La Francia prima della rivoluzione

 


 

La Francia prima della rivoluzione

 

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La Francia prima della rivoluzione

La Francia prima della rivoluzione


Nel Settecento in Francia, come nella maggior par­te d'Europa, la società era divisa in tre classi o me­glio, secondo il linguaggio settecentesco, in tre "ordini" o in tre "stati": il clero, la nobiltà e il popolo.


Il clero.

In un mondo in cui per motivi religiosi po­tevano scoppiare guerre sanguinosissime, in cui l'autorità dei sovrani si fondava non sul consenso popolare, ma sulla volontà divina, al clero venivano naturalmente riservati notevoli privilegi.

I conventi e i vescovadi avevano grandissime proprietà terriere (fra il 6 e il 10 per cento del totale) ed erano esenti dal pagamento delle tasse. I sacerdoti, se commettevano reati, non potevano essere giudi­cati dai tribunali ordinari e secondo le leggi civili:

essi potevano comparire solo davanti a un tribunale ecclesiastico per essere giudicati secondo il diritto canonico. Il clero gestiva tutte le scuole, i collegi e le università e quindi controllava l'istruzione, tanto quella popolare che quella dell'aristocrazia.


La nobiltà.

Non meno cospicui erano i privilegi del­la nobiltà: anch'essa possedeva immensi patrimoni fondiari (il 20-25 per cento della terra) e godeva di molte agevolazioni fiscali. I nobili per investitura feudale, nei loro domini, continuavano a riscuotere piccole tasse e pedaggi e a esercitare le funzioni di giudice. Ai nobili erano poi riservati i gradi maggio­ri dell'esercito e le massime cariche dello Stato.


Il Terzo stato.

Prima della rivoluzione i religiosi e i nobili erano in Francia rispettivamente 130.000 e circa 300.000: un'esigua minoranza su una popola­zione di 26 milioni di abitanti. La maggior par­te dei francesi faceva parte del Terzo stato: è natu­rale dunque che esso comprendesse le più diverse categorie sociali.

Al vertice del Terzo stato, quasi a contatto con l'aristocrazia, vi era un ceto alto-borghese di grandi proprietari che vivevano di rendita, di funzionari dello Stato, di finanzieri e di banchieri: uomini che avevano tratto vantaggio dallo sviluppo economico francese del XVIII secolo, che non erano nobili, ma che potevano aspirare a diventarlo.

Sotto di loro c'era un ceto medio composto di commercianti all'ingrosso, di imprenditori, di intellettuali e di impiegati, nonché dei membri di particolari gruppi professionali, come i librai, gli stam­patori, i farmacisti e i chirurghi.

Più giù nella scala del prestigio sociale c'erano gli

artigiani, i commercianti al dettaglio e quei lavora­tori della città che esercitavano lavori manuali.

Al gradino più basso si trovavano i lavoratori della terra, 20 milioni di persone. In alcuni casi essi erano piccoli proprietari o contadini benestanti e avevano quindi un patrimonio superiore a quello della maggior parte dei lavoratori delle città; più spesso erano mezzadri o piccoli affittuari che pos­sedevano un po’ di bestiame da lavoro e con esso colti­vavano le terre di grandi proprietari; ancora più spesso erano contadini poveri, che non avevano abbastanza terra per sostentare la loro famiglia e che quindi erano costretti a lavorare come brac­cianti in qualche grossa azienda agraria. Tutti quanti però, contadini, mezzadri, affittuari e brac­cianti erano sottoposti alle giurisdizioni feudali, pa­gavano le tasse ai feudatari e le decime agli eccle­siastici, talvolta erano ancora costretti a effettuare corvées.


Sopravvivenze del regime feudale.

In Francia la servitù riguardava solo una piccola parte della po­polazione rurale (forse il 5 per cento), mentre per gli altri ceti sociali era scomparsa da tempo.

I contadini potevano sposarsi liberamente e cam­biare di residenza senza chiedere il permesso del signore. In particolare potevano godere del diritto di proprietà su beni immobili e quindi venderli o trasmetterli ereditariamente.

Tuttavia, anche la piena e libera proprietà dei con­tadini aveva un limite e cioè la distinzione giuridica fra "proprietà utile", che toccava al contadino, e "proprietà eminente", che toccava al signore della terra. Era come se dietro la piccola proprietà si do­vesse sempre supporre l'esistenza di una conces­sione da parte di un signore e quindi un generale diritto prioritario dei signori su tutta la terra.

Il contenuto economico di questo diritto signorile era assai pesante. Una tassa a favore del signore colpiva ogni passaggio di proprietà (alienazione o eredità) della terra contadina. Un secondo prelievo, spesso in natura e assai variabile da regione a re­gione, colpiva questa terra contadina, ed era avver­tito come un abuso feudale del tutto privo di giustificazione.


L'entità del prelievo feudale.

Si può attribuire un 8 per cento del raccolto alle decime ecclesiastiche e un 20-30 per cento ai diritti signorili.

Ma dopo il decimatore e l'agente del signore pas­sava anche il funzionario del fisco statale; quindi il

totale dei pagamenti compiuti dal contadino ammontava al 40-60 per cento del raccolto. Durante gli anni di bassi prezzi agricoli ciò significò un peso schiacciante per le classi rurali e ogni volta che un raccolto era inferiore al normale era la rovina per chi doveva pagare canoni in natura e non veniva a disporre di una parte commerciale sufficiente per procurarsi il denaro per le imposte.


Il disordine fiscale.

Tutti i tentativi compiuti nel cor­so del Settecento di abolire i privilegi fiscali del clero e della nobiltà erano falliti. Era nel settore dell'am­ministrazione delle finanze pubbliche che l'insuffi­cienza dello Stato appariva con maggiore evidenza. Le imposte indirette (dazi e gabelle) erano affidate in appalto a un'istituzione chiamata Ferme générale (appalto generale), controllata da finanzieri francesi e svizzeri. Era chiaro a tutti che questo sistema di riscossione (abolito invece dai riformatori lombardi e toscani) faceva disperdere nelle mani degli appal­tatori una gran parte delle imposte; la corruzione regnava comunque anche negli uffici statali che ri­scuotevano la taglia, la più antica imposta fondia­ria, e le altre imposte dirette. La partecipazione francese alla guerra di liberazione americana aveva poi aggravato la situazione, facendo crescere verti­ginosamente il deficit statale e il debito pubblico.

Un nuovo tentativo di riforma amministrativa e fi­scale fu attuato fra il 1777 e il 1781 dal ministro delle finanze, il banchiere ginevrino Jacques Nec­ker, ma di fronte all'op­posizione del Parlamento di Parigi egli fu costretto alla fine a dimettersi.


PER FARE IL PUNTO

  • La disuguaglianza e i privilegi sui quali era fondata la società francese si manifestavano in forma particolarmente acuta sul terreno fiscale.

  • L'intero sistema fiscale e amministrativo fran­cese appariva sempre più arcaico, se confrontato con le riuscite riforme operate in Lombardia e in Toscana, che avevano condotto all'abolizione del­l'appalto delle imposte indirette.

  • Il discredito che colpiva l'inefficienza dello Sta­to faceva apparire come sempre più inaccettabile la sopravvivenza del regime feudale: esso dirotta­va a favore di una nobiltà priva di spirito imprendi­toriale una gran parte dei redditi tratti dall'agricol­tura ed era considerato responsabile del ritardo dello sviluppo economico del paese.



Verso la rivoluzione: gli Stati generali



Dopo il 1781 la situazione delle finanze pubbliche si fece sempre più difficile.

Nel 1788 metà delle entrate dello Stato era impiega­ta per pagare gli interessi sui debiti accumulati. Era ancora possibile evitare la bancarotta?

Anche gli ultimi tentativi compiuti nel 1787-88 dai successori di Necker di riordinare le finanze e abo­lire i privilegi fiscali finirono in un fallimento. L'ari­stocrazia trovò un pieno appoggio nel Parlamento di Parigi e scaricò tutte le responsabilità della diffi­cile situazione sull'assolutismo regio.


Gli Stati generali.

Presentando i tentativi di riforma del re Luigi XVI e dei suoi ministri come una ri­scossa dell'assolutismo, l'aristocrazia e il Parlamen­to di Parigi avevano trovato la parola d'ordine giu­sta per ottenere un vasto consenso dell'opinione pubblica. Uguale fu il loro successo, quando otten­nero dal re la convocazione per il maggio 1789 de­gli Stati generali. Si trattava dell'antico corpo rap­presentativo dei tre "stati" della Francia (clero, no­biltà e Terzo stato), che non si riuniva dal 1614, dal tempo cioè in cui aveva preso ad affermarsi il go­verno assolutistico del re.

Appellandosi a questo lontano organo costituziona­le, i ceti aristocratici e parlamentari riuscirono dun­que a collegarsi a un principio di legittimità del potere che precedeva storicamente l'assolutismo.

Era per loro un vero trionfo. Se il re concesse, contro la tradizione, che il Terzo stato avesse un numero di rappresentanti doppio di quello di ciascuno degli altri due "stati", l'aristocrazia per contro la ebbe vinta sul punto decisivo: le votazioni negli Stati generali dove­vano avvenire "per ordine": in altre parole, a ogni "stato" toccava un voto e quindi la nobiltà e il clero avrebbero avuto in ogni caso la maggioranza.


L'apertura degli Stati generali.

Gli Stati generali si riunirono a Versailles, dove aveva sede la Corte, nei primi giorni di maggio del 1789. L'atmosfera era tesa. Le parti in gioco erano tre: la monarchia, che si era vista imporre dai nobili la convocazione degli Stati generali; l'aristocrazia e l'alto clero (vescovi e cardinali), che ritenevano che quella potesse essere l'occasione per ristabilire il proprio ruolo politico tanto nei confronti del sovra­no che nei confronti del popolo; il Terzo stato e il basso clero (i parroci), che si battevano perché fosse instaurata una maggiore giustizia fiscale e perché la voce dei rappresentanti del popolo fosse finalmente ascoltata.


Il Terzo stato si costituisce in Assemblea nazionale.

Per oltre un mese gli "stati" e il sovrano furono im­pegnati in una decisiva questione procedurale: il Terzo stato si opponeva al voto "per ordine" e chiedeva il voto "per testa", cioè la formazione di vere maggioranze e minoranze.

Finalmente il 10 giugno i delegati del Terzo stato presero l'iniziativa: si convocarono ufficialmente e invitarono i rappresentanti degli altri due "stati" a unirsi a loro. All'esortazione risposero diversi par­roci, ma nessun nobile.

Ciò nonostante il 17 giugno il Terzo stato e il basso clero si costituirono ufficialmente come Assemblea nazionale, legittima rappresentante della nazione francese.

La nobiltà e l'alto clero erano messi praticamente fuori gioco. Luigi XVI non aveva l'autorità per pro­porsi come mediatore: il 23 giugno, sotto la spinta degli aristocratici, ordinò all'Assemblea di scioglier­si; questa non eseguì affatto l'ordine del sovrano e anzi nei giorni successivi la maggioranza del clero e diversi nobili si unirono a essa. Infine il 27 giugno lo stesso Luigi XVI riconobbe la nuova situazione e invitò i delegati dei primi due ordini a unirsi al Ter­zo stato.

Il 7 luglio l'Assemblea nominò un comitato col compito di redigere una costituzione: pacificamen­te e nel pieno rispetto delle norme giuridiche la borghesia francese stava facendo la sua rivo­luzione.



PER FARE IL PUNTO

  • L'opposizione dell'aristocrazia e del Parlamen­to di Parigi si trasformò in un'offensiva contro l'assolutismo, trovando vasti consensi anche fra i ceti borghesi e popolari.

  • La convocazione degli Stati generali per il 1789 apri subito dissensi nel fronte antiassolutista. La nobiltà faceva appello all'antica Costituzione fran­cese e vedeva negli Stati generali un'occasione per volgere a proprio vantaggio l'equilibrio dei po­teri. La borghesia voleva invece trasformare gli Stati in un vero organo di rappresentanza na­zionale.

  • Proclamandosi Assemblea nazionale, il Terzo stato compì il 17 giugno 1789 il primo grande atto di rottura nei confronti delle istituzioni dell'Antico regime.


Le insurrezioni popolari del 1789


Agli aristocratici e al re non restava che una solu­zione per difendere il proprio potere e i propri privi­legi: fare intervenire l'esercito.

Ma la tensione non era solo a Versailles: da quasi un anno, da quando cioè si era deciso di convoca­re gli Stati generali, tra i ceti popolari crescevano il fermento e l'attesa di un radicale rinnovamento.

Il 1788 poi era stato per l'agricoltura un anno pes­simo e nella primavera del 1789 il prezzo del pane era più che triplicato. Il pericolo di una carestia aumentava il malcontento popolare; si parlava di una congiura degli aristocratici per sciogliere gli Stati generali.


La presa della Bastiglia.

Quando si diffuse la voce che Luigi XVI aveva concentrato le truppe attorno a Parigi, il furore popolare divampò: la folla prese le armi e le strade della città si riempirono subito di barricate. Mentre le truppe esitavano a intervenire, una folla di artigiani e di popolani diede l'assalto alla più munita delle fortezze parigine, quella in cui venivano rinchiusi i detenuti politici: la Bastiglia. Al termine di una sanguinosa battaglia la Bastiglia cadde nelle mani degli insorti: era il 14 luglio 1789 e questa data sarebbe stata ricordata in seguito come l'inizio della rivoluzione fran­cese. Il 15 luglio Luigi XVI annunciò all'As­semblea na­zionale che le truppe erano state allontanate da Pa­rigi. Venne formata una Guardia nazionale con a capo il marchese La Fayette (che aveva a suo tem­po combattuto a fianco dei coloni americani insor­ti), mentre l'amministrazione della città veniva affi­data a una municipalità retta da borghesi. La ban­diera con i gigli d'oro del re fu sostituita da un tricolore col bianco (il colore della monarchia), il rosso e l'azzurro (i colori del comune di Parigi).


Le insurrezioni nella provincia.

Ma il moto popola­re non si fermò a Parigi: nelle principali città della Francia la borghesia si impadronì dell'amministra­zione, estromettendo i vecchi ceti aristocratici.

Nelle campagne i contadini diedero l'assalto ai ca­stelli dei nobili, bruciarono gli archivi, che contene­vano le antiche carte base del potere signorile, ri­pristinarono l'uso collettivo delle terre comunali. Era il periodo della mietitura ed essi si rifiutarono di pagare sia le decime agli eccle­siastici sia le tasse ai feudatari.


L'abolizione del feudalesimo.

L'assemblea di Ver­sailles, appena uscita vincitrice dal conflitto con il re, dovette prendere delle rapide decisioni di fronte a quell'imprevista rivolta contadina che stava coin­volgendo centinaia di migliaia di persone. La notte tra il 4 e il 5 agosto, dopo un'estenuante giornata di discussioni, gli stessi deputati del clero e della no­biltà si accorsero che un'epoca storica era finita e che gli antichi diritti signorili andavano aboliti.

«L'Assemblea nazionale abolisce interamente il re­gime feudale»: con queste parole, di cui non sfug­giva la portata storica, iniziava il decreto approvato il successivo 11 agosto. In realtà dalla grande emo­zione notturna del 4 agosto ai successivi decreti ci si era dovuti accorgere che non sempre era chiaro che cosa si intendeva abolire.

Su quei diritti che gravavano sulle persone non c'e­rano dubbi: i diritti di caccia, le residue corvées, i diritti di bassa giustizia e gli altri segni della servitù furono cancellati totalmente. Ugualmente furono abolite le decime eccle­siastiche.

Un altro gruppo di disposizioni riguardò il regime fiscale del paese. Ogni genere di privilegio fu aboli­to, sia per gli ordini sociali esenti (il clero e la nobil­tà), sia per le province e per le città che godevano di trattamenti di favore. «Una costituzione naziona­le e la libertà pubblica» diceva il decreto «sono più vantaggiose per le province dei privilegi di cui al­cune fruivano». L'Assemblea affermava inoltre che la riscossione delle imposte «verrà fatta su tutti i cittadini e su tutti i beni nello stesso modo e con le stesse modalità». L'ultimo articolo del decreto stabi­liva infine: «Tutti i cittadini, senza distinzione di na­scita, potranno essere ammessi a tutti gli impieghi e a tutte le dignità ecclesiastiche, civili e militari». La pratica di vendere le cariche pubbliche veniva così abolita, e allo stesso tempo veniva meno il di­ritto dei funzionari di farsi pagare le proprie presta­zioni pubbliche, in particolare nel campo della giu­stizia, la cui amministrazione sarebbe stata gratuita.


I diritti sulla terra.

Un'abolizione pura e semplice dei diritti che gravavano sulla terra e che si concre­tizzavano nel pagamento di canoni in natura e in denaro, sembrò invece assai più problematica; nes­suno dei membri dell'Assemblea aveva intenzione di abolire il diritto di proprietà e il vero problema fu per loro quello di modernizzare forme arcaiche di proprietà; molti contadini erano di fatto dei proprie­tari, ma i signori fondavano su certi antichi diritti di "proprietà eminente", che si era separata nei secoli dalla "proprietà utile", i vari canoni e censi che chiedevano ai coltivatori. Questi furono perciò mo­netizzati e dichiarati riscattabili a un tasso piuttosto favorevole ai signori. Nella realtà, tuttavia, i conta­dini cessarono di pagare i censi e non pagarono neppure il riscatto, da cui furono poi liberati anche formalmente dalla successiva radicaliz­zazione del processo rivoluzionario. Il clero fu l'unico a essere veramente colpito, perché le sue decime non bene­ficiarono di nessuna forma di riscatto e svanirono insieme alle corvées.

Pochi giorni dopo i decreti contro il feudalesimo, il 26 agosto, l'assemblea proclamava una solenne Di­chiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Era l'enunciazione di quei principi che avrebbero dovu­to ispirare la nuova Costituzione francese: ugua­glianza dei cittadini di fronte alla legge, libertà di parola, diritto alla proprietà privata.



PER FARE IL PUNTO.

  • La pacifica rivoluzione compiuta dal Terzo stato fra il 17 e il 27 giugno si trovò ben presto esposta al rischio di un colpo di mano militare da parte del re e della Corte.

  • Essa fu salvata da una seconda rivoluzione, compiuta dal popolo di Parigi e culminata il 14 lu­glio nella presa della Bastiglia. Una terza rivolu­zione largamente indipendente dalle due prece­denti coinvolse nella seconda metà di luglio le campagne francesi.

  • Di fronte alla violenta ondata contadina contro le decime ecclesiastiche e i canoni feudali, l'As­semblea nazionale decise con voto unanime di cancellare totalmente i residui del regime feudale. La traduzione pratica di quello storico voto creò tuttavia complessi problemi economici e giuridici che vennero poi a intrecciarsi con le successive fasi della rivoluzione.



1789-1792: l'esperimento costituzionale e la fine della monarchia.



La tumultuosa estate del 1789 fu seguita da un nuovo intervento decisivo del popolo di Parigi: il 6 ottobre una grande manifestazione ben diretta dal­la Guardia nazionale si concluse con il trasferimen­to della Corte e dell'Assemblea nazionale da Ver­sailles a Parigi, dove la battaglia politica si sarebbe ormai svolta sotto gli occhi delle classi popolari e della borghesia cittadina armata.


La ricerca di un nuovo assetto costituzionale.

Nell'Assemblea non esisteva nulla di simile a dei veri partiti organizzati, ma le diverse posizioni erano ben distinte e su di esse si sviluppò presto una nuova terminologia politica. Il gruppo che sedeva abitualmente alla destra della presidenza includeva non solo gli irriducibili avversari di ogni trasforma­zione, ma anche elementi più accorti nella diplo­mazia parlamentare, che proponevano di prendere a modello la Costituzione inglese, attribuendo al re il potere di nominare una seconda Camera accanto a quella eletta dal popolo.

Il più folto gruppo della sinistra riuscì a far passa­re il principio del parlamento composto da una sola Camera elettiva e non concesse al re (cui spettava la nomina dei ministri) il potere di scioglierla.


Il diritto di voto.

Su molti altri problemi la sinistra stessa era però divisa e soprattutto sull'estensione da attribuire al diritto di voto. Il suffragio universale (ovviamente limitato ai cittadini maschi maggioren­ni, visto che nessuno parlò mai di concedere il voto alle donne) doveva derivare logicamente dall'affer­mazione dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Ma solo per una parte ristretta dei costi­tuenti ciò che era giusto per i diritti civili poteva trasferirsi nel diverso campo dei diritti politici; a uomini che non avevano nessun grado di indipen­denza economica (i mendicanti, i servi e i domesti­ci, i salariati più poveri) si poteva concedere solo una cittadinanza politica "passiva". Gli elettori risultarono alla fine oltre 4 milioni, più del 60 per cento dei maschi maggiorenni. Ma la massa dei cittadini "attivi" poteva soltanto eleggere una più ristretta rosa di elettori di "secondo grado", scegliendoli fra contribuenti che pagavano allo Stato un'imposta diretta più alta di quella richiesta agli elettori di "primo grado".

Per essere eleggibile a deputato il censo si faceva ancora più alto. Con ciò si riduceva drasticamente il numero dei francesi che potevano partecipare fino in fondo alla vita politica, dato che gli "elettori" furono soltanto circa 50.000.

Questo sistema elettorale fece innalzare accese proteste alla stampa democratica, ben rappresenta­ta dal giornale di Jean-Paul Marat "L'Amico del popolo".


La rifondazione della Francia.

Su molte altre que­stioni le forze riformatrici si mossero con maggiore accordo. Per distruggere l'assolutismo, oltre ad abolire le discriminazioni e gli aspetti più ripugnanti della legge penale bisognava procedere a una pro­fonda opera di decentramento dei poteri ammini­strativi locali, rendendo eleggibili le cariche relative e abolendo i parlamentari. L'uniformità quasi geo­metrica di 83 dipartimenti con circa la medesima estensione territoriale sorse al posto della suddivi­sione delle antiche regioni storiche.

Mentre si cominciava a progettare un nuovo siste­ma unitario e razionale di pesi e di misure, veniva­no abolite tutte le dogane interne; la liberalizzazio­ne del commercio e della produzione veniva quindi ottenuta togliendo i privilegi alle compagnie mono­polistiche e facendo scomparire l'intero regime corporativo. A tutto questo aggiungiamo la con­cessione dei diritti civili agli ebrei e ai protestanti, il divieto dei voti monastici, la soppressione degli or­dini religiosi puramente contemplativi e di tutti i ti­toli nobiliari. Una particolare attenzione meritano gli ultimi articoli del decreto del 15 marzo 1790 (che precisava le forme dell'abolizione della feudali­tà): la venalità degli uffici, cioè la vendita delle cariche, veniva soppressa; la giustizia doveva essere amministrata gratuitamente; i privilegi fiscali erano tutti aboliti; l'uguaglianza di tutti i cittadini nell'am­missione alle cariche pubbliche era affermata sen­za eccezione alcuna.



Il problema delle finanze statali.

Restava però il grave problema finanziario, dal quale era sorta la necessità della prima convocazione degli Stati ge­nerali. I costituenti non poterono fare nient'altro che riconoscere l'intero debito pubblico, con tutto il peso sul bilancio che esso comportava, se vole­vano mantenere il consenso dei gruppi finanziari al nuovo regime, e perciò si trovarono a dover fron­teggiare un bilancio ancora fortemente deficitario. L'unica soluzione del problema sembrò la naziona­lizzazione e la vendita dell'esteso patrimonio fon­diario del clero.


La costituzione civile del clero.

Con questo titolo venne approvata nel luglio 1790 un'altra riforma che riguardava direttamente la Chiesa francese.

Le diocesi vescovili erano ridotte da 130 a 83, fino a farle corrispondere territorialmente ai dipartimenti, cosa che avrebbe fatto decadere dalla carica un certo numero di vescovi. I parroci, privati delle decime, avrebbero avuto uno stipendio congruo dallo Stato. Ma l'elemento chiave della riforma era un al­tro: il cattolicesimo restava religione di Stato e par­roci e vescovi sarebbero stati eletti, d'ora in poi, dal­lo stesso corpo elettorale dei cittadini attivi, senza che l'elezione dei vescovi avesse più bisogno del­l'investitura spirituale del papa. Era una riforma che si muoveva nella stessa direzione della tradizionale autonomia della Chiesa gallicana.

Ma essa era stata imposta senza convocare un concilio nazionale e quindi una larga parte del cle­ro la rifiutò, prima ancora che il papa la condan­nasse ufficialmente, cosa che avvenne nell'aprile 1791. A questa data lo scisma nella Chiesa france­se era già avvenuto: richiesti nel novembre 1790 di prestare giuramento alla Costituzione, inclusa la parte che riguardava il clero, quasi tutti i vescovi e una buona metà dei preti si rifiutarono.


La fuga di Luigi XVI.

Le altre monarchie guardava­no agli eventi francesi con un misto di soddisfazio­ne e di timore. Soddisfazione perché la rivoluzione sembrava aver finalmente tolto di mezzo la Francia, cioè la maggiore potenza militare del continente; ma anche timore, perché c'era il rischio che anche gli altri popoli seguissero l'esempio di quello francese.

I sovrani europei non potevano non essere solidali con Luigi XVI: tanto più che il re di Spagna era un Borbone, proprio come quello di Francia, e l'impe­ratore d'Austria era il fratello della regina di Fran­cia, Maria Antonietta.

Molti aristocratici francesi poi, già dall'autunno del 1789, spaventati dalla piega che prendevano gli av­venimenti in Francia, avevano cominciato a emigra­re in Renania, con la speranza che l'esercito austriaco sarebbe presto intervenuto per reprimere la rivoluzione e restituire al re il potere assoluto e alla nobiltà i suoi privilegi.

Luigi XVI aveva intanto rifiutato di firmare la costi­tuzione civile del clero e si preparava a sconfessare con un gesto clamoroso, la fuga dalla Francia, l'in­tero operato della rivoluzione.

Il tentativo di fuga del re e della regina avvenne il 20 giugno 1791, ma il giorno successivo essi furo­no riconosciuti mentre passavano da Varennes, un piccolo paese lungo la strada fra Parigi e i Paesi Bassi austriaci e vennero ricondotti a Parigi.


Robespierre e i giacobini.

L'Assemblea costituente non osò procedere contro il re e accreditò la tesi di un suo rapimento. Questa decisione ebbe come conseguenza la frattura nel maggiore dei club poli­tici che si erano formati nel 1790, i cui membri era­no chiamati giacobini, dal nome di un convento nel quale avvenivano le loro riunioni. La grande mag­gioranza dei giacobini fece una scelta moderata e si trasferì nei locali di un altro ex convento, quello dei foglianti; il resto dei giacobini, che erano ele­menti della borghesia che praticavano le professio­ni liberali, si orientò nettamente per una evoluzione democratica del processo rivoluzionario. Fra i lea­der dei nuovi giacobini spiccava ora l'avvocato e costituente Maximilien Robespierre, che esprimeva la volontà di mantenere l'alleanza con il popolo di Parigi, con le sue sezioni elettorali e con il club po­polare dei cordiglieri, di cui facevano parte Marat e Georges Danton, un altro rappresentante della borghesia intellettuale.


Gli schieramenti all’Assemblea legislativa.

La crisi politica venne per il momento evitata; la Costituen­te terminò i suoi lavori e il re, reintegrato nelle sue prerogative, giurò fedeltà alla costituzione. Nel me­se di settembre si tennero le elezioni per la prima Assemblea legislativa e il 10 ottobre 1791 ci fu la prima riunione dei 745 deputati. Fra i nuovi dirigen­ti politici del parlamento un posto di rilievo spettava a Jean-Pierre Brissot, che aveva svolto attività gior­nalistica nella prima fase della rivoluzione ed era stato eletto in una circoscrizione parigina. Intorno a lui si formò un piccolo raggruppamento di deputati che si conquistò presto un grande prestigio per l'oratoria radicale e fortemente emotiva dei suoi esponenti; si trattava in massima parte degli eletti del dipartimento della Gironda, che rappresentava­no gli interessi e la cultura della borghesia mercan­tile di Bordeaux e Nantes e che furono chiamati più tardi girondini.


La guerra contro Austria e Prussia.

Le potenze europee dopo il fallimento della fuga del re guarda­vano con estrema preoccupazione alla situazione francese e minacciavano apertamente di intervenire militarmente.

Luigi XVI e la Corte erano favorevoli a una guerra contro l'Austria e la Prussia nella convinzione che la sconfitta delle truppe francesi avrebbe segnato la fine della rivoluzione. I girondini da parte loro era­no convinti di poter vincere la guerra, e vedevano in essa un'occasione per esportare la rivoluzione, per attenuare le tensioni politiche e sociali all'inter­no del paese, oltre che per fare ottimi guadagni con le forniture militari.

Il 20 aprile 1792 il governo girondino dichiarò guer­ra all'Austria. Ma i primi scontri furono decisamente sfavorevoli alle truppe francesi.


La "seconda rivoluzione" e la repubblica.

Le scon­fitte militari e la non felice situazione economica del paese inasprivano le tensioni politiche e sociali. Robespierre (che era stato contrario alla guerra), Danton e Marat denunciarono il tradimento dei capi dell'esercito, che stavano aprendo la Francia al­l'invasione austro-prussiana.

Il 10 agosto 1792 gli operai e artigiani parigini insor­gevano e nella città veniva insediata una nuova mu­nicipalità rivoluzionaria. Questa obbligò l'Assemblea legislativa a sospendere i poteri del re, che fu impri­gionato, e soprattutto a indire nuove elezioni che questa volta dovevano essere a suffragio universale. Nel frattempo da tutta la Francia accorrevano volon­tari verso la frontiera tedesca nel tentativo di fermare gli eserciti invasori. Il 20 settembre 1792 fu insediata la nuova assemblea, la Convenzione, che aveva il compito di preparare una nuova costituzione. Lo stesso giorno le truppe francesi riuscivano a fermare l'avanzata nemica nella battaglia di Valmy. Il 21 set­tembre venne proclamata la repubblica.



PER FARE IL PUNTO

  • L'Assemblea costituente pose in opera una pro­fonda modernizzazione di tutte le istituzioni del paese ed elaborò una costituzione che rendeva possibile un nuovo patto fra la monarchia e il paese.

  • Con la sua fallita fuga del giugno 1791 il re scon­fessò il compromesso costituzionale; un anno più tardi la guerra contro l'Austria e la Prussia, voluta dai girondini come guerra rivoluzionaria europea, fu trasformata dal re e dalle forze controrivoluziona­rie in una occasione per portare il paese alla sconfit­ta e per cancellare le riforme già effettuate.

  • Con la nuova insurrezione popolare del 10 agosto 1792 e la caduta della monarchia, si apriva per la Francia una fase di trasformazione assai più radicale.


1792-1794: la repubblica giacobina



Con la seconda rivoluzione dell'agosto-settembre 1792 gli schieramenti politici dell'Assemblea legislativa erano stati sconvolti: gli ultimi aristocratici e monarchici e anche alcuni protagonisti dell'89 co­me La Fayette giudicarono più prudente emigrare.


Girondini e montagnardi.

Nella Convenzione si contrapponevano tre raggruppamenti: i girondini, fautori della guerra rivoluzionaria, i giacobini (che venivano chiamati anche "montagnardi", perché occupavano i seggi più in alto dell'aula parlamenta­re), in stretto rapporto con il comune popolare e rivoluzionario di Parigi; infine vi era la "pianura", la maggioranza dei deputati, che con i suoi spostamenti determinò l'evoluzione politica dei due anni successivi.

Fra i tre partiti, nel tentativo di trovare una media­zione, si poneva un uomo politico di notevole abili­tà: Georges Danton.



L'esecuzione del re.

Un primo scontro tra girondini e montagnardi si ebbe quando questi ultimi chiese­ro che il re fosse processato per alto tradimento. I girondini si opponevano e la Convenzione restò per qualche tempo incerta sul da farsi. Alla fine pe­rò il ritrovamento di molti documenti che provava­no i contatti segreti tra Luigi XVI e le forze antifran­cesi e la spinta popolare fecero pendere la bilancia a favore della tesi dei montagnardi.

Luigi XVI fu processato, condannato a morte e ghi­gliottinato il 21 gennaio 1793.



L'andamento della guerra.

Dopo la vittoria di Valmy le sorti della guerra erano ormai favorevoli ai francesi. Tra la fine del 1792 e l'inizio del 1793 fu­rono annessi alla Francia la Savoia, Nizza, il Belgio e la Renania. In nome della rivoluzione europea, ma anche degli interessi dei mercanti e degli armatori di Bordeaux e Nantes, il governo girondino di­chiarò guerra all'Inghilterra (10 febbraio).

Le vittorie francesi e l'esecuzione di Luigi XVI pro­vocarono viva emozione in tutte le corti europee. Oltre all'Austria e alla Prussia entrarono allora in guerra contro la Francia anche l'Olanda, la Spagna e i principi italiani e tedeschi.

Nel marzo 1793 le truppe austriache e prussiane ri­conquistavano il Belgio e la riva sinistra del Reno ed entravano in territorio francese, l'esercito del re di Sardegna riprendeva la Savoia, gli spagnoli pas­savano i Pirenei.



La disfatta dei girondini e la guerra civile.

Nel frat­tempo la Francia era travagliata da una gravissima crisi economica. La politica economica liberista dei girondini, contraria a un controllo centralizzato dei mercati, aveva fatto aumentare i prezzi dei generi di prima necessità con grave danno dei contadini po­veri, dei braccianti e degli artigiani. Nella stessa di­rezione inflazionistica agiva intanto la moltiplica­zione degli assegnati, cioè dei buoni del tesoro emessi dallo Stato, garantiti dal valore dei beni con­fiscati alla Chiesa, che venivano utilizzati come cartamoneta. I rincari facevano correre il rischio alla rivoluzione di perdere l'appoggio del popolo di Pa­rigi e dei contadini che rifiutavano di consegnare il loro grano in cambio di assegnati deprezzati.

Quando la difficile situazione militare rese indispensabile il reclutamento e l'invio al fronte di altri 300.000 soldati, i contadini della Vandea (la regione attorno alla bassa Loira) insorsero e, sotto il co­mando dei nobili e di una parte del clero, scatena­rono una sanguinosa guerriglia.

Di fronte al tracollo militare ed economico il popolo di Parigi insorse nuovamente e il 2 giugno 1793 ro­vesciò il governo girondino. Ma il primo risultato di questa nuova svolta rivoluzionaria fu quello di estendere la guerra civile contro il governo di Parigi anche alle regioni dove i girondini erano più forti, da Nantes e Bordeaux a Lione.


Il Comitato di salute pubblica.

La Convenzione era stata inizialmente eletta anche per preparare una nuova costituzione e il testo che fu approvato alla fine di giugno risultò assai più democratico di quel­lo del 1791. Le condizioni dell'estate 1793 spinge­vano piuttosto verso una dittatura rivoluzionaria, cosicché l'applicazione del nuovo assetto costitu­zionale fu sospesa fino a tempi migliori. Il principa­le strumento di questa dittatura fu il Comitato di salute pubblica, costituito già dal mese di aprile al­l'interno della Convenzione, dominato in principio da Danton. Alla fine di luglio vi fu eletto anche Ro­bespierre, che, dopo la morte di Marat e i primi dis­sensi di Danton nei confronti della Convenzione, era diventato il maggior esponente delle forze rivo­luzionarie democratiche.

Al regime dei girondini e di Danton, che si erano mostrati troppo indulgenti verso le speculazioni e la corruzione e troppo inclini ai compromessi, si sosti­tuiva la dittatura dei capi montagnardi, uomini co­me Robespierre, Saint-Just e Carnot, politicamente molto rigidi e intransigenti.

In un momento così drammatico - sosteneva Ro­bespierre - la salvezza della repubblica poteva ve­nire solo dalla "virtù" dei capi e dalla mobilitazione di tutte le forze della nazione.


Il governo dei montagnardi.

Le misure prese nei mesi di luglio e agosto dal Comitato di salute pub­blica si rivelarono subito decisive.

I contadini furono maggiormente legati alle sorti della rivoluzione con la completa abolizione del ri­scatto dei diritti feudali. Nello stesso senso agiva la vendita a piccoli lotti dei beni nazionali, divenuti più consistenti con le confische effettuate contro le ter­re appartenute agli emigrati. A vantaggio delle classi popolari urbane furono poi stabilite pene gravissime per chi speculava sugli assegnati e per gli accaparratori di grano. Dopo una nuova solleva­zione dei sanculotti parigini, fu infine emanato (l'11 settembre) il primo di un nuovo gruppo di decreti sul maximum dei prezzi che si estendeva a tutti i beni e anche ai salari, determinandone il livello massimo.

Allo stesso tempo veniva organizzato un esercito di massa del tutto nuovo, democratico nelle forme e nella sostanza, capace di far fare rapida carriera a giovani ufficiali e di promuovere dei veri talenti nel­l'arte della guerra.

lì 5 ottobre 1793 entrò in vigore un nuovo calenda­rio, che faceva decorrere l'inizio di una nuova era dal 22 settembre 1792 e che voleva sostituire il "tempo" rivoluzionario a quello cristiano. I suoi me­si di 30 giorni, con feste che cadevano ogni dieci giorni e che sostituivano la domenica, traevano i loro nomi dal succedersi delle stagioni e dei lavori agricoli.



Il "terrore".

In questo periodo l'inasprimento delle leggi contro gli oppositori della rivoluzione e i tradi­tori della repubblica portò a sanguinosi abusi, a condanne a morte eseguite senza processo sulla base di semplici sospetti.

I detenuti per reati politici nelle prigioni di Parigi passarono dal settembre al dicembre 1793 da 1600 a 4000; a metà aprile 1794 erano diventati 7300. La legge sui sospetti del 10 giugno 1794 rese poi più facile e più spedito il ricorso alla condanna a morte.

Se dal marzo 1793 al maggio 1794 le condanne ca­pitali pronunciate a Parigi furono 1250, nelle sei-sette settimane successive al 10 giugno diven­nero più di 1300. Nell'intera Francia le condanne capitali furono almeno 17 mila. Il "terrore" nelle province ribelli fu in effetti assai più cieco e spieta­to di quello esercitato a Parigi.

Nel marzo 1794 il Comitato di salute pubblica si li­berò anche dei capi popolari più estremisti.

Appena dodici giorni dopo si era già concluso con la condanna alla ghigliottina un secondo processo ancora più clamoroso, che coinvolse uno dei mag­giori capi della rivoluzione, Georges Danton. Accu­sato di corruzione, ma anche di stare costituendo un partito degli "indulgenti" disposto a por fine al "terrore", Danton fu ghigliottinato il 5 aprile.


Le vittorie dell'esercito rivoluzionario.

La situazione militare aveva intanto cominciato a migliorare sia sul fronte della guerra civile sia su quello della guerra esterna già alla fine del 1793. La rivolta van­deana venne schiacciata nel mese di novembre 1793, dopo una lunga serie di atrocità aberranti da ambo le parti; la rivolta nelle città girondine si esau­rì nel 1794, perché la possibilità di costituire una terza forza fra i montagnardi e la controrivoluzione si era ormai ridotta al minimo. La vittoria dell'eserci­to rivoluzionario a Fleurus (25 giugno 1794) aveva infine riaperto la strada alla conquista del Belgio. La rivolta polacca del 1794, che dette l'avvio alla spartizione definitiva del paese, salvò indirettamente la rivoluzione distogliendo dal fronte una parte del­le truppe austriache, prussiane e russe.




PER FARE IL PUNTO

  • La proclamazione della repubblica, l'esecuzio­ne del re e i successi della rivoluzione crearono contro la Francia una vasta coalizione di stati europei che per tutto il 1793 mise in pericolo la sopravvivenza del nuovo regime.

  • Veniva allo stesso tempo crescendo la consi­stenza delle forze controrivoluzionarie, alle quali erano passati anche esponenti di rilievo del 1789. Alla grande sollevazione contadina della Vandea si aggiunse, dopo il rovesciamento dei girondini, la rivolta di diverse altre province.

  • La dittatura giacobina costituì l'estrema risorsa di fronte alla guerra esterna e alla guerra civile.


Dalla Convenzione al Direttorio




La rivoluzione francese era nata nel 1787-88 come rivoluzione aristocratica contro il dispotismo mo­narchico; era proseguita nel 1789-92 come rivolu­zione borghese contro i privilegi dell'aristocrazia e del clero e nel 1792-93 come rivoluzione repubbli­cana; per sopravvivere all'attacco delle forze rea­zionarie interne e delle potenze europee aveva fi­nito per diventare nel 1793-94 una rivoluzione de­mocratica.

In quest’ultima fase tutte le forze della nazione erano state mobilitate, l'economia era stata posta sotto controllo, per la prima volta nella storia si era fatta una leva militare di massa. La repubblica che Robespierre aveva voluto fondare sull'austerità, sul rigore e sull'intransigenza aveva cercato e ottenuto il consenso e il sostegno delle forze popolari.

Ma dopo la vittoria di Fleurus, dopo che il pericolo di un ritorno alla monarchia era scomparso, cosa sarebbe stato della repubblica dei montagnardi?


Il 9 termidoro e la caduta di Robespierre.

Quando il 10 giugno 1794 iniziò la fase del "grande terrore", le ragioni della dittatura rivoluzionaria erano già venute meno. Le continue requisizioni ai danni dei contadini e l'erosione del valore dell'assegnato (universalmente rifiutato nelle campagne) avevano vanificato gli intelligenti provvedimenti dell'anno precedente. Ma anche il maximum era lontano dal soddisfare le masse urbane. I prezzi previsti dal maximum avevano poco a che fare con quelli pra­ticati al mercato nero, mentre il governo non era disposto a ritoccare verso l'alto i salari e neppure a tollerare il ripetersi di "giornate" popolari, quei grandi sollevamenti che si erano visti l'ultima volta nel settembre 1793. In tutta la Francia cresceva co­sì un'opinione pubblica sempre più sfavorevole a Robespierre. Il 27 luglio 1794 (9 termidoro, secon­do il calendario repubblicano) dalla Convenzione e dallo stesso Comitato di salute pubblica partì un colpo di stato che condusse all'arresto di Robe­spierre, Saint-Just, Couthon e molti altri monta­gnardi, tutti ghigliottinati senza processo il giorno successivo, in mezzo all'indifferenza del popolo di Parigi.


Il governo dei "termidoriani".

La congiura del 9 termidoro riconsegnò la maggioranza e il potere nella Convenzione a quella "pianura" che aveva da­to il suo tacito assenso al "terrore" cercando di ve­nirne coinvolta il meno possibile. Molti dei "termi­doriani" erano stati comunque parte attiva nel periodo di dittatura e il nuovo gruppo dirigente si venne subito a trovare in una situazione molto dif­ficile: esso doveva procedere allo smantellamento del "terrore", liberando i prigionieri politici e resti­tuendo la libertà di culto alla Chiesa cattolica, oltre che abolendo il controllo sui prezzi e riconducendo il mercato alla libertà e alla normalità; allo stesso tempo però esso doveva fronteggiare il ritorno alle forze controrivoluzionarie e dimostrare nei fatti di non essere affatto disposto a rimettere in questione le conquiste essenziali degli anni precedenti, in particolare il sequestro delle terre del clero e degli aristocratici.


La violenta repressione antigiacobina.

Le prime scelte andarono tutte nella direzione antigiacobina. I girondini superstiti furono reintegrati nella Con­venzione, le sezioni elettorali parigine furono epu­rate dai sanculotti e molte sedi giacobine furono chiuse. Le condanne a morte cominciarono ora a cadere sui responsabili del "terrore", mentre un ve­ro "controterrore" si scatenava nella capitale e più ancora nelle altre città contro i giacobini. Finita l'e­poca della virtù repubblicana e dell'egualitarismo radicale, a Parigi tornava a comparire la vita di so­cietà e la ricchezza non aveva più timore o vergo­gna di presentarsi in pubblico, anche se la sua ori­gine era spesso recente e dovuta agli illeciti profitti realizzati sulle forniture militari o sulle speculazioni legate al vettovagliamento urbano.

Il 10 aprile 1795 le folle parigine assaltarono la Con­venzione, ma la replica delle giornate popolari del 1792 e del 1793 era ormai diventata impossibile e la Guardia nazionale riuscì a disperdere gli insorti; al nuovo sollevamento del 20 maggio la Convenzione rispose usando l'esercito. La reazione termidoriana divenne più intensa e i giacobini detenuti nelle car­ceri furono massacrati senza processo.


La Costituzione del 1795.

Nell'agosto del 1795 la Convenzione approvò una nuova costituzione: veni­va abbandonato il suffragio universale e il diritto di voto era riservato solo ai ceti benestanti. Il suffragio a due gradi venne ristabilito e gli "elettori" risultaro­no circa 30.000. Il potere legislativo era affidato a due camere (il Consiglio dei cinquecento e il Sena­to); il potere esecutivo era attribuito a un Direttorio di cinque membri. I due rami del parlamento erano rinnovabili per un terzo ogni anno. Ma questo conti­nuo bisogno di nuove elezioni fu certamente una delle cause della instabilità del nuovo regime.

Nell'ottobre del 1795 la Convenzione si sciolse e venne insediato il primo Direttorio.


L'insurrezione dei monarchici.

La Convenzione si rese però conto che il nuovo assetto istituzionale nasceva tutt'altro che solido e insieme all'approva­zione definitiva della costituzione emanò il 22 agosto un decreto che imponeva agli elettori di sce­gliere i due terzi dei deputati del primo parlamento fra i membri in carica della Convenzione.

La repressione condotta contro i club popolari (tut­ti chiusi nel mese di agosto per evitare il ripetersi di insurrezioni) aveva intanto ridato spazio alle forze monarchiche. Molti emigrati erano rientrati fra il 1794 e il 1795 e il 5 ottobre di quest'ultimo anno i seguaci dei Borbone si sentirono abbastanza forti da scatenare una loro insurrezione. Anche questa volta fu l'esercito a prendere in pugno la situazione; ora il leader dei "termidoriani", Barras, chiamò un ufficiale che era stato considerato in passato sim­patizzante robespierrista, Napoleone Bonaparte, che non esitò a spazzare via a colpi di cannone i monarchici insorti.


Le paci del 1795.

A questa data la Convenzione era già riuscita a ottenere una pace favorevole con la Prussia (in aprile) e con la Spagna (in luglio).

La Francia aveva intanto provveduto all'annessione del Belgio e all'occupazione della Renania, mentre con l'aiuto francese stava per essere costituita in Olanda una «Repubblica Batava». La guerra conti­nuava attivamente solo con l'Austria e con l'Inghilterra, e con essa continuava l'inflazione degli assegnati.



PER FARE IL PUNTO

  • Nel luglio 1794 un colpo di stato organizzato dalla Convenzione portò all'arresto e alla condan­na a morte di Robespierre.

  • L'eliminazione dei giacobini da parte dei "ter­midoriani" fu resa possibile dai successi militari della Francia, che avevano tolto ogni giustificazio­ne al regime del "terrore".

  • La nuova costituzione entrata in vigore nel 1795 fu ancora più censitaria di quella del 1791. Nel vio­lento clima antigiacobino di quel periodo ricom­parvero le forze monarchiche, che tentarono una insurrezione nell'ottobre 1795. La Convenzione venne salvata solo dall'intervento di nuovi prota­gonisti politici, l'esercito e Napoleone Bonaparte.



1795-1799: dal Direttorio al Consolato



L'evento che determinò la futura evoluzione della Francia fu la decisione del Direttorio di riprendere la guerra sin dalla primavera del 1796.


La ripresa della guerra.

La guerra poteva far risor­gere il nazionalismo repubblicano e rafforzare poli­ticamente il Direttorio, ma più ancora doveva con­durre a delle annessioni territoriali e a scaricare su altri popoli le difficoltà finanziarie della Francia. Carnot, come nel 1793-94, fu lo stratega della cam­pagna militare che prevedeva una rapida avanzata delle due armate della Mosa e del Reno, comanda­te rispettivamente da Jourdan e Moreau; attraversa­ta la Germania, esse avrebbero dovuto convergere su Vienna e costringere l'imperatore Francesco II ad accettare l'annessione alla Francia del Belgio e della riva sinistra del Reno.


La campagna d'italia di Bonaparte.

In pratica le cose andarono assai diversamente; Jourdan e Mo­reau incontrarono una resistenza più forte del pre­visto e l'azione decisiva fu svolta da una terza arma­ta, con effettivi molto più ridotti, che era stata affi­data al comando di Bonaparte con il solo compito di tenere impegnata nell'Italia padana una parte delle truppe austriache. Bonaparte, che era nato in Corsica nel 1769, quando da poco l'isola era stata venduta alla Francia dalla Repubblica di Genova, era uno dei molti ufficiali usciti dall'esercito rivolu­zionario del 1793; il comando dell'armata italiana era una ricompensa per la parte di primo piano svolta sei mesi prima nella repressione dell'insurre­zione monarchica.

In pochi giorni (13 aprile-15 maggio 1796), dopo aver sconfitto ripetutamente gli eserciti austriaco e piemontese, i francesi ottennero la Savoia e Nizza ed entrarono in Milano. Nei mesi successivi Napo­leone si impadronì di gran parte dell'Italia setten­trionale.

L'imperatore austriaco fu costretto nell'aprile 1797 a concludere un armistizio e ad accettare poi i ter­mini della pace dettata da Bonaparte ai negoziatori austriaci nella cittadina veneta di Campoformio (18 ottobre 1797): la Francia si annetteva il Belgio e la regione a occidente del Reno (ma senza Colonia), mentre l'Austria doveva accettare il nuovo assetto politico dell'Italia sviluppatosi in quei mesi: una Re­pubblica padana, con il nome ufficiale di Cisalpina, aveva unito la Lombardia e l'Emilia-Romagna, una seconda Repubblica ligure alleata alla Francia era stata costituita al posto della vecchia oligarchia di Genova. Anche a Venezia l'antica repubblica era stata rovesciata, ma l'intero Veneto (con l'Istria e la Dalmazia) fu ceduto da Bonaparte all'Austria per agevolare la firma del trattato di Campoformio.


Le repubbliche italiane.

Gli intellettuali, la borghe­sia, i nobili più progressisti, tutti quei gruppi che avevano appoggiato le riforme nel corso del Sette­cento e che avevano aderito al pensiero illuminista, avevano seguito le vicende rivoluzionarie in Francia con molto interesse e nel 1796 accolsero i francesi non come conquistatori, ma come liberatori.

Alle due repubbliche create da Bonaparte nel 1797 (la Cisalpina e la Ligure) si venne ad aggiungere nel 1798 la Repubblica romana, proclamata in apri­le al posto del potere temporale del papa. Nel no­vembre l'esercito dei Borboni di Napoli tentò di ab­battere la Repubblica romana, ma la guerra si risol­se in un disastro per Ferdinando IV. Precedendo l'ingresso delle truppe francesi, il Borbone abban­donò la capitale e protetto dalle navi inglesi si tra­sferì in Sicilia. Il 23 gennaio 1799 il generale Championnet si impadronì di Napoli e il giorno successivo poteva proclamare la Repubblica par­tenopea.

Trasferendo subito nei territori annessi le proprie istituzioni giuridiche ed economiche, la Francia riu­scì a far sorgere ovunque dei partiti repubblicani formati dagli esponenti della borghesia intellettuale e terriera.

Alcune riforme che non erano state realizzate nei decenni precedenti furono rapidamente attuate: così a Roma e Napoli furono aboliti i vincoli alla proprietà nobiliare (fidecommessi e maggiorascati), per i quali essa risultava indivisibile e invendibile. Ma le repubbliche e le annessioni servirono soprat­tutto a trovare una fonte di denaro con cui sanare il bilancio statale francese e consentire il finanzia­mento della guerra contro l'Inghilterra.

I sequestri di terre, le imposizioni fiscali e i veri e propri saccheggi compiuti nei territori occupati so­lo in larga parte all'origine del primo parziale ritor­no alla moneta metallica in Francia, che tornò a circolare accanto a quella cartacea all'inizio del 1797.


Caratteri della dominazione francese.

La politica estera dei Direttorio fu soprattutto di espansione e le "repubbliche sorelle", come quelle d'Olanda, Svizzera e Italia, altro non erano che stati soggetti alla Francia, che venivano fondati o sciolti a seconda delle esigenze del momento. in nessun modo i francesi avevano a cuore l'indipendenza nazionale di questi paesi e lo dimostra a esempio il fatto che essi si opponevano all'unificazione delle repubbli­che italiane e che anzi non esitarono a cedere al­l'Austria la Repubblica di Venezia. Gli uomini di governo delle nuove repubbliche (a torto battezzate "giacobine") venivano scelti dai francesi e non era­no certo giacobini o rivoluzionari: si trattava preva­lentemente di moderati, che poco fecero per con­quistare il consenso e l'appoggio dei ceti popolari e in particolare delle masse contadine. I risultati si sarebbero visti di li a poco.


La campagna d'Egitto.

Dopo che con la pace di Campoformio erano stati regolati i rapporti con l'Austria, solo l'Inghilterra continuava a battersi contro la Francia. E l'Inghilterra, difesa dal mare, militarmente era pressoché imbattibile. Si poteva però tentare di danneggiare la sua economia, attra­verso la conquista dell'Egitto.

La prospettiva era quella di assicurarsi il controllo navale dei Mediterraneo orientale e di dirottare per l'antica via del mar Rosso il commercio dell'oceano Indiano, assestando un duro colpo ai commerci britannici.

Nel maggio 1789 una spedizione francese coman­data da Bonaparte partì alla volta dell'Egitto, un paese vassallo dell'impero turco. Nel corso dell'e­state l'Egitto fu conquistato, ma mentre Bonaparte guidava le truppe vittoriose nell'interno dei paese, gli inglesi, agli ordini dell'ammiraglio Horatio Nel­son, distrussero la flotta che aveva portato i france­si in Egitto, mentre si trovava alla fonda nel porto di Abukir.

L'esercito francese e il suo più brillante generale erano bloccati sul suolo egiziano: per i paesi euro­pei sembrava giunto il momento della riscossa.


Il 1799 in Italia.

L'Inghilterra, la Russia e l'Austria si coalizzarono contro la Francia e nel 1799 diedero inizio a una campagna militare.

Il teatro delle operazioni fu il territorio italiano: le truppe austro-russe, comandate da Suvorov, si im­padronirono in breve tempo dell'Italia centrosetten­trionale restaurandovi gli antichi governi e abban­donandosi anche a feroci saccheggi.

Non meno sanguinosa fu la guerra nell'Italia meri­dionale, dove i contadini organizzati dal cardinale Fabrizio Ruffo nel cosiddetto esercito della Santa Fede marciarono su Napoli compiendo massacri e violenze di ogni genere. La Repubblica partenopea cadde e, con i suoi dirigenti Mario Pagano, Vincen­zo Russo ed Eleonora de Fonseca Pimentel, furono migliaia le vittime della repressione da parte dei Borbone.

Le repubbliche giacobine italiane non avevano sa­puto o voluto coinvolgere il mondo contadino in un processo di rinnovamento ed esso aveva finito per essere il maggior artefice della loro disfatta.


Il colpo di stato del 18 brumaio.

Dopo aver attra­versato l'Italia le truppe russe erano ormai in procinto di invadere la Francia.

Qui il governo direttoriale era in piena crisi, stretto fra le risorgenti forze monarchiche e il sempre atti­vo radicalismo giacobino.

In questo clima fece ritorno in Francia Napoleone Bonaparte, il vincitore delle campagne d'Italia e d'Egitto. Forte del sostegno dell'esercito e guardato con simpatia dall'opinione pubblica moderata, Na­poleone impose alla Francia, con un colpo di stato attuato il 9 novembre 1799 (18 brumaio dell'anno VIII repubblicano) un nuovo governo, il Consolato, formato di soli tre individui e di cui egli stesso ave­va la direzione col titolo di primo console. Subito dopo fece approvare una nuova costituzio­ne che, pur prevedendo un complicato sistema di assemblee elettive, affidava tutto il potere al primo console.



PER FARE IL PUNTO

  • La ripresa della guerra nel 1796 vide una serie di successi in Italia e la nascita di numerose re­pubbliche alleate della Francia. Ma l'iniziativa poli­tica passava sempre più in mano ai capi militari, primo fra tutti il generale Bonaparte.

  • Nel 1799 le sconfitte militari e la caduta delle repubbliche italiane aprirono la crisi definitiva per il governo del Direttorio. Il colpo di stato compiu­to da Bonaparte nel novembre 1799 concluse l'a­gitato periodo del regime termidoriano.



Napoleone primo console




La svolta autoritaria imposta da Napoleone era evi­dentemente gradita all'alta e media borghesia fran­cese, che, dopo la tumultuosa esperienza della re­pubblica giacobina e montagnarda, sentiva il biso­gno di uno Stato forte e ordinato.


I successi militari.

Ma Napoleone seppe conqui­starsi anche il consenso del resto dei francesi: ci riuscì grazie alla vittoriosa campagna militare del 1800. Nel giugno di quell'anno, vincendo a Maren­go contro gli Austriaci, Napoleone riconquistava il controllo dell'Italia. Altre vittorie conseguite sul fronte del Reno consentirono alla Francia di giun­gere alla pace di Lunéville (1801), che riconfermava il trattato di Campoformio. Dopo l'uscita della Rus­sia dalla coalizione antifrancese, nel 1802 la pace di Amiens chiudeva anche la guerra con gli Inglesi: nello stesso anno veniva costituita la Repubblica italiana (comprendente i territori della Repubblica cisalpina) con Bonaparte come presidente.


Le Istituzioni napoleoniche.

Tra il 1801 e il 1804 Napoleone compì alcune importanti trasformazioni e riforme, che orientarono in senso chiaramente borghese lo sviluppo della società francese.

Venne soppressa la libertà di stampa, furono aboli­te le assemblee locali elettive, sostituite dai prefetti, cioè da funzionari dello Stato, nominati e diretta­mente dipendenti dal ministero degli interni. Fu ra­dicalmente mutato il sistema giudiziario: i magistrati, che nel periodo rivoluzionario erano eletti dalla popolazione, dal 1800 cominciarono a essere no­minati e a dipendere dal governo. Venne riformato anche il sistema scolastico: durante il periodo mon­tagnardo l'istruzione elementare era stata affidata allo Stato ed era diventata gratuita e obbligatoria; con Napoleone essa fu nuovamente affidata al cle­ro; lo Stato si occupò unicamente delle scuole su­periori, che dovevano preparare i futuri dirigenti dell'amministrazione e dell'esercito e che di fatto venivano frequentate solo dai giovani delle classi abbienti.

Nel 1801 venne stipulato un concordato tra la Francia e il papato, in sostituzione della costituzio­ne civile del clero. La designazione dei vescovi spettava al governo francese, che si impegnava pe­rò a dare uno stipendio a tutti i sacerdoti. In cam­bio il papa Pio VII riprese possesso dello Stato del­la Chiesa, a eccezione di Bologna, di Ferrara e del­la Romagna.

L'economia francese conosceva un periodo di

grande espansione. Napoleone intervenne in parti­colare a favore dell'industria e stabilì delle tariffe doganali altissime per scoraggiare l'importazione di manufatti dall'estero e in particolare dall'Inghilterra. Nel 1802 le truppe francesi reprimevano una rivolta dei neri scoppiata nella colonia delle Antille e vi re­stauravano la schiavitù.

Nello stesso anno Napoleone fu proclamato attra­verso un plebiscito console a vita, col diritto di no­minare il suo successore: anche se continuava a chiamarsi repubblica, la Francia era tornata a esse­re di fatto una monarchia..


Il codice civile.

L'azione di Napoleone era duplice: da una parte consolidava lo Stato in senso netta­mente autoritario e antidemocratico e rafforzava in modo quasi dispotico il proprio potere personale; dall'altra dava finalmente consistenza e stabilità ad alcune delle conquiste della rivoluzione e contri­buiva con le sue vittorie militari a estenderle al resto d'Europa. Ne è un esempio il codice civile ema­nato nel 1804. In precedenza le leggi e le norme che regolavano la convivenza tra i cittadini erano estremamente confuse: avevano valore sia gli editti reali sia gli statuti delle città, sia le antiche consue­tudini locali che i principi del diritto romano e le leggi del periodo rivoluzionario; ma spesso queste norme erano in contraddizione l'una con l'altra e da ciò nascevano incertezze e ingiustizie.

Il codice civile consentì finalmente di avere una legge sicura, chiara, valida per tutti i cittadini e per tutto il territorio dello Stato. Esso tutelava in parti­colare l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla leg­ge, il carattere assoluto e inviolabile della proprietà privata, la libertà di iniziativa economica: tutti valori sui quali si andavano costituendo le società bor­ghesi in Europa.

Il codice civile fu applicato non solo in Francia, ma anche in tutti gli stati dipendenti, e in particolare in Italia, dove esso sarebbe rimasto alla base della normativa giuridica per tutto il XIX secolo.



PER FARE IL PUNTO

  • Dopo il colpo di Stato del 18 brumaio il genera­le Bonaparte non si limitò a mettere la sua forza e la sua popolarità al servizio di un regime autorita­rio più stabile del Direttorio, ma concentrò su di sé un potere personale molto ampio.

  • Successivamente Bonaparte condusse a termi­ne con successo la guerra e ottenne paci assai favorevoli con l'Austria e l'Inghilterra. Niente poté allora impedirgli di ottenere nel 1802 il Consolato a vita per mezzo di un trionfale plebiscito, instau­rando una monarchia di fatto.

  • A quella data Napoleone aveva già assicurato alla Francia la pacificazione interna, facendo ri­conoscere le conquiste ormai irreversibili della ri­voluzione sia alla Chiesa sia alle schiere più irri­ducibili degli aristocratici emigrati.

L'impero



L'evoluzione in senso autoritario e monarchico del­lo Stato che era nato dalla rivoluzione stava per giungere al culmine: il 18 maggio 1804 Napoleone venne proclamato imperatore dei francesi e il suc­cessivo 2 dicembre lo stesso papa Pio VII venne a Parigi a incoronarlo.

L'anno successivo Napoleone avrebbe assunto an­che il titolo di re d'Italia.

Si formava nuovamente una Corte: venivano nuo­vamente introdotti i titoli nobiliari che però non da­vano diritto a particolari privilegi giuridici e fiscali.


La ripresa della guerra.

Al momento dell'incorona­zione imperiale la pace con l'Inghilterra era già sta­ta rotta da un anno e mezzo.

L'atto formale di apertura della guerra venne l'8 maggio 1803 dal governo inglese e la causa ufficia­le della rottura fu rappresentata dall'opposizione francese a che l'Inghilterra mantenesse il possesso dell'isola di Malta.

La vera causa della guerra fu il crescente potere di Napoleone sull'Italia e sul continente europeo. In particolare in Germania Napoleone influì in manie­ra decisiva sulla riorganizzazione dell'Impero tede­sco, dopo che la pace di Lunéville aveva sancito l'annessione alla Francia della riva sinistra del Reno.

La Dieta tedesca del 1803 condusse alla scomparsa di 150 delle 350 entità che costituivano l'Impero germanico. Le soppressioni, oltre che a vantaggio della Francia, andarono a ingrandire la Prussia e la Baviera, che entrarono così a far parte del sistema napoleonico delle alleanze.


La conquista dell'impero francese.

La guerra ebbe una svolta quando nel 1805 la Russia, l'Inghilterra, l'Austria, la Svezia e Napoli formarono una coali­zione contro la Francia. Napoleone fece allestire una potente flotta col progetto di invadere l'Inghil­terra, ma essa venne totalmente distrutta dagli in­glesi, sempre comandati dall'ammiraglio Horatio Nelson, nella battaglia di Trafalgar (vicino alla base di Gibilterra).

Più felice fu l'esito della guerra sul continente, dove gli eserciti austriaco e russo vennero sbaragliati nelle battaglie di Ulma e Austerlitz. Francesco lI d'Asburgo dovette rinunciare al Veneto e alla Dal­mazia nonché al titolo di imperatore del Sacro Ro­mano Impero. Entrò allora in guerra la Prussia, ma anche le sue truppe furono duramente sconfitte a Jena e Auerstädt (1806). Il Regno di Napoli era subito crollato sotto l'urto delle truppe francesi e l'anno successivo anche l'esercito russo venne scon­fitto.


L'assetto dell'Europa napoleonica.

Solo allo zar Alessandro I Napoleone concesse una pace senza cessioni territoriali, mentre l'egemonia francese sul­l'Europa si venne affermando secondo tre linee di tendenza. La prima fu quella di procedere a nuove annessioni dirette a favore della Francia (Liguria, Toscana e Parma). Anche il Lazio e l'Umbria di­vennero dipartimenti francesi: il potere temporale della Chiesa fu abolito e il papa Pio VII fu condotto prigioniero in Francia. La seconda tendenza fu quella della costituzione di monarchie satelliti della Francia, a favore dei fratelli di Napoleone. Nel 1806 Luigi Bonaparte divenne re d'Olanda e Giuseppe ebbe il trono di Napoli. Nel 1807 un Regno tedesco venne costituito per Gerolamo, accorpando sotto il nome di Westfalia alcuni principati soppressi e ter­ritori tolti al Regno di Prussia.

La terza tendenza fu l'intervento negli affari della Germania, dove fu creata una Confederazione del Reno (Baviera e altri principati minori) sotto il pro­tettorato francese. A un altro alleato francese, il re di Sassonia, andò infine la corona del Granducato di Varsavia, costituito nel 1807 con territori polac­chi tolti alla Prussia e all'Austria.


PER FARE IL PUNTO

  • La pace di Amiens durò solo quattordici mesi. Dopo le vittorie militari del 1800 Napoleone si era accinto a realizzare un evidente disegno di ege­monia continentale e ad esso l'Inghilterra aveva risposto nel 1803 con una nuova guerra destinata a protrarsi per undici anni.

  • Mentre sul mare l'Inghilterra risultò invincibile, Napoleone sconfisse uno dopo l'altro tutti i suoi alleati terrestri. Nei 1807 la Francia, ingrandita dal­le frequenti annessioni, era al centro di un sistema imperiale che includeva regni satelliti, come quel­lo italiano e gli altri costituiti a favore dei fratelli di Napoleone. La Francia poteva inoltre contare sul­l'alleanza con la Confederazione del Reno, nata da un profondo rimaneggiamento del disciolto Impero tedesco.

Dal blocco continentale a Waterloo




Un mese dopo la sconfitta prussiana di Jena, Napo­leone aveva emanato un decreto valido per tutto l'impero che costituiva in pratica il riconoscimento dell'impossibilità di battere militarmente l'Inghilter­ra. Restava l'alternativa di piegarla economicamen­te e infatti il decreto ricordato (datato 21 novembre 1806) istituiva un blocco totale delle relazioni commerciali fra l'Inghilterra e quella parte dell'Eu­ropa già inserita nel sistema imperiale.


Il blocco continentale.

Il criterio di fondo di questa chiusura del continente europeo alle merci inglesi era che la paralisi delle esportazioni avrebbe man­dato in rovina l'economia della Gran Bretagna ponendola di fronte a gravi tensioni sociali interne e costringendola ad accettare le condizioni di pace dettate da Napoleone.

Con la pace del 1807 Napoleone ottenne in effetti l'adesione della Russia al blocco e più tardi anche quella della Prussia e della Danimarca.

All'Inghilterra restava aperta nel Baltico soltanto la via della Svezia.

Il blocco continentale sembrò raggiungere risultati concreti nel 1808, ma la sua efficacia fu in com­plesso inferiore al previsto. Per spiegare questo fat­to occorre tener conto del contrabbando delle merci inglesi e della difficoltà di ottenere troppo a lungo un'adesione degli alleati e dei vassalli di Na­poleone a una politica che non riusciva a piegare l'Inghilterra alla pace. La rarefazione dello zucche­ro, dei caffè e dei buoni tessuti inglesi rendeva così facile e vantaggioso il contrabbando, che il costo dell'apparato necessario per reprimerlo sarebbe stato alla lunga maggiore del danno economico che si voleva portare alla Gran Bretagna.


La guerra spagnola.

Uno dei punti deboli del bloc­co era costituito dal Portogallo, che manteneva i suoi rapporti commerciali con l'Inghilterra.

Nel novembre 1807 l'esercito francese, attraverso l'alleata Spagna, occupò Lisbona. Qualche mese dopo Napoleone conferì la corona spagnola al fra­tello Giuseppe, mentre il generale Gioacchino Mu­rat veniva destinato a sostituirlo sul trono di Napoli. Prima ancora che Giuseppe fosse arrivato in Spa­gna l'intero paese insorgeva (nel maggio 1808) contro le truppe francesi che vi erano stanziate già dall'anno precedente per la campagna portoghese. Una gigantesca Vandea si era accesa nella peniso­la iberica, con le forme della più spietata guerriglia alla quale l'esercito occupante rispose con una altrettanto spietata repressione. Nei tre anni succes­sivi gran parte dell'esercito francese fu impegnato dalla guerra spagnola.


Il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d'Au­stria.

Nel 1809 l'Austria tentò un'ultima volta di ri­bellarsi all'egemonia continentale francese, ade­rendo a una nuova coalizione (la quinta) con l'In­ghilterra. La guerra fu più difficile del previsto, ma ancora una volta Napoleone si dimostrò il più forte, ottenendo una vittoria decisiva a Wagram (luglio 1809).

Da questa guerra con l'Austria derivarono sviluppi più importanti dei mutamenti territoriali; nel marzo 1810 Napoleone riuscì a combinare un matrimonio politico capace di rinforzare il sistema continentale divorziando dalla moglie Giuseppina e sposando la principessa asburgica Maria Luisa, figlia di France­sco I (divenuto dal 1806 Francesco I, imperatore d'Austria-Ungheria). Un anno dopo, nel marzo 1811, nasceva il figlio di Napoleone e con lui la possibilità di consolidare la dinastia imperiale.


La rottura con la Russia.

Sempre con l'obiettivo di rafforzare il blocco continentale, Napoleone proce­dette a nuove annessioni nei 1810-11, in Olanda e sulla costa tedesca nel mare dei Nord. Il contrabbando inglese divenne allora più difficile e l'Inghil­terra visse nel 1810-11 un anno di gravi difficoltà economiche. Mentre la rivolta spagnola era lontana dall'essere domata, Napoleone si convinse che la sconfitta dello zar Alessandro avrebbe chiuso l'ul­timo sbocco commerciale e politico dell'Inghilterra e si preparò quindi a una nuova campagna militare.


La campagna di Russia.

Nel giugno del 1812 un immenso esercito di oltre 600.000 uomini, di cui circa metà francesi e gli altri provenienti dai paesi soggetti, invase la Russia.

Napoleone contava di poter risolvere la guerra con un'unica e definitiva battaglia e i rifornimenti erano stati predisposti in previsione di una campagna di poche settimane. Ma l'esercito russo non accettava lo scontro e si ritirava con ordine, incendiando die­tro di sé villaggi, campi e depositi di vettovaglie.

In settembre Napoleone giunse in prossimità di Mosca e solo a questo punto avvenne la prima vera battaglia presso la fortezza di Borodino. Le truppe russe furono sconfitte e si ritirarono ancora, ma non vennero annientate.

Il 14 settembre 1812 Napoleone entrava a Mosca: la città era stata abbandonata dai suoi abitanti e data alle fiamme. Lo zar si rifiutava di trattare, l'esercito russo era sempre pronto alla riscossa, gli approvvi­gionamenti erano sempre più difficili e stava per cominciare il terribile inverno russo: il 19 ottobre Napoleone diede l'ordine della ritirata.

La grande armata francese, decimata dalla fame e dai freddo e inseguita sempre più da presso dall'e­sercito russo, subì alla Beresina una disastrosa sconfitta. Meno di 100.000 uomini fecero ritorno dalla Russia. Per quei paesi che fino ad allora ave­vano subito la supremazia francese era il momento di rialzare il capo.


La disfatta di Napoleone.

L'Austria, la Russia, la Prussia e l'Inghilterra si coalizzarono nuovamente contro Napoleone. Nella primavera dei 1813 i fran­cesi dovettero abbandonare la Spagna. In ottobre a Lipsia le truppe della coalizione inflissero a Napo­leone una dura sconfitta e nei mesi successivi le truppe francesi dovettero progressivamente ritirar­si, mentre i principi tedeschi alleati della Francia passavano via via alla coalizione antinapoleonica. Quando nella primavera del 1814 anche Parigi cadde, Napoleone firmò l'atto di abdicazione. In Francia fu restaurata la monarchia borbonica e la corona fu data a Luigi XVIII, il fratello di Luigi XVI. Napoleone fu esiliato nell'isola d'Elba. Ne fuggì nel febbraio del 1815, ma stavolta la sua avventura du­rò pochi mesi. Giunto in Francia, la popolazione e l'esercito abbandonarono Luigi XVIII e passarono dalla sua parte; ma a Waterloo, in Belgio, nel deci­sivo scontro con le truppe della coalizione ebbe la peggio (15-18 giugno 1815). Questa volta fu confi­nato in una sperduta isola dell'oceano Atlantico, Sant'Elena, dove sarebbe morto sei anni dopo.


La ricerca di un equilibrio in Europa.

I rappresen­tanti diplomatici delle potenze europee si riunirono a Vienna tra il novembre 1814 e il giugno 1815.

Protagonisti del congresso di pace furono il mini­stro austriaco principe di Metternich e il rappresen­tante della Francia, il principe di Talleyrand, un abi­le diplomatico che fin dal 1802 era stato uno dei principali collaboratori di Napoleone.

Ai vincitori si poneva il problema di ricreare un equilibrio tra le potenze europee, dopo io sconvol­gente e tumultuoso periodo della rivoluzione e del­le guerre napoleoniche. Essi tentarono prima di tut­to di restaurare le autorità e gli assetti politici socia­li e territoriali antecedenti l'esplosione rivoluziona­ria dei 1789, ma dovettero anche fronteggiare il nuovo problema delle aspirazioni all'unità naziona­le, particolarmente complesso nel caso della Ger­mania e della Polonia, ma più vivamente sentito ri­spetto al passato anche in Italia.


PER FARE IL PUNTO

  • Incapace di battere militarmente l'Inghilterra, Napoleone fece ricorso dal novembre 1806 alla guerra economica. Ma la politica del "blocco con­tinentale" lo costrinse anche a un progetto impe­riale di vasta portata.

  • Napoleone fu costretto a nuove annessioni e a nuove guerre, volte a rendere totale la chiusura del continente. L'ultima di queste, la grande spe­dizione del 1812 contro la Russia, provocò una vera catastrofe per l'armata napoleonica.

  • Una ricostituita vasta coalizione inflisse a Napoleone la decisiva sconfitta di Lipsia nel 1813. Di fronte all'invasione della Francia a Napoleone non restò che rinunciare alla corona e anche l'ultima impresa militare finì nella sconfitta di Waterloo.

 

Fonte: http://gritti.provincia.venezia.it/sintesidistoria/rivoluzione_francese.doc

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