Storia del teatro occidentale

 


 

Storia del teatro occidentale

 

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Storia del teatro occidentale

 

Storia del teatro occidentale

 

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          Teatro elisabettiano

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          Commedia all’italiana

          Varietà

 

 

Teatro moderno: Teatro rinascimentale

 

Il Rinascimento fu l'età dell'oro della commedia italiana, anche grazie al recupero e alla traduzione nelle diverse lingue moderne, da parte degli umanisti di numerosi testi classici greci e latini (sia testi teatrali che opere teoriche come la Poetica di Aristotele, tradotta per la prima volta in italiano nel 1549).

I generi sviluppati e proposti furono la commedia, la tragedia, il dramma pastorale, il melodramma, i quali ebbero una notevole influenza sul teatro europeo del secolo.

Uno dei commediografi più rappresentativi del teatro rinascimentale è stato Niccolò Machiavelli; il segretario fiorentino aveva scritto una delle commedie più importanti di questo periodo, La Mandragola, caratterizzata da una carica espressiva e da una linfa inventiva difficilmente eguagliate in seguito, ispirata da riferimenti satirici alla realtà quotidiana dei personaggi e non più necessariamente legati ai tipi della tradizione classica.

Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena scrisse un'unica ma interessante commedia esemplare del gusto del periodo: La Calandria. Fra i molti che si cimentarono in composizioni di testi teatrali si possono citare gli eruditi Donato Giannotti, Annibal Caro, Anton Francesco Grazzini detto Il Lasca e il nobile senese Alessandro Piccolomini.

Un posto particolare occupano Pietro Aretino, Ludovico Ariosto e Ruzante, che furono tutti intellettuali al servizio delle corti. Per quella estense di Ferrara, Ariosto, oltre Orlando furioso, scriverà delle divertenti commedie come La Cassaria. Nella Roma di Leone X imperverserà Pietro Aretino con le sue pasquinate ma anche con commedie come La Cortigiana, nella quale trasgredirà molte convenzioni linguistiche e sceniche.

A Roma il teatro venne riscoperto e, per la prima volta, avallato dai papi, che intuiscono la possibilità di strumentalizzarlo a fini politici.

In caso a parte è rappresentato dalla figura e l'opera di Angelo Beolco detto il Ruzante dal nome del contadino padovano protagonista delle sue opere. La particolarità del teatro di Ruzante era quella di introdurre nel teatro italiano, che sino ad allora aveva usato il volgare fiorentino, l'uso del dialetto. Ruzante lavorava alla corte padovana di Alvise Cornaro il quale fece costruire un'apposita scenografia nella sua villa di Padova che fu detta la Loggia del Falconetto dal nome dell'architetto che la ideò, spazio atto alla rappresentazione delle commedie ruzantiane come la Betìa e l'Anconitana per citare le più famose fra le commedie di Beolco. Nel caso di Ruzante il dialetto con il quale si esprimeva la sua drammaturgia era il padovano cinquecentesco delle campagne venete: le sonorità onomatopeiche della difficile lingua furono di ispirazione, a distanza di molti secoli, per artisti contemporanei come Dario Fo, che trasse ispirazione appunto dalla lingua di Ruzante per il suo grammelot.

Il teatro in dialetto cominciò a svilupparsi in questo periodo con la Commedia dell'Arte, le sue maschere, come il bergamasco Arlecchino (che poi assumerà come lingua il veneziano) e il napoletano Pulcinella, le sue invenzioni mimiche e gestuali.

Anche il teatro tragico trovò un suo spazio; il conte Gian Giorgio Trissino e Torquato Tasso composero tragedie di carattere epico-pastorale, genere a metà strada fra la tragedia e la commedia. La tragedia più rappresentativa di questo periodo, di sapore molto arcadico, fu Il pastor fido di Giovan Battista Guarini. Anche l' Aminta di Torquato Tasso è considerato un capolavoro, non solo per la fortuna editoriale e teatrale ottenuta, ma soprattutto per la sua notevole influenza sulla drammaturgia europea e sul melodramma seicentesco.

Questi testi teatrali venivano rappresentate da giovani dilettanti, come le Compagnie della calza dei nobili veneziani, l'Accademia dei Rozzi di Siena o le Confraternite fiorentine: la professionalità dell'attore non era riconosciuta, sebbene la professione esistesse e sviluppò, nel tempo, progressi notevoli dal punto di vista dell'arte drammatica e dell'interpretazione del testo, nonché dell'allestimento scenico, spesse volte a carico delle compagnie girovaghe.

La commedia cinquecentesca subì una svolta nel 1582, quando a Parigi venne pubblicato Il Candelaio, di Giordano Bruno ricco di caratteristiche anomale e trasgressive.

Con la ripresa del teatro si cominciarono a costruire anche degli spazi atti a contenere scenografie, alle volte anche molto complesse: in questo periodo vennero costruiti nuovi teatri, l'esempio più eclatante è il Teatro Olimpico di Andrea Palladio che si trova a Vicenza dove ancora oggi viene conservata la scenografia originale cinquecentesca di Vincenzo Scamozzi dell'Edipo re di Sofocle, opera con la quale fu inaugurato il teatro nel 1585.

A Roma grazie all'attivismo di Pomponio Leto, atto a far riscoprire il teatro latino, il Foro e Castel Sant'Angelo divennero luoghi deputati per le rappresentazioni, solitamente effettuate durante le feste e le celebrazioni.

La riscoperta e valorizzazione degli antichi classici da parte degli umanisti permise lo studio delle opere concernenti il teatro non solo dal punto di vista drammaturgico (nel 1425 Nicolò di Cusa scoprì, ad esempio, nove commedie plautine) ma anche dal punto di vista architettonico: architetti e trattatisti come Girolamo Genga o Leon Battista Alberti cercarono ispirazione in Vitruvio negli aspetti teatrali del suo trattato sull'architettura romana, mentre lo scenografo Sebastiano Serlio adattò al teatro del Cinquecento i modelli delle scenografie: comica, tragica e pastorale, tripartizione che fu rispettata nelle opere del teatro del Rinascimento.

 

Teatro moderno: Teatro elisabettiano

Il teatro elisabettiano è stato uno dei periodi artistici di maggior splendore del teatro britannico. Esso viene collocato tradizionalmente fra il 1558 e il 1625, durante i regni dei sovrani britannici Elisabetta I d'Inghilterra e Giacomo I d'Inghilterra. Il termine, nella sua accezione di teatro rinascimentale inglese, si estende ai fenomeni teatrali fioriti nel periodo che va dalla riforma anglicana alla chiusura dei teatri nel 1642, a causa del sopraggiungere della Guerra Civile, comprendendo quindi anche buona parte del regno di Carlo I. La produzione del periodo successivo al 1603 (anno della morte della regina) è talvolta definita in modo distinto come il teatro dell'età giacobita (jacobean) e presenta caratteri differenti dal precedente, di cui è l'evoluzione.

Il teatro di tutto il periodo viene tradizionalmente associato a due grandi figure: la regina Elisabetta (1533-1603), da cui trae il nome, e il drammaturgo William Shakespeare (1564-1616), massimo esponente di questo periodo e considerato tuttora uno dei maggiori autori teatrali a livello mondiale.

 

Il periodo elisabettiano coincide cronologicamente solo in parte col Rinascimento europeo e meno ancora con quello italiano, recando in sé forti accenti di Manierismo e di Barocco in quanto più tardivo.

Questo periodo storico fu idealizzato dalla storiografia vittoriana e del primo Novecento come una sorta di età dell'oro. Gli studi storici più recenti tendono a ridimensionare questa visione idilliaca, sottolineando la povertà della stragrande maggioranza della popolazione, il sostegno allo schiavismo e le grandi tensioni interne al paese che sfoceranno, quarant'anni dopo la morte di Elisabetta, nella Guerra civile inglese. È tuttavia opinione generale degli storici che l'età elisabettiana consentì all'isola un periodo di relativa pace, un governo che utilizzò con parsimonia la tortura, una riduzione consistente delle persecuzioni religiose e un grado di libertà e prosperità di gran lunga superiore alle monarchie precedenti e immediatamente successive.

 

L'età elisabettiana segnò l'ingresso dell'Inghilterra nell'età moderna sotto la spinta delle innovazioni scientifico-tecnologiche come la rivoluzione copernicana e delle grandi

esplorazioni geografiche (è l'inizio della colonizzazione inglese dell'America settentrionale). La tempesta si ambienta non a caso in un'isola dei Caraibi la cui popolazione (rappresentata simbolicamente dal "selvaggio" Calibano e da sua madre, la strega Sicorace) è stata sottomessa dalle arti magiche di Prospero, cioè dalla tecnologia e dal progresso dei colonizzatori europei.

L'ascesa al trono di Elisabetta, dopo il tragico quinquennio di regno di Maria la cattolica, si caratterizzò per un consolidamento del protestantesimo e uno sviluppo deciso dei commerci e delle conquiste territoriali del regno. Il distacco dall'orbita del papato e del Sacro Romano Impero, con la sconfitta di Filippo II di Spagna e della sua Invencible Armada (1588), il maggior benessere economico dovuto all'espansione dei commerci oltre Atlantico, suggellarono il trionfo di Elisabetta e la nascita dell'Inghilterra moderna.

Una nuova classe mercantile acquistava potere, e con i commerci aumentarono anche gli scambi culturali con l'estero. Si accrebbe l'interesse verso le humanae litterae e quindi verso l'Italia, dove gli intellettuali fuggiti da Costantinopoli (1453) avevano portato con sé gli antichi manoscritti dei grandi classici greci e latini facendo esplodere un interesse senza precedenti per l'antichità greco-romana e lo studio della lingua ebraica.

Nasceva allora in Italia l'Umanesimo (a vocazione soprattutto filologica e archeologica), destinato a maturare nel XVI secolo nel Rinascimento, con la creazione di un'arte e un'architettura moderna e un rinnovamento tecnologico su larga scala (si pensi soltanto a Leonardo da Vinci). Se in Italia il Rinascimento si esaurì verso la metà del XVI secolo, nel Nord Europa (dove arriva più tardi) esso perdurò fino ai primi decenni del XVII secolo.

Un fattore sociale che segnò la nuova realtà inglese, oltre alla crescente intraprendenza dei commercianti, fu l'aumento della popolazione. Le differenze economiche tra i ceti ricchi e i meno abbienti durante la Dinastia Tudor si approfondirono. La crescita demografica e l'emigrazione dalle campagne investirono Londra, che quadruplicò la sua popolazione in meno di un secolo. Nel 1600 la capitale contava circa 200.000 abitanti. Lo sviluppo del teatro inglese di quest'epoca ha il suo centro proprio a Londra, diffondendosi poi nella provincia.

 

Nel periodo immediatamente precedente all'era del teatro elisabettiano, erano molti diffuse le rappresentazioni sacre, i Corpus Christie plays e i Miracle plays, interrotti solo dal re scismatico Enrico VIII (1548), e definitivamente messi al bando sotto Elisabetta. Vennero rappresentati in oltre centoventicinque città britanniche e per alcune loro caratteristiche, come il passaggio improvviso dal serio al comico e viceversa, la narrazione per episodi priva della classica strutturazione dei cinque atti tradizionali, anticiparono il

teatro elisabettiano. Quest'ultimo fu maggiormente influenzato, invece dalle Moralities, testi allegorici con fini educativi che seppur legati alla sfera sacra, introdussero il gusto della visualizzazione di concetti astratti, ottenuta grazie a figure simboliche, ovverossia personaggi che rappresentano idee o atteggiamenti. Inoltre un altro filone teatrale, questa volta laico, precedette quello elisabettiano: gli Interludes ("interludi"), che ebbero

l'apice del loro successo dalla metà del quattrocento fino alla seconda metà del cinquecento, il cui protagonista era solitamente il monarca, l'ambientazione era Londra, la trama insisteva sull'enfatizzazione della felicità terrena.

Fondamentale fu la nascita dei cosiddetti minidrammi, influenzati dalle opere latine e classiche che inventeranno il metro del teatro in versi che caratterizzerà la produzione successiva.

Le compagnie di attori sotto la protezione dei casati nobiliari, che eseguivano periodicamente rappresentazioni nelle corti e in altri luoghi, esistevano anche prima del regno di Elisabetta, e prepararono la strada agli attori professionisti del teatro elisabettiano. I sovrani Tudor si circondarono spesso di artisti, giullari, musicisti e attori. Enrico VII manteneva a corte una piccola compagnia di attori, i King's Players (Lusores Regis), allo scopo di intrattenere e divertire gli ospiti. I nobili più potenti, come il duca di Northumberland o quello di Buckingham, non erano da meno nell'affermare il proprio prestigio arruolando attori e menestrelli, impegnandoli in sfarzose celebrazioni, in occasione delle festività natalizie o per inaugurare un nuovo palazzo. Gli attori, pedine nei giochi politici, legavano il proprio successo a quello del protettore, di cui portavano la livrea. Spesso venivano 'prestati' ad altre corti, allo scopo di accrescere il prestigio del proprio mecenate, e compivano viaggi nei quali a volte erano impiegati anche come informatori. Le lotte di potere e le rivalità tra la monarchia e le casate più potenti diventarono argomento degli stessi drammi rappresentati, in una finzione che rifletteva e si confondeva con la realtà.

Le tournée di queste compagnie di attori in livrea soppiantarono gradualmente le altre forme di rappresentazione sacre e profane. Un articolo della Poor Law (legge sui poveri) del 1572 eliminò le rimanenti compagnie che operavano senza una formale protezione, equiparandole al vagabondaggio. Le autorità di Londra furono generalmente ostili alle pubbliche rappresentazioni. Nonostante le protezioni reali e nobiliari, i teatri pubblici della città furono edificati nelle liberties fuori dalla giurisdizione comunale, quali il quartiere di Southwark, e per mettersi al riparo dai divieti le compagnie dovettero ricorrere frequentemente allo stratagemma di presentare le rappresentazioni come semplici

prove di spettacoli destinati alla corte reale.

A Londra, città in forte espansione nella quale fiorivano le attività economiche, l'edificazione e la gestione di un teatro assunse il carattere allora inedito di impresa commerciale autonoma, facendo emergere la figura dell'impresario. Thomas Dekker giunse ad equiparare i teatri alla Borsa Reale di Londra costruita nel 1565 da Thomas Gresham, affermando come le Muse si fossero «trasformate in mercanti, scambiandosi la merce leggera delle parole»

 

Quando nel Cinquecento sorsero i primi teatri nelle liberties fuori dalla City (sorta di zone franche non completamente assoggettate all'autorità comunale) essi conservarono molto della antica semplicità medievale. Senza l'aiuto di macchine o luci artificiali gli attori inglesi svilupparono al massimo creatività e fantasia personale prima ancora che

fossero scritte le prime grandi opere elisabettiane (Shakespeare si fece le ossa esordendo come attore, e così fecero molti altri). Ricavato in origine dai circhi dell'epoca per le lotte tra orsi o tra cani oppure dagli "inn", locande economiche di provincia, l'edificio teatrale consisteva in una costruzione molto semplice in legno o in pietra, spesso circolare e dotata di un ampio cortile interno chiuso tutt'intorno ma senza tetto. Tale corte diventò la platea del teatro, mentre i loggioni derivavano dalle balconate interne della locanda.

Quando la locanda o il circo divennero teatro, poco o nulla mutò dell'antica costruzione: le rappresentazioni si svolgevano nella corte, alla luce del sole.

L'attore elisabettiano recitava in mezzo, non davanti alla gente: infatti il palcoscenico si "addentrava" in una platea che lo circondava da tre lati (solo la parte posteriore era riservata agli attori restando a ridosso dell'edificio).

Come nel Medioevo, il pubblico non era semplice spettatore, ma partecipe del dramma. L'assenza degli "effetti speciali" raffinava le capacità gestuali, mimiche e verbali dell'attore, che sapeva creare con maestria luoghi e mondi invisibili (le magie di Prospero ne La Tempesta alludono metaforicamente proprio a questa magia "evocativa").

Il primo grande anfiteatro aperto al pubblico dell'età elisabettiana fu quello denominato semplicemente The Theatre, Il teatro, costruito dall'attore e impresario James Burbage e dal cognato John Brayne nel quartiere periferico di Shoreditch nel 1576, su un terreno preso in affitto dal puritano Giles Allen (il quale venti anni più tardi ne pretenderà la restituzione e la demolizione del teatro). Nello stesso anno la regina Elisabetta aveva infatti accordato ai Leicester's men di Burbage una licenza, grazie alla quale essi erano esenti dal vigente divieto alle pubbliche rappresentazioni teatrali. Il prototipo per il nuovo teatro era stato il Red Lion, fatto costruire da Brayne nove anni prima, nel 1567, a Mile End, un villaggio ad est di Londra: nelle sue forme essenziali (uno spazio aperto recintato, con gallerie intorno e il palcoscenico sopraelevato) la sua impostazione strutturale influenzò l'architettura teatrale successiva.

Seguirono il Curtain Theatre (1577), il Rose (1587), lo Swan (1595), il Globe (del 1599, costruito con il legname del Theatre, dopo la rescissione del contratto di affitto del terreno), il Fortune (1600), e il Red Bull (1604).

Questi teatri erano altri tre piani, e costruiti anch'essi intorno ad uno spazio aperto al centro. In genere la pianta era poligonale per ottenere un effetto circolare (anche se il Red Bull e il primo Fortune erano a pianta quadrata). I tre livelli di gallerie, rivolti all'interno, circondavano lo spazio aperto centrale. Il palcoscenico era essenzialmente una piattaforma circondata dai tre lati dal pubblico, sollevata dal terreno di un metro e mezzo circa e coperta da un tetto. Sul fondo erano collocate le porte di ingresso e uscita degli attori e le sedie per i musicisti. La parte superiore dietro al palcoscenico poteva

essere utilizzata come balcone, come nella famosa scena di Romeo e Giulietta, oppure come un luogo da cui un attore poteva arringare la folla, come in Giulio Cesare. In genere costruiti in legno, i primi teatri erano soggetti agli incendi. Quando nel giugno del 1613 il Globe andò a fuoco, fu ricostruito con un tetto di tegole. Nel dicembre del 1621, quando il fuoco distrusse il Fortune, questo fu interamente ricostruito in mattoni. La capienza degli anfiteatri si aggirava tra i 1500 e i 3000 spettatori.

Un modello differente fu sviluppato con il Blackfriars Theatre, ricavato da un ex convento, che cominciò a essere utilizzato con regolarità nel 1599. Il Blackfriars era più piccolo, confrontato con i precedenti, ed era interamente coperto. Assomigliava più degli altri ad un moderno teatro. L'illuminazione interna era ottenuta con candele, che venivano sostituite durante uno o più intermezzi del dramma. Altri piccoli teatri coperti seguirono, quali il Whitefriars (1608) e il Cockpit (1617). Questi teatri erano più raccolti, e contenevano circa 500 spettatori, in un ambiente raccolto. Venivano detti privati, benché fossero anch'essi aperti al pubblico: essendo molti di essi situati dentro le mura della città, era questo un ennesimo stratagemma per sfuggire alle rigide disposizioni della legge. Alla grande O di legno di cui si parla nel prologo dell' Enrico V progressivamente si sostituiscono le sale dei palazzi barocchi, relegando gli anfiteatri a sede di spettacoli estivi, o, come nel caso dello Hope, ai combattimenti tra cani e orsi.

Con la costruzione del Salisbury Court Theatre nel 1629 vicino al luogo del dismesso Whitefriars, il pubblico londinese aveva sei teatri tra cui scegliere, tre dei quali ampi e a cielo aperto (il Globe, il Fortune e il Red Bull), e tre più piccoli, privati (il Blackfriars, il Cockpit e il Salisbury Court).

Intorno al 1580, quando sia il Theatre che il Curtain erano pieni, con il bel tempo, la capacità totale dei teatri a Londra era di circa 5000 spettatori.

Quando furono costruiti i nuovi edifici e si formarono nuove compagnie, il numero di posti disponibili aumentò, fino a superare i 10,000 spettatori dopo il 1610.

 

Mentre il dramma rinascimentale italiano si evolveva verso una forma di arte elitaria, il teatro elisabettiano diventava un grande contenitore che affascinava tutte le classi.

Alle rappresentazioni dei teatri pubblici potevano incontrarsi principi e contadini, uomini, donne e bambini, anche perché il biglietto era alla portata di tutti: i posti in piedi, al centro del teatro costavano un penny; gli spettatori più abbienti potevano sedersi nelle gallerie pagando due penny (oppure, con una somma superiore, potevano recarsi nei teatri coperti); la frequentazione del teatro era fortemente radicata nei costumi dell'epoca. Per questo ogni dramma doveva incontrare gusti diversi: quelli del soldato che voleva vedere guerre e duelli, quelli della donna che cercava amore e sentimento, quelli dell'avvocato che si interessava di filosofia morale e di diritto, e così via. Anche il linguaggio teatrale riflette questa esigenza, arricchendosi dei registri più vari e acquistando grande flessibilità espressiva.

Le tariffe minime non mutarono nel tempo: nel 1580, i cittadini più poveri potevano acquistare l'ingresso al Curtain o al Theatre per un penny; nel 1640 l'ingresso al Globe o al Red Bull costava esattamente la stessa somma, mentre l'ingresso per i teatri privati ammontava a cinque o sei volte tanto.

 

Gli autori

La popolazione in aumento di Londra, la ricchezza crescente di alcuni dei suoi cittadini e la crescente domanda di intrattenimento, frustrata dalla soppressione delle forme medioevali di spettacolo, produsse una letteratura drammaturgica di notevole varietà, qualità ed estensione. Il repertorio del teatro inglese si formò in un lasso di tempo brevissimo, seguendo la necessità di dover offrire sempre nuovi spettacoli (le cui repliche consecutive erano sempre molto limitate) nei nuovi teatri che venivano via via edificati. Malgrado la maggior parte dei testi scritti per il palcoscenico elisabettiano siano andati perduti ne rimangono oltre 600, a testimonianza di un'epoca culturalmente vivace.

Gli uomini (non vi sono donne, per quanto si sappia, che scrissero per il teatro in quest'epoca) che inventavano questi drammi erano anzitutto autodidatti di modeste origini, nonostante alcuni di essi avessero avuto un'istruzione a Oxford o a Cambridge. Alcuni, come William Shakespeare furono innanzitutto attori, tuttavia la maggior parte di essi non lo erano e a partire dal 1600 non è noto il nome di alcun autore che abbia calcato le scene come attore per arrotondare le proprie entrate.

Quella dell'autore teatrale era una professione remunerativa, ma soltanto per coloro che riuscivano a produrre due pezzi teatrali all'anno. Dato che i drammaturghi guadagnavano poco dalla vendita delle loro opere, per vivere dovevano scrivere moltissimo. La maggior parte dei drammaturghi professionisti guadagnava una media di 25 sterline all'anno, una cifra notevole per l'epoca.

Erano in genere pagati per stati di avanzamento nel corso della stesura e se infine il loro testo era accettato potevano inoltre ricevere i proventi di un giornata di rappresentazione. Essi tuttavia non godevano di alcun diritto su ciò che scrivevano. Quando il testo era stato venduto ad una compagnia, questa lo possedeva e l'autore non aveva alcun controllo sulla scelta degli attori o sulla rappresentazione, né sulle successive revisioni e pubblicazioni.

John Lyly, il primo drammaturgo elisabettiano a noi noto di una certa rilevanza, fu essenzialmente un autore di corte, poco interessato a sviluppare una drammaturgia adatta ad un pubblico popolare. Le sue opere erano destinate a compagnie di adolescenti che recitavano in teatri privati, e le sue trame erano il pretesto per raffinate dissertazioni, scritte in un linguaggio ricercato. Il suo stile, detto eufuismo, incoraggiò la ricerca di un linguaggio ricco e colto, reso complesso da figure retoriche e da strutture simmetriche o ricorrenti. Un esempio di influenza sulla produzione successiva è la commedia scespiriana Pene d'amore perdute.

Non tutti i drammaturghi corrispondono tuttavia alle moderne immagini di poeti o intellettuali. Christopher Marlowe fu ucciso nel corso di una rissa in una taverna, Shakespeare si accompagnava a personaggi dei bassifondi di Londra e arrotondava le proprie entrate prestando denaro, mentre Ben Jonson uccise un attore in duello. Molti altri furono probabilmente soldati. Forse in nessuna altra epoca il dramma è più reale e tocca la sensibilità di tutti: cospirazioni, assassini politici, condanne a morte e violenza sono all'ordine del giorno, anche perché il Rinascimento è un'epoca di cambiamenti traumatici in tutta Europa. Per sfuggire alla censura i temi trattati sono sempre presentati come lontani o estranei, ma non mancano le fonti di ispirazione: in Italia, e soprattutto a Firenze, i complotti politici di palazzo e le guerre intestine hanno insanguinato le città, come si apprende dalle cronache e dalla novellistica italiana tradotta in inglese. Queste e altre vicende europee offrono ottimi spunti per rappresentare in modo esotico le tensioni con le quali convivono i cittadini del Regno. La grandezza dell'epoca contempla così la sua

stessa crisi, che è anche la crisi e il tramonto definitivo dell'età di mezzo.

Marlowe compose opere su temi molto controversi, rompendo molti del tabù dell'epoca. Nei suoi drammi, tramite allegorie ben dissimulate in vicende apparentemente lontane nel tempo (come è il caso dell'Edoardo II), si affronta l'omosessualità, le guerre intestine per la conquista del potere, il regicidio.

Tamerlano il Grande (Tamburlaine the Great, 1587) fu il dramma che lo consacrò all'attenzione del pubblico inglese, messo in scena dagli Admiral's Men durante la guerra con la spagna e interpretato con successo da Edward Alleyn. Il trionfo del re barbaro che annienta regni di raffinata cultura interpretava i sinistri timori del popolo inglese nei confronti di Filippo II di Spagna e della sua costruenda Invincibile Armata. Questa modalità narrativa provocatoria, apparentemente innocente ma facilmente decodificabile dal pubblico, non fu sanzionata né censurata, e fu il modello a cui si attennero i drammaturghi successivi nell'affrontare tematiche politiche.

Se le caratterizzazioni di Alleyn già avevano reso necessaria una scrittura teatrale che si affidasse e offrisse spunti al talento dell'attore, con Shakespeare si assiste a una più completa fusione tra il testo e la sua esecuzione. Shakespeare, a differenza di Marlowe, scrisse drammi corali, vere e proprie macchine teatrali in cui ogni personaggio contribuisce all'incisività dell'insieme. Non si affidò alla perizia del solo Richard Burbage (che pure fu in grado di veri e propri virtuosismi, innanzitutto vocali, alle prese con i

personaggi maggiori) ma a quella di un gruppo affiatato. Si trattò del perfezionamento di un vero e proprio artigianato teatrale, come già riconobbe la studiosa britannica Muriel Bradbrook nell'intitolare un suo studio, appunto, Shakespeare l'artigiano, nel quale la scrittura del copione procedeva di pari passo con il lavoro di palcoscenico, misurando i ruoli sugli interpreti, le cui doti migliori dovevano essere valorizzate nella costruzione dei personaggi.

 

Questa voglia di rinnovamento e di modernità si diffuse anche a Londra. Neanche i sinistri resoconti di presunti viaggi nel paese di Niccolò Machiavelli, come il Viaggiatore Sfortunato di Thomas Nashe, parvero diminuire l'entusiasmo del grande pubblico: l'amoralità del Il Principe e le voci delle congiure papali contribuirono invece a tenere vivo l'interesse per l'Italia. Proprio nella capitale vi era cospicua una comunità di immigrati italiani (molti dei quali drammaturghi e attori): con essi Shakespeare, Christopher Marlowe, il secondo più grande drammaturgo, e i contemporanei dovettero probabilmente intrattenere rapporti di amicizia e di frequente collaborazione professionale.

 

Il successo di Seneca

Nell'età di Shakespeare non erano in molti a leggere i drammi in latino e meno ancora in greco, lingua che solo allora si cominciava a conoscere. Le opere di Seneca, già oggetto di grande interesse per gli umanisti italiani si diffusero perciò soprattutto attraverso adattamenti italiani che si discostano non poco dallo spirito dell'originale. Furono inserite nella rappresentazione quelle scene di violenza e crudeltà che dall'autore erano invece affidate al racconto di testimoni. Ma fu proprio la versione italianizzata, dove il male è presentato nella sua interezza, a piacere ai drammaturghi elisabettiani e ad incontrare

l'interesse del pubblico.

 

La tragicommedia e il romanzesco

Ferdinando e Miranda, da La tempesta, E.R. Frampton (British, 1870-1923).Un dramma molto legato all'effetto di scena e che fa presa sulle emozioni più violente associa talora a sé le passioni d'amore più morbose: il quadro antico dipinto con mano tanto leggera è restaurato con tinte tanto forti da cancellare quasi il tocco del suo artista. Non fu forse un caso che gli stessi drammaturghi rinascimentali lavorassero contemporaneamente ad opere di tipo "misto", come le "pastorali" o le "tragicommedie", fusioni di commedia e tragedia, insieme di tragico, di comico e di romanzesco.

La contaminazione dei generi in voga nel rinascimento fu accolta anche dagli elisabettiani, le cui tragedie e commedie mantengono però un maggiore distacco ironico e realistico. La tempesta ha molto della tragicommedia, ma l'ironia e la comicità dei personaggi, la profondità dell'esplorazione filosofica le conferiscono più respiro. Lo stesso può dirsi di molte altre grandi commedie scespiriane ed elisabettiane, in cui il comico si mescola fatalmente al tragico, come d'altra parte avviene nel cinema moderno. Le battute del buffone di Re Lear e la follia dello stesso re caduto in disgrazia per il tradimento delle figlie a cui tutto aveva affettuosamente donato danno il necessario sollievo comico al pubblico facendo contemporaneamente risaltare come per l'effetto del chiaroscuro

la tragedia personale di Lear e quella nazionale dell'Inghilterra dilaniata dalla guerra civile.

 

Innovazioni rispetto al teatro continentale

L'era elisabettiana tuttavia non si limitò ad adattare i modelli: rinnovò felicemente il metro col blank verse, o pentametro giambico, che ricalca abbastanza fedelmente quello latino senechiano, liberando il dialogo drammatico dall'artificiosità della rima, mentre restò la regolarità dei cinque piedi del verso. Il blank verse fu introdotto dal Conte di Surrey quando nel 1540 pubblicò una traduzione dell' Eneide usando proprio questa forma metrica, ma si dovette aspettare il Gorboduc di Sackville e Norton (1561) perché esso entrasse nel dramma (e farà poi furore nell'epopea biblica di John Milton, il Paradiso

perduto, 1667). L'idea di usare un metro simile era venuta al Surrey proprio dalla traduzione in versi sciolti dell'Eneide del Caro. Il teatro elisabettiano introdusse anche tutta una serie di tecniche teatrali d'avanguardia che vennero utilizzate secoli più tardi dal cinema e dalla televisione. Il palcoscenico inglese della fine del Cinquecento (soprattutto in Shakespeare) si serve di un frequente e rapido susseguirsi di scene che fanno passare presto da un luogo all'altro saltando ore, giorni, mesi con un'agilità quasi pari a quella del cinema moderno. Il blank verse gioca una parte non indifferente conferendo alla

poesia la spontaneità della conversazione e la spigliatezza della recitazione.

La Poetica (Aristotele) di Aristotele, che definì le unità di tempo e di azione (l'unità di luogo è un'aggiunta degli umanisti) nel dramma, riuscì ad imporsi meglio nel Continente: solo alcuni classicisti di stampo accademico come Ben Jonson ne seguirono alla lettera i precetti, ma questi personaggi non hanno la vita di quelli di Shakespeare, rimanendo (soprattutto nel caso di Jonson) dei "tipi" o delle "maschere". Fu proprio grazie alla rinuncia delle regole che il teatro elisabettiano poté sviluppare quelle forme nuove nelle quali Shakespeare, Beaumont, Fletcher, Marlowe e molti altri trovarono campo fertile per loro genio.

 

Modernità e realismo dei personaggi

La rilettura elisabettiana dei classici portò dunque una ventata di innovazione a storie ormai millenarie, esaltando anzi le qualità universali dei grandi personaggi storici o leggendari.

Oltre allo stile e alle tecniche, anche le tematiche sociali sono affrontate in modo moderno, in tutta la loro complessità psicologica infrangendo consolidati tabù sociali (sesso, morte, cannibalismo, follia). Si pensi all'amore "proibito" tra Romeo e Giulietta, due ragazzi di quattordici anni che decidono in pochi giorni di sposarsi e fuggire di casa; si pensi alla rappresentazione del suicidio degli amanti. Nel Re Lear l'abbandono del vecchio re da parte delle figlie è il tema dominante. Qualità queste che, lungi dal "peggiorare" i personaggi, li rendono più simili a noi, dimostrando come questa epoca ci tocchi

ancora profondamente.

 

Il teatro nel teatro

Che il teatro elisabettiano sia un "teatro aperto" non solo nel suo significato più letterale sembra dimostrato anche dal senso di autoironia degli attori e dei drammaturghi elisabettiani. L'attore ama parlare al pubblico "tra le righe", magari per prendere in giro il personaggio stesso che sta recitando, anticipando il distacco ironico del teatro di Bertolt Brecht. Per questo genere di attore il drammaturgo elisabettiano inventa il teatro nel

teatro. Lo abbiamo visto nella maschera de La tempesta, ma l'esempio più emblematico è forse quello dell'Amleto, in cui il giovane erede al trono di Danimarca ingaggia una troupe di attori itineranti per fare rappresentare di fronte agli occhi di Claudio, sospettato di avere ucciso suo padre, un dramma che ne ricostruisce il presunto assassinio. Al finale a sorpresa Claudio si alza sconvolto e terrorizzato, lasciando la corte. Da qui il giovane Amleto si convincerà della colpevolezza del patrigno, architettando la sua uccisione.

Potremmo trovare tanti altri esempi di questo tipo tra gli elisabettiani, in seguito ripresi con successo con il "cinema nel cinema", ma anche col "teatro nel cinema".

 

Che il teatro elisabettiano e Shakespeare in particolare fossero in anticipo sui tempi pare dimostrato, affermò Anthony Burgess, dal successo delle trasposizioni cinematografiche e delle drammatizzazioni televisive, quasi quei drammi fossero stati scritti proprio per noi. È noto il successo del Romeo e Giulietta di Zeffirelli (1968). Paradossalmente, tale adattabilità al cinema sembra essere dovuta proprio all'eredità medievale lasciata dai misteri, dai miracoli e dalle moralità, rappresentazioni di carattere popolare che si svolgevano prima sul sagrato delle chiese e poi nelle grandi piazze o nelle fiere. Lì la mancanza di fondali e costumi teatrali riponeva il successo della rappresentazione nelle

mani dell'attore. La necessità di improvvisazione (spesso aiutata da un pizzico di umorismo) insieme alla mancanza di architetture teatrali sofisticate più che mettere l'attore in crisi lo liberarono dalle eccessive costrizioni della messa in scena mentre alla mancanza di effetti speciali supplì l'invenzione poetica ricreando nelle sue ricche descrizioni, un po' come avviene per la radio rispetto alla televisione ciò che "mancava", arricchendo oltre misura il linguaggio drammatico.

 

Vita degli attori

Per costruire un personaggio vero, umanamente vicino alla gente, non era in uso l'abitudine, che diverrà via via prassi nel teatro romantico e nel teatro borghese, di una precisa fedeltà al periodo storico dal punto di vista scenografico e costumistico. Impiegare delle attrici era inoltre proibito dalla legge, e lo fu per tutto il Seicento, anche dopo la dittatura puritana. I personaggi femminili erano dunque rappresentati da adolescenti maschi, ma questo non diminuì il successo delle rappresentazioni, provato dai testimoni dell'epoca e dalle continue proteste contro le compagnie teatrali da parte degli amministratori puritani della City.

Solo la protezione accordata alle troupe dai prìncipi e dai reali - se l'attore vestiva la loro livrea non poteva essere infatti arrestato - poté salvare Shakespeare e i suoi compagni dalle condanne di empietà lanciate dalle municipalità puritane. I nomi di molte compagnie teatrali derivano proprio da questa forma di patrocinio: The Admiral's Men e The King's Men erano appunto "gli uomini dell'ammiraglio" e "gli uomini del sovrano". Una compagnia che non avesse avuto un potente sponsor alle spalle poteva andare incontro a serie difficoltà e vedersi cancellati gli spettacoli da un giorno all'altro.

A questi problemi si aggiungevano, per gli attori, i salari molto bassi.

 

Influenze

Mentre il teatro elisabettiano conservò la sua semplicità strutturale, quello continentale, sull'esempio italiano, diventava dipendente dagli effetti speciali (si pensi alle macchine da scena e perfino agli automi inventati da Leonardo).

Da qui al teatro "illusionistico" moderno il passo fu breve. Vero è che a partire dal Novecento numerose sono state le avanguardie che hanno introdotto soluzioni nuove (come il Futurismo, il Dadaismo, il Surrealismo e il Bauhaus), ma raramente il grande pubblico si è sentito coinvolto da queste iniziative e si può dire che resti ancora molta strada da percorrere per portare nel teatro la popolarità del cinema e della televisione.

 

Teatro moderno: la Commedia dell'arte

La commedia dell'arte è nata in Italia nel XVI secolo e rimasta popolare sino al XVIII secolo. Non si trattava di un genere di rappresentazione teatrale, bensì di una diversa modalità di produzione degli spettacoli. Le rappresentazioni non erano basate su testi scritti ma dei canovacci detti anche scenari, i primi tempi erano tenute all'aria aperta con una scenografia fatta di pochi oggetti.

Le compagnie erano composte di dieci persone: otto uomini e due donne.

All'estero era conosciuta come "Commedia italiana".

La definizione di "arte", che significava "mestiere", veniva identificata anche con altri nomi: commedia all'improvviso, commedia a braccio o commedia degli Zanni.

La prima volta che s'incontra la definizione di commedia dell'arte è nel 1750 nella commedia Il teatro comico di Carlo Goldoni. L'autore veneziano parla di quegli attori che recitano "le commedie dell'arte" usando delle maschere e improvvisano le loro parti, riferendosi al coinvolgimento di attori professionisti (per la prima volta nel Teatro Occidentale abbiamo compagnie di attori professionisti, non più dunque dilettanti), ed usa la parola "arte" nell'accezione di professione, mestiere, ovvero l'insieme di quanti esercitano tale professione. Commedia dell'arte dunque come "commedia della professione" o "dei professionisti". In effetti in italiano il termine "arte" aveva due significati: quello di opera dell'ingegno ma anche quello di mestiere, lavoro, professione (le Corporazioni delle arti e mestieri).

Il trapasso dalla commedia rinascimentale, umanistica ed erudita recitata da attori dilettanti a quella dell'arte avviene tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo grazie ad una serie di contingenze fortunate che si susseguono intorno a quegli anni.

La prima è la nascita dei teatri privati, specialmente a Venezia dove le famiglie nobili iniziano una politica di diffusione, all'interno della città, di nuovi spazi spettacolari dedicati alla recitazione di commedie e melodrammi a pagamento.

Per la prima volta le famiglie Tron e Michiel fecero costruire due "Stanze" per le commedie nella zona di San Cassiano, da cui i teatri presero il nome, che si trovava oltre Rialto, e per la prima volta (sicuramente dopo il 1581, com'è testimoniato da Francesco Sansovino, figlio dell'architetto Jacopo Sansovino), i due teatri aprono anche al pubblico popolare, da sempre escluso dagli spettacoli eruditi, prodotti per i principi e le loro corti.

Sulla scia dei teatri di San Cassiano anche altre nobili famiglie veneziane si cimentarono nella costituzione di questa nuova industria, cosa che d'altra parte non stupisce visto la predisposizione mercantile ed imprenditoriale della città lagunare.

Anche i Vendramin e soprattutto la famiglia Grimani (che all'inizio del Settecento aveva monopolizzato l'intera, o quasi, industria degli spazi teatrali veneziani) fecero costruire altri teatri per le rappresentazioni dei comici dell'arte come il Teatro dei SS. Giovanni e Paolo nel sestiere periferico di Cannaregio, ma anche del San Moisè e del teatro San Luca costruiti sul Canal Grande, sintomo dell'importanza che i teatri a pagamento avevano acquistato all'inizio del Seicento non soltanto a Venezia.

La nascita dei teatri dette nuovo impulso all'arte dell'attore che da giocoliere di strada, saltatore di corda o buffone di corte che fosse cominciò a esibirsi in trame più complesse; per questo alcuni attori di strada cominciarono a strutturarsi in compagnie girovaghe: le "Fraternal Compagnie" dell'inizio si trasformarono in vere e proprie compagnie che partecipavano ai proventi di questa nuova industria.

 

La recitazione assunse una nuova struttura e i testi da recitare si limitavano ad un canovaccio, dove veniva data una narrazione di massima indicativa di ciò che sarebbe successo sul palco. Su questo tratto dell'improvvisazione gli storici del teatro si sono spesso divisi: non per tutti l'improvvisazione era il tratto distintivo delle commedie degli Zanni, ma su questo era stata creata una mitologia dell'attore "puro" e completamente padrone dei suoi mezzi, tanto da non aver nessun bisogno di parti recitate.

 

Forse il mito dell'improvvisazione proviene invece dalla scarsità di materiale e testi giunti fino a noi e dalla grande proliferazione di testimonianze iconografiche, che alle volte non sono che la testimonianza della diffusione di un'idea del comico dell'arte, piuttosto che una testimonianza dei testi recitati.

Ad esempio, tutti i riferimenti nei quadri di Watteau niente hanno a che fare con i veri e propri comici della commedia italiana in Francia, sono piuttosto un colto inserimento delle maschere all'interno delle scenette arcadico-galanti dei soggetti dei suoi dipinti. La stessa cosa si deve dire dei Balli di Sfessania di Jacques Callot, che rappresentano piuttosto le maschere del carnevale napoletano e i suoi Zanni e Capitani niente hanno a che vedere con dei veri e propri attori dell'arte.

Una delle prime testimonianze iconografiche riferibili sicuramente alla commedia dell'arte è la raccolta delle incisioni Fossard. Divisa in due parti separate, una raffigura i lazzi dei contrasti comici tra Magnifico e Zanni, l'altra è composta invece da incisioni riferite ad una rappresentazione teatrale con la comparsa di attori come Pantalone, Arlecchino, Zanni, il Capitano, Franceschina e gli Innamorati.

Probabilmente si trattava di foglietti pubblicitari di una compagnia comica per attirare spettatori, le didascalie sono in francese e questo fa pensare ad una compagnia che alla fine del '500 ha lavorato in Francia, forse quella di Zan Ganassa chiamata a Parigi nel 1571 dal re Carlo IX o quella dei Gelosi che nello stesso anno erano in Francia per il battesimo di Charles-Henry de Clermont.

Ancora all'estero, nel castello di Landshut, in Bassa Baviera, un intero scalone è stato affrescato dal pittore italiano Alessandro Scalzi con scene della commedia dell'arte: sempre intorno agli anni '70 del Cinquecento, abbiamo infatti carteggi molto remoti di richiesta di compagnie comiche indirizzate dall'Imperatore Massimiliano II al Duca di Mantova, Guglielmo Gonzaga.

Più di recente, sempre in area germanica, il pittore-scenografo Ludovico Antonio Burnacini ha riprodotto in acquerelli le disgrazie di Pulcinella e i travestimenti di Arlecchino per i teatri di Vienna; lo stesso soggetto dei travestimenti di Arlecchino è stato dipinto su tela, nel numero di diverse decine di soggetti, dal pittore fiorentino Giovanni Domenico Ferretti.

Ci sono poi numerose incisioni nei testi che riportano canovacci di commedie, come quelle arlecchinesche del Teatro di Evaristo Gherardi, ritratti di comici ed altro ancora oltre una vasta messe di raffigurazioni non ancora catalogate.

 

Dalla strada provengono invece le forme embrionali dei soggetti comici, i cosiddetti duetti fra Magnifico e Zanni. Questi soggetti erano mutuati dalla grande produzione popolare iniziato anche a livello "culto" dalla grande scuola siciliana come nel caso dei

Contrasti di Cielo d'Alcamo del XIII secolo. I contrasti comici facevano parte della tradizione giullaresca ed erano diffusi sia nelle piazze e nelle fiere che nei palazzi nobili e le corti sin dal '400.

Il passaggio dalla piazza al teatro avviene non senza l'influenza di certe commedie erudite del primo Cinquecento. È sbagliato dire che la commedia dell'arte proviene per filiazione dalle commedie in dialetto veneto e alla villanesca di Ruzante o dalla Mandragola di Niccolò Machiavelli, anche se i modelli plautini dei servi o del Miles Gloriusus hanno influenzato non poco la struttura sia della commedia rinascimentale che di quella dell'arte.

Le commedie di Sforza Oddi (L'Erofilimachia ovvero il duello d'amore, et d'amicitia, Li morti vivi, e La prigione d'amore) risentono in maniera palese dei personaggi dell'arte e questa è forse la linea di confine tra l'erudito e il professionista che comunque non smise di esistere con l'avvento della commedia dell'arte; molti furono gli autori che continuarono nella tradizione della commedia cortigiana come Jacopo Cicognini e Giacinto Andrea Cicognini nel Seicento e Giovan Battista Fagiuoli tra la fine del secolo e l'inizio del '700.

Ancora nobili dilettanti furono gli autori e gli attori della Commedia ridicolosa, la versione cortigiana della commedia dell'arte che sostituì, in parte, quest'ultima dopo la partenza dei maggiori attori italiani verso nuovi lidi come Parigi, Vienna, la penisola iberica e la Moscovia mettendo in scena le maschere della commedia improvvisa.

 

In Italia, questo tipo di spettacolo sostituì tout court la commedia erudita del quattro-cinquecento, ma non soltanto questa: anche molte tragedie e pastorali, infatti, furono invase dalla presenza delle maschere.

Arlecchino e gli altri Zanni si trasformavano, in queste occasioni, in servi del tiranno o pastori arcadici, portando sempre e comunque il loro spirito irriverente di buffoni di corte o quello dei poveri diavoli come già avevano fatto i giocolieri nelle sacre rappresentazioni medievali.

Goldoni riporta spesso nelle sue memorie alcuni lazzi, che nel Settecento ormai si erano consolidati, di zanni che agivano anche in tragedie sanguinarie come l'esempio di Belisario, dove Arlecchino, servo del generale bizantino caduto in disgrazia e accecato per gelosia dall'Imperatore Giustiniano, faceva camminare a colpi di bastone il suo padrone ormai cieco.

Oppure nella tragedia Il Rinaldo, tratto molto liberamente dai personaggi del poema di Ludovico Ariosto, Arlecchino servo del paladino protagonista, difende il castello di Montalbano con una padella con cui respinge l'assalto dei nemici.

Goldoni, di fronte a questi inserimenti comici, inorridisce e li riporta nelle sue memorie soltanto per dimostrare la decadenza del teatro italiano all'inizio della sua carriera (intorno al 1730) e sostenendo la necessità di una riforma che sostituisca la vecchia struttura del teatro mascherato con un nuovo teatro più vicino al naturale e con personaggi senza maschere.

Nonostante l'impegno teorico di Goldoni, la commedia dell'arte è ancora ben viva nel cuore degli spettatori suoi contemporanei tanto in Italia, dov'era nata, che nelle principali corti europee dov'era diffusa con nome di commedia italiana e rappresentava, insieme al melodramma, la fortuna dell'arte dello spettacolo italiano.

Nel 1750 Goldoni scrisse e fece rappresentare Il teatro comico, la sua commedia-manifesto, che metteva a confronto le due tipologie di teatro, quello dell'arte e la sua commedia “riformata”, cercando di far accettare sia alle compagnie che agli spettatori la novità di una commedia naturalistica che reggesse il passo con le novità del resto d'Europa come Shakespeare, che nel '700 cominciò ad essere esportato anche fuori dall'Inghilterra grazie alla bravura di uno dei suoi più eccellenti interpreti di tutti i tempi: David Garrick, o le ultime commedie di Molière che, pur figlie spurie della commedia italiana, cominciavano un cammino d'identità propria che si sviluppò sino a Beaumarchais e alla commedia “rivoluzionaria” di Diderot. Ciò non toglie che ambedue gli autori, sia Molière che Shakespeare, abbiano sentito forte l'influsso dei commedianti italiani.

Molière, in particolare, è stato allievo di Tiberio Fiorilli in arte Scaramuccia, poi diventato Scaramouche, quindi con una filiazione diretta che si sente in commedie come: Don Giovanni e nel Il borghese gentiluomo (soltanto per fare gli esempi più famosi) e alcuni personaggi shakespeariani come: Stefano e Trinculo de La tempesta sono due zanni “all'italiana” dei quali usano gli stessi lazzi e battute e forse persino Falstaff rievoca la figura del Capitano vanaglorioso della commedia dell'arte.

Non si sa se Shakespeare vide mai una commedia dell'arte ma ne subì comunque il fascino, dato che il suo amico-avversario Ben Jonson, altro grande autore del teatro elisabettiano, mise in scena Il Volpone la migliore versione inglese del teatro dell'arte all'italiana.

 

La commedia dell'arte in Francia

La prima notizia che abbiamo di una compagnia comica italiana organizzata che ha avuto rapporti con la Francia è del 1571, quando i Gelosi furono chiamati in Francia per i festeggiamenti del battesimo di Charles-Henry de Clermont.

Contemporaneamente, nell'ottobre dello stesso anno la Compagnia di Zan Ganassa si trovava alla corte di Carlo IX.

Nel 1572 la Compagnia del Duca di Mantova di Zan Ganassa è ancora a Parigi. Nel maggio del 1576 i Gelosi vanno in Francia su richiesta del nuovo re: Enrico III.

Il sovrano che tuttavia sdoganò la commedia dell'arte in Francia fu Enrico IV di Navarra, e la sua sposa Maria de' Medici.

Già nel dicembre del 1599 Enrico richiede al Duca di Mantova la Compagnia degli Accesi e l'Arlecchino Tristano Martinelli.

Dopo le nozze con la regina Maria, celebrate anche da Rubens in una serie di sue famose tele, gli attori italiani cominciarono ad avere una frequentazione assidua della corte parigina, sia come singoli che come compagnie.

Nel 1603 i comici italiani prendono residenza al teatro dell'Hôtel de Bourgogne, gestito fino a quel momento dalla Confraternita della Passione a cui i comici pagavano l'affitto. Sempre nel 1603 Isabella Andreini era invece presso la corte a Fontainebleau. Ma fino al 1614, quando la compagnia di Giovan Battista Andreini e Tristano Martinelli prende in affitto per due mesi la sala dell'Hôtel de Bougogne, sempre più spesso adibito a teatro della Commedia Italiana al posto del piccolo teatro del Palais-Royal non si può ancora parlare di una vera e propria commedia dell'arte francese.

Nel corso del XVII e XVIII secolo l'emigrazione dei comici in Francia divenne un fatto endemico. Dal teatro degli Italiani nacquero anche dei grandi attori che illumineranno l'arte del recitare in Francia alla fine del XVIII secolo. Fra gli esempi più importanti vi sono Madame de Clairon e Le Kain, e da questo deduciamo l'importanza che la commedia dell'arte ha avuto sul teatro francese. Che la commedia italiana fosse stata una specie di scuola teatrale è testimoniata dalla carriera di Molière, che apprese l'arte del recitare dallo Scaramouche Tiberio Fiorilli: fra le commedie del francese alcune conservano la struttura e i personaggi (gli zanni del Don Giovanni e del Borghese gentiluomo). Nacquero a Parigi ed esclusivamente per il pubblico francese Pierrot, Scaramouche e Polichinelle. Ma fra tutti Arlecchino fin dagli inizi fu il personaggio preferito dai francesi; alcuni arlecchini come Biancolelli, Gherardi, Bertinazzi e Visentini lavorarono esclusivamente in Francia e inventarono nuove trame e canovacci per la Comedie Italienne, completamente sconosciuti in Italia.

Nacque così un repertorio adattato alla lingua francese e molti comici italiani si francesizzarono: nacquero delle famiglie di comici dell'arte francesizzate come i Riccoboni, i Biancolelli , gli Sticotti e i Veronese. Nel 1697, durante la messinscena della commedia La fausse prude, ispirata alla figura di Madame de Maintenon amante di Luigi XIV, il Mezzettino Angelo Costantini fece pesanti allusioni e le buffonerie dello Zanni non furono gradite dal sovrano che chiuse il Théâtre de la comédie italienne e cacciò i comici italiani. Questi furono costretti ad emigrare in provincia e nei teatri della Foire che si tenevano ai confini della capitale. Finalmente, nel 1716, poiché il popolo, al contrario

della corte, amava e continuò a seguire le commedie degli Italiani, il Teatro Italiano fu ripristinato anche a Parigi.

 

Questa volta fu Luigi Riccoboni, in arte Lelio, a guidare la truppa dei nuovo teatro parigino. Riccoboni era una figura di attore-intellettuale lontana dall'obsoleta figura dell'attore italiano buffone di corte, infatti fu tra coloro che all'inizio del secolo voleva riformare il teatro italiano per portarlo al livello della Francia, dell'Inghilterra e della Spagna, quasi un Goldoni ante-litteram. Riccoboni era amico di Scipione Maffei e mise in scena la sua tragedia Merope. Riccoboni fu sensibile anche ad un recupero della commedia rinascimentale, rimise in scena la Lena di Ludovico Ariosto riscuotendo però scarso successo di pubblico. In Francia, Riccoboni fu costretto dal pubblico, abituato agli arlecchini, a ritornare ai vecchi canovacci ed anche in questo il suo destino pare un'anticipazione di quello di Carlo Goldoni dopo il 1762.

Neanche la Rivoluzione Francese scalfì il successo della Commedia dell'Arte infatti anche dopo il 1789 non subì cambiamenti particolari, i comici continuarono a recitare le loro commedie che influirono ancora sul teatro francese per anni. Ma nel periodo del Terrore i giacobini proibirono i mascheramenti carnevaleschi per paura di attentati e spionaggio controrivoluzionario ed anche le maschere della commedia dell'arte sparirono, anche se lo spirito rimase nei quadri di Watteau e nell'opera di Marivaux e Beaumarchais.

 

Il canovaccio

I testi che ci sono giunti in forma di canovacci sono numerosi e coprono l'arco di due secoli, da quelli di Flaminio Scala del Teatro delle favole rappresentative, pubblicato nel 1611 ma di qualche decennio precedente visto che la messinscena de La Pazzia d'Isabella (presente anche in Flaminio Scala) della Compagnia dei comici Gelosi è testimoniata dalle cronache dei festeggiamenti del matrimonio tra Ferdinando II de' Medici e Cristina di Lorena del 1589.

L'ultima opera teatrale scritta e pubblicata sotto forma di canovaccio fu L'Amore delle tre melarance di Carlo Gozzi del 1761. Il Gozzi fu acerrimo nemico della riforma di Goldoni e sostenitore della Commedia dell'Arte secentesca (scrisse, fra le altre la commedia Turandot che tanta fortuna avrà nel melodramma del secolo successivo), ma lasciò L'Amore delle tre melarance stampato sotto forma di canovaccio, un evidente omaggio agi attori-drammaturghi dell'Età dell'oro della Commedia dell'Arte che lo avevano preceduto.

 

Spazi teatrali e recitazione

Le scenografie erano molto semplici, con una piazza al centro del palcoscenico e due quinte praticabili sullo stile di quelle delle prime commedie del '500: alla metà del secolo vennero costruiti dei veri e propri spazi teatrali dedicati a questo genere teatrale.

Sorsero dunque, nelle principali città italiane, i Teatri degli Zanni dei quali sono rimasti alcuni esempi non più funzionanti come il Teatrino della Baldracca a Firenze, il Teatro di Porta Tosa a Milano e l'ancora funzionante San Carlino a Napoli.

A Parigi, che ospitò i comici dell'arte fin dal primo '600, le compagnie si esibivano all'Hotel de Bourgogne e in seguito nei Teatri della Foire.

 

Moderna commedia

La commedia dell'arte è un fenomeno a sé stante nella storia del teatro, un evento irripetibile e chi tenta di trovare delle linee di continuità fra l'arte dell'attore del '500-'700 e quello moderno non ha una giusta prospettiva storica.

Anche se sono stati fatti, nel corso dei secoli, esempi di recitazione improvvisata o a braccio che potrebbero ricordare i lazzi dello Zanni seicentesco, nessuno degli esempi che sono stati fatti ha a che vedere con la reale recitazione dell'attore professionista del sei-settecento. Eppure sono stati fatti esempi illustri come: Petrolini, Charlie Chaplin, Totò ed Eduardo De Filippo. Altra questione è la ri-messa in scena delle commedie: non avendo un vero e proprio repertorio di riferimento, coloro che tentano di mettere oggi in

scena commedie dell'arte devono affidarsi a delle ricostruzioni filologicamente insufficienti dei canovacci che ci sono rimasti, oppure come certi registi del Novecento mettere in scena commedie di Carlo Goldoni o Molière, ma ambedue i commediografi poco avevano a che spartire con i veri testi della commedia dell'arte.

La fortuna della commedia dell'arte riprende nell'ambito delle avanguardie teatrali del Novecento come mito di riferimento di una "Età dell'Oro" dell'attore.

A partire dai registi russi Mejerhold e Vachtanhgov passando attraverso il francese Jacques Copeau e l'austriaco Max Reinhardt si arriva alla grande intuizione di Giorgio Strehler che nel 1947 ne fece una bandiera della rinascita della cultura italiana dopo la guerra con il celebre allestimento di Arlecchino Servitore di due Padroni.

Altro grande riscopritore della comedia dell'arte fu Giovanni Poli, regista fondatore della compagnia e scuola di teatro a l'Avogaria di Venezia, recuperò e riscrisse patiture teatrali del '500, mettendo in scena tra i tanti spettacoli, soprattutto la celebre "Commedia degli Zanni" rappresentata poi in tutto il mondo dalla stessa compagnia e per la quale Poli ottenne il prestigioso Premio per la migliore regia al Festival del Thèatre des Nations a Parigi nel 1960.

Negli anni Sessanta Dario Fo, grazie al sodalizio con Franca Rame, figlia di una famiglia di commedianti itineranti che possedevano ancora vecchi canovacci, ebbe la fortuna di poter studiare tali documenti, testimonianze di un'antica cultura ormai estinta, di verificare la loro efficienza e di adattarli alle nuove esigenze, creando una serie di commedie e di monologhi tra cui Mistero buffo.

Negli anni Ottanta, a seguito del grande successo della reinvenzione del carnevale di Venezia da parte di Maurizio Scaparro la commedia dell'arte italiana ritrovò successo in tutto il mondo con la Famiglia Carrara (dieci generazioni di teatro) e il Tag di Venezia diretto da Carlo Boso. Grazie alla parallela attività di formatore, diverse compagnie di commedia dell'arte si formano in base agli insegnamenti di Carlo Boso. Tra queste vale forse la pena di ricordare, in Italia, l'Associazione Luoghi dell'Arte di Roma, la Compagnia Pantakin da Venezia e il TeatroVivo di Cotignola.

La commedia dell'arte ha in qualche modo dato vita alla moderna commedia cinematografica Slapstick.

Ma è in strada che il mestiere di "Dar Commedia", ritrova la sua originaria forza "prototeatrale", assumendo caratteri assolutamente innovativi, attraverso quel processo di unificazione di circo clownesco e teatro, che va sotto il nome di "Arte di Strada".

 

Le maschere

L'artigianato della maschera da commedia riprende vita nel '900 a ridosso dell'esperienza strehleriana. Amleto Sartori, scultore, re-inventa la tecnica di costruzione della maschera in cuoio su stampo di legno. La maschera, che insieme al costume caratterizza fortemente lo stile di recitazione, viene spesso ad essere sinonimo stesso di personaggio. Le 'maschere' più celebri della commedia dell'arte sono:

Arlecchino

Brighella

Colombina

Balanzone

Pulcinella

Pantalone

Giangurgolo

Il Capitano è il militare spaccone e buffonesco, simile al "Miles Gloriosus" plautino fra i Capitani più celebri ci sono Capitan Spaventa, Capitan Matamoros, Capitan Rodomonte e Capitan Cardone.

  Zanni è la più antica maschera del servo, da cui si sono originati nel tempo molti altri personaggi. Nel Seicento il suo ruolo si sdoppiò nel "primo Zanni", furbo e maneggione, e il "secondo Zanni", spesso più sciocco e pasticcione, caratterizzato dai lazzi e dalle acrobazie, uno degli Zanni più celebri fu Alberto Naselli detto Zan Ganassa capocomico della prima compagnia del Duca di Mantova.

  Arlecchino, la maschera più nota in assoluto, è il servo imbroglione, perennemente affamato, per lui Carlo Goldoni scrisse Il servitore di due padroni.

  Balanzone, conosciuto anche come il Dottore, è un personaggio serioso e presuntuoso.

  Beltrame, è una maschera di origine milanese nata nel Cinquecento.

  Brighella, spesso nei panni di "primo Zanni", è il servo furbo, in contrapposizione con il "secondo Zanni", Arlecchino.

  Cassandro è una maschera di "vecchio", come Pantalone, e ha caratteristiche simili a quest'ultimo.

  Colombina è la servetta. Fa spesso coppia con Arlecchino, e le sue doti sono la malizia e una certa furbizia e senso pratico.

  Coviello, Cetrullo Cetrulli, Ciavala, Gazzo o Gardocchia, ha avuto ruoli diversi, dal servo sciocco al padre di famiglia.

  Francatrippa, secondo Zanni simile ad Arlecchino.

  Frittellino, primo Zanni di origine ferrarese.

  Galbusera, maschera monzese di fine Ottocento.

  Gioppino, raffigurato con tre gozzi, maschera di Bergamo.

  Gianduja, maschera popolare torinese di origini astigiane.

  Giangurgolo, maschera calabrese ha una maschera con un naso enorme, cosa che in parte lo accomuna agli Zanni.

  Meneghino è la maschera 'simbolo' della città di Milano, la sua fama è dovuta in gran parte alle commedie di Carlo Maria Maggi.

  Mezzettino, Zanni furbo e imbroglione.

  Pantalone, o il Magnifico, è una famosissima maschera veneziana. Anziano mercante, entra spesso in competizione con i giovani nel tentativo di conquistare qualche giovane donna.

  Peppe Nappa, maschera tipica Siciliana. Mangione e scaltro riesce sempre a tirarsi fuori da ogni impiccio.

  Pierrot, o Pedrolino, nasce come Zanni modificandosi poi nel famoso personaggio romantico grazie al mimo Jean-Gaspard Debureau.

  Pulcinella, in versione francese Polichinelle e in quella inglese Punch, è la notissima maschera napoletana. Servo spesso malinconico, mescola le caratteristiche del servo sciocco con una buona dose di saggezza popolare.

  Rosaura, figlia adorata di Pantalone, abita a Venezia in un palazzo bellissimo. La ragazza è molto chiacchierona, abbastanza irascibile, gelosa, vanitosa ed innamorata di Florindo. Il suo amore, però, é contrastato dal padre che vede in Florindo solo un nobile cavaliere senza denari. Spesso Rosaura, con la complicità di Colombina, invia di nascosto, all'amato, le sue lettere d'amore.

  Scaramuccia (Scaramouche) è una maschera italiana, ma che riscosse un grande successo in Francia, ed entra nel novero dei Capitani.

  Scapino, maschera resa popolare da Molière, compare quasi sempre con uno strumento musicale.

  Stenterello, maschera fiorentina che ebbe molta fortuna in Toscana tra la fine del '700 e tutto il secolo successivo.

  Tartaglia, mezzo cieco e balbuziente, entra tra il numero dei "vecchi" spesso nel ruolo del notaio.

  Truffaldino, secondo Zanni settecentesco.

 

Gli attori e le Compagnie

Il primo esempio di una compagnia di comici professionisti fu quella che nel 1545 stese un contratto davanti ad un notaio di Padova, la cosiddetta Compagnia di Ser Maphio; questa era una fraternal compagnia formata da:

  Maffeo del Re [Ser Maphio], detto Zanin

  Vincenzo da Venezia

  Francesco de la Lira

  Geronimo da San Luca

  Giandomenico Rizzo o detto Rizzo

  Giovanni da Treviso

  Tofano de Bastian

  Francesco Moschini.

Come si vede nessuna donna faceva parte della compagnia poiché salirono alla ribalta soltanto con le grandi compagnie della fine del XVI secolo. Di questa compagnia non ci è dato di sapere molto altro ma rimane la prima testimonianza conosciuta di attori che si riuniscono dandosi un regolamento e un riconoscimento anche legale.

In seguito anche i maggiorenti delle città e i nobili cominciarono a chiamare queste compagnie per sollazzare le corti. Con l'andare del tempo, esse divennero gruppi di professionisti alle dipendenze dei vari principi e duchi italiani. In particolare la corte dei Gonzaga assoldò, fin dalla metà del '500, la Compagnia comica di Zan Ganassa che divenne quella ufficiale della corte di Mantova.

La compagnia più famosa, fra quelle antiche, fu la Compagnia dei Gelosi. Già strutturata alla fine del Cinquecento tanto da diventare il modello della compagnia dei 50 canovacci dell'arte di Flaminio Scala.

Questa era formata da due vecchi: Pantalone e Graziano (antico nome del Dottore bolognese), due coppie d'innamorati, due zanni: Pedrolino (primo zanni) e Arlecchino (secondo zanni); infine c'erano le cosiddette parti mobili cioè che non sempre erano indispensabili alla trama come: il Capitan Spavento, la Servetta (che poi assumerà il nome di Colombina) e la ruffiana.

Nei Gelosi si distinsero il capocomico Francesco Andreini in arte Capitan Spaventa dalla Valle Inferna, sua moglie Isabella, Ludovico de' Bianchi come il Dottore, l'innamorata Vittoria Piissimi e il Pantalone Giulio Pasquati. Certo gli attori comici come tutti i professionisti cambiavano spesso compagnia a seconda del salario o del principe che li rappresentava. Un'altra compagnia molto famosa della fine del '500 fu quella di Diana Ponti dove lavorò anche Alberto Naselli in arte Zan Ganassa che fu chiamata Compagnia dei Desiosi.

La Compagnia degli Accesi, una delle prime compagnie al servizio del Duca di Mantova, annoverava tra i suoi componenti Piermaria Cecchini in arte Frittellino, primo zanni, uno degli attori più prolifici della commedia dell'arte. Anche la moglie Orsola Cecchini, innamorata con il nome di Flaminia era negli Accesi, insieme a Francesco Gabrielli (Scappino), Giacomo Braga (Pantalone), Girolamo Garavini (Capitan Rinoceronte), Jacopo Antonio Fidenzi (Cinzio) e per un certo periodo anche l'Arlecchino Tristano Martinelli lavorò in questa compagnia.

Nel 1612 i Medici, attraverso Don Giovanni de' Medici (1567-1621) figlio naturale del Granduca Cosimo I e Leonora degli Albizi, ebbero al loro servizio una compagnia dell'Arte, la Compagnia dei Confidenti, che tra gli altri annoverava:

  Flaminio Scala (Flavio)

  Domenico Bruni (Fulvio)

  Nicolò Barbieri (Beltrame)

  Salomè Antonazzoni (Valeria)

  Marc'Antonio Romagnesi (Pantalone)

  Ottavio Onorati (Mezzettino)

Ancora al servizio del Duca di Mantova era la Compagnia dei Fedeli dove spiccava il nome di Giovan Battista Andreini figlio di Francesco e Isabella dei comici Gelosi. Ed anche:

  Virginia Ramponi (Florinda)

  Girolamo Caraffa (Gonnella)

  Federico Ricci (Pantalone)

  Silvio Fiorillo (Capitan Matamoros-Pulcinella)

  Giovan Battista Fiorillo (Trappolino-Scaramuccia)

  Virginia Rotari (Lidia)

Infine va citata fra le prime compagnie dell'arte la Compagnia degli Uniti con:

  Giovanni Pellesini (Pedrolino)

  Valentino Cortisei (Capitan Cardone)

  Giovan Paolo Fabri (Flaminio)

  Battista da Treviso (Franceschina)

  Girolamo Salimbeni (Piombino)

  Tristano Martinelli (Arlecchino).

Altri attori divennero famosi in seguito da quelli italiani come Pietro Cotta e Luigi Riccoboni ai comici passati in Francia fra i quali spiccarono:

  Dominique Biancolelli (Arlecchino)

  Pierre François Biancolelli (Trivelino e poi Arlecchino)

  Carlo Cantù, in arte Buffetto

  Jacoma Antonia Camilla Veronese (Camilla)

  Anne-Marie Veronese (Corallina)

  Evaristo Gherardi (Arlecchino)

  Tiberio Fiorilli in arte Scaramouche

  Angelo Costantini (Mezzettino)

  Tommaso Visentini (Arlecchino)

  Michelangelo Fracanzani (Polichinelle)

  Carlin Bertinazzi (Arlecchino)

  Carlo Veronese (Pantalone)

  Giuseppe Geratoni (Pierrot)

  Domenico Locatelli (Trivelin)

  Fabio Sticotti (Pantalone)

Per altri attori di seconda generazione è difficile poterli inserire nella drammaturgia italiana tanto si francesizzarono.

Fra i comici dell'arte che lavorarono con il giovane Carlo Goldoni nella compagnia Medebach si devono citare almeno:

  Cesare Darbes (Pantalone)

  Antonio Sacco (Truffaldino)

  Attanasio Zannoni (Brighella)

  il capocomico Girolamo Medebach e la servetta

  Zanetta Casanova madre del più celebre Giacomo.

 

Teatro moderno: Comédie larmoyante

 

La comédie larmoyante (commedia lacrimosa o, più raramente, commedia lagrimosa), fu un genere teatrale nato in Francia nel XVIII secolo e che ebbe grande fortuna sia in terra natìa che in Italia.

Il nuovo genere sorse in un periodo nel quale il teatro e la drammaturgia erano fortemente divise in due direzioni: da una parte la tragedia, che narrava storie e vicissitudini di personaggi di alto rango alle prese con drammi umani; dall'altra la commedia, che portava in scena protagonisti dei ceti bassi alle prese con le beghe del quotidiano e visti sotto un'ottica ridicola e ridanciana.

Se la prima era considerata espressione del teatro "alto", la seconda rappresentava l'intrattenimento ludico e scherzoso.

Dopo la rivoluzione francese, tuttavia, la borghesia acquisì sempre maggiore peso nella vita sociale e, di conseguenza e di riflesso, anche nella produzione artistica di quegli autori che si accorsero della mancanza dell'espressione dei modi di vita e dei pensieri del nuovo ceto sociale. Sorse così, ad opera soprattutto di Pierre-Claude Nivelle de La Chaussée, il nuovo genere accostabile alla tragicommedia per la commistione di comico e tragico che vi avveniva all'interno.

L'intento della comédie larmoyante era di indurre il pianto tramite la proposizione di scene patetiche al termine delle quali i personaggi, sui quali incombeva inizialmente una imminente tragedia, arrivavano al lieto fine trasmettendo allo spettatore una sorta di insegnamento morale dedotto dal comportamento delle dramatis personae.

In Italia, i maggiori drammaturghi del genere lacrimevole furono, fra la fine del XVIII secolo e i primi decenni del XIX, Pietro Chiari, Camillo Federici, Giovanni De Gamerra, Giovanni Greppi, Francesco Antonio Avelloni e Alberto Nota.

Anticipò il dramma borghese e, dunque, un maggior realismo in scena.

 

Teatro moderno: Dramma romantico

 

 

 

Teatro moderno: Dramma borghese

Il dramma borghese è un componimento teatrale che rappresenta personaggi della piccola e media borghesia o dei ceti cittadini agiati ma non appartenenti alla nobiltà e ne descrive la vita quotidiana, le disavventure, le aspirazioni. Si è sviluppato in Europa tra il XVIII e il XIX secolo.

La drammatizzazione della vita del ceto borghese permise la descrizione di interni familiari, di tragedie domestiche, di vicissitudini di personaggi non più "grandiosi" o "eroici" come in passato, ma più vicini al nuovo ceto rampante: i sentimenti nobili non erano più appannaggio di regine o imperatori ma divenivano elementi caratteristici del nuovo stile.

È proprio con il teatro borghese che nasce il "dramma" propriamente detto: il termine, oltre ad indicare qualsiasi componimento teatrale in generale, si differenzia dai precedenti generi teatrali come, ad esempio, la tragedia o la commedia per la messa in scena di vicissitudini private. La borghesia veniva finalmente rappresentata in palcoscenico.

L'antesignano nel genere è considerato il dramma anonimo Arden of Faversham, da alcuni attribuito a William Shakespeare, che sposta l'elemento tragico all'ambientazione domestica. Anche The Merchant of London di George Lillo, rappresentato nel 1731 a Londra, ambienta l'azione scenica nella sfera privata del borghese. Uno dei precursori del genere è anche l'italiano Carlo Goldoni, che mise in scena vizi e virtù della borghesia e dei nobili come, ad esempio, ne La locandiera del 1753.

Il nuovo soggetto della drammaturgia non fu, però, sempre felice della rappresentazione che di esso offrivano i drammaturghi: non di rado i borghesi disertavano le sale teatrali vedendosi derisi e sminuiti nei comportamenti.

Uno degli esponenti di spicco dal punto di vista teorico e della realizzazione pratica fu Gotthold Ephraim Lessing, che si fece promotore, con la sua opera, della rappresentazione in scena della coscienza borghese.

Il Dramma borghese fu un'evoluzione del teatro del tardo '700, diffusosi dalla Francia a tutto il resto d'Europa. In particolare con l'avvento di drammaturghi non più legati alle antiche forme della Comèdie Français, erede a sua volta dell'unione tra le compagnie francesi e la Commedia dell'arte all'italiana ormai dopo il 1789 non più legata al suo corrispondente italiano che era quasi scomparso dopo la riforma goldoniana.

 

Fonte: http://www.itchiavari.it/Lettere/Cinema_Teatro/Teatro_medievale_e_moderno/teatro_moderno.doc

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