Tristano e Isotta riassunto e trama dell' opera

 


 

Tristano e Isotta riassunto e trama dell' opera

 

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Tristano e Isotta riassunto e trama dell' opera

 

La trama dell’opera.

 

Atto I.

Sulla nave che la sta conducendo come sposa a Marke, re di Cornovaglia, Isotta, figlia del re d'Irlanda, confida alla sua ancella Brangania tutta la propria amarezza e delusione per il comportamento di Tristano, che, dopo essere stato guarito da lei di una ferita mortale e dopo averle giurato eterna fedeltà e riconoscenza, l’ha ingannata, chiedendola in sposa non per sé, ma per il suo anziano zio. In uno sfogo di ira selvaggia e disperata si chiede perché non lo ha ucciso quando ha scoperto che proprio lui era l'uccisore del suo fidanzato Morold. Invano Brangania cerca di calmarla: Isotta sa che solo la morte può darle pace. Ordina pertanto a Brangania di preparare un potente veleno in una coppa: Tristano, invitato da lei a porgerle omaggio, ne berrà in segno di riconciliazione e ne berrà anche lei stessa. Brangania rimane atterrita dal progetto, ma deve ritirarsi all’arrivo di Tristano. Segue un dialogo tra i due, ricchissimo di sottintesi e ambiguità: entrambi cercano di negare anche a loro stessi l’amore che li unisce, facendo appello agli ideali del mondo cavalleresco-cortese e feudale (le "buone maniere", la lealtà al proprio signore, il dovere di vendicare un'offesa fatta al proprio clan...). Senza adeguate giustificazioni di fronte ai rimproveri di Isotta, Tristano accetta quasi con sollievo la coppa in cui ha capito trovarsi il veleno: anch’egli accoglie con gioia la prospettiva della morte per uscire dal lancinante dolore che gli causa l’aver rinunciato volontariamente all’amore di Isotta. Ma Brangania non ha avuto il coraggio di obbedire alla sua signora e ha sostituito il veleno con un filtro d'amore: quando i due bevono vengono presi da una irresistibile passione reciproca, quasi dimentichi di essere ormai giunti alla fine del viaggio.

 

Atto II.

Di notte, nel giardino del palazzo reale, Brangania cerca di dissuadere Isotta dal ricevere Tristano, perché l’assenza del re per una caccia notturna le sembra un pretesto. Isotta risponde che non le importa nulla, e spegne la fiaccola per dare il segnale convenuto all’amato. Tristano le corre incontro e segue un duetto d’amore ricco di motivi filosofici e psicologici (è il duetto d’amore più lungo della storia del teatro musicale: dura quasi quaranta minuti!). Improvvisamente però, irrompono sulla scena il re ed alcuni cortigiani. Marke è sconvolto, non tanto dal lato sentimentale della cosa (ha sempre considerato Isotta più una figlia che una moglie), ma dal lato morale: Tristano ha infranto con il suo comportamento le regole feudali della lealtà e della fedeltà al proprio signore. Tutto questo risulta tanto più incomprensibile, in quanto è stato proprio Tristano a costringere quasi lo zio a chiedere in sposa Isotta: perché lo ha fatto, per poi comportarsi in questo modo? Tristano non sa rispondere (i motivi che regolano il "Giorno" e la "Notte" seguono logiche opposte e incompatibili tra loro); l'unica soluzione possibile è proporre ad Isotta di seguirlo in esilio nel suo castello avito di Kareol, in Bretagna: là, dove i suoi genitori vissero una breve felicità, potranno rifugiarsi anche loro. Isotta accetta, ma un cortigiano sfida Tristano a duello e lo ferisce gravemente.

 

Atto III.

Tristano giace incosciente nel suo castello, vegliato dal fido scudiero Kurwenal. Lentamente esce dal suo stato comatoso e riflette amaramente sul suo destino: fin dalla nascita è stato marchiato dall’infelicità e dalla sventura e perfino la morte lo ha rifiutato varie volte. Il filtro con cui sperava di morire si è rivelato l’estremo inganno e ha reso eterno il suo dolore, perché separato da Isotta non può vivere, ma nemmeno morire (e quindi trovare la pace). Nella più viva esaltazione, l’eroe arriva a maledire se stesso e la propria sorte. Kurwenal cerca di calmarlo, annunciandogli il prossimo arrivo di Isotta. Tristano esulta, non per la speranza di guarire, ma per la convinzione che finalmente potrà morire, ricongiunto all’amata. Infatti appena Isotta giunge, egli muore nelle sue braccia. Assorta nella contemplazione dell’amato e del tutto indifferente all’arrivo sulla scena degli altri personaggi, ella spira sul corpo di Tristano, con un inno di beatitudine per la loro finalmente realizzata riunificazione nel Tutto.


1° incontro: giovedì 8 novembre 2007

 

 

 Il mito di Tristano e la sua rielaborazione nell’opera wagneriana.

 

 

Le versioni medievali della leggenda di Tristano e Isotta in ambito romanzo ed in ambito germanico.

La leggenda medievale di Tristano e Isotta, riunendo tutti gli elementi di cui disponiamo, segue più o meno questo svolgimento.

Un gigante, Morold, fratello della regina d’Irlanda e zio della principessa Isotta, esige ogni anno un tributo di giovani e di fanciulle dal regno vassallo di Cornovaglia. Tristano, figlio ormai orfano del prode cavaliere bretone Rivalen e di Blanchefleur, sorella del re di Cornovaglia Marke, lo affronta in duello e lo uccide, restando però ferito dalla sua arma avvelenata. Il fedele scudiero di Tristano, Kurwenald, che lo ha allevato e lo ama come un figlio, colloca il giovane morente su una piccola barca e lo affida alla provvidenza. Il fato fa approdare la barchetta davanti alla dimora di Isotta, che guarisce lo sconosciuto con le sue arti mediche. Tristano, ormai convalescente, le dice di chiamarsi Tantris, e le giura eterna fedeltà e riconoscenza. In un momento in cui è assopito, Isotta scopre l’identità dello straniero confrontando una tacca della sua spada con il frammento a suo tempo ritrovato nel cranio di Morold, inviatole per scherno dal vincitore. Vorrebbe vendicare la morte dello zio uccidendo Tristano, ma la madre le consiglia di perdonare. Tornato in patria, Tristano loda a lungo la principessa, al punto che alcuni cortigiani, per invidia, gli consigliano di indurre il re suo zio, vedovo, a chiederla in moglie. Per dimostrare la propria lealtà allo zio-re sacrificando il suo più ardente desiderio (sposare Isotta), Tristano accetta e si reca lui stesso in Irlanda a prendere la sposa. Durante il viaggio verso la Cornovaglia, a causa di un fatale errore dell’ancella Brangania, i due bevono un filtro d’amore che la madre di Isotta ha destinato a lei ed al re Marke. Da quel momento tra i due giovani divampa una passione che non si ferma di fronte alle convenzioni sociali, ed essi si incontrano con astuzie e inganni finché vengono scoperti dal re, informato da un cortigiano. Tristano viene esiliato dal regno e si rifugia nel suo castello avito in Bretagna; cerca invano di dimenticare Isotta sposando un’altra donna con lo stesso nome. Consumato dal dolore, ormai in punto di morte, chiede di poter rivedere un’ultima volta la sua amata: se Isotta verrà, la nave che la condurrà avrà la vela bianca, se no avrà una vela nera. Quando giunge la nave con a bordo Isotta, l’altra Isotta, gelosa, dice allo sposo che la vela è nera, e Tristano muore di dolore. Isotta, sopraggiunta, muore sul cadavere dell’amato.

In questo racconto ritroviamo:

  • elementi derivati dalla tradizione biblica: un guerriero giovane ed inesperto che vince e uccide un avversario molto più imponente fisicamente (= Davide e Golia); il protagonista è un abilissimo cantore e citaredo che sa placare gli animi con il suo canto (ancora Davide);
  • elementi derivanti dalla mitologia classica: la richiesta di un tributo atroce, la vittoria contro un essere mostruoso (= Teseo e il Minotauro, Giasone, Eracle contro vari mostri); la vela bianca e la vela nera causa di morte per un fraintendimento (= ritorno in patria di Teseo);
  • elementi tipicamente celtici e nordici: in Irlanda vige il matriarcato (è la regina madre che prende tutte le decisioni, non il re); le donne sono esperte di medicina e di magia; l’usanza di porre i moribondi e i defunti su imbarcazioni affinché compiano il “grande viaggio” verso le Isole dei Beati (mito della morte di Artù, mito di Baldur, navi funerarie vichinghe); alcuni antichi re scozzesi portavano nomi come Drust, Drustan.

 

Le versioni letterarie medievali che sono giunte fino a noi sono le seguenti.

  • Un poema del troviero anglo-normanno Thomas, scritto intorno al 1170, molto probabilmente nell’ambito della corte di Eleonora d’Aquitania. Thomas è un troviero, colto, raffinato ed esperto di civiltà cortese: scrive con un linguaggio scelto ed elegante, ricco di figure retoriche e di preziosismi formali, a volte alquanto “barocchi”. Si dilunga in fini dissertazioni psicologiche ed in ampie digressioni descrittive, dove sfoggia la sua cultura umanistica, acquisita sicuramente in un ambiente di alta formazione clericale. Interessante l’accento che Thomas pone sulla “tristezza” di Tristano (ovvio il gioco di parole etimologico): fin dalla nascita il giovane è segnato da un destino di dolore e di morte che lo consuma lentamente . Questo tratto del personaggio sarà ripreso e valorizzato al massimo da Wagner, soprattutto nei lunghi monologhi del terzo atto.
  • Un poema, coevo, opera di un certo Béroul, forse un cantastorie o un giullare, dato il suo stile semplice, popolareggiante, a volte volgare, attento ai particolari “piccanti” della vicenda. E’ mutilo dell’inizio e della fine.
  • Un poema in medio alto-tedesco, anch’esso privo dell’inizio e della fine, scritto da Goffredo di Strasburgo intorno al 1210. Questo autore sottolinea con forza l’ineluttabilità della passione che travolge gli amanti, giustificandoli ed isolandoli dalle normali convenzioni sociali: la “Minne” (amore cortese) non consente trasgressioni alla sua legge, ed è più forte delle norme sociali e religiose (tema caro a Wagner, che rimase sempre fondamentalmente anarchico). Notiamo una grande differenza di impostazione rispetto, ad esempio, al coevo poema “Parzifal” di Wolfram von Eschenbach, che pure ispirerà Wagner: in esso domina infatti una concezione morale severa, quasi ascetica, con la condanna delle passioni sfrenate e della sensualità, vista come causa di tutti i mali.
  • Un lai di Maria di Francia (sec. XIII), che però parla solo di un episodio della leggenda.

Da questi testi ne derivarono moltissimi altri, fra cui un romanzo in prosa di Chrétien de Troyes, purtroppo perduto; nei secoli seguenti, fino al tardo ‘500, si susseguirono varianti, traduzioni, volgarizzamenti, adattamenti in tutti i Paesi europei, che modificavano in modo anche rilevante la narrazione originaria. In Italia si ricordano soprattutto il “Tristano Riccardiano” e la “Tavola Ritonda”, volgarizzamenti in prosa molto letti nelle corti signorili del Tre-Quattrocento. Dante colloca Tristano (verosimilmente accanto ad Isotta, anche se il poeta non la nomina esplicitamente) insieme agli altri lussuriosi nel primo girone infernale (canto V). Versioni tarde fanno di Tristano un cavaliere della Tavola Rotonda, unendo così i due grossi tronconi della “materia di Bretagna”.

 

Principali differenze narrative del dramma wagneriano rispetto ai modelli medievali.

  • In “orizzontale”: radicale sfrondamento della fabula, semplificazione, eliminazione di tutti gli episodi e di tutti i personaggi marginali, secondari, non necessari, puramente decorativi (cari invece ai medievali), visti come dispersivi e distraenti. La “trama” è ridotta all’osso.
  • In “verticale”: l’essenzialità così ottenuta non diventa secchezza, esiguità, perché acquista un grande spessore in dimensione verticale. Wagner opera sui pochi episodi narrativi fondamentali del mito un abissale approfondimento in chiave psicologica. C’è poca azione “fisica”, condensata (quasi precipitata) alla fine degli atti; viene dato invece enorme spazio ai monologhi e ai dialoghi, perché i fatti accadono dentro i personaggi e vengono scandagliati da loro stessi, da soli (Isotta nel primo atto, Tristano nel terzo) o in coppia (nel secondo). Si giunge così ad un’autoanalisi rigorosa, impietosa, lucidissima. Lo strumento di questa “analisi del profondo” dei personaggi è, sul piano drammaturgico la parola, sul piano musicale il Leitmotiv, che spesso, come vedremo meglio nel terzo incontro, rivela “freudianamente” pensieri, ricordi, emozioni e sentimenti dei protagonisti del tutto inconsapevoli.

 

Tematiche “tristaniane” dibattute dalla cultura filosofica e letteraria contemporanea a Wagner (romanticismo, idealismo).

Analizziamo ora i contenuti a lui contemporanei adattati da Wagner alla leggenda medievale. NB.: questa operazione di adattamento è valida e non stona con l’ambientazione, perché Wagner sente molto profondamente il concetto di “atemporalità del mito”: come tutti i grandi archetipi mitici (Medea, Edipo, i fratelli-amanti, i fratelli nemici, ecc...), anche la vicenda di Eros/Thanatos dei due protagonisti ha un valore che prescinde dalla sua collocazione nel tempo e nello spazio, cioè in una determinata epoca o in una determinata zona del mondo. Un amore di questo tipo può verificarsi archetipicamente in qualsiasi momento storico ed in qualsiasi struttura sociale. Per non parlare poi dello spunto autobiografico: Wagner ebbe l’idea di comporre l’opera anche a causa della sfortunata passione che in quegli anni nutriva per una signora sposata dell’alta borghesia svizzera, Mathilde von Wesendonck, per la quale scrisse anche alcuni Lieder, che contengono anticipazioni musicali molto precise del “Tristan”.

  • Il conflitto Giorno↔Notte, Società↔Libertà  (cfr. testi di  Hölderlin e di Novalis).

Tutto il Romanticismo tedesco (ed in parte anche quello inglese) si basa sul conflitto tra Giorno, dominato dalla razionalità fredda ed insensibile, attenta solo ai meschini valori borghesi (lavoro e guadagno) e rigidamente regolato da ipocrite convenzioni socio-morali, e Notte, dolce e materno luogo della fantasia, del sogno, dell’evasione, della libertà emotiva ed immaginativa. Potremmo fare numerosissimi esempi, ma citiamo solo gli “Inni alla Notte” di Novalis e il poemetto “L’arcipelago” di Friedrich Hölderlin, scritti nei primi anni dell’Ottocento. Questa tematica impregna di sé tutto il lungo duetto tra i due protagonisti nel secondo atto: alla luce fredda e disumana del Giorno Tristano ed Isotta erano costretti ad ignorare il loro amore, condannabile secondo le convenzioni sociali, anzi dovevano considerarsi nemici; nel regno della Notte, viceversa, si riconoscono nella loro vera essenza, senza gli “occhiali deformanti” del Super-Io. Attenzione però: la Notte è anche sinonimo di Morte .

  • La “maledizione della Sehnsucht”; l’amore-sacrificio.

Sappiamo che uno dei concetti portanti di tutto il Romanticismo è quello di Sehnsucht, termine intraducibile in italiano, composto dai lemmi sehnen e suchen (“anelare a, bramare” e “cercare”), che indica la continuamente insoddisfatta ricerca da parte del poeta/artista romantico di qualcosa di ineffabile, divino, indicibilmente bello ed appagante (amore? felicità? conoscenza di Dio?) che però è inaccessibile alle possibilità umane. Per indicare questo “graal” romantico, alcuni poeti tedeschi usarono la metafora/simbolo del “fiore azzurro”: si sa che questo oggetto sacro esiste, ma in un luogo segreto e comunque inaccessibile. Nonostante le possibilità di trovarlo siano minime, l’eroe romantico non si arrende: continuerà a cercarlo per tutta la vita (NB.: ≠ dall’intellettuale del Decadentismo che non inizia neanche la ricerca, data la sua evidente inutilità). Naturalmente, questa ricerca assidua e continuamente delusa non può che generare un pesante senso di insoddisfazione, fino a configurarsi come una vera e propria maledizione esistenziale (cfr. il mito di Sisifo). Nel “Tristan” questo concetto è ben espresso nel duetto del secondo atto, quando i due amanti si rendono conto che la loro massima aspirazione (“fondersi”, annullarsi l’uno nell’altro) non è conseguibile su questa terra, data la presenza della fisicità individuale. L’estremo appagamento del loro amore potrà essere raggiunto solo con la morte, che li libererà dal “principio di individuazione”. Notare l’analogia con alcune filosofie orientali (morte = dissolvimento della singola individualità nel “nirvana” cosmico, il grande “Atman” indifferenziato). Anche nel terzo atto, Tristano invoca l’arrivo di Isotta perché spera che ella lo “guarisca” non tanto dalla ferita fisica, materiale, infertagli da Melot, quanto dalla stessa condizione umana, limitante e fonte di continua angoscia. In altre parole: Tristano spera, con l’arrivo di Isotta, di poter finalmente morire , per poi ricongiungersi con lei ad un livello più alto dopo la morte, dopo che entrambi saranno finalmente liberati dalla fisicità.

 

La lettura di Schopenauer.

Di questo importantissimo contributo alla formazione generale dell’ideologia wagneriana parleremo diffusamente nel prossimo incontro.

  • Intuizioni freudiane nell’opera: il filtro come espediente psicologico.

Molto prima della divulgazione in Europa delle teorie di Sigmund Freud, Wagner (come del resto era già accaduto a molti altri grandi artisti, a partire da Virgilio) “intuisce” alcuni meccanismi psicologici estremamente sottili, che riesce ad esplicitare non tanto tramite le parole dei personaggi, ma per mezzo delle note. Il Leitmotiv, di cui parleremo più diffusamente nel terzo incontro, serve appunto a rivelare le inconsce dinamiche che si creano tra i personaggi, al di sotto e quasi contro i loro comportamenti concreti. Per motivi di tempo, facciamo un solo, ma fondamentale, esempio: il “tema” dell’amore (Liebemotiv) risuona nell’orchestra molto sommessamente, ma chiaramente, in un momento in cui Isotta dichiara alla sua ancella Brangania che lei odia Tristano e lo vorrebbe vedere morto. Se lo spettatore stesse assistendo ad un dramma recitato, dovrebbe “fidarsi” delle parole del personaggio, e non comprenderebbe poi lo svolgimento del dramma: nell’opera wagneriana invece, siamo non solo spettatori, ma anche ascoltatori, e quindi intuiamo che Isotta in quel momento sta autoingannandosi, cercando di negare anche a se stessa il proprio disperato amore per Tristano. In termini freudiani, sta cercando di rimuovere il suo amore verso Tristano, sublimandolo in modo conforme alle convenzioni socio-morali che regolano il suo mondo (senso dell’onore offeso, desiderio di vendetta); il contenuto rimosso, però, affiora molto chiaramente dal suo inconscio.

Inoltre, appare chiaro come il filtro d’amore che Isotta offre a Tristano credendo di offrirgli un veleno (con l’intenzione di ucciderlo e di suicidarsi a sua volta subito dopo) sia un falso filtro: in realtà, i due si amano già intensamente (infatti il tema dell’amore compare numerose volte già prima che i due bevano il filtro), al punto da preferire la morte all’idea di vivere separati, ma non possono ammetterlo neanche a se stessi, per vari motivi di ordine morale. Quando entrambi credono di aver bevuto un veleno, oltrepassano, per dir così, la soglia della Vita-Giorno per entrare nella Morte-Notte, dove le ferree regole socio-morali non valgono più: essi non sono più vincolati dal Super-Io e possono finalmente ri-conoscersi , accettando il reciproco amore. Il filtro è quindi un semplice espediente psicologico per far cadere il diaframma Giorno-Notte, il velo dell’apparenza, la luce abbagliante del Giorno che li rendeva ciechi. Notare comunque l’onnipresente ambivalenza Eros/Thanatos: ciò che si crede un filtro di morte svolge la funzione di un filtro d’amore, che comunque causerà morte.

 


2° incontro: giovedì 15 novembre 2007

 

 

Le tematiche dell’opera: rinuncia all’amore, rinuncia all’Io, rinuncia alla vita.

 

 

La filosofia di Schopenhauer alla base dell’opera wagneriana: volontà di potenza e rinuncia all’individualità.

 

Il filosofo tedesco Arthur Schopenauer (1788–1860), nato a Danzica, studioso appassionato della civiltà indiana, pubblicò nel 1818 la sua opera principale, “Il mondo come volontà e rappresentazione”, decisamente in polemica con la visione razionalistica ed ottimistica di certe correnti dell’idealismo tedesco allora predominante negli ambienti accademici.

La tesi principale dell’opera (molto semplificata) è la seguente: ogni cosa nel mondo fenomenico, e soprattutto l’essere umano, è dominata nelle sue azioni dalla volontà (di vivere, di affermarsi, di perpetuarsi, spesso a scapito degli altri = “volontà di potenza”): questo irrazionale desiderio di incrementare la vita è però una fatica di Sisifo, perché prolunga solo il destino di alienazione e di sofferenza che colpisce tutti gli uomini. La sofferenza infatti non è nient’altro che la mancata realizzazione della nostra volontà, l’impedimento al conseguimento dell’obiettivo che ci siamo prefissati di raggiungere. A causa della limitatezza “creaturale”, la volontà non riesce mai a raggiungere i propri scopi in modo duraturo e veramente appagante, non trova mai la quiete e la piena soddisfazione; infatti ogni desiderio scaturisce da una insoddisfazione (cerco quello che non ho e vorrei avere), ma a sua volta genera nuovi desideri e nuova insoddisfazione, all’infinito. Riconosciamo qui la tematica della Sehnsucht, già ampiamente sviluppata dai romantici, di cui abbiamo parlato nel primo incontro. Le conclusioni a cui giunge Schopenauer sono però molto diverse: mentre gli intellettuali romantici (e i loro personaggi) non si arrendono mai, non smettono mai di cercare il “fiore azzurro”, anche se con pochissime speranze di trovarlo, Schopenauer considera insensato questo affannarsi, ansioso ed ansiogeno: l’unico rimedio per spezzare questo circolo vizioso che sta alla base del dolore esistenziale è la rinuncia alla volontà, secondo tre “gradini”, rappresentati dalla giustizia (rinuncia ai propri diritti egoistici individuali in favore di una visione più larga del bene comune), dalla compassione (sentire come proprio il dolore altrui, al di là del proprio interesse) e dalla ascesi, grazie alla quale l’uomo, con la morte, si libera dagli inganni dell’individualità e dalle illusioni della volontà accettando serenamente il dissolvimento nel Nulla. Sono evidenti i parallelismi con alcune filosofie-religioni orientali (induismo, buddismo).

Wagner lesse l’opera di Schopenauer nel 1854, in un momento esistenziale per lui molto difficile, e ne rimase profondamente impressionato. Già nelle sue prime opere il tema della rinuncia aveva fatto la sua comparsa (nel “Lohengrin” si assiste al drammatico scontro tra illusioni e debolezza creaturale, tra Ideale e Reale), ma dopo la lettura di Schopenauer questa tematica assunse un ruolo centrale nella sua produzione artistica. Nella “Tetralogia” la rinuncia ha addirittura un Leitmotiv proprio, che compare molto presto ne “L’oro del Reno”: il nano Alberico rinuncia all’amore che gli ha causato solo sofferenza (non potendolo avere, deforme com’è) in cambio del potere, Wotan rinuncia al potere avendone constatato la vanità e la vuotezza, Brunilde rinuncia al suo status divino per dedicarsi ad amare un essere umano, e così via...

 

La rinuncia all’amore nel primo atto: la tirannia del “Giorno”.

Nel “Tristan und Isolde” la rinuncia si sviluppa in tre tappe: nel primo atto i due rinunciano al loro amore, rinnegandolo, misconoscendolo anche ai loro stessi occhi in nome di un ideale feudale o tribale (Tristano = la lealtà al suo re, Isotta = il desiderio di vendicare la morte di un appartenente al proprio clan). In quest’ottica, i due protagonisti appaiono schiavi del Giorno (vedi primo incontro), con i suoi codici di comportamento rigidamente strutturati. In questo atto, non a caso compaiono molti termini tipicamente medievali, ad esempio Sitte (“usanza”, “buone maniere”), Ehre (“onore” “reputazione”), Treu (fedeltà), Eid (giuramento solenne), oppure i titoli feudali di Herr, Herrin, Ritter, Frau, Vasalle (“signore/a”, “cavaliere”, “dama”, “vassallo”), come anche il riferimento ad usanze altomedievali come la faida, il guidrigildo (ammenda in denaro o in altri beni per un reato commesso), il “duello dei capi”, la benedizione delle armi dei “campioni”, la solenne stipulazione pubblica di un’alleanza, la riconciliazione di due nemici suggellata dal bere ad una stessa coppa, ecc...

 

La rinuncia all’individualità nel secondo atto: il trionfo della “Notte”.

Nel secondo atto, i due amanti rinunciano alla propria individualità, cercando la “fusione” totale (mentale, fisica, ontologica) dei loro esseri in uno solo e nel mondo (“Io stesso sono ora il mondo”). Sancendo il trionfo assoluto della Notte, i due rinnegano il Giorno e tutto ciò che esso rappresenta, quasi meravigliati di aver potuto un giorno farsi ingannare dal suo falso splendore. Rifiutando il Giorno, rientrando nel grembo materno della Notte, si rinuncia di conseguenza al principio di individualità, si torna ad un’origine indifferenziata come prima della nostra nascita: non abbiamo più nome (“Tu Isotta, io Tristano, non più Isotta”, dove il proprio nome è l’elemento più classico del principio di individuazione), né luogo preciso nello spazio, né tempo. C’è però un problema insormontabile: la fisicità corporea. Finché viviamo in un corpo fisico, siamo, per così dire, prigionieri della nostra individualità, dei nostri confini corporei, della nostra limitatezza ontologica; Tristano e Isotta ne divengono rapidamente e dolorosamente consapevoli, fino a desiderare la morte come unica possibile liberazione da questo insuperabile ostacolo esistenziale. La “con-fusione” totale sarà possibile solo alla parte spirituale dell’essere umano, una volta liberata dalla sua prigione terrena. Si giunge così a...

 

La rinuncia alla vita: la sintesi finale.

Nel terzo atto i due innamorati “cosmici” rinunciano alla vita per potersi ricongiungere pienamente nel reciproco dissolvimento, secondo quanto teorizzato da Schopenauer nel terzo “gradino” (vedi sopra) . C’è però una differenza notevole rispetto alla teoria esposta dal filosofo di Danzica: mentre quest’ultimo prospetta la rinuncia come qualcosa di assoluto, da compiere “senza secondi fini”, i personaggi di Wagner  rinunciano a qualcosa in vista di qualcos’altro, ritenuto migliore e possibile causa di maggiore gioia, soddisfazione e completezza. La loro rinuncia non è pura, astratta, disinteressata, come suggeriva il filosofo: ricorda maggiormente l’atteggiamento del titanismo romantico che rinuncia sì a qualcosa, ma solo per raggiungere un qualcosa di “più”, di “oltre”, di migliore.

Nell’ultima opera composta da Wagner, il “Parsifal”, la rinuncia alla volontà assumerà i connotati della compassione redentrice (Mitleid = cum+√patior, sun+√paq-) che sola può spezzare la catena del desiderio e della conseguente sofferenza. Il modello più sublime di Mitleid è quella mostrata da Cristo verso l’umanità con il sacrificio della croce. Le caratteristiche di questa rinuncia sono proprio quelle descritte da Schopenauer nel secondo “gradino”.

 


3° incontro: giovedì 22 novembre 2007

 

 La rivoluzione musicale del “Tristan”.

 

 

Genesi dell’opera wagneriana e sua complessa vicenda.

La realizzazione del “Tristan und Isolde” iniziò con la stesura del testo, completata nel settembre del 1857; la composizione della musica durò circa due anni, causando l’interruzione del progetto della Tetralogia, che verrà completata molto più tardi, a Bayreuth. L’amore platonico per Mathilde Wesendonck occupò in questi anni la vita affettiva di Wagner, per poi spegnersi di fronte alla ben diversa statura di Cosima von Bülow, figlia di Liszt, che lascerà il marito per andare a vivere con Wagner (cosa estremamente scandalosa a quei tempi). Nel 1863 il compositore cercò di far rappresentare l’opera a Vienna, ma dopo 77 prove e infiniti screzi con direttore e orchestrali, l’opera fu rifiutata perché considerata “ineseguibile”. La prima rappresentazione dell’opera avvenne a Monaco il 10 giugno 1865, con un successo tiepido e recensioni negative da parte di alcuni critici musicali, nonostante la bravura degli interpreti, a cui Wagner rimase legato da strettissima amicizia.

 

L’opera d’arte “totale”; la “melodia infinita”; il ruolo dei Leitmotive.

Insieme alle altre opere wagneriane, il “Tristan” cambiò radicalmente lo stile musicale ottocentesco, sia per la profondità del contenuto ideale, sia per motivi più strettamente tecnici. I punti più importanti della sua “riforma” sono i seguenti.

  • Il dramma musicale è visto come un intrecciarsi molto complesso di invenzione letteraria ed ideologica, musica, canto, recitazione, regia: Wagner coniò a questo proposito l’espressione intraducibile “Wort-Ton-Drama”. Wagner resuscita in un certo senso la tragedia greca, intesa come “opera d’arte totale”, che coinvolge diverse discipline.
  • I testi sono scritti da lui stesso, con uno stile molto originale, imitando spesso le tecniche compositive dei bardi nordici o dei poeti medievali (allitterazioni, consonanze, omoteleuti insistiti, ai limiti dello scioglilingua, nonché metafore, antonomasie, figure etimologiche...).
  • Si rifiutano le convenzionali “forme chiuse” del melodramma: romanze, cabalette, duetti, terzetti, cori scenografici; vi è un netto rifiuto anche del canto virtuosistico, di coloratura, arricchito da vocalizzi e sfoggio di abilità fine a se stessa. Il flusso sonoro non è mai delimitato da chiare interruzioni o ripartenze: è come un fiume che scorre continuamente dall’inizio alla fine di un atto (ne “L’oro del Reno” addirittura dall’inizio alla fine dell’opera!). Per questo viene usato il termine di “melodia infinita”, caratterizzata anche da una spiccata tendenza al movimento rotatorio, come di un gorgo che si avvolge continuamente su se stesso (ad alcuni ascoltatori ottocenteschi ciò causava addirittura disturbi psico-sensoriali, come ansia e senso di oppressione...). Una grande importanza viene data ai monologhi ed ai dialoghi dei personaggi, a volte molto lunghi, mentre l’azione scenica è decisamente scarsa (perciò le sue opere venivano considerate “noiose” e statiche). Praticamente tutto il terzo atto del “Tristan” è un monologo del protagonista, con diverse caratteristiche a seconda delle varie emozioni che egli sperimenta: il cantante è impegnato in una performance quasi ininterrotta per più di 30-40 minuti! Anche Isotta canta per gran parte del primo atto da sola, con momenti interpretativi molto difficili. Il secondo atto è un lunghissimo duetto (dura più di mezz’ora) tra i due protagonisti, con un andamento a climax ascendente.
  • Wagner portò alla perfezione l’impiego dei “motivi conduttori”, già usati perfino da Mozart, ma con altre finalità e diversa consapevolezza. I “motivi conduttori” (“Leitmotive”) sono frasi musicali di varia lunghezza, associate ad un personaggio, un oggetto, una situazione, che ricompaiono a più riprese nell’opera, sempre con profondi significati psicologici. I “temi” possono modificarsi molto a seconda del contesto: un esempio classico è costituito dal “tema dell’anello” nella Tetralogia. Questa tecnica verrà in seguito ripresa da molti altri compositori, anche italiani o francesi (cfr. “tema del destino” nella “Carmen” di Bizet), ma mai con la profondità di Wagner. Altre innovazioni strettamente musicali sono l’uso frequente del cromatismo e delle dissonanze, considerate sgradevoli dagli ascoltatori ottocenteschi.

 

Breve storia dell’interpretazione. Le principali edizioni discografiche.

Le radicali innovazioni tecnico-drammaturgiche a cui abbiamo accennato non furono apprezzate subito da tutti: Wagner ebbe molti accaniti detrattori (tra cui il famoso critico austriaco Hanslick) non solo in Italia o in Francia, ma anche nel mondo musicale di lingua tedesca (soprattutto a Vienna, città molto amante della musica, ma chiusa e tradizionalista). Tuttora le opere wagneriane non sono di facile approccio, e molti, anche appassionati di musica, le giudicano eccessivamente lunghe, noiose, difficili, troppo impegnative dal punto di vista intellettuale. Effettivamente esse richiedono un’adeguata preparazione all’ascolto, con buona conoscenza della trama e delle varie implicanze storiche e filosofiche. Inoltre sono molto più lunghe di una normale opera italiana o francese e questo può costituire un problema per l’ascolto a teatro: è forse consigliabile ascoltarle prima “a pezzi” comodamente seduti in poltrona. Infine, richiedono una buona realizzazione scenica ed un’intensa interpretazione da parte sia dell’orchestra che dei cantanti: assistere ad un’opera di Wagner eseguita male risulta veramente insopportabile.

All’orchestra che esegue un’opera wagneriana è richiesta una competenza esecutiva non comune, al punto che l’autore tedesco fu giudicato per molto tempo “ineseguibile”. Anche la tecnica vocale richiesta ai cantanti è del tutto diversa rispetto a quella del repertorio italiano o francese e richiede una voce piuttosto robusta, dotata di una forza e di un timbro particolari. Molti cantanti di scuola “mediterranea”, anche bravissimi, non potrebbero mai affrontare un’opera di Wagner, come pure alcuni direttori d’orchestra, pur molto famosi. I cantanti “specializzati” nell’esecuzione delle opere wagneriane studiano una tecnica specifica, legata anche alla lingua tedesca, che è ricca di consonanti e povera di vocali. Il problema però più grosso per l’allestimento al giorno d’oggi di un’opera wagneriana è sicuramente la regia.

Le opere di Wagner hanno conosciuto varie “mode” registiche nella loro storia interpretativa, a seconda delle correnti di pensiero dominanti all’epoca. All’inizio (Ottocento e primi decenni del Novecento) le scenografie erano ricche di particolari descrittivi, pseudo-storici, sull’esempio delle decorazioni dei castelli vagamente disneyani del re Ludwig II di Baviera; i costumi si ispiravano strettamente all’ambientazione storica dei vari drammi, oppure, nel caso della Tetralogia, ad una “barbarie” germanica alquanto improbabile, con elmi ornati di corna o ali tipo Asterix, ecc...

Negli anni ‘40 e ‘50 del Novecento, quando abbiamo le prime valide incisioni discografiche, si impose uno stile interpretativo molto solenne, aulico, teso soprattutto a valorizzare l’eroicità “straordinaria” dei personaggi, la loro dimensione epica, sovra-umana. Un esponente di questa scuola interpretativa è il famoso direttore d’orchestra tedesco Wilhelm Fürtwängler, che lavorò nella Germania nazista e poi si rifugiò negli Stati Uniti, oppure Arturo Toscanini, caratterizzato da uno stile molto preciso ed asciutto, quasi secco. Lo stile di canto, in quegli anni, era molto rigido, stentoreo, tutto d’un pezzo, anche se non privo di sottigliezze espressive e profondità psicologica. Grandi cantanti di quest’epoca furono i soprani Kirsten Flagstad e Astrid Varnay, il tenore Max Lorenz, il baritono/basso Hans Hotter e il contralto Martha Mödl.

Dopo la II guerra mondiale tutto l’ambiente culturale dell’area germanica ripensò profondamente se stesso, per elaborare positivamente lo shock dell’esperienza nazista e ritrovare le proprie radici umanistiche, con risultati a volte discutibili, a volte di vera eccellenza. Interessanti furono soprattutto le esperienze registiche portate avanti nel “regno” indiscusso di Wagner, il Festival di Bayreuth, da Wieland e Wolfgang Wagner, due nipoti del musicista, che rivoluzionarono l’idea di messinscena teatrale per le opere del loro avo. Le regie-scenografie di Wieland Wagner, realizzate lungo i due decenni ‘50 e ‘60, sono tuttora considerate da molti le più belle mai ideate, soprattutto grazie ad alcune loro caratteristiche.

  • Estrema essenzialità figurativa: la scena è praticamente vuota, con vasti sfondi di cielo o mare, giocata sui toni del grigio o del marrone. La scena appare astratta, rarefatta (a volte un semplice disco su cui stanno seduti i cantanti), con pochissimi elementi di contorno, quasi sempre di carattere simbolico.
  • Grande importanza viene data al gioco delle luci, che contribuiscono non solo a definire i vari momenti atmosferici (albe, tramonti, notti, tempeste), ma anche e soprattutto gli stati d’animo dei personaggi.
  • I costumi sono “neutri”, senza caratterizzazioni storiche particolari, di colori non appariscenti (bianco, grigio, blu chiaro), per sottolineare l’atemporalità del mito. Non viene compiuto nessun tentativo di collocazione spazio-temporale, né tanto meno di “attualizzazione” delle vicende.
  • Viene prestata attenta cura alla gestualità ed alla recitazione dei cantanti-interpreti, invitati a rendere con adeguata profondità le sfumature psicologiche del testo.

Wieland Wagner morì abbastanza giovane, ma le sue idee registiche vennero portate avanti da suo fratello Wolfgang, fino agli anni ‘80. Questa impostazione figurativa si adattava perfettamente all’interpretazione musicale di alcuni sommi direttori d’orchestra, ad esempio Herbert von Karajan e Georg Solti, che curarono famose edizioni delle opere wagneriane negli anni ‘60 e soprattutto negli anni ‘70, rese insuperabili dall’estremo approfondimento psicologico dei personaggi e delle situazioni, da un minuziosissimo lavoro sui Leitmotive e dalla cura dedicata all’interpretazione vocale dei cantanti, tutti molto bravi, e alcuni addirittura eccezionali. In queste memorabili edizioni ogni singola frase e, per così dire, ogni nota, viene espressa con il massimo di significato possibile, giungendo a profondità quasi psicanalitiche. Si aggiunga il fatto che, come già detto, in quegli anni operarono molti cantanti di eccelsa caratura, le cui interpretazioni sono ormai pietre miliari nella storia dell’interpretazione: negli anni ’60 Birgit Nilsson (soprano) e Wolfgang Windgassen (tenore), negli anni ’70 Helga Dernesch e Gundula Janowitz (soprani); Jon Vickers, René Kollo, James King e Jess Thomas (tenori); Dietrich Fischer-Diskau e Thomas Stewart (baritoni); Karl Ridderbusch e Marrti Talvela (bassi); Christa Ludwig (mezzosoprano), per citare solo i principali.

A partire dagli anni ’80 si cominciò a trovare noiosa questa forma di messa in scena e i registi sperimentarono nuove vie, nel tentativo di modernizzare Wagner, “attualizzandolo”. Si giunse così alla famosa edizione della Tetralogia con la regia di Patrice Chéreau, che ambientò i quattro episodi in epoche moderne (partendo dal Settecento fino ad arrivare agli anni Trenta), vestendo i personaggi con abiti contemporanei in un’ambientazione post-industriale (il Walhalla collocato nelle rovine di una vecchia fabbrica, la grotta del nano Mime in un altoforno dismesso). Nonostante la discutibilità di queste scelte, l’interpretazione dei cantanti era ancora molto curata, e la regia aveva intuizioni a volte geniali a livello dell’approfondimento psicologico dei personaggi. In anni ancora più recenti, invece, per la smania frenetica di trovare novità che facciamo scalpore e suscitino polemiche (e pubblicità), si sono raggiunti livelli di assurdità ai limiti del ridicolo, come ambientare il “Tristano” in un’astronave, o il “Parsifal” in un campo di concentramento nazista, con costumi assolutamente inadatti (a volte anche brutti esteticamente) e senza il minimo rispetto delle intenzioni letterarie ed artistiche del compositore, trascurando o fraintendendo anche pesantemente le parole del libretto . Non sono immuni da queste stupidaggini neanche teatri famosi come la Scala o il Festival di Bayreuth, che anzi, spesso si distingue per strampalate idiozie. Per quanto riguarda i cantanti e i direttori d’orchestra, bisogna dire che, purtroppo, anch’essi sono ormai spesso alquanto inadatti o impreparati, e lasciano molto a desiderare soprattutto sul piano dell’interpretazione psicologica. Per affrontare Wagner, come già detto, occorre molto studio ed una tecnica specifica, cose su cui molti artisti non sono più disposti a lavorare con impegno e sacrificio.

 

     E’ interessante notare come anche nel primo atto i due arrivassero a considerare la rinuncia alla vita (bere il filtro creduto mortale) come l’unica soluzione ai loro problemi: ma in quella situazione la loro morte non li avrebbe uniti, mantenendo anzi ben viva la separazione tra loro, mentre alla fine della loro vicenda esistenziale la morte è l’unica possibilità per loro di unirsi completamente e definitivamente.

       N.B.: questo non accade solo per le opere di Wagner, ma un po’ per tutte le opere teatrali e musicali del passato, da Shakespeare a Pirandello, da Mozart a Puccini: è una mania di “desacralizzazione” che in realtà rivela solo l’ignoranza e la pigrizia di molti registi che non vogliono “sprecare tempo” per studiare a fondo e comprendere bene, nel suo complesso contesto temporale e culturale, il testo che devono affrontare.

           ricordiamo che lo studio della mitologia classica era molto curato nelle scuole medievali.

     il padre di Tristano muore quando il bimbo non è ancora nato; la madre muore nel darlo alla luce.

    altri anelli, tra i tanti possibili della catena analogica: GIORNO – lavoro – razionalità – padre – dovere – morale – società – costrizione sociale – attività = vita; NOTTE – riposo/evasione – fantasia/irrazionalità – madre irresponsabilità – amoralità – individualità – libertà assoluta – inattività/regressio ad uterum  = morte.

    il verbo heilen (“curare, guarire”) compare numerose volte in tutto il terzo atto; Wagner istituisce continui parallelismi tra la “prima” guarigione di Tristano da parte di Isotta (guarigione fisica, che lo ha danneggiato più che salvato, facendolo innamorare di lei e quindi precipitandolo nel vortice della Sehnsucht), e la “seconda” guarigione, quella definitiva, nella morte.

     essendo una “monade”, cioè un’entità indissolubile, fintanto che sono separati non possono né vivere in senso completo né morire: se uno dei due vive, anche l’altro è condannato a vivere, e se uno muore, anche l’altro inevitabilmente morrà. Senza la presenza di Isotta, Tristano non può, ontologicamente, morire: è condannato a vivere tra le più terribili sofferenze della Sehnsucht. Con il suo arrivo, può finalmente abbandonarsi nelle braccia della morte-madre. Per lo stesso motivo, anche Isotta muore inevitabilmente con la morte di Tristano.

    NB.: le prime parole che i due pronunciano dopo aver bevuto il filtro sono i loro nomi, come se si vedessero per la prima volta veramente, nella loro più autentica essenza e personalità.

 

Fonte: http://www.liceomanzoni.net/download/iniziative/Scala_Tristan.doc

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