Umberto Saba poesie e riassunti brevi

 

 

 

Umberto Saba poesie e riassunti brevi

 

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Umberto Saba poesie e riassunti brevi

 

- Umberto Saba -

La vita
Umberto Saba nasce a Trieste nel 1883 (faceva parte ancora dell’impero austro-ungarico), da padre cattolico-tedesco e madre ebrea che si lasceranno presto. Il cognome Saba è uno pseudonimo, infatti il cognome del padre era Poli. La madre, rimasta sola in seguito all’abbandono del padre, affida Saba a una balia (Peppa Sabaz) che lo accudirà fino a 3 anni. Le condizioni economiche della sua famiglia sono misere, quindi è costretto a frequentare una scuola professionale. A vent’anni si manifesta la nevrosi che lo accompagnerà per tutta la vita. Nel 1909 sposa Carolina Woelfler (Lina) e l’anno dopo nasce la figlia Linuccia. Nel 1912 acquista a Trieste una libreria antiquaria. Nel 1921 esce la prima edizione del Canzoniere. Durante le persecuzioni razziali fasciste e naziste vive nascosto a Firenze da Montale. Dopo la guerra ottiene vari riconoscimenti, ma dal ’50 soffre di gravi crisi depressive. Muore in una clinica di Gorizia nel 1957.
Formazione culturale
Non potendo fare studi umanistici, Saba legge per conto suo le opere dei maggiori letterati della tradizione italiana del passato (da Petrarca a Leopardi). Nascendo a Trieste Saba non era a contatto con le avanguardie del periodo, ma nello stesso tempo conobbe l’ideologia di Freud e Nietzsche prima degli altri artisti italiani.
La critica
La poesia di Saba viene criticata per la sua non attualità e modernità: avendo studiato i classici, Saba utilizza lo stile e le forme della tradizione letteraria italiana (canzonetta, sonetto). La sua originalità sta nel fatto che lui adotta forme classiche in un periodo dove tutti cercano l’innovazione. Inoltre Saba propone un quesito sulle nuove avanguardie: i nuovi poeti utilizzano forme e linguaggi complicati per il lettore perché sono realmente innovativi o perché in realtà non hanno nulla da dire?
Il canzoniere


Saba raccoglie tutta la sua produzione poetica maggiore nel Il canzoniere. E’ formato da 437 testi composti tra il 1900 e il 1954. La prima edizione è del 1921. La seconda è del 1945. L’edizione definitiva esce postuma nel 1961. Il titolo si riallaccia alla grande tradizione italiana, che ha il suo capostipite in Petrarca. Il canzoniere è diviso in 3 volumi, suddivisi al loro volta in diverse sezioni. Il canzoniere è una specie di diario di Saba dove racconta la vita a Trieste: raccontandosi in questa raccolta, Saba compie una specie di psicanalisi per capire il significato della vita. Il tema centrale del canzoniere è la scissione dell’io, che getta le radici nell’infanzia. Esso si origina dall’opposto carattere dei genitori del poeta e dagli anni vissuti con la balia e poi con la madre. Il tema dell’amore, centrato sul personaggio della moglie Lina e su altri rapporti occasionali, ha nell’opera un’importanza anche al di fuori delle specifiche relazioni erotiche, dato che Saba considera i poeti quali “sacerdoti dell’eros”, cioè cantori della profonda verità elementare che unifica tutti i viventi: la pulsione sessuale (chiamata “brama” da Saba). Tutti gli esseri viventi, infatti, hanno l’istinto a riprodursi per continuare la propria specie.

Poesie lette:
A mia moglie – Casa e campagna
E’ un’originale poesia d’amore. In questo componimento Saba paragona la moglie (in quel momento in stato di gravidanza) a diverse categorie di femmine di animali mansueti (galline, mucche, cagne, coniglie, rondini, formiche, api). La moglie non è molto contenta della poesia, poiché si sente offesa. La poesia è strutturata in 6 strofe ineguali, formate da versi di varia lunghezza. Il linguaggio usato è molto semplice.
Città vecchia – Trieste e una donna
La poesia parla di una camminata del poeta attraverso il quartiere più antico e malfamato di Trieste. Qui incontra persone umili (prostituta, marinaio, il vecchio che bestemmia ecc.). Queste persone sono considerate da Saba le più vicine ai valori autentici e profondi dell’esistenza, perché sono le più sincere.
Amai – Mediterranee
Questa poesia è il manifesto poetico di Saba. Saba afferma i caratteri della sua poesia: l’uso di parole semplici e banali, ma adatte a esprimere le verità profonde e comuni degli uomini, e la scelta di soluzioni formali semplici e allo stesso tempo impegnative, in quanto il poeta deve essere originale anche con l’utilizzo di forme e stili già precedentemente utilizzati (nella poesia fa l’esempio della rima cuore-amore). La poesia è composta da 2 quartine e un distico (strofa di 2 versi), di endecasillabi con l’eccezione del verso 3 che è un trisillabo. Ci sono frequenti rime baciate.

 

Fonte: http://riassuntibuse.altervista.org/Umberto%20Saba.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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                                                                                                                                                                                          COPIA OMAGGIO
Umberto Saba   
      

“Esser uomo fra gli umani / io non so più dolce cosa”

Umberto Saba nasce a Trieste nel 1883 da Rachele Coen (ebrea) e Ugo Poli (cattolico). Il matrimonio fra i genitori si spezza ancor prima della nascita del poeta, che conoscerà il padre solo vent’anni dopo, nel 1905.
Quando all’età di tre anni viene riportato in famiglia, è costretto ad affrontare una situazione tutt’altro che lieta: nella separazione dalla balia, nell’assenza del padre, nel carattere della madre, donna amareggiata e piena di rancore verso il marito, dura e poco espansiva con il figlio, vanno rintracciate le cause della crisi di angoscia destinate ad angustiarlo, con varia intensità, per tutta la vita.
La sua carriera scolastica è piuttosto breve: frequenta il ginnasio e , soltanto per pochi mesi, l’Accademia di Commercio, abbandonata quasi subito per la necessità di trovare un lavoro (si impiega presso un acasa di commercio triestina).
Parallelamente affronta la lettura dei classici, Leopardi prima di tutti, Parini lirico, Foscolo, Petrarca, Manzoni. Nel 1905 si trasferisce a Firenze, per prendere contatto con gli ambienti intellettuali e letterari di questa città, riscattandosi dal ritardo culturale che gli deriva dalla sua condizione di periferico.
A Firenze ha contatti con il gruppo della rivista “La Voce”, dai quali non fu mai veramente compreso, giudicato arretrato e passatista.
Nel 1909 sposa Carolina Wölfer (la Lina del Canzoniere) e due anni più tardi pubblica, a sue spese,  il suo primo volume di versi, Poesie, che riceve un’accoglienza critica e piuttosto fredda, soprattutto dagli intellettuali vociani.
Nel settembre 1913, nel teatro “Fenice” di Trieste, viene rappresentato per la prima ed ultima volta, con clamoroso insuccesso, il dramma in un atto Il letterato Vincenzo, unico e modesto testo teatrale sabiano a noi pervenuto.
Dopo la prima guerra mondiale, cui prende parte ricoprendo ruoli amministrativi e di retroguardia, rileva a Trieste una vecchia libreria antiquaria, alla quale si dedicherà con impegno ed entusiasmo per gran parte della sua vita.
L’introduzione delle leggi razziali in Italia (1938) segna un brusco cambiamento nella vita del poeta, prima costretto a cedere almeno formalmente la gestione della libreria, poi, dopo l’8 settembre 1943, a fuggire con la famiglia da Trieste e a vivere nella clandestinità. Per circa un anno trova rifugio a Firenze, dove può contare sull’appoggio ed il conforto di pochi e fidati amici, prima fra tutti Eugenio Montale, che sfidando il pericolo, va a fargli visita quasi tutti i giorni.
Dopo la fine della guerra nel clima di ritrovata fiducia, si trasferisce a Roma dove trascorre forse i mesi più felici della sua vita, circondato dal calore e dalla stima di tanti intellettuali e scrittori.
Negli anni della vecchiaia, l’acuirsi di crisi depressive lo allontanerà per sempre da quello che ormai gli appare come un “nero antro funesto”.
Morirà in una clinica di Gorizia nel 1957.

Dal punto di vista storico, l’Italia si trova in un momento di grande fermento politico: la lotta politica, dopo la Grande Guerra, è viva ed intensa, in particolare tra socialisti e popolari, ma, successivamente, la nascita dei partiti comunista e fascista dominerà l’intera scena.
Dopo la prima guerra mondiale, infatti, i partiti fino ad ora estranei alla tradizione dello Stato liberale saranno favoriti, per una generale sfiducia nelle strutture politiche che erano intervenute nel conflitto mondiale, contro l’orientamento delle masse popolari.
Molti furono gli episodi di tensione in questo clima: la nascita dei Fasci di combattimento nel 1919, il mito della cosiddetta “vittoria mutilata” e l’impresa di Fiume nello stesso anno, i moti contro il “caro-viveri”, i frequenti scioperi e le agitazioni agrarie, i contrasti del movimento operaio e la nascita del Pci, fino all’affermazione del fascismo agrario e dello squadrismo, e alla nascita del Partito Nazionale Fascista, che, con il suo conseguente successo darà vita al regime.
La cultura italiana risentiva della forte influenza dannunziana, ma molto interessanti sono anche i nuovi movimenti, come quelli che diedero vita a numerose riviste (La Ronda, Il Baretti, Strapaese, Stracittà, Solaria), e quelli stranieri dell’espressionismo, del dadaismo e del surrealismo.
Altri importanti movimenti poetici, contemporanei a Saba, sono quello crepuscolare, futurista ed ermetico.
E’ molto difficile, però, inquadrare Saba in un preciso filone o movimento letterario: egli stesso sottolinea, nella sua autobiografia in versi, il suo distacco nei confronti della cultura e della letteratura a lui contemporanee ( Gabriele D’Annunzio alla Versiglia/ vidi e conobbi; all’ospite fu assai/ egli cortese, altro per me non fece./ A Giovanni Papini, alla famiglia/ che fu poi della Voce, io appena o mai/ non piacqui. Era fra lor di un’altra specie.)
Saba, dunque, si estrania dai due movimenti letterari e culturali che dominarono gli anni della sua formazione: la poesia dannunziana e le esperienze delle riviste, con intellettuali come Papini e Prezzolini .
Il suo isolamento persisterà anche dopo la Grande Guerra, rifiutando i movimenti della “Ronda”, del novecentismo, dell’ermetismo, e del frammentarismo.
Ma ‹‹proprio per la sua naturale incapacità di adattamento ha finito così con l’essere forse il poeta più tipico, se non più rappresentativo di questo periodo›› (Pasolini) (8)

In un articolo del 1912, Quello che resta da fare ai poeti (che inviato a “La Voce”, non viene pubblicato), Saba ha fissato i canoni fondamentali della sua poetica. Già nell’esordio dichiara perentoriamente che “ai poeti resta da fare la poesia onesta”, prendendo così le distanze da alcune tendenze dominanti nella letteratura italiana di quegli anni: l’estetismo e il superomismo dannunziano, la furia eversiva e modernistica dei futuristi, le perplessità dei crepuscolari. Per poesia “onesta”, rappresentata emblematicamente dagli Inni Sacri e dai Cori dell’Adelchi del Manzoni, Saba intende una poesia capace di “non sforzare mai l’ispirazione”, una poesia autentica, strumento di scavo per superare le ambiguità e le doppiezze dell’apparenza e arrivare al nocciolo delle cose e dei sentimenti. Questo concetto di poesia come mezzo di conoscenza non ha nulla a che vedere con la concezione misticheggiante dei simbolisti e degli ermetici, che attribuiscono alla parola poetica il compito quasi magico di far luce sul mistero di una realtà in conoscibile dal punto di vista razionale. Scriverà limpidamente Saba in Scorciatoie e raccontini: ‹‹Non esiste un mistero della vita, o del mondo o dell’universo. Tutti noi, in quanto nati dalla vita, facenti parte della vita, sappiamo tutto, come anche l’animale e la pianta. Ma lo sappiamo in profondità. Le difficoltà incominciano quando si tratta di portare il nostro sapere organico alla coscienza››.
La “poesia onesta” si contrappone alla “poesia disonesta”, quella che è ricerca del bello anche a danno del vero, è compiacimento estetico, è in poche parole quella di D’Annunzio, che è “letterato di professione”, celeberrimo ed ammiratissimo,  e per questo più attento al successo che alla ricerca della verità.

La sua poesia, come quella di molti grandi autori del novecento, risente, inoltre, di un notevole influsso della psicoanalisi. Egli, infatti, venuto a contatto con trattamenti psicoanalitici per il suo caso di nevrastenia, studia la scienza approfonditamente e con grande interesse.
Ora la sua poesia mira, grazie a questo apprendimento, ad analizzare piuttosto che a descrivere.
‹‹Ciò che egli derivò dai suoi “buoni maestri” (così chiamò Nietzsche e Freud) non fu, come per tanti altri, un freudismo e un niccianismo spicciolo, ma, prima di tutto, una lezione di stoica “implacabilità nella dirittura, la dirittura fino quasi al sadismo”, cioè al rafforzamento della sua tendenza a una ricerca spietata di verità, per capire l’essere “vero” del mondo e il senso profondo della sua storia e di sé››(7)
La psicoanalisi non gli servì, dunque, solo a guarire, ma anche a comporre con una più chiara coscienza di sé, degli altri, della realtà e della storia.
In particolare, sono gli elementi di eros e thanatos, appresi dalla psicoanalisi, ad influenzare la sua produzione: l’eros, desiderio di vita, e il thanatos, impulso di morte, si fondono l’un l’altro, divenendo un binomio fondamentale.
Ma questo binomio non vale solo per la personale esperienza e sensibilità del poeta, ma può essere rintracciato in qualunque esperienza quotidiana sua e di tutti.
Nelle sue poesie, infatti, sono sempre presenti componenti di malinconia e di tristezza, che, però, vengono bilanciate dal suo amore per la sua città, la sua gente, dal suo incanto per la vita, seppur dolorosa.
La sua è ‹‹un’adesione totale alla vita scoperta come dominata dal dolore, dalla frustrazione, dalla morte e senza una meta vera, ma dotata di un fascino invincibile››(5)
Strettamente collegato a questo elemento vi è la totale accettazione della vita e della condizione umana.
Infatti, come poteva egli, affascinatone com’era, detestare la vita?
‹‹Saba ha amato gli uomini, la natura, le cose, e la sua lirica è tutta folta di immagini luminose e gioiose. Ma al fondo vi è, sempre più con gli anni, un sapore di amaro, o, a dire meglio, un ambiguo sapore in cui disperazione e consolazione, solitudine e amore degli altri si intrecciano in nodi indissolubili››(7)
Per questo egli si affianca agli uomini con grande umanità: ‹‹egli persegue un suo istintivo moralismo che cerca la risonanza, la comunicazione umana››(10) , nel desiderio, come afferma lui stesso di “vivere la vita di tutti, d’esser come tutti gli uomini di tutti i giorni”.

Ma la sua celebrazione delle “piccole cose” è ben diversa da quella pascoliana: mentre Pascoli, per l’azione del fanciullino, tendeva ad attribuire grandi valori alle piccole cose, Saba comprende che solo l’accettazione delle cose “quali esse sono” permette di vincere la disperazione.

Il linguaggio utilizzato da Saba è un linguaggio discorsivo e quasi colloquiale, seppur illuminato dalla grande cultura e conoscenza dei classici.
Egli si vantò di essere ‹‹il poeta più chiaro del mondo›› e tese ad eliminare il lessico aulico, cercando al suo posto versi ‹‹mediocri e immortali››(7)
Le parole venivano scelte per la loro concretezza, non per la loro musicalità o suggestione: c’è in Saba una profonda avversione per le complicazioni intellettualistiche, gli sperimentalismi formali, gli artifici letterari, le menzogne, gli autoinganni, l’incapacità di accettare la vita nella sua elementare chiarezza.
E’ ancora Saba a definirsi “il poeta meno rivoluzionario che ci sia”. Il fatto è che la vera rivoluzione, a suo giudizio, si realizza nella conquista di una verità profonda; una conquista difficile che deve combattere anche contro la tentazione del preziosismo formale, per evitare che tradisca l’autenticità dell’ispirazione

L’opera fondamentale di Saba è il “Canzoniere”, un volume pubblicato nel 1921, che raccoglie tutta la sua produzione precedente. Esso è diviso in sezioni, corrispondenti alle primitive raccolte e a tutte quelle che egli vi aggiunse nelle successive edizioni.
Chiaro è il riferimento al Petrarca, a cui Saba stesso afferma di essersi ispirato, confermando, ancora una volta, la sua opposizione alla letteratura a lui contemporanea.
Successivamente, nel 1948, venne pubblicato “Storia e cronistoria del Canzoniere”, in cui egli spiega e commenta la sua opera principale.

 

La Capra (1911) (dalla sezione “Casa e campagna”)

1 Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
5 Quell'uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
10 gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

 

Come nella lirica precedente, anche in questa c’è un paragone uomo-animale: ma mentre in quella prima ogni animale descritto aveva una connotazione positiva, qui la capra è compagna di dolore del poeta.
Come lui, infatti, la capra è consapevole della sofferenza della vita e, per questo, si tormenta.
Quasi si può dire che Saba instauri un ‹‹senso di comunione cosmica che è dato dal dolore di tutte le creature››(10)
La capra, inoltre, presenta caratteristiche che la possono far risalire ad un ebreo (viso semita): Saba, come è noto, ha origini ebraiche e ciò spiega per quale motivo egli prenda come esempio ‹‹ il popolo più perseguitato dalla storia››(4)
Il primo verso ha un tono favolistica, ma poi, dal v. 5 in poi, tra il poeta e l’animale si stabilisce un colloquio, ‹‹grazie a quella lingua universale che è il dolore››(10)
Al v. 2, “sazia d’erba” vuole forse indicare un “taedium vitae”, piuttosto che il soddisfacimento della fame.
Inizialmente il poeta risponde alla capra incredulo, quasi per scherzo (per celia), ma poi riconosce un accento inconfondibile in quel belato: il dolore.
La ripetizione di alcune parole (dolore, voce, capra) serve per dare alla poesia un tono quasi solenne.

 

Dopo La Tristezza(1911) (dalla sezione “Trieste e una donna”)

1 Questo pane ha il sapore d'un ricordo,
mangiato in questa povera osteria,
dov'è più abbandonato e ingombro il porto.
E della birra mi godo l'amaro,
5 seduto del ritorno a mezza via,
in faccia ai monti annuvolati e al faro.
L'anima mia che una sua pena ha vinta,
con occhi nuovi nell'antica sera
guarda un pilota con la moglie incinta;
10 e un bastimento, di che il vecchio legno
luccica al sole, e con la ciminiera
lunga quanto i due alberi, è un disegno
fanciullesco, che ho fatto or son vent'anni.
E chi mi avrebbe detto la mia vita
15 così bella, con tanti dolci affanni,
e tanta beatitudine romita!

 

In un’osteria vicino al porto, mangiando dell’umile pane, il poeta osserva ciò che gli è intorno.
Egli ha appena vinto una pena e, dunque, può guardare queste cose serenamente, ‹‹con occhi nuovi››.
‹‹In questa sera il poeta non vede nulla di diverso da quello che ha visto in tutte le altre sere della sua vita, nella sua città, e per questo si tratta per lui di una serata “antica”, ma diverso è ora il suo stato d’animo che gli fa guardare tutto con “occhi nuovi”››(4)
Ricorre nella poesia il tema del ricordo (‹‹questo pane ha il sapore d’un ricordo›› ‹‹un disegno fanciullesco che ho fatto or son vent’anni››), il passato e il presente si intrecciano.
Il parco pranzo e la visone del porto dimostrano la celebrazione del quotidiano caratteristica dell’autore.
Gli ultimi tre versi mostrano la già citata accettazione della vita del poeta, che unisce termini contrastanti: i“dolci affanni” e la “beatitudine romita” non gli impediscono di affermare che la sua vita è “così bella”.
Questa lirica non ebbe un grande successo, anche se l’autore la considerava una delle sue migliori: proprio per questo il poeta scrive: ‹‹Saba tanto meno piaceva quanto più era Saba››.

 

A mia moglie (1909) (dalla sezione “Casa e campagna”)

Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell'andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull'erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio,
Così, se l'occhio, se il giudizio mio
non m'inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun'altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.

Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la tua carne.
se l'incontri e muggire
l'odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l'erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t'offro quando sei triste.

Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.

 

Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d'un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.

Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l'angusta
gabbia ritta al vederti
s'alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?

Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest'arte.

Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un'altra primavera.

Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l'accompagna.

E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun'altra donna.

 

La poesia chiude il volumetto Poesie del 1911 e fu inserito nel 1921 nella sezione “Casa e campagna” del Canzoniere. La singolarità del testo si esprime nel sincero paragone che il poeta instaura tra la moglie ed alcuni animali domestici e della campagna. La serie di paragoni è inusitata, ma descrive limpida e spontanea la commozione del poeta di fronte alla purezza della moglie. Ne evidenzia i tratti più semplici, elementari, naturali ed istintivi proprio attraverso il paragone con gli animali della campagna più vicini a lui. L’amore del poeta è adesione totale all’esistenza, è intima comunione con la natura.
Scrive lo stesso Saba in un commento tratto da Storia e cronistoria del Canzoniere(1948): “La poesia fa pensare ad un improvviso ritorno all’infanzia; un ritorno che non esclude la contemporanea presenza dell’uomo. Il poeta, come il fanciullo, ama gli animali che, per la semplicità e nudità della loro vita, ben più degli uomini, obbligati da necessità sociali e continui infingimenti, “avvicinano a Dio”, alle verità che si possono leggere nel libro aperto della creazione. Un giorno, e fu un bel giorno, Saba deve aver sentito, con acuta gioia e tenera commozione, le identità che correvano fra la giovane donna che gli viveva accanto e gli animali della campagna dove egli abitava. Il poeta ritrova la sua donna nella giovane e bianca pollastra, nella gravida giovenca, nella lunga cagna, nella pavida coniglia, nella rondine, nella provvida formica, come “in nessun altra donna””.
In essa emergono con evidenza le caratteristiche, di stile e di contenuto, peculiari del Saba: la chiarezza e la semplicità del verso, che ricordano la spontaneità di un intimo dialogo; il riferimento ad eventi, cose e personaggi della vita comune e quotidiana; la musicalità del verso; l’abilità del Saba nel comporre la sua poesia “onesta”, priva di complicazioni intellettualistiche e di sperimentalismi formali, semplicemente limpida, tutta tesa alla rappresentazione della realtà nella sua naturale chiarezza.

 

 

 

Trieste (1910) (dalla sezione “Trieste e una donna”)

1 Ho attraversata tutta la città.
Poi ho salita un'erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
5 un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
10 è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
15 Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima una casa, l'ultima, s'aggrappa.
Intorno
20 circola ad ogni cosa
un'aria strana, un'aria tormentosa,
l'aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
25 ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

La poesia fu scritta all’indomani della grave crisi coniugale che l’aveva condotto alla momentanea separazione dalla moglie Lina. In essa il poeta canta l’amore per la sua città, per la “scontrosa grazia”, evidenziandone la sua continua conflittualità: “come un ragazzaccio aspro e vorace”, “come un amore con gelosia”. In particolare “con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore”, che pare sottolineare l’indelicatezza di Trieste “popolosa” di fronte alla personalità pensosa e schiva del poeta. Tuttavia dopo una lunga fuga, che lo spinge ad attraversare tutta la città, il poeta ritrova il suo cantuccio, che pare termini dove termina la città. Ancora una volta il linguaggio è semplice e carico di significato; rispetta le pause e il suono del silenzio, è la limpida espressione della sua contemplazione interiore. 

 

 

Città vecchia (1912)(dalla sezione “Trieste e una donna”)

1 Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un'oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.
5 Qui tra la gente che viene che va
dall'osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l'infinito
10 nell'umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
15 la tumultuante giovane impazzita
d'amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s'agita in esse, come in me, il Signore.
20 Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.

 

Sulla poesia il poeta scrive ”Città vecchia è una delle poesie più intense e rivelatrici di Saba. Forte è in lui il bisogno innato di fondere la sua vita a quella delle creature più umili ed oscure”. Perduto nei vicoli e violetti di città vecchia (così è detta la parte più antica della città), il poeta trova “l’infinito nell’umiltà”. La folla in essi rigurgitante gli ispira pensieri di religiosa adesione.
Città vecchia , ispirata da una viva simpatia umana per un mondo umile, quotidiano, “minore”, si collega quindi tematicamente ad una lirica successiva, Il borgo, in cui il poeta esprime il suo desiderio di aderire alla “vita di tutti gli uomini di tutti i giorni”. È dunque un sentimento di comunione con la totalità della vita, che lo spinge a cercare nelle persone più umili la più profonda verità.

 

La ritirata di Piazza Aldrovandi a Bologna (1914) (dalla sezione “La serena disperazione”)

1 Piazza Aldrovandi e la sera d'ottobre
hanno sposate le bellezze loro;
ed è felice l'occhio che le scopre.
L'allegra ragazzaglia urge e schiamazza
5 che i bersaglieri colle trombe d'oro
formano il cerchio in mezzo della piazza.
Io li guardo. Dai monti alla pianura
pingue, ed a quella ove nell'aria è il male,
convengono a una sola vita dura,
10 a un solo malcontento, a un solo tu:
or quivi a un cenno del lor caporale
gonfian le gote in fior di gioventù.
La canzonetta per l'innamorata,
un'altra che le coppie in danza scaglia,
15 e poi, correndo già, la ritirata.
E tu sei tutta in questa piazza, o Italia.

 

In questo scorcio di piazza che il poeta osserva, si possono rintracciare sia il suo costante amore verso tutti, sia, più concretamente, la sua posizione anti-militarista.
Nella piazza, che accomuna la sua bellezza a quella della sera di ottobre, ci sono i bersaglieri, pronti a suonare la ritirata con le loro “trombe d’oro”.
Dopo essersi soffermato sulla loro dura vita, Saba li mostra mentre suonano canzoni popolari, prima di intonare la ritirata.
Il poeta dimostra come, secondo lui, l’Italia sia “tutta in questa piazza”: un’Italia dedita ad una vita semplice, popolana, che si allieta con la banda e con ragazzi che schiamazzano nella piazza.
La vita militare non è fatta per l’Italia.
Lo benevolenza del poeta include tutto:le bellezze della piazza e della serata, i ragazzi chiassosi, i bersaglieri e la loro vita.

 

 

Bibliografia

  1. Carlo Salinari, Profilo storico della letteratura italiana, Editori Riuniti, 1972
  2. Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato Editore, 1962
  3. Enciclopedia della letteratura Garzanti, 1997
  4. Salvatore Guglielmino, Guida al novecento   ed. Principato, 1998
  5. Mario Pazzaglia, Il Novecento   ed. Zanichelli 2000
  6. Binni, Scrivano, Antologia della critica letteraria, Principato Editore, 1968
  7. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palombo Editore, 1991
  8. Umberto Saba con presentazione di Ottavio Cecchi; L’Unità, 1993
  9. A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Storia dal 1650 al 1900, Laterza, 2001
  10. Giacinto Spagnoletti, Poeti del novecento, Mondadori, 1964
  11. C. Segre, C. Martignoni, Testi nella storia vol. 4, Ed. Mondadori, 2001

 

Fonte: http://www.ghiacciato.it/scientifico/ita/UMBERTO%20SABA.doc

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Umberto Saba, A mia moglie, 1911, ne “Il canzoniere”


Tu sei come una giovane,
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
5       per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
che incede sull’erba
pettoruta e superba.
10     E’ migliore del maschio.
E’ come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
15     Così se l’occhio, se il giudizio mio
non m’ inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
20     mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
tu ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.

25     Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
30     volge, ove tinge un rosa
tenero la sua carne.
Se l’incontri e muggire
l’odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l’erba
35     strappi, per farle un dono.
E’ così che il mio dono
t’offro quando sei triste.

Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
40     dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d’un fervore
indomabile arda,
45     e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
50     candidissimi scopre.
E il suo amore soffre
di gelosia.

Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l’angusta
55     gabbia ritta al vederti
s’alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca o i radicchi
60     tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? Chi il pelo
65     che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?

Tu sei come la rondine
70     che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere;
75      questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.

Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
80     che l’accompagna.
E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
85     i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun altra donna.


 

ANALISI DEL TESTO

Contenuto

  1. Riferisci con le tue parole le caratteristiche e i comportamenti degli animali che sono rappresentati con vivacità ed efficacia dal poeta, attraverso notazioni minute e precise

( gallina, mucca, cagna, coniglia ).

  1. Ricava, dal paragone con ciascuno degli animali descritti nella poesia, una o più qualità

( o difetti ) attribuibili alla moglie.( Es.: la moglie è, come la formica, previdente e labo-
riosa).

  1. Che tipo di donna risulta dal ritratto che ne fa il poeta? Intellettuale, complicata, sofisticata, riflessiva; oppure semplice, affettuosa, istintiva? Perché?

 

  1. Come definiresti il sentimento provato dal poeta e il suo rapporto con la moglie? ( Non dimenticare la penultima strofa ).
  1. Il paragone con gli animali è da intendersi come ironico, critico, denigratorio, o come affettuoso ed elogiativo? Quali parole del testo, in particolare, ti fanno propendere per questa tesi?

 

  1. La lirica provocò, quando fu pubblicata, un po’ di scandalo. Si distaccava, infatti, nettamente dal modo di cantare la donna proprio della tradizione poetica. Spiega.

Aspetti formali

 

1. Illustra i seguenti aspetti del testo, in termini generali, ma cogliendo gli elementi caratteristici e facendo qualche esempio significativo.
strofe, versi, rime;
enjambements;
anafore;
parole ricercate, di uso non comune;
similitudini;
figure retoriche ( quali metafore, onomatopee, sinestesie);
2. Fai la parafrasi scritta delle strofe IV e V ( coniglia e rondine), facendo particolare attenzione a:
sostituire le parole meno comuni con altre più usuali;
ricostruire l’ordine “normale” delle frasi e dei periodi, eliminando le inversioni ed esplicitando le parti che sono state sottintese dall’autore.

         3. Prepara ( per l’interrogazione) il riassunto orale della lirica, rispettando la divisione strofe.

 

 

APPUNTI

Contenuto

 

Pollastra: incedere elegante, maestoso, regale
Indole maliconica, tendenza a lamentarsi, ma con dolcezza, senza essere inopportuna o fastidiosa

Giovenca: affettuosa, grata delle manifestazioni d’affetto, tale da destare tenerezza e partecipazione

Cagna: affezionata ( innamorata), devota, fedele, gelosa con aggressività

Coniglia: riconoscente, permalosa, se le viene negato ciò che s’aspetta, donna-madre, adatta alla maternità

Rondine: fedele ( per contrasto), agile, leggera, elegante nei movimenti, giovane, vitale

Formica e ape: previdente, laboriosa, parsimoniosa.

 

Fonte: http://leccolst.altervista.org/contenuti/SABA__A_mia_moglie__testo_e_questionario.doc

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Umberto Saba

 

1. A mia moglie
2. da Storia e cronistoria del Canzoniere su A mia moglie
3. Città vecchia
4. Tre vie
5. Veduta di collina
6. La greggia
7. Il patriarca
8. da Storia e cronistoria del Canzoniere su Veduta di collina, La greggia, Il patriarca
9. Notizie sull’autore

 

A mia moglie
da Casa e campagna

1910

 

Tu sei come una giovane,
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
5      per bere, e in terra raspa;
ma, nell'andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull'erba
pettoruta e superba.
10    È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
15    Così se l'occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun'altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
20    mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.

25    Tu sei come una gravida
giovenca;.
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
30    volge, ove tinge un rosa
tenero la sua carne.
Se l'incontri e muggire
l'odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l'erba
35    strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t'offro quando sei triste.

Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
40    dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d'un fervore
indomabile arda,
45    e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
50    candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.

Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l'angusta
55    gabbia ritta al vederti
s’alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
60    tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
65    che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?

Tu sei come la rondine
70    che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest'arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere;
75    questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un'altra primavera.

Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
80    parla al bimbo la nonna
che l'accompagna.
E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
85    i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun'altra donna.


È interessante leggere ciò che scrisse lo stesso Saba in Storia e cronistoria del Canzoniere, a proposito di questa poesia.

 

La poesia provocò, appena conosciuta, allegre risate. Pareva strano che un uomo scri-vesse una poesia per paragonare sua moglie a tutti gli animali della creazione. È la sola del No­stro che abbia suscitato un po' di scandalo; è forse a questo che si deve la sua notorietà: una noto­rietà di "contenuto". Ma nessuna intenzione di scandalizzare, e nemmeno di sorprendere, c'era, quando la compose, in Saba. La poesia ricorda piuttosto una poesia "religiosa"; fu scritta come altri reciterebbe una preghiera. Ed oggi infatti la si può nominare o leggere in qualunque ambiente, senza la preoccupazione di suscitare il riso. Un giornale comunista disse, recentemente, che "A mia moglie" è una poesia proletaria. Noi pensiamo invece che sia una poesia “infantile”; se un bam­bino potesse sposare e scrivere una poesia per sua moglie, scriverebbe questa.
«Un pomeriggio d'estate» racconta Saba «mia moglie era uscita per recarsi in città. Rimasto solo, sedetti, per attenderne il ritornò, sui gradini del solaio. Non avevo voglia di leggere, a tutto pen­savo fuori che a scrivere una poesia. Ma una ca­gna, la "lunga cagna" della terza strofa, mi si fece vicino, e mi pose il muso sulle ginocchia, guardandomi con occhi nei quali si leggeva tan­ta dolcezza e tanta ferocia. Quando, poche ore dopo, mia moglie ritornò a casa, la poesia era fat­ta: completa, prima ancora di essere scritta, nella mia memoria. Devo averla composta in uno stato di quasi incoscienza, perché io, che quasi tutto ricordo delle mie poesie, nulla ricordo della sua gestazione. Ricordo solo che, di quando in quando, avevo come dei brividi. Né la poesia ebbe mai bisogno di ritocchi o varianti. S'intende che, ap­pena ritornata la Lina, stanca della lunga salita (si abitava a Montebello, una collina sopra Trieste) e carica di pacchi e dì pacchetti, io pretesi su­bito da lei che, senza nemmeno riposarsi, ascol­tasse la poesia che avevo composta durante la sua assenza. Mi aspettavo un ringraziamento ed un elogio; con mia grande meraviglia, non ricevetti né una cosa né l'altra. Era invece rimasta male, molto male; mancò poco litigasse con me. Ma è anche vero che poca fatica durai a persuaderla che nessuna offesa ne veniva alla sua persona, che era "la mia più bella poesia", e che la dovevo a lei.» (...) Altre più belle poesie egli scrisse, più complesse, più seducenti, forse anche più per­fette; ma in nessuna - crediamo - la nativa spon­taneità della sua vena zampillò da una sorgente più profonda. Giacomo Debenedetti parla della «sensualità quasi animalesca» colla quale sono portati i paragoni. Non si tratta di sensualità ani­malesca, forse nemmeno di sensualità, in nessun caso di sola sensualità (ma quando il Debenedetti scrisse il suo primo saggio sul Nostro era vergo­gnosamente giovane: aveva 22 o 23 anni). La poesia fa pensare piuttosto - come abbiamo detto - ad un improvviso ritorno all'infanzia; un ritorno però che non esclude la contemporanea presenza dell'uomo. (Se questa fosse mancata, Saba non sa­rebbe stato Saba, ma Pascoli.) Il poeta, come il fan­ciullo, ama gli animali, che, per la semplicità e nudità della loro vita, ben più degli uomini, ob­bligati da necessità sociali a continui infingimenti, «avvicinano a Dio», alle verità cioè che si possono leggere nel libro aperto della creazione. Un gior­no - e fu un bel giorno - Saba deve aver sentito con acuta gioia e tenera commozione, le identità che correvano fra la giovane donna che gli viveva accanto e gli animali della campagna dove allora abitava. La poesia, nata da questa "scoperta", porge, in sei lunghe strofe, altrettanti e più para­goni. Il poeta ritrova la sua donna nella giovane e bianca pollastra, nella gravida giovenca, nella lunga cagna, nella pavida coniglia, nella rondine, nella provvida formica, nella pecchia, e – dice il verso finale, che può sembrare, ed è invece altra cosa – un complimento da madrigale : «in nessun’altra donna». Ad ogni animale sono attribuite (come nelle favole) qualità essenziali; i versi suonano, in così antica materia, con gravità e dolcezza.

Umberto Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere,1948, ed Mondadori


Città vecchia
da Trieste e una donna

1912

 

Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un'oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.
5   Qui tra la gente che viene che va
dall'osteria alla casa o al lupanare ,
dove son merci ed uomini il detrito
di un grande porto di mare,
io ritrovo, passando, l'infinito
10 nell'umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega ,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
15 la tumultuante giovane impazzita
d'amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s'agita in esse, come in me, il Signore.
20 Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.


Tre vie
da Trieste e una donna

1912

 

C’è a Trieste una via dove mi specchio
nei lunghi giorni di chiusa tristezza:
si chiama Via del Lazzaretto Vecchio.
Tra case come ospizi antiche uguali,
5   ha una nota, una sola, d'allegrezza:
il mare in fondo alle sue laterali.
Odorata di droghe e di catrame
dai magazzini desolati a fronte,
fa commercio di reti, di cordame
10 per le navi: un negozio ha per insegna
una bandiera; nell'interno, volte
contro il passante, che raro le degna
d'uno sguardo, coi volti esangui e proni
sui colori di tutte le nazioni,
15 le lavoranti scontano la pena
della vita: innocenti prigioniere
cuciono tetre le allegre bandiere.

A Trieste ove son tristezze molte,
e bellezze di cielo e di contrada,
20 c’è un erta che si chiama Via del Monte.
Incomincia con una sinagoga,
e termina ad un chiostro; a mezza strada
ha una cappella; indi la nera foga
della vita scoprire puoi da un prato,
25 e il mare con le navi e il promontorio,
e la folla e le tende del mercato.
Pure, a fianco dell'erta, è un camposanto
abbandonato, ove nessun mortorio
entra, non si sotterra più, per quanto
30 io mi ricordi: il vecchio cimitero
degli ebrei, così caro al mio pensiero,
se vi penso i miei vecchi , dopo tanto
penare e mercatare, là sepolti,
simili tutti d'animo e di volti.

35 Via del Monte è la via dei santi affetti,
ma la via della gioia e dell'amore
è sempre Via Domenico Rossetti.
Questa verde contrada suburbana
che perde dì per dì del suo colore,
40 che è sempre più città, meno campagna,
serba il fascino ancora dei suoi belli
anni, delle sue prime ville sperse,
dei suoi radi filari d'alberelli.
Chi la passeggia in queste ultime sere
45 d'estate, quando tutte sono aperte
le finestre, e ciascuna è un belvedere,
dove agucchiando o leggendo si aspetta,
pensa che forse qui la sua diletta
rifiorirebbe all'antico piacere
50 di vivere, di amare lui, lui solo ;
e a più rosea salute il suo figliolo.


Veduta di collina
da La serena disperazione

1915

 

Che vedo mai dietro l'erma collina
che primavera così m'avvicina?

Un poco scende, poi risale appena,
ed insensibilmente ivi s'insena.

5     V'han colli dove bei nuvoli bianchi
posano a tonde spalle e larghi fianchi;

ma questo è nella sua linea più schietto:
mostra un dorso di lungo giovanetto.

Rade casine, qualche massa oscura;
10   dei vigneti sul ciglio dell'altura

azzurreggiano i pali; un picciol vetro brilla,
e si accende a tutto il sole. Dietro,

come del mare sul lido romito,
si vede l'occhio di Dio, l'infinito.


La greggia
da La serena disperazione

1915

 

Greggia, tu che il sobborgo impolverato
traversi a sera; ed un lezzo a me grato

dietro ti lasci; e hai tanta via da fare
tra la furia dei carri e lo squillare

5     dei tram, dove la vita ha più gran fretta,
come lenta procedi e in te ristretta!

Greggia che amai dall'infanzia sperduta,
per te la doglia si fa in cor più acuta;

e mi viene, non so, d'inginocchiarmi;
10   non so, nel tuo lanoso insieme parmi

scorger, io solo, qualcosa di santo,
e di antico, e di molto venerando.

Ti mena un vecchio sui piedi malcerto;
un Dio per te, popolo nel deserto.


Il patriarca
da La serena disperazione

1915

 

Nella collina che splende di faccia
seguo d'un vecchio l'operosa traccia.

Nella mia mente di fantasmi carca,
non è un agricoltore, è un patriarca.

5     La sua forza al peccato non s'estingue;
tien le radici nella zolla pingue,

nel forte figlio, nella bella nuora
in lui stesso; e con questo non ignora,

lo scaltro vecchio, che la vita è un male,
10   che la vita è il peccato originale.

Fin giù all'ultimo campo, per divino
volere, dato ai suoi, tolto al vicino

un mondo nuovo ha di sé fecondato.
Ne gode, e pensa: Felice il non nato!
Ancora un commento dell’Autore, tratto da Storia e cronistoria del Canzoniere

"Veduta di collina", "La greggia" e "Il patriar­ca" sono poesie legate fra loro; il pittore Vittorio Bolaffio - che deve aver dipinto qualcosa di equi­valente - le avrebbe riunite dentro una sola cor­nice, e chiamate "Trittico".
Seduto alla finestra della sua casa, il poeta guarda una collina di faccia, dove un frammento di vetro «brilla e si accende a tutto il sole», e dietro alla quale si vede «l'occhio di Dio, l'infinito». In quella collina si muove, opera, un vecchio conta­dino: Saba ne fa un personaggio biblico che, dopo di aver fecondato di sé tutto un mondo, pensa "Fe­lice il non nato" . Inserita fra "Veduta di collina" e "Il patriarca", "La greggia" ha pure note - se così possiamo dire - da Vecchio Testamento. La vista di un gregge, che attraversa la sera un sob­borgo impolverato, mette in Saba il desiderio d'in­ginocchiarsi, come alla presenza di qualcosa di santo «e di antico e di molto venerando». Il pa­store che lo guida è, per il gregge, un dio:

            Ti mena un vecchio sui piedi malcerto,
            un dio per te, popolo nel deserto.

"Il patriarca " sembrò una conferma del pessimi­smo innato (a fondo semitico) di Saba. E certamente, almeno nella prima parte della sua vita e della sua opera, Saba fu un pessimista. Ma non al punto, né per le ragioni, che si è creduto. Saba - come gli altri uomini, forse più - aveva soffer­to abbastanza per comprendere che la vita indi­viduale, nella quale i mali sono prevalenti sui beni, che porta insite in sé le necessità della vecchiaia, della malattia e della morte, può bene nascondere alle sue origini, un errore; essere - come pensava il suo patriarca - il peccato originale:

La sua forza al peccato non s'estingue,
 tien le radici nella zolla pingue,
nel forte figlio, nella bella nuora,
in lui stesso. E con questo non ignora,

lo scaltro vecchio, che la vita è un male,
 che la vita è il peccato originale.

Tutto questo è vero; ma è vero anche che, alme­no nelle sue poesie, Saba gravò di raro l'accento su tristezze immedicabili. Pochi poeti invece furo­no quanto lui sensibili a quelle poche gocce d'oro che cadono talvolta sulla nostra lingua, e facevano disprezzare a Nietzsche quelli che o non se ne accorgono o fanno mostra di non accorgersene. Ve­dremo a suo tempo che quasi tutta l'ultima poe­sia di Saba è fatta di quelle rare gocce d'oro.
La Serena Disperazione fu scritta alla vigilia della guerra mondiale. Saba non era il solo a sentirla venire.


Umberto Saba
(Trieste 1883 – Gorizia 1957) La madre, ebrea, fu abbandonata dal marito prima della nascita del figlio: Saba conobbe il padre solo da adulto, ma ne rifiutò il cognome, Poli, assumendone invece uno che suonasse omaggio alla razza materna (“saba” significa “pane” in ebraico). Senza aver terminato gli studi, lavorò come praticante in una casa di commercio triestina e anche come mozzo su un mercantile. Fu militare durante la Grande Guerra,ma non andò mai al fronte. La prima vera uscita pubblica come poeta è del 1911, con Poesie, introdotte dal letterato triestino Silvio Benco. Seguiranno nel ’12 le liriche di Coi miei occhi e il saggio Quello che resta da fare ai poeti, che però fu rifiutato dalla Voce (i rapporti di Saba con la Voce, stretti durante il suo soggiorno fiorentino dell’11, non furono buoni come dimostra anche la stroncatura che Scipio Slataper fece delle Poesie). Dopo la guerra divenne proprietario di una libreria antiquaria, che costituì per lui un rifugio,ma anche un mezzo di sostentamento e di tutela della propria attività di scrittore. Nel ’21 pubblicò presso la sua “Libreria antica e moderna” il Canzoniere, che raccoglie la produzione poetica di un ventennio e a cui seguirono Preludio e canzonette (1923), Autobiografia e I prigionieri (1924), Figure e canti (1926), Preludio e fughe (1928). Sempre nel ’28, Solaria dedicò a Saba un numero monografico, a testimoniare la crescita della sua fama. Contemporaneamente peggioravano le sue condizioni psichiche, già da anni minate dalla nevrosi,tanto da spingerlo a sottoporsi a cure psicoanalitiche, dal ’29 in poi. Con la promulgazione delle leggi razziali (1938) Saba fu costretto a rifugiarsi prima a Parigi, poi a Firenze, dove Montale e altri intellettuali lo protessero. Furono pubblicate nel frattempo altre sue raccolte, unite poi alle precedenti nella seconda edizione del Canzoniere (1948), destinata ad ottenere unanimi riconoscimenti da parte della critica, fino allora generalmente fredda. Ma la fama non aiutò Saba a vincere le crescenti crisi depressive, che lo costrinsero a un pressoché totale isolamento. Nel ’53 fu ricoverato in una clinica romana; nel ’56, quando morì la moglie Lina, si stabilì a Gorizia, dove rimase fino alla morte.
Numerose anche le raccolte dell’ultimo decennio, tutte confluite nelle varie edizioni del Canzoniere.  Folta anche la produzione in prosa: Scorciatoie e raccontini (1946), l’interessante, anche se autoencomiastica, interpretazione della propria poesia, Storia e cronistoria del Canzoniere (1948), Ricordi-Racconti (1956); infine il romanzo incompiuto Ernesto, edito solo nel 1975, sensibilissima analisi dell’educazione sessuale di un adolescente, narrata in una commistione di dialetto triestino e lingua italiana.


Ape.

Saba scrive di sé in terza persona.

Uno dei più importanti critici letterari italiani del ‘900.

Breve componimento poetico, per lo più di carattere amoroso.

Bordello.

Litiga ad alta voce.

  Soldato appartenente a un reparto di cavalleria; qui, ironicamente, soldato che si dà delle arie, sbruffone.

Cerimonia funebre.

La madre di Saba era ebrea, mentre «suo padre – scrive Saba in Storia e cronistoria – che sparì subito dal cerchio della famiglia (prima ancora che il poeta nascesse) e che questi conobbe appena intorno ai vent’anni “ariano”».

Lavorando con l’ago, cucendo.

Il soggetto della frase è generico (Chi la passeggia), ma si intravede il motivo autobiografico di un periodo critico tra il poeta e sua moglie. «IL finale dell’indimenticabile poesia riconduce, per vie indirette, al piccolo dramma che si svolgeva allora tra il poeta chiuso nel suo pericoloso egocentrismo, e la sua, anche più pericolosa, ispiratrice» (Storia e cronistoria).

Una frase simile compare nel libro di Qoelet (4,3), nell’Antico Testamento.

 

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Umberto Saba poesie e riassunti brevi

 

La Poesia Onesta

Saba fin dall’inizio della sua vita poetica, esprime l’idea di una nuova poesia, lontanissima da quella delle tendenze dominanti del suo tempo: non approvava l’estetismo dannunziano, il modernismo dei futuristi ed anche i crepuscolari, a cui erroneamente talvolta viene accostato . Il suo modello di poesia era una «poesia onesta», la poesia autentica, in grado di scavare in fondo l’animo, superando le ambiguità, le doppiezze, le ipocrisie dell’apparenza per arrivare direttamente al cuore delle cose e dei sentimenti, al loro essere reale. Compito del poeta è infatti, secondo Saba, esprimere il mondo con sincerità, evitando compiacimenti stilistici e concettuali.   La poesia non ha uno scopo estetico, come proclamavano invece gli estetisti, ma anche una funzione indagatrice e quindi curativa. Per le sue idee della poesia come cura per l’anima, Saba verrà proposto come alter ego di Freud, le funzioni che quest’ultimo infatti attribuirà qualche anno più tardi alla psicanalisi, Saba le aveva già legate alla poesia, in particolare a quella «onesta», e quindi non alla letteratura disonesta, fra cui primeggiava D’Annunzio.

Saba, data la sua umanità, vuole far sì che la sua poesia sia un dono per gli altri (Pascoli), con la speranza di giungere ad un discorso fatto di umiltà, semplicità e pietà. Saba contrappone il Manzoni (simbolo poesia onesta x saba) degli Inni sacri (versi mediocri ma immortali perché onesti, frutto di autentici sentimenti), al D'Annunzio (versi magnifici, ma effimeri perché disonesti in quanto artificiali, non rispondenti ai sentimenti, bensì costruiti ad effetto). La “poesia onesta” si contrappone alla “poesia disonesta”, quella che è ricerca del bello anche a danno del vero, è compiacimento estetico, è in poche parole quella di D’Annunzio, che è “letterato di professione”, celeberrimo ed ammiratissimo,  e per questo più attento al successo che alla ricerca della verità.  Saba ha quindi già ben chiara la nozione di una poesia che non deve essere frutto di artificio, di finte passioni, di menzogna, esclusivamente volta ad ottenere un bel risultato. Compito dello scrittore è far collimare contenuto e forma, magari limitando la spinta emotiva, piuttosto che correre il rischio di esagerare e mentire. Il poeta, lo scrittore in genere, deve essere, tanto nella vita, quanto nella letteratura, un uomo onesto(punto di partenza di Saba). Saba mira al giusto equilibrio tra sentimento ed arte, tra contenuto e forma, seguendo l'ispirazione, senza timore di ripetere se stesso o gli altri, (al contrario dei simbolisti, sostenitori della poesia pura). Saba si accosta ad una poesia discorsiva, capace di accogliere tutte le occasioni di ispirazione che la vita può offrire.

Saba assume un ruolo indipendente e originale nella letteratura italiana, in quanto si distacca dalle maggiori correnti poetiche e si dedica per tutta la vita alla ricerca di nuove finalità e di nuovi significati. La sua forza è quella di riuscire a mantenere continuamente e costantemente una rara fedeltà al suo mondo ed al suo timbro. La sua posizione di isolato nei confronti della cultura e della letteratura a lui contemporanea fu mantenuta, minime influenze furono solo impercettibili tentazioni. La sua personalità, su cui influirono le drammatiche vicende della sua esistenza, è orientata verso la saggezza, in quanto egli, pur non ignorando i problemi e i mali dell'uomo, rivaluta la vita umana individuando in essa importanti valori.

 

SABA E LA PSICOANALISI

Fu l’incontro con il medico triestino Edoardo Weiss (allievo di Freud) a sciogliere il groviglio

delle sue angosce e a renderle manifeste nella sua poesia. Saba iniziò la terapia con Weiss nel 1929 e la terminò nel 1931 quando il medico si trasferì a Roma. In una lettera del 13 settembre 1929, firmata Berto, Saba scrive a Debenedetti di avere avuto una crisi nervosa che lo aveva portato vicino al suicidio: “Devi sapere che alla radice della mia malattia stava la mancanza del padre: ma come, in qual senso e con quali conseguenze è cosa incredibile e vera”. La cosa peggiore della mia infanzia fu l’assenza di un padre (buono o cattivo) (le vicende di “Saba psicoanalitico” ruotino indiscutibilmente attorno alla sua infanzia).  e il dott. Weiss supplì, fino a un certo punto, a questa mancanza.” Il tema della lacerazione affettiva conseguente al dissesto familiare compare già nei sonetti di Autobiografia.  Grazie alle moderne teorie psicoanalitiche oggi sappiamo quanto i primi anni di vita siano decisivi nel futuro sviluppo mentale di una persona e quanto influenzino le sue scelte di vita. Pensando all’infanzia di Saba, è chiaro l’effetto che ha avuto su di lui l’incontro con la filosofia freudiana e appare palese la massiccia presenza della figura materna nella produzione del Canzoniere. La madre, ricordiamolo, lo aveva affidato alla balia Peppa Sabaz fino all’età di tre anni, per poi riprenderlo e rivolgergli una premura quasi morbosa. Ella con il suo atteggiamento verso il figlio, unito all’assenza del padre, contribuì a creare una confusione di ruoli e una dolorosa mancanza nel piccolo Umberto. Nel 1952 Saba scrive a Vittorio Sereni: “In realtà, più che guarire, personalmente, ho capito molte cose dell’anima umana, che prima mi erano non solo oscure, ma addirittura insospettate. Il percorso che Saba intrattiene con Weiss, con il suo allievo Joachim Flescher e poi con Giovanni Bollea è di grande interesse per comprendere l’aspro cammino che trasforma in un potente farmaco la sua poesia. Lo stesso Freud scrive a Weiss di Saba (Lettere sulla psicoanalisi, 1994): “Non credo che il suo paziente potrà mai guarire del tutto. Al più uscirà dalla cura molto più illuminato su se stesso e sugli altri. Ma, se è un vero poeta, la poesia rappresenta un compenso troppo forte alla nevrosi, perché possa interamente rinunciare ai benefici della sua malattia”.  Saba difende la psicoanalisi, spiegando che attraverso di essa il poeta può ritrovare in sé la “scontrosa grazia” del “ragazzaccio aspro e vorace” e guardare il  mondo con i suoi occhi trasformando in amore l’angoscia infantile. A Edoardo Weiss, “il padre sostituto”, Saba dedica Il piccolo Berto una specie di “amoroso colloquio” , non solo fra il poeta e la sua nutrice, ma, e più

ancora, fra il poeta prossimo alla cinquantina e il bambino – quel particolare bambino – ch’era stato (o immaginava di essere stato) tanti anni prima.

 

Saba contrappone l’umile onestà di Manzoni all’astratta bellezza letteraria dei versi del vate. Saba indaga sulla verità profonda da cui nasce il bisogno della scrittura e si accanisce contro coloro i quali, offuscati dal mito della perfezione formale, perdono di vista l’autentica ragione che sta alla base della poesia. Insomma, ai poeti “resta quello che finora fu solo raramente e parzialmente compiuto, la poesia onesta”, intendendo con quest’ultima espressione una sincera ricerca del proprio mondo interiore. In quest’ottica la bellezza diventa una “variabile dipendente” della verità e il “criterio estetico” non viene nemmeno preso in considerazione. Con le dovute cautele possiamo vedere in questo atteggiamento di Saba una specie di predisposizione a Freud in quanto, come lui, anche il poeta continua a rivolgere dentro di sé uno sguardo nitido e tagliente come uno strumento scientifico. Naturalmente il richiamo al padre della psicoanalisi vale in superficie, perché Saba non cerca una teoria ma la propria originalità . La ricerca dell’originalità tramite l’intervento della psicoanalisi si configura come una tappa sulla via della guarigione: Saba è pienamente consapevole che la poesia nasce dalla  “malattia del poeta”, da quelle qualità che lo rendono diverso dagli altri come l’ipersensibilità, il narcisismo, il compiacimento per la propria diversità ecc. La perfetta guarigione dovrebbe quindi coincidere con la cessazione della poesia, ma per quanto il poeta anelasse a trovare la pace non volle mai compiere del tutto questo passo. Egli stesso sembra esserne consapevole e in una lettera scrive: "il Canzoniere non è un’opera di salute, né poteva esserlo dato che sono stato sempre, più o meno, contraddittorio e ammalato; fu appena un’opera di aspirazione alla salute.”

 

Ricordo e nostalgia del passato

Nelle ultime raccolte, accanto alla contemplazione assorta della vita si insinuano il ricordo e la nostalgia del passato, spesso affidati alla musicalità dei versi. Persistono, tuttavia, gli aspetti domestici e le figure amate, i versi sono, però, più scanditi e la composizione è breve e incisiva. Restano immutabili i temi originari: i fanciulli di Trieste, le vie solitarie, i caffè fumosi del porto, le donne amate. Sono temi immobili, poiché Saba concepisce la vita come immutabile: l'uomo - ed in questo segue il pensiero di Leopardi - spera sempre un domani migliore, anche se sa che il nuovo giorno porterà le stesse sofferenze di quello trascorso. Saba è ritenuto una delle voci migliori e più riconoscibili del '900 italiano, per la fedeltà ai propri temi, la ricchezza sentimentale, l'impegno umano, l'itinerario spirituale e stilistico non condizionato dalle mode. La sua poesia è, soprattutto, storia della sua esistenza, contemplata con la fermezza di chi sa trovare nel dolore e nella pena il segno del destino umano, in nome del quale si sente unito agli altri uomini (Leopardi - La ginestra). Mentre i poeti del periodo fra le due guerre tendono ad una riflessione e ad una grande consapevolezza letteraria, che conduce all'ermetismo, in Saba è evidente la volontà di esprimersi in modi semplici, musicali. Il fondo costante di Saba è la consapevolezza malinconica di una esistenza immutabile e la malinconia è alleviata dalla contemplazione delle cose quotidiane, dal sentirsi vivere, dall'accettare le passioni come sempre diverse e sempre le stesse. I paesaggi non sono descritti, bensì evocati dal ricordo e dall'affetto che modulano un canto monotono, ma intimo e suggestivo.

 

Poeta, non letterato di professione

Il poeta deve rileggersi cercando di rilevare la corrispondenza fra stati d'animo e versi, tra pensato e scritto, mediante moduli tradizionali e semplici, in netto contrasto con le soluzioni allora di moda. Al contrario di quanto vede fare intorno a sé, Saba adotta il più semplice dei linguaggi e propone un discorso non drammatico, alieno da violente speculazioni, cercando di sviluppare la naturale capacità dell'uomo.

 La sua poesia è di un autodidatta, formatosi sulle opere affermate della tradizione. Per questo egli non rifiuta di adoperare le i termini quotidiani e familiari accanto a quelli più noti e amati della tradizione letteraria in una struttura sintattica chiara e lineare. secondo Saba la poesia è il frutto dell'emozione che nasce spontaneamente dalla vita vissuta, ricordi e dalle esperienze anche banali. i motivi dominanti della poesia di Saba sono da considerarsi l'amore per Trieste, l'amore per la donna, l'amore per la vita. Con la prevalenza dell'amore il dolore viene accettato e la malinconia non è scoraggiante ma riflessione meditata che rende il vivere più consapevole.

Il poeta, inoltre, deve abbandonare il modello del letterato di professione (D'Annunzio) rifiutando sia le soluzioni dei futuristi, sia quegli esiti dannunziani che hanno prodotto una poesia artificiale e la collusione tra letteratura e politica. Parimenti Saba rifiuta la ricerca esasperata dell'originalità e la sperimentazione eccessiva e gratuita, mirando, invece, ad una equilibrata opera di revisione, di selezione e di rifacimento.

 

TRIESTE

Per comprendere l’opera di Saba bisogna tener presente il rapporto saldissimo, di profondo affetto, insieme psicologico e poetico, che unì il poeta alla sua città e che costituisce uno degli aspetti più caratterizzanti della sua attività letteraria. Per Saba infatti la poesia rifugge da generalità e astrattismo e coincide con la rappresentazione e  l’interpretazione di una determinata realtà ambientale e geografica: Trieste. Trieste nei primi decenni del secolo era una città inquieta: divisa tra più culture, si presentava contemporaneamente in arretrato e in anticipo rispetto all’Italia, tanto che Saba poteva affermare: «Nascere a Trieste nel

1883 era come nascere altrove nel 1853». La città era ugualmente divisa tra le sue varie anime etniche (l’ariana e l’ebraica, l’italiana, la tedesca e la slava) come  tra le varie tendenze. Quando si parla della famosa «triestinità» di Saba la si deve intendere nel senso di una simbiosi non solo sentimentale, ma anche fisica. Non a caso il colore preferito dal poeta è l’azzurro, che poteva ammirare nel mare e nel cielo di Trieste. Tutta la città gli è cara: è un amore fisico che si unisce a quello della «calda Vita» che vede brulicare per le strade e le piazze. La città lo affascinava nei suoi contrastanti aspetti di crogiolo di razze. La città natale ha una forte presenza nella lirica di Saba: Trieste è stata il suo osservatorio privilegiato e l’atmosfera triestina si dispiega nel Canzoniere sia in forma esplicita, nelle famose liriche,  Trieste,Tre vie, Verso casa, Città vecchia, , sia in forma implicita, perché tutte le poesie presuppongono il continuo rapporto con la città, secondo una costante che è stata felicemente definita la triestinità-universalità di Saba. Pur se il rapporto con la sua città si fece, nel corso degli anni, più ambivalente, l’amore per Trieste accompagna Saba per tutta la sua esistenza e si identifica con quel «doloroso amore  della vita» che è il tema dominante del Canzoniere:

luogo in cui egli poteva trovare il suo "cantuccio" per riflettere e pensare. Ma la sua triestinità è anche una condizione di marginalità, di cui egli è consapevole; la scelta di Saba, di immettersi nel solco della tradizione letteraria italiana, lo porta ad uscire con molta determinazione da quella sorta di limbo culturale che era Trieste nel passaggio dall’Otto al Novecento tanto che si trasferirà a Firenze a far parte di un ambiente letterario che si dimostrò subito alquanto ostile verso le sue origini e la sua idea di poesia. Proprio questa determinazione nel tener fede al suo iniziale concetto di poesia ed il desiderio di prendere una decisione chiara all’interno di una società apparentemente molto confusa, contribuirono a rendere Saba uno dei più grandi poeti del Novecento.

La sua poesia, come quella di molti grandi autori del novecento, risente, inoltre, di un notevole influsso della psicoanalisi. Egli, infatti, venuto a contatto con trattamenti psicoanalitici per il suo caso di nevrastenia, studia la scienza approfonditamente e con grande interesse.

La psicoanalisi non gli servì, dunque, solo a guarire, ma anche a comporre con una più chiara coscienza di sé, degli altri, della realtà e della storia.

In particolare, sono gli elementi di eros e thanatos, appresi dalla psicoanalisi, ad influenzare la sua produzione: l’eros, desiderio di vita, e il thanatos, impulso di morte, si fondono l’un l’altro, divenendo un binomio fondamentale.

Ma questo binomio non vale solo per la personale esperienza e sensibilità del poeta, ma può essere rintracciato in qualunque esperienza quotidiana sua e di tutti.

Nelle sue poesie, infatti, sono sempre presenti componenti di malinconia e di tristezza, che, però, vengono bilanciate dal suo amore per la sua città, la sua gente, dal suo incanto per la vita, seppur dolorosa.Saba ha una totale accettazione della vita e della condizione umana. Per questo egli si affianca agli uomini con grande umanità. Ma la sua celebrazione delle “piccole cose” è ben diversa da quella pascoliana: mentre Pascoli, per l’azione del fanciullino, tendeva ad attribuire grandi valori alle piccole cose, Saba comprende che solo l’accettazione delle cose “quali esse sono” permette di vincere la disperazione.

 

Il linguaggio utilizzato da Saba è un linguaggio discorsivo e quasi colloquiale, seppur illuminato dalla grande cultura e conoscenza dei classici.

Egli si vantò di essere ‹‹il poeta più chiaro del mondo›› e tese ad eliminare il lessico aulico,  cercando al suo posto versi ‹‹mediocri e immortali››(7)

Le parole venivano scelte per la loro concretezza, non per la loro musicalità o suggestione: c’è in Saba una profonda avversione per le complicazioni intellettualistiche, gli sperimentalismi formali, gli artifici letterari, le menzogne, gli autoinganni, l’incapacità di accettare la vita nella sua elementare chiarezza.

E’ ancora Saba a definirsi “il poeta meno rivoluzionario che ci sia”. Il fatto è che la vera rivoluzione, a suo giudizio, si realizza nella conquista di una verità profonda; una conquista difficile che deve combattere anche contro la tentazione del preziosismo formale.

Nella sua opera, invece, il linguaggio è solitamente semplice ma a volte assume toni eleganti; ciò avviene sempre in relazione agli argomenti, che mai sono disposti in modo sistematico, bensì risentono di una certa casualità, spesso avvicinandosi alla cronaca quotidiana. Egli, ed in ciò consiste buona parte della sua poesia, vede quello che l'uomo comune non nota. Con ciò non si adegua necessariamente alla problematica pascoliana delle piccole cose ma al contrario riesce a  trarre significato poetico universale dalle vicende quotidiane.  Sono notevoli nella sua poesia i motivi umani  della famiglia, della città natale, delle speranze dell'uomo. Troviamo nella sua opera anche il tema della felicità, che non è trattato in modo pessimistico, proprio perchè l'autore ritiene che la felicità sia raggiungibile. La stessa morte non è motivo di disperazione, ma riconcilia con la vita. C'è in Saba, accanto alla consapevolezza  del dolore, quella che si può definire una “serena disperazione”. Il suo messaggio si allontana dalla visione definitivamente pessimistica di buona parte della poesia moderna e risulta equilibrato e positivo, poiché esalta i valori principali dell'uomo ed induce alla volontà di lottare per essi.

 

IL canzoniere Saba raccolse tutta la sua produzione poetica maggiore in un unico libro: il Canzoniere. I 437 testi che lo formano sono stati scritti nell’arco di oltre mezzo secolo, tra il 1900 e il 1954. Il progetto unitario, come risulta da alcune lettere, nasce intorno al 1913-14, quando sono state già pubblicate, tra il 1911 e il 1912, due raccolte di versi (Poesie e Coi miei occhi). La prima edizione del Canzoniere tuttavia è del 1921. Essa è suddivisa in dieci sezioni comprendenti testi composti tra il 1900 e il 1921. Una seconda edizione dell’opera vede la luce presso l’editore Einaudi di Torino nel 1945. Essa ridisegna il progetto dell’opera, aggiungendovi le otto raccolte pubblicate nel frattempo da Saba. Compare ora la divisione in tre grandi “volumi”, il primo dei quali riproduce di fatto l’edizione del 1921 (non senza cambiamenti). Questo Canzoniere del 1945, a differenza di quello del 1921, corrisponde ad un’idea definitiva, che le varie aggiunte seguenti non modificheranno nella sostanza. L’edizione del 1948 vede l’incremento di una nuova sezione. Solo quattro anni dopo la morte del poeta, nell’edizione del 1961 (la quinta di Einaudi), vengono aggiunte altre quattro sezioni, composte tra il 1947 e il 1954 e in parte già pubblicate in stampe a sé ma non inserite dall’autore nella terza e quarta edizione Einaudi. Tutte le sezioni aggiunte dopo l’edizione del 1945 entrano a far parte del terzo volume.
Il Canzoniere sabiano è come detto organizzato in tre volumi. Ogni volume è a sua volta suddiviso in varie sezioni, corrispondenti spesso a raccolte precedentemente pubblicate a sé. Il primo volume è formato da otto sezioni e raccoglie 156 poesie composte tra il 1900 e il 1920. Il secondo volume è anch’esso suddiviso in otto sezioni e comprende 109 testi composti tra il 1921 e il 1932. Il terzo volume, infine, raccoglie, nell’edizione postuma e definitiva, nove sezioni comprendenti 172 poesie composte tra il 1933 e il 1954.
La scelta del titolo Canzoniere non è casuale ma mostra la volontà di Saba di ricollegarsi alla grande tradizione lirica italiana, avente come modello il Canzoniere petrarchesco, e di dare carattere unitario e generico alla propria opera. Già da questi primi dati si comprende come la realizzazione del Canzoniere risponda a un progetto molto ambizioso e complesso, all’interno del quale una finalità particolare è destinata proprio alla struttura. Saba, in particolar modo nella Storia e cronistoria del Canzoniere, invita più volte il lettore a considerare l’opera nella sua unità e non come semplice raccolta di sequenze indipendenti tanto che, molto spesso, le scelte dell’autore si realizzano in base non tanto a criteri stilistici o estetici quanto in base al proposito di conferire al Canzoniere un aspetto unitario e coerente nella sua pur grande varietà. Nel disegno dell’opera non mancano puntuali strategie numeriche (la divisione in tre volumi risponde alla predilezione per i multipli di tre nelle numerose sequenze di testi presenti nell’opera), così come molto rilevanti sono le relazioni tematiche tra una sezione e l’altra: eventi di particolare risalto sono collocati in sezioni diverse, così da fungere da ponte e in modo da conferire una certa circolarità all’opera, cosa che è particolarmente importante perché funzionale all’armonia e alla chiarificazione del tutto. 
La tendenza all’unità, i vari legami tematici tra i componimenti, il bisogno da parte dell’autore di confessarsi e di raccontarsi, ha fatto sì che per il Canzoniere sabiano si sia spesso parlato di “romanzo psicoanalitico”: infatti Saba racconta poeticamente per blocchi tematici momenti e vicende particolari della sua vita, una vita relativamente povera di avvenimenti esterni ma molto ricca di moti e risonanze interne. Da tutto ciò nasce l’originalità dell’opera, soprattutto in un orizzonte contemporaneo di scelte poetiche tendenti per lo più alla purezza e all’assolutezza, e in contrasto tra l’altro con tutte le poetiche influenzate dall’idealismo crociano. È anche in virtù di questa specificità e originalità che la poesia di Saba inizia e apre un filone specifico della nostra letteratura novecentesca in versi, diverso da quello montaliano e del tutto alternativo a quello ungarettiano ed ermetico.

 

Ordine sparso è il nono componimento dei versi militari, seconda sezione del primo volume del canzoniere, scritta a salerno durante il 1908, al primo servizio di leva e pubblicata per la prima volta nel volume Poesie del 1911: costituisce dunque l’opera dell’esordio poetico di Saba. La poesia descrive un ‘esercitazione svolta dai soldati durante il servizio di leva. Nel gergo militare l’ordine sparso’ indica un tipo di schieramento delle truppe sul campo in cui, durante un attacco o ritirata, i singoli soldati procedono da soli, sparsi appunto, e non in formazione compatta, di solito per prendere di sorpresa il nemico. Si capisce dai versi 3 e 4 che l’atmosfera emotiva del testo non è quella ansiosa di una vera battaglia, ma piuttosto eccitata e sorpresa di chi per la prima volta si mette nei panni del soldato. La poesia può essere assimilata a una brevissima novella d’occasione giovanile ed è fondata sulla tecnica dello straniamento . si tratta dell’utilizzo di un artificio( in questo caso la finzione dell’esercitazione militare) che consente di introdurre nel testo un modo per descrivere e mostrare le cose o i fatti, anche più comuni, come se li vedesse per la prima volta. Straniare  vuol dire rendere estraneo significa rappresentare qualcosa di ordinario e conosciuto attraverso un prospettiva insolita. Saba allude anche a uno degli aspetti tipici della sua scrittura, che vuole osservare la realtà non dal punto di vista spesso retorico e orgoglioso degli uomini, ma adottando una prospettiva umile, semplice di cui sono simboli la pecora e le bestie.

 

 

A mia moglie è un testo semplice nel linguaggio e trasparente nei significati. Le strofe iniziano tutte allo stesso modo : " Tu sei come" , introducendo di volta in volta il paragone con gli animali . I versi sono brevi con rilevante frequenza di enjambement : ( una gravida / giovenca ; una lunga / cagna ; la pavida / coniglia ) . Osserviamo nel finale tre parole chiave collocate ognuna a fine verso ( animali/donna/Dio) , che rispecchiano l'opinione di Saba secondo il quale la donna , come gli animali , avvicina a Dio. Il testo è un vero elogio alla moglie Lina realizzato attraverso termini di paragone inconsueti : animali a cui non si è soliti riferire la figura di una donna amata e che in genere non rientrano nel linguaggio della lirica amorosa. Saba con la poesia vuole anche celebrare la superiorità del genere femminile e la sua maggiore vicinanza alla natura , mettendone in evidenza la grande energia vitale e la prorompente fisicità. Il tono della poesia riflette la predilezione di Saba per il lessico quotidiano e semplice e quindi per le forme in grado di evocare in modo immediato immagini , suoni e stati d'animo. Saba usa volutamente questi toni per essere "naturale" e in accordo con il soggetto che tratta. E' evidente che non c'è ironia alcuna , da parte di Saba, quando rispecchia la moglie nell'esistenza di modesti animali come la pollastra , la mucca, la cagna o la coniglia. Insomma Saba non vuole assolutamente mancare di rispetto alla moglie e alla donna in genere , ma lodarle con una concezione del femminile non proprio "moderna".
Saba, parlando della moglie , descrive le maggiori virtù della donna secondo un'angolazione tradizionale ( ha un passo di regina / è migliore del maschio).Tutto questo nasce dall'osservazione della sua naturalezza e della sua fisicità .Ne sottolinea la protettività materna (v25) , la dolcezza che si unisce alla gelosia aggressiva(v41) , l'eleganza delle movenze come nella rondine (v69), la fedeltà laboriosa come quella della formica (v77).

 

Fonte: http://www.webalice.it/quomodo/2012/5C-italiano/Saba.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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