Giacomo Leopardi canto notturno di un pastore errante dell'asia

 

 

 

Giacomo Leopardi canto notturno di un pastore errante dell'asia

 

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Giacomo Leopardi canto notturno di un pastore errante dell'asia

 

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DEL’ASIA

RIASSUNTO
In questa poesia Leopardi contemplando il cielo stellato, nel silenzio della notte in solitudine si domanda il perché della realtà e non sa darsi una spiegazione raziona ledi tutto ciò che lo circonda. Descrive questo pastore errante che è attratto dalla bellezza delle stelle e della luna, e le ammira con stupore. Si domanda perché esistono e attraverso  di loro si accorge del mistero dell’universo, la stessa cosa succede agli uomini i quali si rendono conto di esistere in questo universo e si domandano il perché. Leopardi nei suoi versi scrive che è incapace di afferrare il senso delle cose e conosce solo l’infelicità, ma in realtà nelle sue poesie l’uomo aspira alla felicità e all’eternità. Il poeta è diviso dall’educazione ricevuta dal padre e da ciò che sente nel suo cuore, è infelice per cui incomincia ad avere dei dubbi sulla benignità della natura. I suoi perché sono una continua ricerca del senso della realtà e non si può non soffermarsi a riflettere e cercare di darsi una risposta.

 

PARAFRASI
O luna, cosa fai tu nel cielo? Dimmi silenziosa luna, cosa fai? Sorgi di sera e vai contemplando i deserti; infine poi scompari. Non sei ancora sazia di ripercorrere sempre gli stessi percorsi? Non ti sei ancora nauseata, sei ancora desiderosa si osservare queste valli? La vita del pastore somiglia alla tua vita. Si alza alle prime luci dell’alba , spinge il gregge attraverso i campi, e vede greggi, fonti d’acqua ed erbe; poi giunta la sera si riposa ormai stanco: altro non spera. Dimmi, o luna: che valore ha per il pastore la sua vita, la vostra vita per voi? Dimmi: dove porta questo mio vagare breve, il tuo viaggio eterno?
Un vecchietto con i capelli bianchi, malato, mezzo vestito e senza scarpe, con un grosso peso sulle sue spalle, corre via, corre, si affatica attraverso montagne e valli, su sassi pungenti, e sabbia alta, e sterpaglie, al vento e alla tempesta, e quando il tempo diventa caldo, e quando arriva il gelo, attraversa torrenti e stagni, cade, si rialza, e sempre più si affretta senza mai riposarsi o consolarsi, ferito, sanguinante; finché non arriva là dove la strada e tutta la sua fatica lo dovevano condurre: abisso orrido, immenso, precipitando nel quale egli tutto dimentica. O vergine luna, così è la vita degli uomini.
L’uomo nasce con fatica, e la nascita rappresenta un rischio di morte. Per prima cosa prova pena e tormento; e all’inizio stesso la madre e il padre si dedicano a consolarlo per essere nato. Quando inizia a crescere il padre e la madre lo sostengono, e via di seguito sempre con gesti e con parole si impegnano ad incoraggiarlo, e a consolarlo di essere uomo.: altro compito più gradito non si compie da parte dei genitori verso i figli. Ma perché far nascere, perché mantenere in vita chi poi deve essere consolato per il suo stato? Se la vita è una sventura perché da noi dura? O luna intatta, questa è la situazione umana. Ma tu non sei mortale, e forse di ciò che io sto dicendo ti importa poco.
Tuttavia tu, solitaria, eterna pellegrina, che sei così pensosa, tu forse riesci a comprendere che cosa sia questa vita terrena, le nostre sofferenze, il sospirare; che cosa sia questa morte, questo supremo impallidire del volto, e il venir meno ad ogni amata compagnia. E tu certamente comprenderai il perché delle cose, e vedrai il frutto del mattino, della sera, del silenzioso, tranquillo trascorrere del tempo.
Tu certamente sai, tu, a quale suo dolce amore sorrida la primavera, a chi faccia comodo il caldo, e che cosa ottenga l’inverno con i suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille ne scopri, che sono nascoste al semplice pastore. Spesso quando io ti osservo stare così muta stare su nella pianura deserta, che in lontananza confina con il cielo; oppure con il mio gregge ti vedo seguirmi e spostarti pian piano; e quando osservo in cielo brillare le stelle; dico dentro di me pensando perché tante scintille? Che cosa significa lo spazio infinito e quel profondo cielo infinito? Cosa vuol dire questa interminabile solitudine? E io cosa sono? Così penso tra me e me e non riesco a trovare nessuna utilità, nessuno scopo ne dello spazio infinito e superbo, ne delle famiglie numerose , poi di tanto darsi da fare, di tanti moti, di ogni astro e di ogni cosa terrena. MA tu certamente, o giovinetta immortale, conosci tutto ciò. Questo io conosco e sento, che delle eterne rotazioni, che della mia esistenza fragile, forse qualcun altro ricaverà qualche vantaggio o qualche bene; per me la mia vita è dolore.
Oh mio gregge che ti riposi, beato te, che credo non sei cosciente della tua miseria! Quanta invidia ho nei tuoi confronti! Non solo perché sei quasi priva di sofferenza; dato che ti dimentichi subito ogni stento, ogni danno ogni timore forte; ma più di tutto perché nn proverai mai noia. Quando tu stai all’ombra, sopra l’erba, tu sei calma e contenta; e in quello stato trascorri gran parte dell’anno senza provare noia. E anche io siedo sopra l’erba, all’ombra, e un fastidio mi occupa la mente, e un bisogno quasi mi stimola così che, sedendo, sono più che mai lontano da trovar pace e riposo. Eppure non desidero nulla, e fino ad ora non ho motivo per piangere. Di che cosa o quanto tu goda non lo so certamente dire; ma sei fortunato. E io, o mio gregge, godo ancora poco, né mi lamento solamente di questo. Se tu sapessi parlare , io ti chiederei: dimmi: perché giacendo comodamente senza fare nulla ogni animale si appaga; ma se io giaccio e mi riposo vengo assalito dalla noia?
Forse se io avessi le ali per volare sopra le nuvole, e contare le stelle ad una d una, o come il tuono potessi viaggiare di montagna in montagna, sarei più felice, mio dolce gregge, sarei più felice, o candida luna. O forse il mio pensiero si discosta dalla verità, riflettendo sulla condizione degli altri: forse in qualunque forma avvenga, in qualunque forma o condizione, dentro una tana o una culla, il giorno della nascita è funesto a tutti.

 

BIOGRAFIA
Giacomo Leopardi nasce a Recanati nel 1798, il padre Monaldo e la madre Adelaide, appartengono a due delle più antiche e aristocratiche famiglie delle Marche: i conti Leopardi e i marchesi Antici.
Giacomo ha un fratello e una sorella minori con i quali condivide i giochi e gli studi.
E’ il padre ad occuparsi dell’educazione dei figli, preferisce trasformare la casa in un collegio piuttosto che mandarli a studiare altrove. Spende una fortuna per comprare dodicimila volumi per la biblioteca e lì i fratelli Leopardi, seguiti da un precettore studiano. Giacomo impara il latino, il greco, la filosofia, ha grandi capacità intellettuali. Con la madre ha un rapporto difficile, non condivide le sue proposte di fede, dal padre riceve un’educazione razionalistica, egli infatti crede che la verità si ottiene solo usando la logica. Il difficile rapporto con la realtà fa emergere in lui il pessimismo, la solitudine lo opprime, l’unica ragione della sua vita è lo studio. Ma in realtà lui vorrebbe essere amato, poter aver un buon rapporto con i genitori, gli amici, conoscere cose nuove, persone diverse. Il desiderio di nuove esperienze in un ambiente nuovo lo porta a tentare la fuga da Recanati, ma vi rinuncia, non ha il coraggio di opporsi al padre. In seguito otterrà il permesso di recarsi a Roma, ritornerà deluso a Recanati. Farà altri viaggi, ma a causa della salute cagionevole ritornerà a Recanati dove comporrà “Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia”.

 

Fonte: http://freiheitfreedom.altervista.org/files/Canto%20notturno%20di%20un%20pastore%20errante%20dell'Asia.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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