I quanti di radiazione fotoni

 

 

 

I quanti di radiazione fotoni

 

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I quanti di radiazione fotoni

 

In definitiva, nonostante gli eccezionali risultati ottenuti, la teoria ondulatoria della luce, non era in grado di dar ragione di tre problemi: lo spettro di emissione del corpo nero, gli spettri a righe, l'effetto fotoelettrico.

 

La svolta si ebbe nel Natale del 1900, quando Max Planck ebbe un'intuizione che, come ebbe a dire egli stesso, fu più un atto di disperazione che una vera e propria scoperta scientifica.

Nel tentativo di trovare una equazione che descrivesse correttamente  la curva di corpo nero, Planck propose che le onde elettromagnetiche non potessero essere emesse da un radiatore ad un ritmo arbitrario e continuo, ma solo sotto forma di pacchetti d'onde che egli chiamò quanti.

Ogni quanto possedeva una certa quantità di energia che dipendeva dalla lunghezza d'onda della luce, secondo la relazione:

E = h n

dove n è la frequenza della radiazione e h è una nuova costante, detta costante di Planck .

 

Dalla relazione appare evidente come un quanto di luce rossa possa contenere meno energia di un quanto di luce blu. In tal modo un corpo emittente ad una certa temperatura potrebbe avere energia sufficiente per emettere quanti di luce infrarossa o gialla, ma potrebbe non avere sufficiente energia per emettere neppure un quanto di radiazione X o gamma. In tal modo ad alte frequenze il numero di quanti emessi si ridurrebbe drasticamente (e ciò spiegherebbe ad esempio il paradosso di Jeans).

La cosa incredibile fu che la curva di corpo nero così calcolata era in perfetto accordo con i dati sperimentali .

 

L'introduzione della costante di Planck che inizialmente poteva sembrare più che altro un espediente per salvare i fenomeni, risultò invece portare con sé una serie di novità sconcertanti e rivoluzionarie all'interno della fisica. Con essa nasce quella parte della fisica moderna che va sotto il nome di meccanica quantistica e di cui avremo modo di parlare in seguito.

 

Planck non portò alle estreme conseguenze il concetto di quanto di radiazione. Si limitò semplicemente a verificare che nel caso particolare in cui la materia emetteva radiazione non lo faceva  come un flusso continuo, secondo le leggi dell'elettromagnetismo classico, ma, per qualche misterioso motivo, attraverso scariche di particelle di energia dette quanti. L'ipotesi quantistica di Planck ruppe definitivamente con l'idea del continuo per l'energia.

 

La luce non poteva dunque più essere considerata semplicemente un fenomeno ondulatorio, visto che, almeno in questo caso particolare, i fisici erano costretti a descriverne il comportamento attraverso un modello corpuscolare. D'altra parte il modello corpuscolare quantistico era inapplicabile per spiegare fenomeni  tipicamente ondulatori come la diffrazione e l'interferenza.

 

Nasce l'idea di un comportamento duale della luce, la quale richiede due modelli, apparentemente in reciproca contraddizione, per essere descritta. Si utilizza il modello ondulatorio per descrivere i fenomeni di propagazione della radiazione elettromagnetica. Si utilizza il modello corpuscolare per descrivere i fenomeni di interazione con la materia (emissione ed assorbimento).

 

Pochi anni più tardi, nel 1905 Einstein confermò la descrizione quantistica della radiazione, utilizzando l'ipotesi di Planck  per spiegare l'effetto fotoelettrico, fenomeno inspiegabile sulla base della teoria ondulatoria.

 

 

EFFETTO FOTOELETTRICO

L'effetto fotoelettrico, scoperto da Hertz, consiste nell'emissione da parte di un metallo di elettroni quando venga colpito da radiazione elettromagnetica di una certa lunghezza d'onda, tipica per ogni metallo. Partendo dal presupposto che l'onda incidente ceda parte della sua energia agli elettroni del metallo, aumentandone in tal modo l'energia cinetica fino ad estrarli e applicando dunque la teoria elettromagnetica classica a questo fenomeno ci si attende che gli elettroni vengano strappati da qualsiasi radiazione purché sufficientemente intensa. In altre parole il modello elettromagnetico prevede che usando luce di qualsiasi colore e cominciando ad aumentarne l'intensità si arriverà ad un punto in cui gli elettroni avranno energia sufficiente per uscire dal metallo. Aumentando ulteriormente l'intensità luminosa gli elettroni dovrebbero uscire con maggiore energia cinetica. L'effetto fotoelettrico avveniva invece con caratteristiche completamente diverse.

  • Gli elettroni cominciano ad uscire solo quando il metallo viene investito da una radiazione avente una ben precisa lunghezza d'onda (frequenza di soglia). Utilizzando luce di maggior lunghezza d'onda, anche se molto intensa, non si ottiene alcun effetto.
  • Utilizzando luce di giusta lunghezza d'onda ed aumentandone l'intensità non si ottiene la fuoriuscita di elettroni più energetici, ma di un maggior numero di elettroni aventi sempre la stessa energia cinetica
  • Utilizzando luce di lunghezza d'onda inferiore a quella di soglia si ottiene la fuoriuscita di elettroni più energetici.

Tale comportamento risultava refrattario ad ogni tentativo di spiegazione che utilizzasse il modello classico. Einstein suggerì dunque di trattare la radiazione che colpiva gli elettroni come  particelle di energia E = hn, che egli chiamò fotoni. Detto W il lavoro necessario per estrarre un elettrone dall'atomo, solo i pacchetti di energia per i quali vale hn = W saranno in grado di estrarre gli elettroni.

Aumentando l'intensità luminosa di una radiazione a bassa frequenza, costituita da fotoni non sufficientemente energetici, non si fa che aumentare il numero di fotoni incidenti. Ma ciascuno di essi è sempre troppo debole per estrarre gli elettroni.

 

Il lavoro di Einstein mise in evidenza il fatto che la radiazione mostrava un comportamento corpuscolare non solo nei fenomeni di emissione, ma anche in quelli di assorbimento.

 

Il lavoro sull'effetto fotoelettrico è uno dei tre articoli, fondamentali per la fisica del '900, che Einstein pubblicò nel 1905 nel 17° volume degli Annalen der Physik.

Gli altri due trattavano della relatività speciale e del moto browniano. Quest'ultimo fu un problema che allora non ricevette l'attenzione dovuta, visto l'enorme impressione prodotta dalla teoria della relatività. Ma in esso vi era in pratica la prova dell'esistenza degli atomi.

 

Nonostante fosse stato fino ad allora raccolto un numero notevolissimo di dati che confortavano l'ipotesi atomica (il numero di Avogadro era stato ad esempio calcolato in una ventina di modi diversi, dando sempre lo stesso risultato), questa sembrava sfuggire a qualsiasi verifica diretta.

Verso la seconda metà dell'Ottocento la maggior parte dei fisici sotto l'influenza della filosofia positivista pensava che la fisica potesse e dovesse evitare qualunque ipotesi sulla struttura della materia.

Fisici positivisti come Pierre Duhem, Wilhelm Ostwald ed Ernst Mach, ritenevano che la scienza dovesse limitarsi ad interpretare solo i fenomeni constatabili direttamente attraverso i sensi, senza costruire modelli che non potessero avere un supporto empirico ed intuitivo.

Tuttavia l'atomismo aveva acquistato nella seconda metà dell'Ottocento consistenza scientifica grazie al lavoro di chimici e cristallografi. Abbiamo già detto di come l'ipotesi atomica si era rivelata utile per descrivere le reazioni chimiche conformemente alle quantità di materia messe in gioco.I cristallografi R.J.Hauy e, poi, R.Bravais interpretarono le proprietà dei cristalli attraverso l'idea di un giustapposizione ordinata e regolare di elementi puntiformi a formare reticoli geometrici.

La stessa meccanica statistica fondò tutti i suoi brillanti risultati sul presupposto che i gas fossero formati da un numero enorme di particelle in moto disordinato.

 

Per dimostrare l'esistenza degli atomi Einstein si ricollegò ad una osservazione fatta dal botanico inglese Robert Brown, il quale aveva verificato che i granelli di polline presenti in sospensione nell'aria o nell'acqua, osservati al microscopio, presentano uno strano moto disordinato, con rapidi cambi di direzione (moto browniano). Einstein dimostrò, utilizzando la meccanica statistica, che il moto browniano poteva facilmente essere spiegato ipotizzando che i granelli di polline fossero bombardati dalle molecole del mezzo in costante agitazione termica.

 

La prova decisiva sulla natura corpuscolare della luce si ebbe nel 1923 quando venne scoperto l'effetto Compton, in cui i fotoni si comportano a tutti gli effetti come particelle, scambiando quantità di moto nell'urto con gli elettroni. La quantità di moto di una particella è p = mv, mentre la quantità di moto di un fotone pg, che non possiede massa, si calcola eguagliando la relazione di Einstein E = mc2 con la relazione quantistica dell’energia E = hn ed, esplicitando mc, si ottiene

                                                          

 

 

Effetto Compton

Compton aveva intuito che gli elettroni più esterni di un atomo erano debolmente legati e, se colpiti da proiettili sufficientemente energetici, potevano essere considerati pressoché liberi.

Egli utilizzò come proiettili fotoni appartenenti a radiazione X, quindi molto energetici. Quando la radiazione X passa attraverso la materia essa viene diffusa in tutte le direzioni ed emerge con frequenza tanto minore quanto maggiore è l'angolo di diffusione.

Si può facilmente interpretare il fenomeno in termini di teoria dei quanti.

Quando il fotone X di energia E = hn urta un elettrone gli cede una parte della sua energia e quindi della sua quantità di moto, emergendo con un energia e quindi con una frequenza minore È = hn'.

L'urto tra il fotone e l'elettrone può essere trattato come un normale urto elastico tra due sfere rigide.

L'elettrone, supposto fermo, viene deviato e si può facilmente verificare che la quantità di moto acquistata dall'elettrone (poiché l'elettrone può acquistare velocità molto elevate è necessario usare l'espressione relativistica della quantità di moto) è pari a quella persa dal fotone.

Nel caso avvenga una collisione frontale la sfera ferma (elettrone) verrà scagliata ad alta velocità nella direzione dell'urto, mentre la sfera incidente (fotone X) perderà una notevole frazione della sua quantità di moto.

Nel caso di un urto obliquo la sfera incidente (fotone X) perderà minore quantità di moto a favore della sfera ferma e subirà una piccola deviazione rispetto alla direzione dell'urto.

 

 

Nel caso di un urto di striscio la perdita di energia del fotone sarà minima e minima la deviazione rispetto alla sua traiettoria.

Si tenga presente che mentre per l'elettrone, che possiede massa, la quantità di moto vale p = mv, per il fotone che possiede solo energia è necessario utilizzare la relazione di Einstein E = mc2 per calcolare la quantità di moto. Eguagliando tale relazione con la relazione quantistica E = hn si ottiene la quantità di moto del fotone

                                                                              p = mc = hn/c

Naturalmente la quantità di moto del fotone deviato sarà minore di quella iniziale, e tale diminuzione può essere direttamente verificata in termini di diminuzione della frequenza, visto che h e c sono due costanti.

                                                                              p' = hn'/c

 


6.626 068 76 10-34 Js

relazione di Planck   o, ricordando che c = , con k costante di Boltzmann e c velocità della luce

 

Fonte: http://digidownload.libero.it/quintaachimica/CHIMICA.doc

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