o conservatrice. Karl Marx in L’ideologia tedesca, del 1844, usò in senso negativo il termine come quel complesso di opinioni e valori, presentati come validi universalmente ma che in realtà non esprimono che gli interessi della classe dominante..

Nel periodo da noi esaminato, le ideologie politiche dominanti erano tre: la Liberale, la Democratica e la Socialista.

  •  Il liberalismo è un insieme di dottrine che rivendicano precisi limiti al potere e all’intervento dello stato, al fine di proteggere i diritti naturali, di salvaguardare i diritti di libertà e, di conseguenza, promuovere l’autonomia creativa dell’individuo. Alla sua base il principio dell’assoluta Libertà dell’individuo. Storicamente il liberalismo nasce come ideale proprio della nascente borghesia nel momento in cui essa combatte contro le monarchie assolute e i privilegi dell’aristocrazia a partire dalla fine del XVIII secolo. Le sue matrici filosofiche sono il giusnaturalismo, il contrattualismo e l’illuminismo nella sua accezione individualistica e razionalistica. Locke e Montesquieu sono gli ascendenti illustri di questa ideologia che si traduce per la prima volta con il regime costituzionale inglese e nella dichiarazioni dei diritti dell’uomo americana e francese. Il liberalismo ha contribuito a definire la concezione moderna di società, intesa come somma ed espressione delle varietà e singolarità umane, concernenti sia l’ambito spirituale sia quello materiale. L’individuo, non la società o lo stato è il fondamento di ogni organizzazione sociale, economica o politica per la quale esso è depositario di una serie di diritti inalienabili quali la libertà di pensiro, di parola e soprattutto di proprietà, di commercio e di religione. Compito dello stato è quello di farsi garante che tali libertà siano concesse a tutti. Attenzione a non confondere liberalismo con liberismo. Il primo è una teoria politica, il secondo è una dottrina economica che esige il disimpegno dello Stato dall’economia. L’intervento dello Stato nell’economia è concepito al massimo nella commissione di adeguate infrastrutture (strade, ferrovie) che possano favorire il commercio. Il liberalismo è probabilmente la dottrina che ha più influenzato la concezione moderna della democrazia là dove il termine si riferisca al rispetto, non solo della maggioranza ma anche tutela delle minoranze. La monarchia costituzionale è il sistema politico privilegiato dal liberalismo ottocentesco, con la divisione dei poteri ed il suffragio censitario. In questo soprattutto consiste la differenza tra l’ideologia liberale e quella democratica, che nel linguaggio politico odierno sono spesso associate (si parla spesso di democrazia liberale) ma che nell’Ottocento delineavano programmi e valori del tutto differenti.

 

  • Di nobili ed antichissime ascendenze, basti pensare all’Atene di Pericle, il concetto di Democrazia*si fonda sul sacro principio della Sovranità Popolare, in base al quale i diritti politici devono essere garantiti a tutti. Il termine deriva dal greco démos (popolo) e cràtos ( potere), e significa governo del popolo. il termine nel suo significato originario, non ha l’accezione positiva che oggi gli attribuiamo. Va ricordato, infatti, che nell’antica Grecia la parola democrazia nacque come espressione “dispregiativa” utilizzata dagli avversari del sistema di governo ateniese pericleo. Il termine kratos, infatti, più che il concetto di potere (= meglio designabile dal termine archìa) rappresentava quello di “forza materiale” e “dispotismo”. “Democrazia” dunque assumeva il significato di “dittatura del popolo” o “della maggioranza”. I sostenitori del regime ateniese utilizzavano altri termini per indicare come una condizione di parità fosse necessaria al buon funzionamento di un sistema politico: “isonomia” (ovvero eguaglianza di tutti i cittdini di fronte alle leggi ) e “isogoria” (diritto di parola durante l’Assemblea per ogni cittadino). Aristotele, distingue fra tre forme pure e tre forme corrotte di governo: monarchia (governo del singolo), aristocrazia (governo dei migliori) e politía (governo di molti); esse secondo il filosofo rischiavano di degenerare rispettivamente in dispotismo, oligarchia (governo di una élite), e democrazia.

Il concetto di democrazia non è cristallizzato in una sola concreta traduzione, ma può trovare ed ha trovato la sua espressione storica in diverse espressioni ed applicazioni, tutte caratterizzate, per altro, dalla ricerca di una modalità capace di dare al popolo la potestà effettiva di governare. Il suffragio universale era la richiesta avanzata dai democratici ottocenteschi, al quale veniva associata la forma di governo repubblicana. Al fondo della divergenza tra liberali e democratici, un diverso approccio filosofico. Non la libertà ma l’Uguaglianza era il fondamento dell’ideale democratico. L’uguaglianza era interpretata in senso civile e giuridico, non economico, anche se i pensatori democratici, come Mazzini ad esempio, tenevano conto dell’esistenza delle disparità sociali e invocavano l’intervento delle stato al fine di ridurle con leggi adeguate. Quindi lo stato è chiamato in causa dalla democrazia, là dove, invece, il liberalismo classico è essenzialmente una dottrina dei limiti del potere politico. Il problema della detenzione del potere è l’oggetto della riflessione della democrazia. La democrazia richiede che il potere politico sia fatto derivare dal popolo e che esso lo eserciti direttamente o attraverso rappresentanti eletti, ma non si preoccupa di evitare la concentrazione del potere né di tutelare le minoranze. Allo stesso modo, come vedremo, nello Stato Liberale dell’ 800 un’ampia fetta della popolazione è esclusa dal potere politico e dal diritto di eleggere i suoi rappresentanti. Con la trasformazione degli Stati liberali in Stati democratici la distinzione è andata sfumando. Le democrazie moderne sono anche dette liberaldemocrazie perché combinano il principio della sovranità popolare con la tutela dei diritti liberali e con la divisione dei poteri prevista da Montesquieu.

  • Il liberalismo, espressione della società borghese e la democrazia sono oggetto della critica del Socialismo. L’esaltazione della libertà individuale e del mercato, professati dal liberalismo, gli ideali di uguaglianza  esaltati dalla democrazia, in realtà sono appannaggio di una ristretta minoranza e rispecchiano gli interessi di una borghesia che detiene il potere economico e politico. in una società divisa in classi come quella borghese ed industrializzata non la libertà dell’individuo ma la libertà dal bisogno e la Giustizia sociale devono essere il valore fondamentale. La libertà del singolo va limitata e subordinata all’interesse della società tutta, perché soltanto l’eliminazione di tutte le disuguaglianze, economiche e sociali, può garantire la libertà di tutti. L’idea di uguaglianza era fondamentale nell’ideologia socialista, come in quella democratica ma, mentre per la democrazia si tratta di uguaglianza formale, che riguarda i diritti civili, per il socialismo è un’uguaglianza sostanziale che si concreta soltanto nell’offrire a tutti le stesse condizioni ed opportunità di vita. Per far ciò il socialismo mette in discussione il punto cardine della società capitalistica, la proprietà privata, considerata non più come diritto fondamentale dell’individuo ma come fonte di tutte le disuguaglianze.

 

  •  Le critiche alla società Borghese.

 11. 1. Il Socialismo utopista

Non vanno combattuti i borghesi, vanno combattuti tutti coloro che campano alle spalle del proletariato senza svolgere alcuna attività”  (Henri de Saint Simon)

L’Ottocento è il secolo della Borghesia, nel quale si passa da una società per ceti (come era quella dell’antico regime, in cui i gruppi sociali si distinguevano per la loro posizione giuridica , la loro partecipazione o meno al potere e un insieme di stili di vita) ad una società per classi, in cui individui, uguali per posizione giuridica, si distinguono per le loro posizione economica e produttiva, all’interno di un sistema fondato sul mercato. Nel corso del secolo, intellettuali ed economisti mossero critiche al modello societario che, sulla base della rivoluzione francese e della rivoluzione industriale inglese, si era andato creando, portando alla ribalta il concetto di “classe sociale”, incarnato nella contrapposizione tra borghesia e proletariato. L’una sta all’altra in un binomio inscindibile all’interno di un sistema economico e produttivo quale quello consolidatosi a partire dall’Inghilterra industrializzata, che aveva fatto del capitalismo, della fabbrica e della metropoli i nodi centrali. Qualcuno però pensava ci potessero essere alternative a tale modello, che produceva l’infelicità ed il malessere della maggioranza delle persone. I socialisti della prima metà dell’Ottocento si adoperarono per proporne alcune.
Il socialismo è l’ideologia legata ai movimenti politici che, a partire dall’Ottocento lottarono per migliorare la vita sociale ed economica delle classi meno abbienti e in particolare del proletariato.
Il movimento operaio, da cui scaturì il socialismo, pose per la prima volta il problema della giustizia sociale e dell’uguaglianza economica al centro del programma politico. Trasformò radicalmente le forme della politica organizzandosi in partiti di massa e cercando di coordinare la propria attività politica a livello internazionale.
Tre sono i pensatori annoverati tra i pionieri dell’ideale socialista: il conte di Saint Simon (1760-1825), Charles Fourier (1772-1837), e Robert Owen (1771-1858).
1) Il primo degli utopisti è certo Saint Simon, per il quale i guasti della società derivano non dalla industrializzazione ma dalla presenza in essa di quelli che definisce i parassiti, ossia i nobili, i preti, i militari (= gli “oziosi”), che contrappone al variegato gruppo dei produttori, siano essi commercianti, industriali o agricoltori, banchieri e scienziati, coloro il cui operato è in grado di migliorare il tenore di vita dell’intera società grazie proprio all’aumentata produttività e conoscenza tecnico-scientifica. Questa società di collaboratori o di associati, senza distinzione tra l’industriale ed il semplice operaio, necessita però di un collante, che egli individua nell’“amore per il prossimo” predicato nel vangelo di Cristo. Teorico della “filosofia positiva” e di un approccio scientifico ai problemi sociali e politici, le sue opere influenzarono notevolmente Auguste Comte.

2) Fourier, scettico nei riguardi della società industriale ed in genere della società civile, sulla scorta di Rousseau, è convinto della originaria bontà dell’uomo e nella società industriale moderna vede un elemento mortificatore della creatività umana. La fabbrica, con i suoi tempi ed i suoi ritmi artificiali, reprime le naturali propensioni umane. Contrario alla libera concorrenza che definì “inutile guerra che genera sprechi”, egli propose un nuovo modello di società, che tentò anche di realizzare insieme ad alcuni suoi seguaci, basato sul principio del lavoro e della vita in comune. Piccole comunità di eguali, chiamate Falansteri, accolgono persone, nel numero di 1800 unità circa, che vivono insieme in piena parità di sessi, dividendo equamente  il prodotto del lavoro comune, una società che tenta di realizzare l’uomo “nello stato di natura”, in cui viene abolita la famiglia, la monogamia e l’oppressione della donna, prodotti della morale convenzionale di quello che per Fourier non è altro che un “mondo alla rovescia”, ossia contrario alle naturali tendenze umane, represse dalla società.
3) Curiosa figura di industriale-sindacalista, Owen fu molto sensibile ai problemi derivanti dal lavoro in fabbrica. Di fondamentale importanza nella storia del movimento operaio britannico, imprenditore tessile nel settore cotoniero, egli stesso constatò e segnalò, nella sua attività di sindacalista e saggista, i disagi cui gli operai erano sottoposti durante il lavoro, e si adoperò di persona per migliorare le condizioni dei suoi salariati, aumentando gli stipendi, fissando orari di lavoro più umani, fondando scuole (poiché la possibilità di studiare è da lui ritenuto l’unico mezzo per liberare la persona) e soprattutto consentendo ai lavoratori di partecipare agli utili. L’idea fondamentale di Owen è che la produzione debba basarsi sulla cooperazione, anziché sulla concorrenza, soltanto così è possibile creare, sulla scorta di Fourier, comunità agricole e industriali autosufficienti.
4) La realizzazione di “fabbriche sociali” è la proposta avanzata dallo storico e politico francese Louis Blanc (1811-1882), che prevedeva una cooperazione tra lavoratori, che sostituisse la proprietà privata e la libera concorrenza, fonte della miseria operaia. Ruolo fondamentale era attribuito al potere pubblico, al quale spettava il compito di erogare a queste fabbriche i necessari capitali iniziali.
5) La figura di maggior rilievo del socialismo ottocentesco è però Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865). Nel saggio intitolato Che cos’è la proprietà? (del 1840) rispondeva recisamente: “la proprietà è un furto”. Con questo Proudhon non intendeva tendere all’abolizione della proprietà, ma, anzi, estenderla ad una pluralità di soggetti (artigiani, piccoli produttori e società cooperative) in modo da eliminare la situazione di monopolio, per cui una ristretta classe di grandi proprietari sfrutta la maggioranza della popolazione. Punto di partenza, l’istituzione di un credito iniziale ai piccoli imprenditori concesso da una banca centrale, che desse la possibilità a molti di impiantare la propria attività, banca che, in Proudhon,  veniva a ricopriva il ruolo che il potere pubblico statale aveva assunto in Blanc. Lo stato centralizzato doveva, per Proudhon, essere sostituito, gradatamente, da una rete di contratti stretti tra famiglie (le cellule originarie della società) per l’instaurazione di una società federalista, priva di monopoli ma anche d’interventi coercitivi da parte di un potere contrale, nella quale vigesse un regime di libertà individuale associato alla solidarietà. Egli stato il primo ad attribuire un significato positivo alla parola anarchia, che prima era utilizzata soltanto in senso dispregiativo, cioè nel senso di caos, disordine. Proudhon è il primo intellettuale che si sia definito “anarchico”.Egli definì l’anarchia come l’assenza di signori, di monarchi o governanti in uno stato sovrano, “una società senza autorità”, affermando che “proprietario” è sinonimo di “padrone”. L’anarchia è una forma di governo o di costituzione nella quale la coscienza pubblica e privata, formata dallo sviluppo della scienza e del diritto, basta da sola a mantenere l'ordine ed a garantire tutte le libertà. Egli rifiuta ogni tipo di potere al di sopra dell'individuo, ivi compreso Dio che, in ambito religioso, è esattamente come lo stato in ambito politico e la proprietà in quello economico: istituzioni illegittime finalizzate al controllo degli altri uomini ed al loro sfruttamento.  “La concezione economica di capitalismo, quella politica di governo e quella teologica di Chiesa sono tre concetti identici, collegati in modi differenti. Attaccare uno solo di loro equivale ad attaccarli tutti. Quello che il capitale fa al lavoro, e lo Stato alla libertà, la Chiesa lo fa allo spirito”.

Il modello di un uomo buono per natura, corrotto dalla società industriale e perfettibile attraverso l’educazione, è l’elemento illuminista che si evince da questi primi pensieri del socialismo, detto utopistico, all’interno del quale si fa strada anche l’idea nuova della “vita in comune”, della cooperazione in una società di “eguali”, “senza classi”, in alternativa a quella liberale e capitalistica, basata sulla  concorrenza e l’individualismo.

11. 2. Il modello comunista
Nei primi anni del secolo non esisteva una distinzione tra socialismo e comunismo, i due termini erano sinonimi, indicanti un’ ideologia opposta al capitalismo ed all’individualismo liberale in nome di una uguaglianza sociale ed economica. Col tempo si preferì indicare come comunisti i sostenitori di un egualitarismo radicale all’interno di una società, basata sulla abolizione della proprietà privata e la gestione comune dei beni e della terra, da attuarsi attraverso una rivoluzione. Questo filone raccoglieva l’eredità del giacobinismo radicale e della “congiura degli uguali” capeggiata in Francia da Babeuf nel 1795, fallita e repressa, i cui ideali erano tenuti vivi dal rivoluzionario Pisano Filippo Buonarroti. A quest’ideale s’ispirò il francese Auguste Blanqui (1805-1881), che teorizzò la necessità di una presa di potere politico da parte di un ristretto nucleo di rivoluzionari che avrebbero instaurato e difeso la futura società comunista attraverso un transitorio regime dittatoriale.
 Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono coalizzate in una “sacra” caccia alle streghe contro questo spettro: il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi. [..] È ormai tempo che i comunisti espongano apertamente, in faccia a tutto il mondo, il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso” (Marx ed Engels, Manifesto del partito comunista).
Nel 1848, il filosofo tedesco Karl Marx e l’amico collaboratore Fiederich Engels pubblicarono Il Manifesto del partito comunista, commissionato ai due autori dalla Lega dei comunisti londinese nel 1847, dove il termine comunismo era usato in aperta polemica con quello di socialismo, criticato perché basato su ideali prettamente umanitari e utopistici invece che su di una analisi scientifica della società e senza individuare il ruolo rivoluzionario della classe operaia.
Il pensiero di Marx costituisce la più organica formulazione del socialismo ottocentesco. Ciò che distingue la sua teoria da quelle che egli stesso definì utopistiche è il tentativo di elaborare una critica della società capitalistico-industriale, e la conseguente necessità di cambiamento radicale, non su basi morali o umanitarie ma su di un’analisi scientifica delle contraddizioni interne della società moderna. Le due nozioni da cui prende il via la sua critica sono: la teoria economica del rapporto valore-lavoro, elaborata da Ricardo e la nozione di Dialettica espressa dalla filosofia di Hegel. Avremo modo di analizzare il pensiero di Marx nel corso di filosofia e nelle pagine a lui dedicate. In questa sede ci basti sapere che il motore fondamentale del divenire storico è individuato dalla lotta di classe, il conflitto necessario fra la classe che detiene il potere politico e soprattutto economico e quella che aspira a conquistarlo. Nel Manifesto Marx esprime questo concetto evidenziando il carattere rivoluzionario della borghesia che ha determinato il passaggio dalla società agricola e feudale alla rivoluzione industriale attraverso una lotta, culminata con la rivoluzione Francese. La borghesia, affermandosi come forza economica, detiene anche il potere politico. Tuttavia, la ricchezza della borghesia deriva dallo sfruttamento del lavoro operaio. Da tale sfruttamento il capitalista trae il suo profitto, egli paga l’operaio per un tempo di lavoro inferiore a quello prestato. Da ciò deriva il fatto che mentre un’ esigua minoranza si arricchisce sempre di più ed accresce il proprio tenore di vita, materiale, morale e intellettuale, la stragrande maggioranza della società versa in condizioni prossime alla sussistenza. Non soltanto l’operaio diviene sempre più povero, ma il suo lavoro diviene sempre più alienato, consistendo nella ripetizione automatica di operazioni meccaniche. Lo sfruttamento del proletariato è, inoltre, assicurato alla borghesia dominante dalla complicità dello Stato, visto come un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese. Nato in seguito all’ascesa della borghesia, il proletariato, unitosi in classe, ha insita nel suo destino la necessità ad abbattere dialetticamente la classe borghese; la storia per Marx, infatti, tende per necessità dialettica ad un superamento del presente. Per evitare la distruzione delle classi in lotta e l’imbarbarimento della società, il proletariato dovrà essere artefice del superamento del modo capitalista di produzione. In seguito ad una rivoluzione in cui il proletariato prenderà il potere politico, ci sarà una fase di transizione in cui si useranno i mezzi messi a disposizione dallo Stato per trasformare la società: ad uno Stato borghese si sostituirà uno Stato proletario, ad una dittatura della borghesia si sostituirà una “dittatura del proletariato”. Terminata questa fase di transizione si arriverà al comunismo, ovvero ad una “società senza classi”, in cui i mezzi di produzione sono comuni, in cui sia definitivamente eliminato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo ed in cui ciascun individuo possa liberamente esprimere le proprie potenzialità. Venuta a mancare la lotta di classe, sparirà anche il piano sul quale essa si era sviluppata: lo Stato. Il potere pubblico, infatti, non è altro, per Marx ed Engels, che il potere di una classe organizzato per opprimerne un’altra.
L’opera di Marx rappresentò una vera svolta nel pensiero socialista; non solo la critica alla società capitalistica era condotta su basi scientifiche ed economiche mature e strutturate ma ad essa si univa un concreto programma rivoluzionario che vivificherà il dibattito all’interno del movimento operaio della seconda metà del secolo fino a sfociare nei tentativi, più o meno riusciti, di realizzarne concretamente i principi, nella prima metà del secolo XX.
Dopo il fallimento dell’ondata rivoluzionari che agitò l’Europa nel 1848 la distinzione tra i termini socialismo e comunismo si dissolse nuovamente fino al concreto movimento rivoluzionario che in Russia, nel 1917, rovesciò il regime zarista ad opera del marxista Vladimir Il’ic Ul’janov detto Lenin, che chiamò “comunista” il suo partito, per distinguerlo dal socialismo “riformista” diffuso in tutta Europa. Da allora si aprì una fase di aperta polemica tra i due partiti, in quanto i primi si richiamavano apertamente alla dottrina marxista ed alla concreta esperienza rivoluzionaria sovietica i secondi si collocavano in una posizione più moderata che auspicava una riforma all’interno del sistema capitalistico e liberale.

I presenti Appunti intendono essere un prospetto riassuntivo degli argomenti trattati nei capitoli 14; 15; 18 del Vol. II di Studiare Storia.

 


“Sei un repubblicano?
“Repubblicano [...] sì. Ma non significa nulla. Res publica, la cosa pubblica. Chiunque si interessi alla cosa pubblica può definirsi repubblicano. Anche i re sono repubblicani.
“Bene! Quindi sei un democratico?
“No.
“Cosa? Forse un monarchico?
“No.
“Costituzionalista?
“Dio non voglia!
“Vorresti una forma di governo mista?
“Meno che mai...
“E allora cosa sei?
“Un anarchico...
“Ah, [...] capisco. Sei ironico.
“Assolutamente no. Ti sto dando la mia seria e ponderata professione di fede. Sebbene un fervente sostenitore dell'ordine, io sono - nel più forte significato del termine - un anarchico. 
(Pierre-Joseph Proudhon)

 

 

 

* Pericle - Discorso agli Ateniesi, 461 a.C.
 Qui ad Atene noi facciamo così.
 Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.

Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.

Qui ad Atene noi facciamo così.

La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.

Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.

E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.

Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.

Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.

Qui ad Atene noi facciamo così.

(Tucidide, La guerra del Peloponneso

 


Secondo alcuni storici, ciò che ha materialmente impedito a molte civiltà antiche (come quella romana ad esempio, così ricca di conoscenze ingegneristiche, costruttive, idrauliche e così via) di automatizzarsi è stata proprio la enorme disponibilità di forza lavoro: gli schiavi.

Ned Ludd fu il capo operaio tessile che dalla foresta di Sherwood, come il mitico Robin Hood, guidava le spedizioni distruttive delle macchine tessili che avevano soppiantato il lavoro degli operai specializzati, minacciando le abilità artigianali e le professionalità acquisite con anni di lavoro. La repressione del fenomeno fu durissima tanto che si arrivò a punire con la pena di morte chi distruggeva le macchine.

Agli inizi del 1800 la popolazione europea era di 195 milioni di abitanti, alla fine del secolo superava i 430 milioni.

In un sistema chiuso alle importazioni il grano è venduto ad un prezzo non concorrenziale, il che determina un vantaggio economico per i proprietari delle terre ad alto rendimento (che producono a minor costo un grano che vendono a un prezzo alto). Questo porta ad elevare la “soglia di sussistenza” (per sopravvivere è necessario pagare di più i generi di prima necessità) e quindi il dovere di alzare i salari agli operai, con grave danno degli imprenditori, i cui profitti verranno ridotti dai salari e con ciò la capacità di investire, il che determinerà un rallentamento complessivo del sistema economico.

Per un’analisi del termine “necessario” rimandiamo alle pagine riguardanti la filosofia di Hegel.

 

Fonte:  http://keynes.scuole.bo.it/~miglioli/kant/LA%20CIVILTAINDUSTRIALE.doc

Sito web da visitare:  http://keynes.scuole.bo.it

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