Raccolta di leggende aneddoti e racconti

 


 

Raccolta di leggende aneddoti e racconti

 

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Raccolta di leggende aneddoti e racconti

 

 

RACCOLTA DI LEGGENDE  -  ANEDDOTI  -  RACCONTI

                                   

                                   

 La ricerca in biblioteca

 

 

  1. L’ASPIDO SORDO
  2. LA STRADA DEL PASSO DEGLI ORSI
  3. SUSA’ E “LA CHIESA DAGLI OCIONI”
  4. UNA CAMPANA ANTICA
  5. LE CAMPANE DI RONCOGNO
  6. LA DOCCIA DEL RIO NERO
  7. LA STEMPA DEL ZANUM
  8. LA CAVERNA DEI LUMI
  9. LA LEGGENDA DI SERSO
  10. S. GIORGIO E IL DRAGO
  11. IL VIANDANTE PILATO
  12. IL DIRITTO DI PRIMA NOTTE
  13. LA TORRE DELLE TORTURE
  14. LA TORRE DEI COLTELLI
  15. LA PRIGIONE DELLA GOCCIA
  16. GLI SPIRITI DEI CASTELLANI
  17. LA DAMA BIANCA
  18. IL DIAVOLO E LE SUE DONNE
  19. LA STREGA MALVAGIA
  20. LA BUSA DEI GASPERINI
  21. LA CHIOCCIA
  22. I DUE DECANI E LA POTENZA DELLA PREGHIERA

 

 

 

 

 

 

1. ASPIDO SORDO

(Pergine, Tegazzo e Masetti)

 

Quando la località «Sacchi» era di proprietà dei Sigg. Fontanari (Cavalletti), essendo la zona ben esposta al sole e riparata dai venti freddi del nord, i Sigg. Fontanari vi fecero un esperimento per la coltivazione delle fragole.

Infatti la coltivazione poteva essere redditizia se ci fosse stata, come oggi, la possibilità della vendita, ma a quei tempi con i pochi soldi disponibili, la gente preferiva comperare farina da polenta, che non le fragole.

Comunque, dalla vecchia strada della Valsugana, che dal Tegazzo portava fino ai Masetti, quei bei filari di fragole, facevano gola ai ragazzi che abitavano agli Assizzi, ai Masetti ed a Valar, che quattro volte al giorno percorrevano quella strada per recarsi a scuola a Pergine. Spesso e volentieri trovavano qualche buco nella siepe di rovi e filo spinato, per arrivare fino alle fragole e farme una scorpacciata.

Esasperati per questo inconveniente i Sigg. Fontanari sparsero la voce che nella loro proprietà e specialmente dov'erano le fragole era stato visto l'aspido sordo. Quest'animale frutto dell'immaginazione popolare, doveva essere una bestia terrificante e velenosissima, che bruciava perfino l'erba dove passava. I ragazzi terrorizzati da quest'annuncio, smisero di andare a rubare le fragole.

Nel contempo abitava in piazza Pacini (spiaz de le oche) un giovane scultore di nome Eugenio Anderle, che per ingraziarsi le autorità di quell'epoca e ottenere qualche aiuto, scolpi, a grandezza naturale, un bel busto di Mussolini che venne poi esposto in bella mostra nella vetrina del Bar Italia in via Pennella. Lo vide anche il Sig. Giovanni Margoni, molto conosciuto in paese con il sopranome di «Giovanni dell'acqua». Era un uomo arguto, spiritoso e scanzonato, che si divertiva a fare degli scherzi al prossimo. Alla vista di quel busto fece circolare in paese, la chiacchiera che i «Cavalletti» avevano catturato l'aspido sordo e, alla gente che chiedeva che aspetto avesse questo aspido sordo, il Giovanni rispondeva che andassero pure a vederlo che era esposto nella vetrina del Bar Italia in via Pennella.

Per alcune settimane vi fu in via Pennella un insolito afflusso di gente, con grande meraviglia delle autorità politiche del paese che si compiacevano nel vedere che i cittadini perginesi dimostrassero tanto interesse per.... 1'«ASPIDO SORDO».

 

Da: “Mi ricordo che…”

Autore: E. Fuoli

 

 

 

 

2. LA STRADA DEL PASSO DEGLI ORSI

(Pergine, Brazanighe, Osteria dei Bordei, Passo degli Orsi)

 

Un uomo di montagna si era recato alla fiera di maggio a Pergine per degli acquisti.

La gente di allora era molto povera e non poteva permettersi il lusso delle scarpe, così calzava degli zoccoli di legno detti “sgalmere” che per maggior durata e per le strade impervie e ghiacciate dell’inverno, sotto erano chiodate.

Quest’uomo, finite le sue compere, si avviò verso Brazzanighe dove si fermò per rifocillarsi, per poi proseguire il suo viaggio verso casa. Anche lui si fermò, come d’abitudine, all’Osteria del Maso dei Bordei. Bevve parecchi grappini e quartini di vino. Intanto si fece notte inoltrata.

Decise allora d’incamminarsi verso la sua abitazione; presa la propria gerla, si avviò su per la strada del Passo degli Orsi. Percorse circa un chilometro e sentendo che le gambe lo reggevano poco si mise a sedere su di un sasso. Di lì a poco vide scendere per la strada un a massa scura con due occhi che luccicavano, che, arrivata ad una distanza di circa dieci metri dal poveretto, si alzò in piedi ruggendo ed alzando le due zampe anteriori che avevano degli artigli lunghi come dita. Era un orso, che aveva fiutato l’odore della carne e del formaggio che l’uomo aveva nella gerla. Quel povero disgraziato fece dietro front ed a salti e lunghi passi, tali che le sgalmere gli toccavano il sedere, arrivò tutto impaurito e trafelato al Maso dei Bordei.

Si presume che da questo avvenimento deriva il nome della strada “Passo degli Orsi”. Come forse qualcuno sa gli orsi non stanno mai nella stessa zona ma si trasferiscono in altri luoghi percorrendo in una notte dai cinque ai dieci chilometri in cerca di una compagna o di cibo.

Si narra poi che, con il passare del tempo, questo orso si era insediato a S. Cristoforo ed impaurito da qualcuno si sia avventurato ad attraversare il lago. Sul lago c’era un pescatore (sig. Corradi) con la propria barca a remi, e visto l’orso che si avvicinava alla barca per aggrapparsi, fu preso dalla paura ed incominciò a vibrare colpi di remo sulla testa del malcapitato uccidendolo. Questo bellissimo esemplare di orso grigio maschio si può tutt’oggi ammirare imbalsamato nella vetrina della Farmacia Crescini del dott. Manauni di Pergine in P.zza Serra.

 

                                  Da: “Mi ricordo che…. “

   Autore: C. Silvestri

 

 

 

 

 

 

3. SUSA’ E “LA CHIESA DAI OCIONI”

(Susà)

 

Il nome Susà deriva dal termine latino sus, suis che significa suino.

Il paese era infatti all'origine il luogo dove gli allevatori di Pergine tenevano i maiali.

Osservando la collina di Susà da Pergine si nota subito che è stata creata da una frana staccatasi dalla montagna.

Ma fenomeni franosi debbono essersi verificati frequentemente in epoche recenti.

Sembra che alcune case poste nella parte alta del paese siano state sommerse proprio da una frana. Nel secolo scorso alcuni contadini conficcavano dei pali in un campo sopra Susà ne videro alcuni sprofondarsi nel suolo e ne dedussero che dovevano essersi infilati in qualche comignolo delle case sepolte.

La chiesa di Susà è conosciuta da molti come "la chiesa dai ocioni" a causa di due grandi rosoni che decorano la facciata verso est. Ma non tutti probabilmente conoscono le traversie che accompagnarono la sua costruzione. Inizialmente al suo posto ve ne era un'altra, molto più piccola che divenne alla metà del secolo scorso insufficiente visto l'aumento demografico che si verifico in quel periodo.

In quell'occasione il paese si spaccò in due. Da una parte si voleva abbattere la chiesa vecchia e costruirne una nuova, dall'altra si voleva mantenere quella già esistente. Prevalse la prima opinione, ma i dissenzienti ottennero almeno di poter scegliere fra i progetti approntarti dall'ingegnere Clariccini quale dovesse essere realizzato. Scelsero il disegno che prevedeva la costruzione più grande, sperando di creare scompiglio degli stessi sostenitori della chiesa nuova.

Credevano infatti che, viste le dimensioni, avrebbero desistito e che comunque non si sarebbe riuscito a portare a termine il lavoro.

E un po' di scompiglio riuscirono a crearlo tanto che alcuni fra coloro che un tempo volevano la nuova chiesa piantarono i fusti di tanti piccoli pini lungo quello che sarebbe diventato il perimetro dell'edificio, per rendere ancora più manifesta la sproporzione fra le dimensioni della chiesa e le esigenze del paese. Nonostante tutto i lavori vennero iniziati nel 1861 e terminarono quattro anni dopo.

Nel 1888 le pareti della chiesa, tanto alte, diedero segnali di cedimento e fu necessario mettere dei grossi ferri a chiave per sostenere le pareti laterali e si murarono dei due rosoni simmetrici a quelli tuttora esistenti, ma che erano situati nel lato opposto che dà sulla piazza.

 

Da: "Mi ricordo che..."

Autore: D. Vitti

 

 

4. UNA CAMPANA ANTICA

(S. Cristoforo, Caldonazzo,  Ischia)

 

L’origine della chiesetta di S. Cristoforo al Lago si perde nella notte dei tempi. Il primo accenno fu trovato in antichi documenti risalenti all’anno 1220.

Ma parliamo della campana che per secoli suonò su quel bel campanile chiamando a se le popolazioni rivierasche che erano per la maggior parte pescatori. Essa porta incisa la data dell’anno 1520.

Negli archivi della parrocchia di Ischia sta scritto che all’epoca dell’invasione napoleonica, la campana fu portata in paese e successivamente collocata sul proprio campanile per sottrarla alla razzia di quelle truppe; li rimase per 160 anni.

Nel 1806 la chiesetta di S.Cristoforo fu sconsacrata e adibita a deposito di raccolti e attrezzi. Invece il racconti degli anziani di S.Cristoforo è diverso: nel 1915 quando l’Austria, allora in guerra, requisiva le campane per fonderie e far ne cannoni, fu deciso di togliere l’antico e prezioso manufatto e nasconderlo sul fondo del lago di Caldonazzo.

Avendo poi saputo che qualcuno aveva fatto la spia alle autorità austriache, una notte la campana fu portata a Ischia, e nascosta in un luogo quasi inaccessibile, chiamato “volt del diaol”.

Alla fine della guerra fu collocata sul campanile della parrocchia dove rimase fino al 1954. Il suo suono non si accordava molto bene con quello delle altre campane, forse per la particolare e antica lega della fusione. Dalla gente era chiamata “la Vecia” e quando arrivano i temporali e la grandine, veniva suonata perché la Madonna col braccio alzato che vi era scolpita, allontanasse la tempesta.

Nel 1927 l’antica chiesetta del colle di S.Cristoforo venne riaperta al Culto e da allora fra la parrocchia di Ischia e la frazione vi furono contrasti per la proprietà della campana.

Finalmente nell’agosto del 1954 venne rimessa al suo posto originale e da allora, e così per i tempi futuri, la “sua” voce chiama alla meditazione e alla preghiera e tutti coloro che la vogliono ascoltare.

 

Da: “Mi ricordo che….”

                                                                                             Autore: G. Corradi

 

 

 

 

 

 

 

5. LE CAMPANE DI RONCOGNO

(Roncogno)

 

Nel 1916 ci fu  un episodio che riportò la chiesa al centro dell'attenzione: l'asportazione delle 2 campane maggiori.

In quell'anno, 2 di esse vennero sacrificate alle esigenze belliche. Imperversava in quell'anno la prima guerra mondiale, primo Impero austro-ungarico aveva la necessità di fornire armi al suo esercito, e così venne decisa la requisizione e la fusione della maggior parte delle campane prive di valore artistico. A Roncogno andavano requisite le 2 campane maggiori, con il diametro più grosso, 92 e 82 cm e con il peso maggiore, 400 260 kg, e ne venne risparmiata una quella più piccola, 240 kg e 76 cm di diametro.

L'asportazione avvenne a cura delle autorità militari, che pagarono 3248 corone.

Il peso complessivo delle 2 campane era 812 kg.

Terminata la guerra, le autorità italiane si assunsero un obbligo di pagare completamento la rifusione delle campane asportate dagli Austriaci, Roncogno decise di chiedere a spese del regio governo 2 campane. Sfortunatamente le rifusioni gratuite vennero sospese nel gennaio del 1923 prima che la domanda, rivolta alla ditta Colbacchini di Trento, potesse essere eseguita.

Privi di finanziamenti  governativi, gli abitanti di Roncogno dovettero provvedere da soli. Fu creato un comitato che raccolse tra la popolazione i fondi necessari e il 5 maggio 1925 venne ordinata alla ditta Colbacchini la fusione non più di 2, ma di 3 nuove campane. I lavori furono eseguiti durante un estate e il 13 settembre le nuove campane furono benedette con una cerimonia solenne.

Alcune informazioni tecniche:

La prima campana pesa 588kg e ha un suono fa diesis

La seconda pesa 403 kg e ha un suono sol diesis

La più piccola pesa 175 kg, risponde al do diesis e porta incisi i nomi dei sette compaesani caduti nella guerra mondiale .

Le campane furono collocate nella loro sede poco dopo la benedizione. Dopo questa vicenda le campane ebbero vita abbastanza tranquilla. Tuttavia ci fu qualche problema nel 1943. Il 5 giugno di quell'anno il Ministero della produzione bellica avvisò il curato che si sarebbe proceduto a una raccolta di campane, come disposto dal regio decreto 505/42. In particolare dalla chiesa di Roncogno il Ministero intendeva asportare campane per 840 kg. Quella raccolta non venne però effettuata perché gli eventi stavano ormai precipitando:  era imminente l'occupazione tedesca istituzionale.

 

Da:  "Storia della chiesa di Roncogno"

Autore: M. Pedron

 

6. LA DOCCIA DEL RIO NERO

(Rio Nero)

 

Anni fa nei nostri paesi la figura del medico era molto rara e ben poche persone potevano ricorrere alle cure di questi professionisti, poiché erano prestate dietro compenso.

C’erano però alcune persone che avevano una notevole abilità nel curare distorsioni, slogature e tanti altri piccoli infortuni. La gente chiamava comunemente  queste persone “Comedaosi”. C’erano poi altre persone che conoscevano il potere delle erbe medicinali e preparavano pomate medicamentose ed intrugli medicinali seguendo delle formule che solo loro conoscevano e per mezzo di queste cose curavano la gente d’innumerevoli malattie. Questi ultimi venivano chiamati “Zerusici”.

Nella casa dove si lavorava il legno di cui ho parlato prima (riferimento ad un altro racconto non riportato), viveva una povera donna, semplice e credulona, che non si era mai sposata e che all’epoca del fatto aveva circa sessant’anni.

Questa donna oltre a tante altre malattie era affetta da reumatismi, artrosi e dolori articolari, per cui un giorno non potendone più, mandò a chiamare uno di questi “Zerusici” per sentire se aveva un rimedio per i suoi mali. Qualche tempo dopo il guaritore andò da questa donna. Questo Zerusico era un uomo scaltro e mattacchione e decise di burlarsi della povera vecchia. Si fece raccontare dalla donna tutti i suoi malanni e dopo, inscenando strane mimiche rituali, consigliò la povera vecchia di spogliarsi completamente, di avvolgersi in un lenzuolo bianco e di fare una bella doccia sotto la cascata del Rio Nero, di fronte alla bottega di Fol, alle ore 23.30 della sera della vigilia di Natale. Questa povera donna fece scrupolosamente tutto quanto le era stato prescritta. Effettivamente tre giorni dopo la cura la vecchietta non soffriva più dei suoi mali poiché era morta di broncopolmonite. I familiari della defunta si misero immediatamente alla ricerca del famigerato Zerusico ma non riuscirono a trovarlo, sembrava scomparso circostanze alquante misteriose.

Tutti trassero una saggia conclusione da questo episodio e cioè che non bisogna fare del male se non si vuole ricevere se stessi del male.

 

Da: “Mi Ricordo Che….”

                                                                                              Autore: C. Silvesti

 

 

 

 

 

7. LA STEMPA DEL ZANUM

(Roveda, Maso del Zanum)

 

Molto, ma molto tempo fa, qui a Roveda nel maso del Zanun c’erano una mamma, un papà e una bella bambina. Queste due persone che avevano molto da lavorare nei prati, portavano con loro la bambina per andare al campo a raccogliere le patate.

Un giorno lasciarono la bambina in fondo al campo nella culla. Alla fine della raccolta delle patate volevano riprenderla per tornare a casa, ma nella culla, invece di trovare la loro bambina bella e pulita, ne trovarono una sporca e brutta che continuava a piangere.

Quella due povere persone non sapevano chi avesse messo lì quella bambina e dove fosse la loro.

La mamma cominciò subito a cercarla dappertutto, ma quando si accorse  che la sua bambina non c’era da nessuna parte incominciò a piangere per la tristezza.

Allora il padre andò da una vecchia del paese a chiederle come potevano fare per riavere la loro bella bambina.

La vecchia consigliò di frustare con un ramo spinoso la bambina brutta e riportarla in fondo al campo, così la Stempa nel sentir piangere la propria bambina sarebbe venuta a prenderla e avrebbe riportato la bambina bella al suo posto.

La madre e il padre fecero quello che la vecchia aveva detto e poi si nascosero dietro a un cespuglio in attesa della Stempa. Dopo un po’, videro la Stempa prendere la bambina brutta e rimettere nella culla la bella, allora saltarono fuori dal cespuglio, presero la loro bella bambina, l’abbracciarono e, da quel giorno, la tennero sempre con loro e non la lasciarono più sola.

 

Da: “Fiaba – Leggenda dell’Alta Valle del Fersina…”

Autore: G. Sebesta

 

 

 

 

 

 

 

 

8. LA CAVERNA DEI LUMI

(Hoabort, Fravort – Roveda)

 

C’era una volta sotto Hoabort (Fravort) una caverna. In quella caverna c’erano accesi molti lumi come se ci vivesse la gente di Roveda. Solo in un particolare giorno dellaanno la caverna si apriva.

Un giorno mentre un giovane andava al pascolo con le sue pecorelle, trovandosi vicino alla caverna, vide seduta su di un sasso la sua madrina che era morta da tempo e si spaventò. Ma la madrina salutò il giovane e lo portò alla caverna per mostrargli quei lumi. Gli raccontò così che ogni lumino corrispondeva ad una persona del paese che sarebbe morta di lì a poco. Il pastorello chiese alla vecchia di mostrargli quale fosse il suo. La madrina si oppose dicendo ”Se te lo faccio vedere diventi triste“.

Il ragazzo però insistette perché glielo facesse vedere, così la vecchia lo condusse vicino ad una piccola lampada con poco olio e, per di più, già torbido.

Allora il giovane  pregò la madrina di riempirla d’olio perché non si spegnesse, essendo lui ancora giovane. Ma la vecchia rispose con tristezza che non poteva e non doveva farlo; poi condusse il pastorello fuori dalla caverna, che tristemente se ne andò verso il suo maso. Pochi giorni dopo il ragazzo morì.  

 

Da: “Fiaba – Leggenda dell’Alta Valle del Fersina…”

Autore: G. Sebesta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

9. LA LEGGENDA DI SERSO

(Serso)

 

Con la venuta del Cristianesimo in Valsugana tutte le comunità si convertivano alla nuova fede. Rimanevano però ostinatamente pagani gli abitanti di Serso. Ogni volta che un prete si inoltrava nel paesino per diffondere la sua religione veniva cacciato a sassate.

Un giorno ne arrivò uno particolarmente determinato a convertire i “Sersati”, ma venne cacciato ugualmente.  Amareggiato dalla cattiva accoglienza avuta si incamminò verso Canezza maledicendoli con li crocefisso in mano: “Serso perverso sette volte perso l’ultimo convertito alla religion di Cristo.”. 

La strada che stava percorrendo il prete si chiuse alle sue spalle con una valanga di roccia e il paese bruciò per sette volte consecutive.

Ora si raggiunge Serso attraverso una nuova strada.

 

Da: “Lo scrigno della memoria.”

Autore: Graziola Demozzi.

 

10. S. GIORGIO E IL DRAGO

(Viarago, Serso)

 

         Le anime pie raccontano che un giorno S. Giorgio passò nei pressi di Viarago cavalcando il suo bianco destriero, quand’ecco che, sulla strada per Serso, un terribile drago sbucò dal nulla facendogli contro.

Il santo avrebbe voluto girare il cavallo e fuggire, ma l’animale, bizzoso e irruento, si lanciò contro il mostro abbattendolo. La lotta, tuttavia, non era ancora terminata, perché da quelle carni fetide uscì sghignazzando il diavolo in persona.

Giorgio, allora, balzò a terra, si inginocchiò e si fece il segno della croce, al che Satana urlò inferocito, scappando per i campi. Apparve in quell’istante la Madonna, che s’avvicinò al Santo e recitò assieme a lui i Rosario.

In quel luogo la gente di Viarago e Serso, che aveva assistito da lontano alla scena, costruì una cappella dedicata a S. Giorgio, come monito ai viandanti contro le tentazioni della vita.

 

Da: “Mille leggende del Trentino ”

Autore: M. Neri

 

 

 

11. IL VIANDANTE PILATO

(Tenna)

 

Numerose sono le leggende che raccontano ciò che avvenne a Pilato, dopo la morte di Cristo.

Alcuni lo vogliono confinato nella città di Vienna e poi reietto tra i monti Cimeni, ove si fece erigere un castello; i rimorsi per aver fatto uccidere il Figlio di Dio, tuttavia, non lo abbandonarono nemmeno un istante, tanto che il malvagio si uccise gettandosi in un profondo burrone, dal quale immediatamente zampillò una sorgente, che originò il fiume Gier.

Altri raccontano che l’infelice romano, abbandonata Gerusalemme, tornò a Roma e qui si gettò, suicida, nelle acque del Tevere. Poiché, però, nemmeno quelle acque volevano saperne di accogliere il responsabile della morte di Gesù, il cadavere venne rigettato a riva; mani pietose lo raccolsero e lo trasportarono in Svizzera, ove ancora oggi riposa nelle gelide profondità del Lago di Pilato, famoso per le sue violente e improvvise tempeste.

Una leggenda più nostrana, per parte sua, afferma che Pilato, abbandonata la reggia di Gerusalemme, vagabondò a lungo per le terre d’Europa in preda al rimorso per ciò che aveva commesso. Un giorno arrivò, stanco e malato, a Tenna:  anche qui, tuttavia, in questo piccolo villaggio incastonato tra i laghi di Caldonazzo e di Levico, ci fu qualcuno che lo riconobbe, per cui, dopo una sosta notturna al Casteller, Pilato riprese la sua peregrinazione e di lui non si seppe più nulla.  

 

Da: “Mille leggende del Trentino ”

Autore: M. Neri

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

12. IL DIRITTO DI PRIMA NOTTE

(Castello di Pergine)

 

Il castello di Pergine sta dormendo nella notte profonda. Solo di quando in quando, dal buio dei boschi intorno, si alza il lugubre canto della civetta. La massa scura del maniero è compatta e si staglia precisa contro il cielo appena velato d’azzurro per quel quarto di luna che occhieggia da dietro una nuvola. Eppure nel silenzio più assoluto si fa strada, a fatica, un pianto lontano: proviene da una delle stanze del castello…

Le pareti del lungo corridoio rimbombano per i nostri passi cauti e incerti, mentre dai finestroni intravediamo, in basso, la piccola corte deserta.

Echi sinistri di fantasmi che si aggirano per stanze e saloni ci accompagnano nel nostro viaggio notturno e… quel pianto triste ci viene incontro più vicino, più chiaro: ci trapana il cervello, entra nel cuore e lo lacera in mille pezzi.

La mano indugia sulla maniglia dell'ultima porta dall’ultimo corridoio: siamo arrivati sin qui, perché aver paura? Apriamo il pesante battente e la penombra d’una piccola stanza ci viene addosso. Un letto a baldacchino, un cassone di legno stagionato, un inginocchiatoio… il lamento, adesso è qui, accanto a noi, illuminato da una candela mezza consunta. Una giovane fanciulla discinta è seduta ai piedi del letto: i lunghi capelli neri le coprono il volto, le spalle, il seno, mentre la veste bianca è strappata all’altezza della vita…

Un fracasso tremendo ci sorprende chini sulla ragazza. La porta va a sbattere contro la parete e facciamo appena in tempo a nasconderci dietro il cassone: un uomo seguito da altri tre, quattro bravacci ubriachi, entra singhiozzando e getta per terra la giacchetta di pelle pregiata.

-Eccola qui, la contadina! – urla sguaiato il signorotto. – Allora: volevi sposarti senza dirmelo, eh? Infilarti nel letto di un uomo con la benedizione di Dio, senza aver pagato quanto dovuto al tuo padrone? Ehi, amici, che ne dite: è già la quinta donna, quest’anno, che viene al castello per il diritto di prima notte. Una bella fatica, essere signori di questo contado… ah! ah! ah!… Su, dai, vieni qui e fammi vedere…

Chiudiamo gli occhi per non essere noi a vedere. Eppure tra le suppliche e le imprecazioni che riempiono quella notte immonda, ci pare di sentire un rumore diverso: ma sì, è il coro di urla di cento e cento villani, armati di torce e forconi, che stanno salendo su per la stradina che conduce al maniero…

Che stia per finire la tragica farsa del diritto di prima notte?

 

   Da: “Mille leggende del Trentino”

Autore: M. Neri

 

 

 

13. LA TORRE DELLE TORTURE

(Castello di Pergine)

 

         Le urla dei condannati rimbalzano impotenti contro le pietre squadrate della torre tonda, senza riuscire a trovare una via di uscita. Nessuno seppe mai, quindi, che cosa avvenisse in  quelle stanze oscure e fumose, tranne naturalmente gli aguzzini e le povere vittime.

Quindi la crudeltà dei potenti aveva raccolto innumerevoli strumenti di tortura, con cui venivano straziati i corpi di uomini e donne colpevoli di chissà quali delitti: stregoneria? Lesa maestà nei confronti dei poveri signori? Oppure anche solo qualche piccolo furtarello o un cervo abbattuto di nascosto?

Non esistono libri o cronache a ricordare questi sommari processi, che quasi sempre terminavano con la morte per fame, lenta e angosciante, in una delle segrete sotterranee sparse qui e la per il castello. Le uniche prove di quei drammi lontani sono, secondo la tradizione, alcune pietre sporche di sangue umano ritrovate molti anni dopo……ma anche di quelle, oggi s’è perso ogni ricordo.

 

Da: “Mille leggende del Trentino”

Autore: M. Neri

 

 

14. LA TORRE DEI COLTELLI

(Castello di Pergine)

 

Non contenti della torre delle torture, gli antichi proprietari del maniero avevano trasformato la parte inferiore del torrione semicilindrico in un autentico trabocchetto. L’ignaro predestinato veniva accompagnato dalle guardie al piano superiore e lì abbandonato da solo per ore e ore: poi, all’improvviso, una botola nascosta nel pavimento si spalancava sotto ai piedi del malcapitato, che precipitava di sotto, ove ad attenderlo c’era una selva di coltelli affilati e di lame di falce. Vi lascio immaginare lo strazio, le urla di dolore e i sussurri più affievoliti degli agonizzanti, che facevano da contrappunto alle musiche e alle danze che, nel frattempo, animavano le sale illuminate del grande palazzo gotico.

 

Da: “Mille leggende del Trentino”

Autore: M. Neri

 

15. LA PRIGIONE DELLA GOCCIA

(Castello di Pergine)

 

La mente umana, quando è in preda al delirio e alla febbre che dà il potere, non conosce limiti per la fantasia più diabolica. Una leggenda racconta, ad esempio, che i signori del castello di Pergine avevano archittetato, per i prigionieri più restii, una orribile tortura tutta particolare. In una delle celle sotterranee più profonde - un bugigattolo largo quel tanto che obbligasse il prigioniero a starsene in piedi, stretto fra le pareti umide e rocciose, con le mani legate a due anelli piantati nel muro e la testa bloccata - la tortura della goccia faceva impazzire anche gli uomini più tenaci e resistenti. Da un forellino nel soffitto, un continuo e persistente gocciolio d’acqua gelida andava a colpire il capo del prigioniero: sempre nello stesso punto, per ore e ore, per giornate intere e per nottate senza fine. Al termine soltanto la follia e quindi la morte potevano lenire il dolore di quell’angosciante martirio, consumato nel buio impenetrabile delle segrete.

 

Da:"Mille leggende del Trentino"

Autore: M. Neri

 

 

 

 

16. GLI SPIRITI DEI CASTELLANI

(Castello di Pergine)

 

E finalmente anche l’ultimo dei signori di castel Pergine morì, rendendo l’anima al diavolo. Ma la perfidia, purtroppo, non conosce le leggi del Signore e infatti, anche dopo morti, i castellani non hanno smesso di perseguitare i loro poveri sudditi.

Nelle notti di luna piena, quando una luce grigia e fredda penetra fin nel profondo dei boschi e si apre a dipingere d’argento l’erba dei prati, il sonno dei contadini e dei pastori è interrotto da un acuto latrare di cani e da un forte rumore di cavalli al galoppo: urla e maledizioni e bestemmie rimbalzano nella valle, perdendosi su per la montagna verso Vignola e Falesina. Già: sono gli spiriti dei castellani, le anime morte di chi ha vessato gli altri in vita e non conoscerà mai la pace eterna. É la caccia selvaggia dei nobili di castel Pergine, che inseguono fino all’alba chissà quale preda.

 

Da: "Mille leggende del Trentino"

Autore: M. Neri

 

17. LA DAMA BIANCA

(Castello di Pergine)

 

Nel 1875, H.S.Olcott ed Elena Petrovna Blavatsky, fondarono a New York un'associazione teosofica che poi trasferirono in India, precisamente ad Adyar. Il loro fine era quello di promuovere l'ideale della fratellanza umana, lo studio delle religioni, della filosofia e delle scienze e di favorire ricerche sui problemi meno noti dalla natura e sulle facoltà psichiche latenti nell'uomo. Apparentemente però le teorie della Blavatsky e di Olcott non trovarono proseliti.

Così dopo aver peregrinato anche per tutta l'Europa la donna finì con lo stabilirsi definitivamente a Londra.

Fra i suoi pochi discepoli però vi era anche Annie Besant. Oggi ella viene considerata una delle più importanti rappresentanti della teosofia moderna.

Nata a Londra nel 1847 fu in gioventù libera pensatrice e propugnò teorie socialiste, per il suo tempo, molto avanzate. Convinta ardente propagandista del teosofismo moderno morì in India nel 1933.

Annie Besant però adottò, ancor fanciullo, Krishnamurti Jiddu nato a Madanapelle nel 1897. Credette di riconoscere in lui un novello Messia e come tale lo presentò. Un po' alla volta, attorno al suo nome, si creò un circolo di credenti che nel 1911 fondarono    l' "Ordine della Stella".

Ma Krishnamurti autentico, profondo pensatore, ad un certo punto si ribellò al ruolo che gli era stato imposto dalla Besant e dichiarò pubblicamente di non essere investito di alcun potere messianico.

Di più. Nel 1929 sciolse l ’”Ordine della Stella”.

In seguito si limitò a tenere conferenze ed a scrivere saggi sullo spiritismo individualistico.

Intanto, dopo la fine della prima guerra mondiale si era trasferito in Europa. Visitò molte località ma soggiornò anche lungamente a Castel Pergine.

Qualche tempo addietro un’ostinata studiosa di scienze occulte, Annie Haldermann aveva sognato di entrare sposa in un maniero chiamato, appunto, Castel Pergine. Lei non aveva mai neppure sentito parlare di quel luogo. Il sogno però le era sembrato tanto preciso, l’immagine del maniero così vivida da sembrare un richiamo. E la Haldermann partì alla ricerca del misterioso maniero.

Dapprima vagò per l’intera Francia, poi si precipitò ad Arezzo nei cui dintorni esiste una località denominata Pergine. Incontrò solo delusioni.

Finalmente, giunta in Trentino, si trovò improvvisamente davanti il castello del sogno.

Saputo che lì soggiornava il grande Krishnamurti con i suoi discepoli, volle conoscerlo e raccontargli la sua storia.

Quindi decise di stabilirsi lì anche lei per poter partecipare alle loro sedute spiritiche.

Ora accadde che una sera, nel corso di una seduta, si manifestasse una diafana figura di donna vestita completamente di bianco. Il volto, bellissimo, sembrava rischiarato da un riflesso rosso, quasi di fiamma. I presenti tentarono di porle delle domande ma il fantasma non rispose mai.

S’inoltrò invece nelle stanze del castello dove venne rivisto quella notte e per molte altre. Non parlava, ma non accennava affatto a svanire. Alla fine divenne un ossessione finché Krishnamurti non fece venire un vescovo anglicano che lo esorcizzò.

Il fantasma della dama bianca sembrò svanire in un ricciolo di nebbia. Ma non per sempre. Qualche volta, dicono, lo si può incontrare ancora a Castel Pergine.

Nessuno però è mai riuscito a sapere chi fosse stata, in vita, quella piccola, triste figura e che cosa cercasse.

 

Da: “Leggende dei castelli del Trentino”

Autore: G. Borzaga

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

18. IL DIAVOLO E LE SUE DONNE

(leggenda della Valsugana)

 

C'era una volta un padre che aveva tre figlie. Un giorno ritornò a casa dal suo lavoro stanco morto e disse alla figlia più vecchia: "Vai nell'orto e prendimi un bel rapanello, perché ho fame". La ragazza andò nell'orto e trovò un rapanello bello e grosso; quando però cercò di tirarlo fuori senti una voce da sottoterra: "Tira, tira, ma non togliermi!".

Noncurante, continuò a tirare, ma invece di estrarlo, venne trascinata sotto. Si trovò all'istante in un enorme e bellissimo prato, in mezzo al quale si alzava un castello.

La donna si avvicinò e lì trovò un uomo - era il diavolo - che la tenne al palazzo come sua sposa. Il diavolo le consegnò tutte le chiavi della casa dicendole: "Potrai entrare in tutte le stanze, ma fai attenzione a non aprire mai la stanza che corrisponde a questa chiave d'oro!".

Dopo che la giovane ebbe promesso, il diavolo le diede una rosa fresca che lei si appuntò al corsetto.

Un giorno, mentre il marito era assente dal castello, lei prese le chiavi e si recò a visitare le stanze. Ne vide una arredata tutta con oro puro, un'altra tutta risplendente d'argento lucido, mentre una terza era colma di biancheria finissima. Alla fine giunse alla stanza proibita; non curante della proibizione aprì anche quella porta e si trovò improvvisamente davanti a fuoco e fiamme - era l'inferno. Senza che lei se ne accorgesse si alzò una fiamma che andò a bruciare la rosa che la donna potava al petto.

Immediatamente lei richiuse la porta e andò a lavorare nella sua stanza. Ben presto rientrò il diavolo che chiese: "Hai visitato il castello?".  "Sì" rispose la donna. "Hai aperto anche la stanza proibita?" "No". Ma quando il diavolo vide che la rosa era bruciata, afferrò la moglie per un braccio, la condusse nella stanza proibita e la gettò nell'inferno.

La seconda sorella, poco dopo, partì da casa per andare a cercare la sorella più anziana e diventò anche lei la sposa del diavolo. Ma si comportò nello stesso modo della prima e venne cacciato nell'inferno.

Anche la sorella più giovane partì in cerca delle due più vecchie e pure a lei capitarono le stesse avventure, solo che lei fu così intelligente da mettere la rosa nell'acqua fresca prima di entrare nella stanza proibita. Quando scarse le due sorelle fra le fiamme dell'inferno, portò subito loro da mangiare; dopo richiuse la porta, rimise la rosa sul petto ed andò nella sua stanza.

Quando rientrò il diavolo, guardò subito la rosa e vedendo la fresca credette alla giovane moglie quando lei gli disse di non essere entrata nella stanza proibita. Nel frattempo la giovane continuò a pensare un sistema per liberare e sorelle e se stessa. "Ascolta, mio sposo", gli disse un giorno, "potrei mandare un po' di biancheria a casa mia?" "Manda quello che vuoi! "rispose il diavolo. Allora la ragazza fece venire di nascosto la sorella più vecchia, la mise in una cassa, che depose davanti alla porta, dopo averla avvisata: "Quando ti accorgerai che il diavolo vorrà aprire la cassa tu grida: "Io ti vedo!" Dopo chiese allo sposo: "Chi può portare la cassa fino a casa mia?" "Lo farò io" rispose lui. Tutta contenta al donna lo ammonì: "Ti proibisco però di aprire la cassa e devi credermi se ti dico che ti posso vedere in qualunque posto tu sia!" Il diavolo partì con la cassa, ma dopo aver percorso un bel pezzo di strada, poiché la curiosità lo torturava, mise giù la cassa e cercò di aprirla. La ragazza allora gridò: “IIIo ti vedo” il diavolo sbianco per la paura e portò la cassa a casa della moglie senza aprirla. La sposa del diavolo fece portare in una cassa anche la sorella e architettò un piano talmente perfetto che anch'essa fu portata a casa dal diavolo.

Le sorelle furono così felicemente liberate e il diavolo si accorse troppo tardi dell'inganno subito e ancora oggi aspetta che ritornino anche se invano perché loro sono già da tempo entrate nel paradiso celeste.

 

Da: “C’era una volta: fiabe e storielle trentine. ”

Autore: C. Schneller

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

19. LA STREGA MALVAGIA

(leggenda della Valle dei Mocheni)

 

C'era una volta un contadino che possedeva una montagna, dove conduceva il bestiame in estate. Tutti i pastori però, vi finirono male, senza che si sapesse come. Allora usci per cercare un nuovo pastore ed incontrò un ragazzo. Gli chiese: Dove vai? Il ragazzo rispose: - Cerco un lavoro perché sono povero.

Allora il contadino disse: Vieni da me, ma devi sapere che ho una montagna e quanti servi ho mandato lassù, tanti sono stati uccisi ed anche tu devi andar su per custodire le vacche. Cosa vuoi dunque in compenso?

Il ragazzo disse: Vado volentieri sulla montagna, ma voglio un bravo cane con me ed alla fine dell'anno 100 Gulden. Il contadino fu d'accordo per l'affare.

Il ragazzo andò con lui e custodì diligentemente sulla montagna le vacche, ad una delle quali aveva appeso al collo un campanaccio.

Una sera aveva condotto a casa il bestiame e acceso il fuoco per cuocersi la polenta nel paiolo. Era rimasto solo il cane al suo fianco. Quando venne una strega e si mise davanti alla porta, il ragazzo gridò: Chi sei tu vecchia orrenda? Se non sei il diavolo vieni avanti. Mi chiamo lo Stesso. Allora la vecchia disse: Lega prima il cane. Il pastore legò il cane con una fune marcia, la strega venne avanti e voleva divorare il ragazzo, ma questo gridò al cane: Huss, prendila! La bestia tranciò la fune marcia e saltò libera sulla strega Questa corse via ed il cane dietro a lei.

Allora si rintanò in un fascio di paglia, il servo le corse dietro ed accese i rami secchi. Allora la strega gridò: Iuja mi brucio. Allora sono venute le altre streghe che non erano molto lontane di lì e le hanno chiesto: Chi è che ti a dato fuoco? Essa gridò: lo Stesso è stato. Allora le altre dissero: Se sei stata tu stessa, è danno tuo.

E cosi fini la leggenda di una strega molto malvagia.       

 

Da: “Fiaba - Leggenda dell’Alta Valle del Fersina”

Autore: G. Sebesta

 

 

 

 

 

 

 

20. LA BUSA DEI GASPERINI

(Doss del Pòstel, Rio Nogarè, Laghestel, Canzolino, Brusago)

 

L'altopiano di Pine era, un tempo, dei briganti. Bande di malfattori si nascondevano spesso nel profondo delle selve o trovavano rifugio in anfratti naturali, dai quali partivano per brevi e rapide spedizioni ladresche ai danni della pacifica gente della zona. Ai piedi del Doss del Pòstel, ad esempio, che domina la valle del Rio Nogarè e la conca del Laghestel, si apriva una grotta col nome di Busa dei Gasperini, abitata da una famiglia composta tutta da ladri, terrore dei contadini e delle anime timorate di Dio.

Ma come sempre succede, anche la malvagità e i crimini non durano in eterno. Un giorno, infatti, la combricola di briganti si spinse fino a Canzolino, ove rubò un'intera mastella colma di vestiti appena lavati. Uno strano bottino, direte voi ma a ben guardare possiamo capire quei poveri ladri: abitare giorni e notti in una grotta, senza mai potersi lavare e cambiare d'abito... chissà come saranno sembrati belli e preziosi quei freschi di bucato!

Il fatto però, che i derubati avvisarono immediatamente i gendarmi, scoprirono, su per il sentiero che portava all'altopiano, la traccia inconfondibile delle gocce cadute dalla mastella. Si lanciarono allora, all'inseguimento di briganti e li avrebbero senz'altro sorpresi nella loro grotta, se i cattivi non fossero stati avvisati appena in tempo da una sentinella, che diede loro il tempo di fuggire in direzione di Brusago. Da quel giorno la Busa dei Gasperini rimase vuota e di quella famiglia di briganti non si senti più parlare.

 

Da: “Le mille leggende del Trentino”

Autore: M. Neri

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

21. LA CHIOCCIA

(leggenda della Valsugana)

 

Due giovani sposi se ne stavano alla sera nel loro letto, sotto al quale avevano messo una chioccia che stava covando alcune uova in un cestino.

"Come è bello", cominciò la donna, "avere una chioccia così brava; sono felice se penso ai pulcini...e dopo avremo altre uova!" " Quelle le potrai vendere", disse l'uomo; "i soldi li metteremo da parte e ci compreremo alcune oche.

Fanno delle uova ancora più grosse, le oche, hanno le piume più belle ed infatti si addicono ad una casa più delle galline!" "Sono d'accordo" disse lei; "le oche dovranno fruttare molto più delle galline.

Però, tesoro, dopo voglio anche un maiale; lo alleveremo, lo ingrasseremo, venderemo la sua carne ed il prosciutto e alcuni buoni pezzi resteranno anche per noi. Allora sì che guadagneremo soldi! Sono proprio contenta, già da adesso!" "Sono contento anch'io", rispose !'uomo " così potremo comprare un vitello, alleveremo anche lui, in modo che diventi una bella mucca, che ci darà del buon latte, col quale faremo burro e formaggio e questo ci farà guadagnare delle belle somme!" "Allora dovrai comprarti anche un bel cavallo", fece lei, " perché senza cavallo una bella casa sarebbe triste". " Non uno, ne comprerò, ma due e dovrò avere anche un carro!" la interruppe lui. "sai tesoro, poi andremo a passeggio molto spesso.

Che gioia sarà! Io starò seduto in cassetta e farò schioccare la frusta... così!" A queste parole l'uomo si alzò e imitò con gesti molto vivaci i movimenti del braccio di un cocchiere che sta schioccando la frusta.

Ma -;/ crack!- si ruppe il letto, che schiacciò la chioccia assieme alle uova.

 

Da: “C’era una volta: fiabe e storielle trentine. ”

Autore: C. Schneller

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

22. I DUE DECANI E LA POTENZA DELLA PREGHIERA

(Pergine, Levico)

 

Un giorno, com’era suo solito, il decano di Levico andò in visita al suo collega di Pergine. Avevano un bel caratterino entrambi, ma si ritrovavano con piacere, di quando in quando, per parlare del più e del meno. Certo, però, che nessuno dei due voleva esser da meno dell’altro, per cui le loro discussioni, quasi sempre, finivano in sonore litigate, che offrivano materia di gran risate sia alla gente di Levico, sia a quella di Pergine.

-Vedessi come sono fiorite le rose nel mio giardino - disse provocatoriamente quel giorno il decano di Levico.

-Vieni, vieni con me, che ti faccio vedere i miei rosai! Schiatterai d’invidia nel veder come sono diventate grandi e profumate le mie rose! - Ribattè infervorandosi il decano di Pergine:

-Se è per quello io concimo i miei fiori ogni settimana…

-E io un giorno sì e uno no!

-Io invece zappo la terra delle aiuole quasi ogni sera…

-Tutte le mattine all’alba io mi sveglio e vado a rimuovere la terra secca. Tutte le mattine, domenica compresa!

-…e non c’è traccia di pidocchio a morire!

- se è per questo, di pidocchi nel mio giardino non c’è la minima ombra…

-Ma tu non sei capace, come lo sono io, di far piovere dopo un bel periodo di siccità!

-Cosa? Tu credi che io non sappia fare una cosa così… così… così stupida? Ma allora non mi conosci: bastano due o tre preghierine giuste e faccio venire non solo una pioggerella leggera leggera come la tua, ma anche un bel temporale e, se proprio proprio, pure una sonora grandinata!-reagì li decano di Pergine.

-Ma fammi il piacere-sbuffò il decano di Levico. – L’hai detta proprio grossa. Senti, guarda: lascio perdere questi discorsi. Adesso devo tornare a casa, per cui ti saluto e… cerca di non inzupparmi, sulla strada del ritorno, con i tuoi temporali! Ah! Ah! Ah!

Il decano di Levico prese il suo cappello, salutò sghignazzando l’amico e prese la via di casa. Il decano di Pergine, però, non riuscì a digerire gli sberleffi dellaaltro: camminò a lunghi passi su e giù per la sagrestia, rimuginando quanto era suuccesso poco prima.

“Non posso lasciargliela passare tranquilla! Mi ha offeso, non ha creduto alle mie parole… mi ha sfidato e non posso tirarmi indietro!”.

Rosso in volto per l'ira e tutto sudato, il prete andò a inginocchiarsi all'altar maggiore e cominciò a pregare intensamente.

-Mio buon Signore, padrone del cielo e della terra, aiuta per una volta questo umile servo prostrato al tuo altare. Non chiedo nulla per me: fai solo venire un bel temporale... - e un tuono borbottò in lontananza - ..proprio sulla strada che da Pèrgine porta a Lévico... - e il borbottìo si spostò in direzione del lago di Lévico e della Panarotta un temporale come si deve, però... - e il tuono si fece più forte e minaccioso un signor temporale, con gocce d'acqua così grosse, che ne basterebbero due o tre per inzuppare un toro... - e prese a piovere a dirotto, in tutta la zona lei colle di Tenna, della piana di Levico e del monte di Vetriolo - … ecco, così va bene. Però quel disgraz... ehm, quel buon decano si merita una bella lezione. Perciò, Signore, non appena arriva in piazza a Lévico, fai cadere tanta, ma tanta di quella grandine, che sappia finalmente chi è il più forte dei due! - Detto questo, il decano di Pèrgine si alzò faticosamente in piedi e andò alla finestra, per seguire a distanza l'evolversi della sfida.

Solo quando gli parve che il temporale fosse scemato, chiamò il sacrestano e lo spedì in tutta fretta a Levico, per vedere di persona la faccia dell'altro decano e poi riferirgli quanto avrebbe ancora avuto il coraggio di dire.

Passarono alcune ore e solo a notte fonda il sacrestano fu di ritorno. Ma la sua faccia non lasciava presagire nulla di buono.

- Be', che è successo? - chiese il decano di Pèrgine, correndo sul sgrato della chiesa. L'uomo se ne stava lì, silenzioso in mezzo alla piazza, circondato la un bel gruppo di paesani, stropicciandosi il cappello tra le mani e guardandosi la punta delle grosse scarpe di cuoio grezzo.

- Ma insomma, vuoi parlare?

- Ecco... io ho fatto quello che mi avete ordinato...

- E allora?

- …sono andato in tutta fretta a Lévico. Arrivato all'ingresso del paese, ho subito notato una gran confusione: gente che correva da una casa all'altra, chiamando a gran voce i vicini. «Portate secchi e badili! Fate presto, per carità! Venite, venite!». Mi son fatto coraggio e sono giunto in piazza: be'... ecco...

- Be' ed ecco un corno! - lo interruppe urlando il decano di Pèrgine. - Vuoi dirmi che cosa c'era, in piazza a Lévico?

 - U...una montagna, sì, una montagna di grandine alta quasi come il campanile della chiesa! - E il decano impallidì impercettibilmente. - Mai vista tanta grandine tutta insieme... e quelli di Lévico erano lì, con secchi e badili, a cercare si liberare qualcuno che probabilmente era sepolto da quella valanga di ghiaccio. – E il decano impallidì visibilmente. – Solo dopo un bel po’ ecco una mano, poi un braccio… oddio, una manica nera…chi aveva un vestito del genere in paese? Soltanto il buon decano! – E il decano di Pergine sbarrò gli occhi. – E infatti dopo l’ennesima badilata, ecco il volto pallido e immobile del prete. Morto soffocato da quella tremenda grandinata! – E il decano stramazzò svenuto sul sagrato.

Potenza della preghiera!

La storia non racconta che fine fece il decano di Pergine. Ma se sopravvisse alla tremenda avventura, c’è da giurare che con il nuovo decano di Levico evitò accuratamente di cacciarsi in sfide dall’esito così letale.

 

Da: “Le mille leggende del Trentino”

Autore: M. Neri

 

Fonte: http://www.archivio.vivoscuola.it/libri&natura/doc/leggende.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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