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L’arte culinaria del XII secolo

La cucina è specchio della società.
Nei sec. XIII e XIV compaiono i primi libri di cucina.
Le fonti antecedenti sono scarse. Il documento più antico è un menu del XII sec. riferito alla realtà di Milano: si tratta della lista delle portate di un pranzo offerto dai monaci di un monastero milanese ai canonici della chiesa di San Satiro. Il pranzo è costituito da nove piatti, suddivisi in tre portate, pressoché tutti a base di carne (simbologia religiosa del numero tre nella religione cristiana). È un menu costruito “per accumulo” in cui la varietà delle carni e delle preparazioni ha il fine di soddisfare tutti i gusti. Il menù ci è pervenuto solo perché i canonici, insoddisfatti dell’ospitalità ricevuta, fecero causa al monastero e il testo è riportato nella sentenza conclusiva della controversia.
La carne è la protagonista principale della cucina medioevale (diversamente da quanto accadeva in epoca romana in cui era il pane ad essere prevalente) perché i trattati di dietetica medioevale, influenzati dalle consuetudini alimentari del mondo germanico, sostengono che è la carne l’alimento che nutre di più.
La carne è un elemento importante nell’alimentazione di tutte le classi sociali ed è presente anche sulle tavole contadine, grazie alla pratica dell’allevamento e della pastorizia.
Ma la carne è anche un segno del prestigio sociale e questo aspetto, col passare del tempo, acquista sempre più importanza. La carne, infatti, diminuisce sulle tavole povere nel momento in cui viene precluso ai contadini l’uso dei boschi che diventano riserve signorili.
Sulle tavole povere prevale il maiale nelle diverse preparazioni degli insaccati. Sulle tavole dei ricchi, invece, la carne, proveniente dalle attività di caccia, è fresca e varia.
Come si cucinava la carne? Sostanzialmente secondo tutte le modalità in uso ancora oggi, ma con una distinzione fondamentale: i bolliti sono tipici della cucina povera perché consentono di utilizzare tutto quello che la preparazione può dare, compreso il brodo, e richiedono una cottura lenta, che si svolge in casa ed è affidata alle donne; mentre gli arrosti sono una prerogativa delle tavole dei signori, rimandano all’idea di pratiche maschili legate al mondo della caccia (legna, fuoco, spiedo, aria aperta). In sostanza le due tecniche di cottura rinviano a modi simbolici diversi di rappresentare il ruolo ricoperto all’interno della società. (Le fonti materiali che hanno portato a queste conclusioni sono i reperti ritrovati nei siti nobiliari - spiedi - e nelle abitazioni contadine -pentole). Non è possibile per un principe medioevale rappresentare se stesso come un mangiatore di carne bollita… e infatti la “malattia professionale “ della nobiltà è la gotta.
La carne deve essere accompagnata dalle salse. Sono salse magre, a base di erbe, spezie, aceto, vino, agrumi; questi ultimi ingredienti costituiscono una base acida. Le spezie sono prerogativa della cucina ricca, ma non è vero che servissero a coprire il sapore della carne avariata in quanto, come si è visto, sulle tavole dei signori la carne era sempre disponibile, fresca e varia. Le spezie sono amate dai ricchi signori perché sono costose, danno prestigio, vengono da lontano (addirittura dai luoghi che nella geografia fantastica medioevale si pensava fossero la sede del paradiso terrestre). Sono dunque uno “status symbol” dell’epoca. Oltre a ciò, i medici del tempo sostengono che sono salutari e fanno bene perché “riscaldano lo stomaco”, e questo in base alla convinzione che la digestione fosse analoga ad un processo di cottura.
La quantità di spezie utilizzate è direttamente proporzionale al grado di nobiltà. È una vera “follia delle spezie”, tanto che la Chiesa e i moralisti si scagliano contro il loro abuso.
Le salse contadine invece sono a base di erbe (come la nostra salsa verde, ma senza olio).
Tratto centrale del gusto medioevale è la complessità, cioè la tendenza a mettere insieme sapori diversi: “una cucina sintetica” che tende all’agro/dolce/piccante (come la mostarda cremonese che può essere considerata un “fossile” della cucina medioevale).
Perché questa tendenza a mischiare? Perché i sapori rappresentano le qualità dei cibi che, nella loro diversità, contribuiscono a comporre l’armonia della natura. L’intento è dunque quello di ricreare tale armonia anche nelle preparazioni gastronomiche (è lo stesso principio su cui si fonda ancora oggi la cucina cinese, che si ispira all’equilibrio degli elementi Yin e Yang).
Ci sono giorni e periodi dell’anno in cui la carne è vietata (circa 130-140 giorni), ma vietare la carne ha senso in una cultura in cui la carne è fondamentale. E più la carne è grassa, più è pregiata.
Mangiare di magro significa sostituire la carne con pesce e formaggio, laddove il pesce è pesce d’acqua dolce.
Per quanto riguarda i formaggi, a partire dal XII sec. cominciano a comparire prodotti di qualità per la cui preparazione viene utilizzato il latte vaccino, mentre nell’alto Medioevo il latte utilizzato era quello di pecora. Il più importante è il parmigiano, altrimenti detto lodigiano o piacentino a seconda dei luoghi di produzione. Fino al XII sec. viene consumato grattugiato sulla pasta condita con burro, cannella e zucchero (la prima ricetta di pasta al pomodoro è dell’800). La pasta (cibo di magro) è pasta fresca in area padana, mentre è secca nel Meridione (già nel XII sec. a Palermo è documentata l’esistenza di una produzione industriale).
Tipico alimento della cucina medioevale sono le torte che possono essere ripiene di carni, verdure o formaggi. Si può anzi affermare che la torta sia una vera e propria “invenzione” culinaria di questo periodo. Essa è presente in tutta Europa, soprattutto in Italia e ancor di più nell’Italia settentrionale. La diffusione dell’uso delle torte si spiega con la presenza nelle città di forni pubblici di uso comune: la torta è una soluzione pratica e comoda da trasportare, sia da cruda, sia una volta cotta.
Se consideriamo la cultura della pasta unita alla cultura delle torte, ci spieghiamo come sia nata la cultura dei tortelli, cioè delle paste ripiene (un trattato di cucina medioevale ne attribuisce l’invenzione a una contadina padana).
Nel linguaggio medioevale c’è una netta distinzione tra tortelli e ravioli. Il raviolo considera quello “che sta dentro”, il tortello invece prende in considerazione ciò “che sta fuori”.
Il pane, nel Medioevo, non è un alimento così scontato come lo è per noi. Il pane bianco è consumato solo nelle città, più precisamente nei monasteri e nelle case signorili. In campagna il pane si produce con segale, miglio e panìco (simile al miglio); quest’ultimo viene preparato anche sotto forma di polenta (il mais non esiste ancora in Europa, in quanto è una pianta originaria del continente americano). In campagna si consumano comunemente zuppe d’orzo e di farro oltre che minestre d’avena. Questi, che oggi sono considerati cereali minori, cioè meno pregiati del frumento, in realtà non sono di qualità inferiore e non sono assolutamente sgradevoli sotto il profilo del gusto. È stata l’ideologia dominante che li ha svalutati per marcare le differenze sociali.
Secondo Bonvesin de la Riva, i contadini lombardi mangiano panìco, castagne e fagioli, non i fagioli originari dell’America, ma i fagioli cosiddetti “dall’occhio”, una varietà di origine mediterranea.
Esiste nel Medioevo una cucina locale? Sì, a livello contadino, perché a base di prodotti locali. No, se ci si sposta in città. Una delle caratteristiche della cucina medioevale è quella di non apprezzare le cucine locali, in quanto identificate con la cucina contadina e quindi povera. L’idea della cucina del territorio è un’idea molto recente. Nel Medioevo mangiare i prodotti del territorio è una cosa da “villani” cioè da contadini. Dunque la cucina “alta” è una cucina “internazionale”, un po’ come quella che noi oggi chiamiamo “fusion”.
Il più antico ricettario che ci è pervenuto risale al XIV secolo. Se si confrontano i libri di ricette di quel periodo, ci si rende conto che ricorrono invariabilmente gli stessi piatti e le stesse preparazioni, a dimostrazione del fatto che siamo di fronte a una cultura culinaria diffusa internazionalmente.
Come più sopra già affermato, la cucina medioevale sottolinea le differenze sociali.
Per il periodo considerato si deve dunque parlare di cucine cittadine e non regionali. La città assorbe, riassume ed esalta i valori culturali gastronomici del territorio. Ne è una prova il fatto che il prodotto rurale, ad esempio il formaggio prodotto nel contado di Parma, prende il nome dalla città che è dominante su quel territorio. In questo modo la città si rappresenta come il centro e il mercato del suo territorio.
(Appunti della lezione tenuta a Lodi il 15 novembre 2008)
Prof. Massimo Montanari (Università di Bologna)

fonte: http://www.bassi.gov.it/documents/DFUSARI/LA%20CUCINA%20MEDIOEVALE.doc

 

 

 

 

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