Gange

 

 

 

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GANGE

 

Nella notte delle origini, il fiume Gange scorreva nel bel mezzo del cielo.
Il re Bhagiratha, desideroso di vedere l’acqua divina spandersi sulla terra arida e disseccata dell’India, pregò e si mortificò in modo così spaventoso, per attirare l’attenzione e la benevolenza degli dei, che, alla fine, venne ascoltato.
Ma allora si pose un problema: se quel fiume immenso fosse caduto sulla Terra, questa si sarebbe spaccata per la violenza dell’urto. Allora, per salvare gli uomini da una simile sciagura, Shiva, il terribile dio della creazione e della distruzione, l’aveva imprigionata su quei monti costringendola a frangersi sulla sua testa e a vagare senza meta. E per mille anni, il Gange turbinò prigioniero tra i lunghi capelli del dio, prima di nascere dalle sette sorgenti dell’Himalaya.
Un giorno, madre Gange, dea della benedizione e della purificazione, sgorgò dai capelli di Shiva, i picchi dell’Himalaya, finalmente libera di donarsi ma non di erompere distruttiva nel mondo e corse lungo la grande pianura, portando tra gli uomini bontà, consolazione e perdono.
Il corso del Gange è infinito: attraverso gole strette e vertiginose, foreste vergini, pianure illimitate, villaggi famelici e vaste città, il fiume scende dai contrafforti del Tetto del Mondo e scorrendo per 2700 km in quella valle che 10000 anni fa era ricoperta dal mare, giunge fino al Golfo del Bengala.
Non è un fiume eccezionale come caratteristiche naturali, ma la storia ne ha fatto la culla di una delle più antiche religioni del pianeta. Da quattromila anni gli Indù, l’85% degli ultra 800 milioni di abitanti, ringraziano madre Gange, la venerano, la esaltano, cercano la serenità dell’anima nelle sue acque, lavando la loro anima nel fiume.Il Gange è Dio e la sua acqua ha un potere di assoluzione, redenzione e di salvezza. In tutto il suo corso, persino nelle innumerevoli ramificazioni, ogni sua molecola è santa, consacrata, purificatrice, propiziatoria.
L’acqua è una benedizione, fonte di vita e si sa bene quanto valga al caldo sole dell’India, una sola goccia d’acqua e a 299 km dal fiume! Una bottiglia della sua acqua, un frammento della sacra madre chiuso in uno scrigno di vetro, può essere un tesoro e un affare. Il sogno di ogni Indù è di potersi bagnare nelle acque del Gange almeno una volta nella vita e far spargere, dopo la morte, le proprie ceneri nelle sue acque. Ogni giorno i pellegrini,ripetendo antichissimi gesti, seguendo rituali senza tempo,augurano : ”10.000 nuove vite a te, madre Gange!”
Ogni dieci anni, gli abitanti dei villaggi interni, in processione vanno a prelevare l’acqua del Gange per portarla a chi non può recarvisi e godere personalmente dell’acqua del fiume. I pellegrini portano sulle spalle o sulla testa, come strani copricapo, bilancieri decorati di seta rossa a cui sono appesi otri, contenenti acqua del fiume, protetti dalle immagini della divinità; quando, distrutti dal caldo e dalla fatica, riposano, c’è sempre qualcuno che resta in piedi per non posare a terra i bilancieri e non interrompere le preghiere.
Ma per i santoni mendicanti la meta è più difficile e lontana: si recano alle sorgenti stesse della dea, in pellegrinaggio ai piedi dell’Himalaya, fonte generosa e inesauribile di purificazione.
Prima si riteneva che il Gange avesse le sue origini a Gangotri; ma il ghiacciaio, la vetta del Bhaghrata, si trova 19 km più a nord, a due giorni di cammino da questa località.
Due torrenti dell’Himalaya, provenienti da ghiacciai situati a più di 4500 metri di altitudine, si uniscono presso Gangotri, a 3048 metri di altitudine, per formare il Gange, Madre Ganga, per gli Indù. Fra i freddi depositi morenici, l’acqua scaturisce fredda e tumultuosa; turbinoso alla sorgente, il fiume, nell’alto corso, prende il nome di Bhagirathi e dopo la confluenza dell’Alaknanda, uscendo dalle zone montane della catena imalaiana,  prende il  nome di  Gange, per scorrere calmo nella valle degli  dei.
A 3700 m. c’è un piccolo villaggio; qui si trova il tempio più alto della valle del Gange, nei bassorilievi sulla roccia si racconta la storia di madre Gange, fuggita dal cielo per venire tra gli uomini; qui i “ guru “, i consiglieri spirituali, indicano ai discepoli il cammino per giungere alla saggezza suprema.
A Rishikesh il fiume forma la più grande pianura dell’India; questo è uno dei luoghi più mistici perché da qui parte la ricerca di se stessi, in un tessuto intricato di una cultura antichissima.
Un mondo di templi, di ashram e ostelli per pellegrini, scuole di yoga, venditori di amuleti, asceti e incantatori di serpenti la caratterizzano; le vacche sacre circolano per le strade e i ghat, le gradinate che scendono sino al fiume.
I Rishi nella religione indiana sono i santi o veggenti cui sarebbero stati rivelati gli inni del Rigveda, il più antico testo della letteratura religiosa indiana, composta tra il 1500 e il 1000 a.C. Esso comprende 1028 inni dedicati alle numerose divinità indiane. I Rishi li trasmisero ai loro discendenti divenendo così gli eroi dei bramini, i sacerdoti indù.  Secondo la leggenda erano sette e, saliti al cielo, avrebbero formato l’Orsa Maggiore. 
A sera i pellegrini si riuniscono per celebrare la devozione serale, il cerimoniale fatto con il fuoco. I sacerdoti prendono bracieri a più piani e con essi accarezzano l’acqua del fiume.Con questo gesto si accostano i due elementi purificatori: acqua e fuoco;
il fuoco è venerato nella sua forma celeste: all’alba e al tramonto si levano preghiere al sole. La fiamma santifica il matrimonio e con la cremazione pone fine alla vita. L’acqua è purificazione, rinnova; il fuoco benedice.
Simile alle nostre luminarie, minuscole barchette di larghe foglie portano lungo la corrente del fiume una fiammella instabile: una preghiera, un voto, una richiesta d’aiuto.
A galleggiare sull’acqua è la rappresentazione simbolica dell’origine stessa dell’universo sviluppatosi dalle acque cosmiche dopo che era stato gettato il germe bruciante del fuoco.
In questo luogo ovattato di silenzio sorgono sulle rive del fiume molti ashram, ostelli per i pellegrini; i santoni mendicanti, i naga - sadhu, vengono qui per pregare e meditare; alcuni costruiscono con la sabbia un piccolo santuario e con la loro meditazione stabiliscono il contatto tra corpo e anima: è un rituale semplice che vede protagonisti gli elementi essenziali: acqua, terra, vento.
Tra gli elementi naturali che entrano d’imperio nella religione indù i fiumi sono i più importanti; l’acqua è necessaria per sfamare il corpo e l’anima, lo stesso termine, indù, significa popolo del fiume e gli Arii che giunsero tra le sue rive lo chiamarono, poiché fonte di vita, il fiume degli dei.
Il Gange, cuore dell’Himalaya, che nasce dalle lacrime della dea, lava via ogni
peccato.
Se i suoi nomi sono 1800, migliaia sono le immagini che simboleggiano il ciclo che va dal cielo alla terra e viceversa; il ciclo eterno che va dalla resurrezione alla morte, fino alla reale rappresentazione di un fiume che va dalla sorgente alla foce: se non cade la pioggia il mondo è perduto! La stagione del monsone che porta vento e pioggia, è prima di tutto vita, è la parte della dea che caduta risale alla dea per poi tornare all’uomo.
Il Gange salva e purifica, feconda e uccide, ha due facce, come in tutte le divinità indù.
La valle del Gange è una delle più popolate della terra. La vita ha ritmi binari, scanditi fra siccità e pioggia: l’alluvione fa parte dei suoi doni o dei suoi capricci. Ogni realtà coesiste con il suo opposto: crea e distrugge.
In tutti i bazar dell’India è possibile acquistare un libretto, simile ai nostri biglietti dell’autobus, in cui è contenuto l’elenco dei 1800 nomi del Gange che l’indù invoca con devozione: Shiva, dio della creazione e distruzione; Vishnu, il preservatore dell’ordine; Krishna, dio dell’amore, Rama e lo stesso Budda, sono reincarnazioni di Vishnu.  La lingua usata è il sanscrito, la lingua indoaria antica. Parlata dalla fine del II millennio a.C., quando gli Arii invasero l’India, al III secolo a.C. prevalse come lingua di cultura sugli altri dialetti indoari.
Ed ecco Hardiwar, il cancello degli dei, la città santa.
Racconta la leggenda che, durante una lotta fra dei e demoni per il possesso del dolce nettare dell’immortalità, una goccia cadde su questa città e la santificò.
Nei mercati di Hardiwar c’è in vendita un Olimpo di divinità e fra queste è possibile trovare l’immagine di Cristo e di Budda. Ma come dicono i “sadhu” non si devono mettere etichette a Dio: ogni immagine è un prodotto dell’uomo, ma Dio è lo stesso uomo. I Sadhu, santoni mendicanti, cercano la liberazione dal mondo terreno, rinunciando a tutto per uscire dal cerchio infinito della reincarnazione, avere l’illuminazione e il diretto contatto con Dio.
Immergersi nelle acque del Gange significa eliminare le negatività e raggiungere più rapidamente lo stato di Illuminazione, riscattando così parte del “ karma”, gli effetti delle azioni delle vite precedenti.
Per gli occidentali concepire questo modo di vivere è difficile e il Gange può sembrare un fiume qualunque, ma è sufficiente congiungere le mani a coppa per riempirle con la sua acqua trasparente e fredda per sentirne pulsare la spiritualità. Il gesto delle mani a coppa, caratteristico anche della nostra religione, risale a molti anni prima della nascita di Cristo e accomunava milioni di uomini nel culto di questa religione.
Scorrendo attraverso la pianura, il Gange riceve come tributario  lo Jamona, e bagna città importanti, tra cui Allahabad e Varanasi, l’ex Benares.
Il fiume Jamona è detto anche il secondo Gange e la città di Allahabad è stata anch’essa toccata dal nettare dell’immortalità! Sulle sue rive c’è la più bella moschea islamica dell’India e una ferrovia lunghissima le costeggia. Questa strada ferrata più che un mezzo di trasporto rappresenta la via che porta ai luoghi sacri; intere famiglie si muovono in pellegrinaggio su vagoni affollatissimi contendendosi gli spazi a disposizione. La popolazione che si trova su queste rive è composita, non si sa con esattezza quanti dialetti vengono parlati, forse 400, e le lingue ufficiali riconosciuti dalla Costituzione  sono 13,  ma le differenze etniche si smorzano nella comunanza di una stessa fede. Il punto in cui i due fiumi s’incontrano è un punto magico e chi può affitta una barca per recarsi al largo. Si narra di un fiume misterioso e invisibile e solo chi ha il privilegio di vederlo avrà un posto in paradiso.
Nei pressi della Triveni, la confluenza del Gange e dello Jamuna con il mitico fiume sotterraneo Saraswati, i profumi della cucina si mescolano a quella dell’incenso.
A sera le donne lavano le stoviglie e le sfregano con la sabbia rendendole luccicanti. Hardiwar e Allahabad sono due delle quattro città in cui periodicamente si tiene la celebrazione del Kumbh Mela. I pellegrini provengono da ogni parte dell’India e, non parlando tutti la stessa lingua, comunicano in un inglese stentato o a gesti. Le tende dei pellegrini sono divisi in due settori, quello dei devoti a Shiva, il distruttore o il Terribile, e i fedeli a Vishnu, il preservatore dell’ordine. Spesso stabilire l’ordine di priorità nello svolgimento delle processioni delle corporazioni ha causato cruenti battaglie, basti pensare che nel 1807 ad Haridwar morirono 1800 asceti! L’animosità continua ad esistere malgrado siano state stabilite in passato dal governo britannico dei   turni fissi per ogni Mela. L’aspetto più affascinante della festa è la confusione: i fedeli recano offerte ai mistici che tentano di ottenere la liberazione compiendo dure pratiche ascetiche, come giacere su un letto di chiodi, tenere sempre un braccio alzato per periodi lunghi o restare in piedi 24 ore al giorno. Non mancano le bancarelle che espongono ogni tipo di mercanzia e, in giorni particolari, le sfilate, lungo il fiume degli uomini serpente. Questi uomini, i Naga, vivono nudi e cambiano simbolicamente pelle ogni giorno quando si cospargono il corpo di cenere dopo le abluzioni. Il semplice vederli è considerata una benedizione liberatrice!
Ed eccoci ad uno dei luoghi più sconvolgenti: Varanasi.
Qui 3000 anni fa s’insediarono gli Ari provenienti dalle steppe e si mescolarono alle genti locali dando origine al nucleo della religione induista.
Varanasi è una città fatta per morire; ogni tanto il suono di una campanella annuncia un funerale. La salma, avvolta in bende bianche e rosse, trasportata da quattro uomini, attraversa la città e scende verso il “ghat”; adagiata su alcune fascine viene subito avvolta dal fuoco che è stato appiccato; quando la cremazione è avvenuta si raccolgono le ceneri che vengono disperse sul Gange e affidate alla corrente; l’anima del defunto può, quindi, raggiungere il Nirvana, uno stato paradisiaco che trascende il mondo dei sensi; in caso contrario l’anima si reincarna in un altro corpo per continuare il suo giro di esistenze che terminerà solo quando l’uomo compirà nella sua vita buone azioni. Al tramonto, la famiglia se ne va mentre vecchi scheletrici attendono sul ghat la propria morte. Gli odori che si diffondono nell’aria impregnano i vestiti e i corpi. Ogni anno 30.000 defunti vengono cremati su queste rive perché la cremazione può liberarli dal ciclo della reincarnazione e sedere finalmente ai piedi di Shiva, sull’Himalaya.
A Varanasi il fedele indù vive in comunione con la divinità anche quando mangia, beve e dorme. Nelle sue strade c’è un insieme di rumori, grida, colori, marciume e profumi rari. Mucche e scimmie vagabondano in libertà per le strade e gli uomini l’accettano.
I libri sacri perpetuano il ricordo dell’aiuto che anticamente gli dei ricevettero da parte del mondo animale e, quindi, alzare una mano sugli animali sarebbe un sacrilegio.
A Benares questi animali hanno anche un tempio e si dividono la città con  i  bramini.
Le divinità sono dipinte a colori vivissimi con lineamenti grossolani, i bazar sono soffocanti, i negozietti miserabili. Ciò che stupisce non ha niente a che vedere con la bellezza ma con il brulicare immenso degli uomini: mendicanti, lebbrosi, moribondi, asceti, illuminati, esaltati.
Nelle ore più calde l’affluenza dei pellegrini sul fiume diminuisce e gli abitanti ne approfittano per lavare nel fiume sacro la biancheria che subito si asciuga al sole di mezzogiorno. All’alba Varanasi offre uno spettacolo straordinario: un’intera città si mette in moto per scendere dalle sue ottanta stradine al Gange e ai suoi ghat. La folla si ammassa sui gradini e aumenta di minuto in minuto: macchie di colore che ai primi raggi del sole s’immergono nelle acque del fiume. I fedeli alzano le loro mani a coppa e fanno scorrere l’acqua raccolta all’alba. I ghat non sono mai deserti e intere famiglie vivono su questi giganteschi gradini. Sul fiume si viene per purificarsi, per chiacchierare, le abluzioni servono da bagno e da bucato, i fedeli si lavano i vestiti addosso, vestiti che si asciugano subito al sole.
Le vedove, che vivono di carità, scendono al fiume e ogni giorno ripetono i nomi degli dei in una cantilena infinita: ripetere il nome degli dei porta alla santificazione, pregano per la morte definitiva, per non soffrire più.
Proprio sul Gange si ergono, sopraelevati come scogliere per sfuggire alle piene del fiume e alle ire del monsone, i palazzi dei maraja e i templi.
Lasciata Varanasi il Gange continua il suo corso ricevendo tributari provenienti dall’Himalaya e dal Deccan. Andando verso la foce si possono incontrare chiatte atte a raccogliere, in modo primitivo, la sabbia che risulta ottima per le costruzioni e viene usata in India anche per edificare i grattacieli. Quando il fiume è gonfio porta più acqua del Mississippi e contrastare la corrente comporta un enorme sforzo; raccogliere la sabbia è un lavoro sfibrante pagato poche rupie ma consente di superare un’altra giornata di vita.
Oltre alla sabbia il fiume dona anche la sussistenza per il corpo. Se qualche volta la pesca è insufficiente alla famiglia, altre volte è generoso e molte varietà di pesce si vendono, a poco prezzo, al mercato.
Infine, il Gange entra nel Bengala, dirigendosi verso sud e scindendosi in una serie di rami. Il ramo principale, che prende il nome di Padma, scorre nel Bangla Desh dove confluisce con il corso inferiore del Brahmaputra.
Il secondo, più occidentale, chiamato Hooghly, uno dei rami più miserevoli, bagna Calcutta. Questa città è una delle più popolate, (15 milioni di abitanti) e miserande dell’India, è un grande centro commerciale, un cratere di tensioni sociali pronti ad esplodere.
L’Hooghly scorre così lentamente da essere stagnante; appesantito dalle immondizie in putrefazione emana fetore; le sue acque nere sono fonte di malaria, ma non per questo cessa di essere un membro della divinità, il solo ramo del delta ad essere sacro. Anche in queste acque putride centinaia di uomini inturbantati e donne in sari vegliano e si purificano nelle acque del Fiume; enormi roghi fiammeggiano mentre uomini seminudi attizzano le fiamme che consentono l’estrema e sospirata purificazione!
Qui si svolge la festa più grande di tutto il Bengala: la reincarnazione benefica della dea Kalì, la dea dalle molte braccia, per dieci giorni viene portata in processione.
La dea Kalì è la personificazione della dea del male, la dea sanguinaria a cui la setta dei  Tugs, tagliatori di teste, tributava sacrifici umani. (questa setta venne combattuta dal governo britannico durante la sua dominazione). Ma la dea delle forze distruttrici è anche dea della rinascita e della vittoria sul male ed è questo aspetto che festeggiano gli Indù. Durante la festa ogni quartiere getta nel fiume una statua rappresentante, appunto, la reincarnazione benefica che ha le mani sporche del sangue dei demoni sconfitti e grida:- “fa’, o dea, che domani sia migliore di oggi!”-
Le donne indossano nuovi sari e si dipingono la fronte di rosso in segno di buon augurio per loro e per il marito. Fino a poco tempo fa, in questa società, le vedove seguivano il marito sul rogo, intontite dalla droga ma ancora vive!
Il flemmatico protagonista del “ Giro del mondo in ottanta giorni” di Giulio Verne, non salva, forse, e porta via con sé una fanciulla che stava per essere arsa viva sul rogo del marito? Oggi l’antica tradizione è dimenticata ma le donne vivono ancora in stato di sottomissione rispetto all’uomo. 
Il brulichio delle persone testimonia la grande popolazione dell’India e gli sforzi del governo per contenere la densità demografica sono risultati vani: nascono 25 bambini al minuto, 13.000.000. all’anno. Al di sotto del limite di sussistenza vivono circa 300 milioni di persone, un terzo utilizza acque potabili e il 57% è analfabeta.
La povertà dell’India è veramente spaventosa!
Quando il Gange  si getta nel Bengala, forma un delta, il doppio di quello nilotico, intricato come una ragnatela;  il più importante commercialmente, è quello più orientale che si chiama Meghna. Tutti questi rami, con i rami minori, formano un delta comune che ricopre una superficie di oltre 75.000 kmq. Il delta è soggetto a un graduale abbassamento, ma la sua costruzione prosegue incessantemente, dato l’enorme apporto di detriti. Solcata da bracci morti e da paludi che rendono endemici il colera e la malaria, la regione è coltivata a risaie, soprattutto verso nord. Lungo la costa si stende la regione delle Sundarbans, in cui predomina la mangrovia.
Le Sundarbans, la regione alluvionale del Bengala, costituiscono la zona più meridionale del delta gangetico; il nome significa “ foresta varia”, sono formate da isole palustri ed sono coperte per vasti tratti dalle acque del Gange; la regione è malarica, per lo più coperta dalla jungla con un sottobosco impenetrabile, regno delle tigri, serpenti e di un gran numero di altri animali feroci; è anche fertilissima ed è coltivata soprattutto a riso. Le acque dei canali che separano le isole nella parte orientale delle Sundarbans sono dolci, in quella occidentale sono salmastre; dappertutto abbondano i coccodrilli. Nella regioni sono stati reperiti i resti di edifici e di templi plurisecolari, di acquedotti che attestano una vasta estensione di colture abbandonate in seguito per  le alluvioni e il mutamento di direzione dei principali rami di foce del Gange che un tempo sboccavano al mare nella parte ovest. In questa zona, così intricata e misteriosa, Emilio Salgari, sviluppò la trama de “I misteri della jungla nera” facendo agire i suoi personaggi nella intricata vegetazione della jungla, alle prese con serpenti e tigri, nella lotta contro i tugs che avevano i loro nascondigli in quelle misteriose caverne dove sacrificavano alla terribile dea Kalì giovani vittime.
Nel Bengala il Gange finisce il suo corso mescolando le sue acque con quelle dell’Oceano Indiano.
Il governo ha stanziato ingenti finanziamenti per un progetto di disinquinamento chiamato “Ganga Action Plan”, ma è nata un’interminabile contesa tra analisi di laboratorio e indignazione religiosa, e il momento più importante rimane sempre l’abluzione.
I fiumi, che in India hanno sempre carattere femminile, sono il centro della vita sociale e religiosa. In essi i credenti purificano i corpi e le anime, gli allevatori lavano gli animali, le donne puliscono la biancheria, gli addetti alle cremazioni gettano le ceneri dei defunti; al fiume vengono affidati i cadaveri degli asceti e dei bambini che, essendo senza macchia, non hanno bisogno della purificazione del fuoco. (gli animali spazzini penseranno a ripulirlo!).
Tutto va al fiume e proviene da esso.
Il Gange rappresenta tutto questo, è il corso d’acqua più amato dove sono state costruite, tutte sulla sponda opposta a quella del sole nascente, le città sante e incredibili di Haridwar, Hallabad e Varanasi!

 

Fonte: http://www.alighierict.it/produzionestudenti/I%20fiumi%20del%20mondo%20(III%20A%20prof.%20Lucia%20Sciacca%202002-03)/GANGE.DOC

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