Don Carlos riassunto e trama dell' opera

 

 

 

Don Carlos riassunto e trama dell' opera

 

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Don Carlos riassunto e trama dell' opera

 

1° incontro: giovedì 13 novembre 2008

 

Il “Don Carlos” di Schiller.

 

Le vicende del dramma nella loro realtà storica.

La lunga guerra tra la Francia dei Valois e la Spagna degli Asburgo, iniziata da Francesco I e Carlo V, si conclude tra i loro figli e successori Enrico II e Filippo II nel 1559 con il trattato di Cateau-Cambrésis, comprendente tra le sue clausole la stipulazione di un’alleanza matrimoniale tra le due case reali. Il giovane Carlo, figlio di primo letto di Filippo, aveva allora 14 anni ed era già affetto da sindromi di carattere psichiatrico (ricorrenti nella famiglia degli Asburgo), per cui venne esclusa quasi subito l’eventualità di un matrimonio tra lui e la sua coetanea Elisabetta, figlia di Enrico II. La principessa andò quindi in sposa al sovrano spagnolo, allora trentaduenne; il matrimonio sembra essere stato tutto sommato felice, allietato dalla nascita di due bambine, a cui poi il padre avrebbe affidato incarichi di un certo rilievo. Elisabetta morì comunque molto giovane, a 24 anni. Per quanto riguarda il giovane principe, venne effettivamente emarginato dalla politica attiva e dalla vita di corte, ma appunto a causa dei propri gravi problemi psicoemotivi di tipo paranoico-schizoide, che si concretizzavano soprattutto in violente crisi di ira accompagnate da intemperanze verbali di ogni tipo, del tutto inammissibili in un ambiente di rigida etichetta come una corte del tardo Cinquecento. All’inizio del 1568 venne relegato in una torre sotto stretta sorveglianza; morì nel luglio di quello stesso anno, in circostanze non del tutto chiarite. Dopo poche settimane morì anche Elisabetta, di parto. La fantasia popolare si impossessò subito delle due figure più giovani dell’austera corte di Filippo II, ipotizzando tra i due l’esistenza di un amore infelice che in realtà non ci fu. Elisabetta non aveva mai visto Carlo prima di giungere in Spagna e lo incontrò pochissimo anche in seguito; Carlo, da parte sua, era fidanzato alla cugina Anna e le dimostrò sempre grande affetto. L’unica realtà effettiva è la simpatia spesso manifestata da Carlo per i protestanti delle Fiandre: forse è anche vero che abbia architettato un piano per mettersi a capo della rivolta, senza però avere i mezzi né caratteriali né economici per realizzarlo. 

 

La rielaborazione drammaturgica attuata da Schiller.

Friedrich Schiller (1759-1805) si accinse alla stesura del dramma in versi “Don Carlos” nel 1785, completandolo nel 1787. Rappresentato ad Amburgo lo stesso anno con successo trionfale, il dramma risente pesantemente della temperie culturale illuministica e pre-rivoluzionaria e si discosta decisamente dalla realtà storica, secondo la consuetudine che dominerà tutta la produzione teatrale e narrativa del secolo XIX del filone cosiddetto “storico” (con l’unica eccezione dei “Promessi Sposi” manzoniani). Filippo appare molto più anziano che nella realtà, Elisabetta è una infelice vittima della ragion di Stato, ma soprattutto Carlo appare come il perfetto modello dell’eroe sturm-und-dranghiano, puro, innocente, idealista, amante della libertà e della giustizia in un ambiente oppressivo, meschino, ipocrita; è un figlio assetato d’affetto di fronte ad un padre autoritario, freddo, insensibile e severo. Nell’intreccio svolgono un ruolo decisivo due personaggi di pura invenzione: la principessa di Eboli, innamorata di Carlos e gelosa quindi della regina (che crede amante del principe), e il marchese di Posa, amico fedelissimo di Carlos, che arriverà a sacrificarsi per lui attirando su di sé i sospetti di eresia e ribellione.

Le principali tematiche dell’opera, inquadrate nella temperie culturale dello “Sturm und Drang”, sono principalmente: lo scontro tra Potere e Individuo; la Libertà contrapposta all’imposizione autoritaria di modelli di comportamento e di pensiero (grande e negativo rilievo hanno gli ecclesiastici: Padre Domingo, ipocrita e subdolo, e il Grande Inquisitore, arroccato con ferrea e consapevole determinazione alle proprie posizioni ultrareazionarie); la solitudine esistenziale dei personaggi; il triangolo edipico.

  • Lo scontro Potere-Individuo.

Analogamente a quanto già teorizzato da altri intellettuali pre- e proto-romantici, Schiller sostiene che l’esercizio del Potere è fatalmente incompatibile con i più alti ideali umani, soprattutto con la dignità e la libertà del singolo individuo. L’identificazione “potere = tirannia”, presente anche in Alfieri e in molti altri autori minori, era già comparsa nel primo dramma schilleriano, “I Masnadieri”, dove il potere incriminato è quello paterno, e ricomparirà in tutte le sue opere successive, soprattutto nella “Maria Stuarda” e nel “Guglielmo Tell”. L’Io eroico (prometeico), assetato di libertà e giustizia, può e deve cercare di opporsi al dispotismo autoritario, ma nessuno può garantirgli il successo: la Società (il Non-Io fichtiano), con le sue strutture basate sulla tradizione e sulle convenzioni sociali, è troppo più forte del singolo individuo e ne decreterà fatalmente la sconfitta. Tutti i protagonisti dei drammi schilleriani sono dei vinti, anche se rimangono vincitori morali: Karl Moor si consegna alla giustizia della Società da lui rinnegata, Don Carlos viene affidato ai rigori del Santo Uffizio, Maria Stuart sconta con nobiltà e dignità la condanna a morte per un delitto che non ha commesso, Giovanna d’Arco muore in battaglia (!) per salvare il suo popolo dagli Inglesi oppressori... L’unico eroe che esce vincitore dal titanico scontro è Guglielmo Tell, protagonista dell’ultimo dramma di Schiller (1804), forse per l’influsso della figura di Napoleone, visto in quegli anni ancora come espressione del Genio che dona libertà e giustizia ai popoli oppressi dall’oscurantismo.

  • La libertà e gli ideali illuministici.

In tutta l’opera schilleriana, ma in particolare nel “Don Carlos”, domina la tematica della libertà di pensiero contrapposta all’oscurantismo imposto dalla società reazionaria e dalla Chiesa. Schiller, che pure era sinceramente religioso, reputa il secolo di Filippo II il punto più basso toccato nel corso della Storia per quanto riguarda il rispetto delle libertà individuali: da un lato il duca d’Alba, spietato esecutore della repressione nei Paesi Bassi, dall’altro il Grande Inquisitore (simbolicamente cieco) incarnano tutto ciò che può esserci di più negativo agli occhi di un intellettuale del “secolo dei lumi”. Perfino il re Filippo viene accusato dall’anziano prelato di essere troppo “progressista”! La sterile, adolescenziale ribellione di Don Carlos trova un pendant maggiormente consapevole nel personaggio del marchese di Posa, paladino dei diritti dei Fiamminghi oppressi. In una scena di fondamentale importanza (III,10), il sovrano e Posa dialogano sui concetti di potere, libertà, “diritti umani”, rimanendo però su posizioni irrimediabilmente distanti. N.B.: Schiller era perfettamente consapevole della scarsa credibilità storica del personaggio del marchese di Posa (è estremamente improbabile, se non addirittura impossibile, che un aristocratico spagnolo del Cinquecento nutrisse quegli ideali “illuministi”). Rodrigo stesso afferma ad un certo punto: “Il secolo non è maturo per il mio ideale. Io vivo come un cittadino dei tempi che verranno”.

  • La solitudine esistenziale dei personaggi.

Più coinvolgente per noi moderni è la parte più intimista e psicologica del dramma, quella che scava nel vissuto personale dei vari personaggi, raggiungendo talvolta risultati molto suggestivi e moderni. Tutti i personaggi sono soli, alcuni disperatamente, come Carlos e Filippo, pur sentendo intensamente il desiderio di amare ed essere amati; altri meno drammaticamente, ma comunque in modo significativo. Elisabetta è attorniata da persone che le rimangono sostanzialmente estranee, se non ostili, e rimpiange ardentemente la sua Francia natale, più socievole ed aperta; Posa è del tutto incompreso nel suo antistorico progetto di democrazia ante litteram (perfino Carlos non lo comprende mai a fondo); la principessa di Eboli rimane delusa nel suo amore non ricambiato per Carlos, chiudendosi in sterili sentimenti di odio e vendetta ed abbassandosi a gesti meschini come il rubare il cofanetto dei gioielli della sua regina e fingendosi davanti a Carlos una pura fanciulla mentre da molto tempo è la concubina del re. Tutti cercano ansiosamente affetto, ma questa ricerca viene continuamente frustrata dalle circostanze o dalle rigide convenzioni sociali. A questo proposito è bellissimo, ricco di intuizioni pre-freudiane, il dialogo tra Carlos e suo padre all’inizio del secondo atto, scena sfortunatamente andata persa nel rimaneggiamento operato dai librettisti dell’opera verdiana.

  • Il triangolo edipico.

Molto interessante è lo scontro che vede contrapposti padre e figlio sul piano degli affetti. Il grave sentimento di avversione che Carlos nutre per il padre trae origine dal “furto” della fidanzata: il padre si è appropriato subdolamente della sposa destinata al figlio. L’inevitabile rivalità che si crea tra individui di generazioni diverse si configura pertanto in questo caso soprattutto come rivalità amorosa, aggravata dallo status rispettivo di padre e di figlio, nonché di re-tiranno e di suddito (in una monarchia assoluta anche l’erede al trono è un suddito come gli altri). L’innaturalità della situazione vissuta dai personaggi è sottolineata da Schiller con grande insistenza e chiarezza: è mostruosamente contro natura e contro il buon senso che due coetanei debbano chiamarsi “madre” e “figlio”, dopo esser stati destinati al matrimonio. Anche qui emerge la mentalità illuministica: l’ordine di natura è stato sconvolto, addirittura ribaltato, dall’arida ragion di Stato, dando origine inevitabilmente ad una serie di tragedie. Che un figlio si ribelli e desideri spodestare il proprio padre (cfr. mito di Crono/Zeus), e che dal canto suo un padre sia costretto a condannare a morte il proprio figlio non sono pertanto che le ineluttabili conseguenze di un tale dissennato procedere contro la Natura e contro la Ragione.

La rivalità ideologica ed affettiva tra padre e figlio è ben delineata nell’opera verdiana, nella prima scena e nel duetto tra Carlo ed Elisabetta; ricordiamo che il tema della paternità stava molto a cuore a Verdi, che ne ha fatto il motivo conduttore di molte sue opere.

 

 


2° incontro: giovedì 20 novembre 2008

 

Il “Don Carlos” nella parabola del melodramma verdiano.

 

 

La trama dell’opera.

 

Atto primo.

Quadro primo. Nel chiostro del convento di San Giusto presso Madrid, dove ancora si aggira lo spettro del defunto imperatore Carlo V sotto le spoglie di un monaco misterioso, l’Infante Don Carlo rimpiange la perdita della fidanzata Elisabetta, sottrattagli dal padre Filippo II; l’amico Rodrigo, marchese di Posa, cerca di consolarlo prospettandogli un destino di gloria se farà sua la causa delle Fiandre (Paesi Bassi) oppresse dal dispotismo di Filippo.

Quadro secondo. Nei giardini annessi al convento la regina accondiscende ad un colloquio con Carlo, chiestole da Rodrigo, per consigliargli rassegnazione. Ricordando le loro passate speranze di felicità, Carlo alterna momenti di disperata ribellione ad attimi di trasognato deliquio, finché comprende l’ineluttabilità della separazione e fugge sconvolto. Il re, trovata la regina da sola, esilia per punizione la sua dama di compagnia, offendendo la giovane consorte, che si ritira afflitta. Segue un concitato colloquio tra il sovrano e Posa, il quale cerca invano di convincere il re a concedere ai suoi sudditi maggiore libertà; Filippo rimane comunque ammirato davanti alla franchezza del marchese e gli confida i suoi crucci di sposo e di padre poco amato.

Atto secondo.

Quadro primo. Qualche giorno dopo, Carlo attende nei giardini del palazzo reale una dama, che crede la regina ed è in realtà la principessa di Eboli, innamorata di lui, travestita. Carlo le confessa il suo amore, ma quando si accorge dell’errore arretra spaventato. La principessa intuisce il terribile segreto e, furiosa, minaccia di rivelare tutto al re. Rodrigo, sopraggiunto, si fa consegnare da Carlo tutta la sua corrispondenza con i Fiamminghi ribelli, in modo da stornare da lui i sospetti, nel caso di un ormai prevedibile arresto del principe.

Quadro secondo. In una piazza di Madrid si sta preparando un autodafé (rogo pubblico di eretici): il popolo acclama il re. Giunge Carlo e chiede con toni concitati al sovrano di affidargli il governo delle Fiandre: di fronte al netto rifiuto del padre, si ribella apertamente. Viene arrestato con l’aiuto del marchese di Posa, che vuole evitare all’amico altri guai. (N. B.: questo episodio della “scenata” in pubblico è forse l’unico che abbia una certa veridicità storica).

Atto terzo.

Quadro primo. Filippo, solo nella sua stanza, medita sulla sua vita priva di affetti. Giunge il Grande Inquisitore che gli consiglia di condannare a morte Carlo, ribelle e filo-protestante, e di consegnare al Santo Uffizio il marchese di Posa, pericoloso “rivoluzionario”. Il re tenta di opporsi, ma deve cedere al potere della Chiesa. Arriva agitata la regina, a cui è stato sottratto un prezioso cofanetto (dalla principessa di Eboli, ma la sovrana lo ignora). Il re le mostra lo scrigno sulla sua scrivania: trovandovi un ritratto di Carlo, accusa la regina di adulterio. La regina sviene e il re, pentito, si allontana. La principessa, sopraggiunta al grido di Elisabetta, è tormentata dai rimorsi per aver accusato ingiustamente la regina, e le chiede perdono, rivelandole anche di esser stata l’amante del re. La regina, disposta a perdonare la prima offesa, non può lasciar correre la seconda e “licenzia” la dama, che, rimasta sola, maledice la sua vanità e la sua ambizione.

Quadro secondo. Rodrigo svela a Carlo prigioniero il suo piano: si è autodenunciato come capo della ribellione fiamminga per salvare Carlo e permettergli di guidare l’opera di liberazione di quel popolo oppresso. Mentre i due stanno ancora discutendo, appare un sicario che uccide il marchese con un colpo di archibugio: Rodrigo muore tra le braccia dell’amico disperato. Il re, sopraggiunto per liberare Carlo, capisce che l’ordine di uccidere Posa è partito dall’Inquisitore, ma si sente comunque corresponsabile e si rammarica molto. Carlo lo maledice.

Atto quarto.

Quadro unico. Carlo ed Elisabetta si incontrano per l’ultimo addio nel chiostro di San Giusto; Elisabetta esorta il principe a dimenticare il loro infelice amore per una causa più nobile, quale è la libertà degli oppressi. Mentre stanno per lasciarsi, compare Filippo con l’Inquisitore: le guardie cercano di arrestare l’Infante che indietreggia fino al sepolcro del nonno (Carlo V): sulla soglia della cappella compare il monaco-spettro che trascina con sé Carlo, tra il terrore degli astanti. L’opera si chiude così con la stessa atmosfera e con le stesse sottolineature con cui era iniziata (“composizione ad anello”).

 

La rielaborazione del libretto di Mèry-Du Locle-Zanardini.

Il “Don Carlos” venne commissionato a Verdi dall’Opéra di Parigi per l’Esposizione Universale del 1867: il compositore accettò, attratto dalla possibilità di sfruttare le risorse di un grande teatro. Il pubblico francese amava i grandi spettacoli, con centinaia di comparse, costumi sfarzosi, “effetti speciali”, balletti; si era pertanto creato il cosiddetto grand-opéra, alquanto diverso dalla tradizione italiana. Il libretto era in francese, in cinque atti: l’opera risultava così molto lunga. Nel 1882 Verdi decise di rielaborare radicalmente l’opera, semplificandola: questa versione, tradotta in italiano, fu rappresentata alla Scala l’anno successivo ed è la versione che viene eseguita più spesso (ma esistono anche versioni “ibride”, con materiale scritto da Verdi, ma scartato per ragioni di praticità scenica).

Le principali differenze drammaturgiche e tematiche del libretto “italo-francese” rispetto al dramma schilleriano sono:

  • invenzione-aggiunta di interi episodi per una maggiore spettacolarizzazione (esigenze del grand-opéra): atto “francese”, scena dell’autodafé, balletti, cornice soprannaturale (= fantasma di Carlo V), composizione ad anello;
  • spostamento di episodi e battute, rimaneggiamento generale: ciò comporta pesanti conseguenze sulla coerenza narrativa (certi particolari del plot non si capiscono più) e sui riferimenti cronologici (in Schiller tutta la vicenda si svolge nella primavera del 1568, nello spazio di pochi giorni, mentre in Verdi saltano tutti i “tempi narrativi” interni);
  • maggiore sintesi: molti personaggi minori scompaiono, i dialoghi tra i personaggi sono più succinti (cfr. dialogo Filippo-Posa nel I atto; viene eliminato il confronto diretto Carlo-Filippo);
  • spiccato anticlericalismo (“voce dal cielo” nell’autodafé; l’Inquisitore impone il suo volere perfino al sovrano; la morte del marchese di Posa è voluta dall’Inquisitore per motivi ideologici);
  • maggiore pathos nelle scene che oppongono le passioni dei personaggi (Filippo-Elisabetta, terzetto Eboli-Carlo-Posa, Filippo-Inquisitore);
  • scavo psicologico (duetto I atto, “scene-monologo” di Filippo e di Elisabetta).

 

Le innovazioni della tecnica musicale rispetto alla produzione verdiana precedente.

Quando Verdi compone la prima stesura dell’opera, e soprattutto quando la riprende in mano nel 1882, ha già raggiunto la piena maturità stilistica, ed ha anche viaggiato molto, prendendo conoscenza dello stile dell’opera francese e del nuovo dramma musicale wagneriano. E’ indubbio che le sue ultime opere risentono profondamente di queste frequentazioni, anche se Verdi nutrirà sempre una decisa diffidenza per tutto ciò che di innovativo veniva d’Oltralpe. Se confrontiamo un melodramma verdiano della giovinezza, o anche un’opera già matura, come la “Traviata” o il “Rigoletto”, con le ultime quattro opere , notiamo immediatamente uno stile radicalmente diverso, soprattutto nell’impasto timbrico più scuro, nel suono ottenuto dall’orchestra, pastoso e quasi “sinfonico”, ma anche nell’impiego dei cantanti. Non si ricorre più alle tradizionali forme chiuse del melodramma del primo Ottocento (aria strofica, cabaletta, duetto, terzetto, concertato, ecc...), ma il discorso vocale si fa più libero e più aderente alla situazione emotiva del personaggio. Le grandi scene-monologo di Filippo e di Elisabetta, ma anche i “duetti” più importanti (Carlo-Elisabetta nel I e nel IV atto, Filippo-Posa, Filippo-Inquisitore) sono molto significativi a questo riguardo.

E’ anche vero che nel “Don Carlo” questa evoluzione non è ancora del tutto compiuta: si trovano ancora in esso pezzi alquanto tradizionali e decisamente più deboli drammaticamente rispetto al resto della composizione: l’esempio più evidente è l’aria di esordio del protagonista, gradevole ma piuttosto superficiale. Anche la scena della morte di Posa, pur commovente, è giudicata da molti critici troppo convenzionale. Tutta la scena dell’autodafé piaceva poco allo stesso Verdi, che era stato costretto ad inserirla per esigenze di spettacolarità; allo stesso modo considerava mal riusciti i balletti posti all’inizio del II atto, obbligatori per un’opera da rappresentare in Francia (il pubblico li pretendeva, anche se non c’entravano nulla con la vicenda ed interrompevano sgradevolmente la tensione drammatica). La caratteristica che forse colpisce di più anche ad un primo ascolto è il timbro scuro, cupo, “notturno”, in certi punti addirittura funebre, che domina tutta la composizione: non a caso, gli strumenti dell’orchestra impiegati con più insistenza sono violoncelli, contrabbassi, oboi, fagotti, tromboni, corni, per non parlare del ruolo di spicco che hanno le voci scure (un baritono e addirittura tre bassi profondi). Perfino le fanfare hanno un timbro scuro e quasi funereo, dominate come sono da corni e tromboni.

Breve storia dell’interpretazione.

Tra tutte le opere di Verdi, il “Don Carlo”, insieme ad “Otello” e “Falstaff”, viene eseguito piuttosto raramente, per svariati motivi.

  • Richiede un allestimento sfarzoso, con molte comparse e costumi “impegnativi”; inoltre, se si sceglie la versione francese è previsto anche l’intervento del corpo di ballo.
  • L’orchestra ed il coro hanno passaggi fortemente “tecnici”, di non facile esecuzione; il direttore deve avere una lunga esperienza di opere verdiane.
  • Il cast comprende, oltre a parecchi comprimari, ben sei ruoli di primissimo piano: un tenore, un soprano, un baritono, un mezzosoprano, due bassi (Filippo II e il Grande Inquisitore), che devono essere tutti di eccellente livello e, soprattutto al giorno d’oggi, raggiungere questi obiettivi non è affatto facile. I cantanti devono essere non solo bravi tecnicamente, ma anche credibili dal punto di vista scenico e della recitazione. Attualmente, viceversa, i cantanti sfoggiano spesso grande bravura vocale, ma trascurano l’aspetto teatrale: la recitazione è quasi sempre fredda ed artefatta, poco spontanea, oppure al contrario enfatica e ridondante. Quasi mai si assiste ad un vero studio psicologico del personaggio.

L’opera verdiana ebbe il suo “secolo d’oro” interpretativo in due periodi storici: il primo, negli anni ‘50-‘60, quando le varie parti divennero il cavallo di battaglia di bassi come Cesare Siepi e Boris Christoff, tenori come Franco Corelli, Giuseppe di Stefano e Jon Vickers, soprani come Maria Callas e Renata Tebaldi, baritoni come Ettore Bastianini, mezzosoprani come Giulietta Simionato e Grace Bumbry; il secondo negli anni ‘70, con Nicolai Ghiaurov e Ruggero Raimondi (bassi), Mirella Freni e Montserrat Caballé (soprani), José Carreras, Alfredo Kraus e Placido Domingo (tenori), Piero Cappuccilli, Sherrill Milnes e Renato Bruson (baritoni), Fiorenza Cossotto, Shirley Verrett e Agnes Baltsa (mezzosoprani). Come per tutto il resto del grande repertorio operistico, gli anni Settanta vedono da parte dei migliori direttori d’orchestra (Karajan, Solti, Bernstein, Mehta, Muti, Abbado) una particolare attenzione all’introspezione psicologica, alla resa delle più riposte sfumature interiori dei personaggi: il “Don Carlo” si presta bene a tale lavoro, soprattutto per i personaggi del protagonista e di Filippo II.

Le messe in scena registiche negli ultimi anni tendono ad essere decisamente strampalate, con idee molto discutibili; l’ultima regia “classica” (che pure all’epoca fece scandalo per la sua originalità!) è quella di Luca Ronconi, che inaugurò la stagione scaligera nel 1978: presentava alcune idee registiche decisamente geniali.

Edizioni consigliate:

CD: Karajan + Berliner; Carreras, Freni, Cappuccilli, Raimondi, Baltsa (1979) - EMI

DVD: Karajan; Carreras, Izzo D’Amico, Cappuccilli, Furlanetto, Baltsa (1986). Karajan, ormai molto anziano, curò lui stesso la regia, che pur non essendo tremendamente originale, è però corretta e suggestiva, con idee molto buone in alcuni punti (la reggia spagnola = prigione; il giardino inaridito e “cementificato” = le vite dei protagonisti...). Bellissimi e corretti storicamente i costumi; ottima la recitazione della Izzo D’Amico e di Furlanetto, senza gesti esagerati o inutili; un po’ meno quella di Carreras (pure molto intenso sentimentalmente) e Cappuccilli.

      dallo spagnolo auto de fe o dal portoghese auto da fe: propriamente “atto di fede”, cioè la lettura pubblica della condanna degli eretici da parte del tribunale dell’Inquisizione

     Don Carlo, Aida, Otello, Falstaff

 

Fonte: http://www.liceomanzoni.net/download/iniziative/Scala_DonCarlo.doc

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