Canti inferno dal XII analisi e sintesi

 


 

Canti inferno dal XII analisi e sintesi

 

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Divina commedia canti inferno dal XII analisi e sintesi

 

Inferno – Canto XII

 

Il luogo in cui giungemmo per scendere lungo il dirupo  era scosceso e, per di più a causa di ciò che in esso si trovava (il Minotauro), tale, che ogni sguardo  lo avrebbe evitato.
Quale è la frana  che a valle di  Trento colpì in una delle sue rive  l’Adige, o a causa di un terremoto o per l’erosione del terreno sottostante,
in modo che il pendio  dalla vetta della montagna, dalla quale la frana si staccò, alla pianura è così inclinato, da offrire una via di discesa a chi si trovasse in alto,
Dante precisa le forme del paesaggio infernale mediante riferimenti a luoghi della terra. Questi riferimenti sono, condotti a volte con uno scrupolo che può apparire scientifico, come qui, dove è indicato non solo il risultato, di un fenomeno (la particolare configurazione del terreno: è sì la roccia discoscesa), ma il  fenomeno stesso (la ruina che percosse l'Adige) e le sue più probabili cause (terremoto o erosione del terreno).
Come giustamente osserva Montanari, occorreva vedere "in queste insistenze descrittive più ancora che la mentaIità realistica, esatta, scientifica di Dante, l'impegno verso il suo  tema sentito come cosa assolutamente seria e più che poetica". Diversamente infatti che nelle altre visioni medievali dell'oltretomba, dove l'elemento immaginativo prevale sempre su quello reale, nella Commedia, più la situazione è irreale, fantastica, più appare convalidata , dall'assoluta serietà con cui il Poeta la descrive. In perfetto accordo con il pensiero cristiano, per Dante la vera realtà è l'oltretomba; essa, appunto perché reale, appare dotato di leggi proprie e intimamente coerente con se stesso. Di qui la
scientiflcità di cui spesso l'elemento fantastico si colora in Dante.
La frana a sud di Trento, alla quale è paragonato il dirupo che porta dal sesto al settimo cerchio, va probabilmente identificata negli Slavini di Marco, dei quali una esatta descrizione è in un passo del trattato Sulle meteore di Alberto Magno.

tale era la discesa di quel burrone; e nella parte superiore della Costa franata  giaceva distesa la vergogna, dei Cretesi
che fu concepita nella finta vacca; e quando ci vide, morse se stesso, come colui che è sopraffatto internamente dall’ira.
Il Minotauro, che per gli antichi era un uomo con la testa di toro, ma che Dante, equivocando forse un'espressione di Ovidio ("uomo per metà bovino, bove per metà umano"), immagina come toro con la testa di uomo, è definito infamia in quanto rappresenta la testimonianza vivente del degradarsi dell'umano nel bestiale. Sua madre Pasifae, moglie del re di Creta Minosse, presa d'amore per un toro, si fece rinchiudere in una vacca dì legno. Nato che fu, il Minotauro venne imprigionato in un luogo da cui era impossibile uscire: il Labìrinto. Nel Minotauro dantesco i richiami mitologici si fondono con il realismo della scena colta dal vivo. Il simbolo (l'infamia) non resta confinato nell'ambito del riferimento dotto (la leggenda di Parsifae), ma acquista concretezza, esprime una vitalìtà disperata nella descrizione del mostro che prima morde se stesso, poi, quando l'ira è al culmine (versi 22-24), saltella come il toro morente.
Il mio saggio maestro gli si rivolse gridando: “ Pensi forse di trovarti in presenza del signore  d’Atene, che sulla terra ti diede la morte?
Allontanati, bestia: costui non giunge infatti guidato da tua sorella, ma si reca  a vedere i vostri tormenti”.
Osserva giustamente il Sapegno come le parole che Virgilio rivolge al Minotauro, mentre sembrano volerlo rassicurare, in realtà, richiamandogli alla memoria la sua cruenta uccisione e il tradimento della sorellastra Arianna, figlia di Minosse, ne accrescono l'ira e "la portano a sfogarsi in gesti dissennati e bestiali, sui quali facilmente. anche questa volta, avrà il sopravvento l'astuta ragione dell'uomo"
Secondo una leggenda, Arianna aìutò Teseo a raggiungere il Minotauro perché lo uccidesse; e, affinché l'eroe non si smarrisse nell'intrico del Labirinto, gli diede un gomitolo da dipanare lungo il suo cammino.

Come fa il toro che si scioglie dai nodi che lo legano nell’istante  in cui, mortalmente colpito, non è più capace di camminare, ma barcolla qua e là,
tale io vidi diventare il Minotauro; e il sagace Virgilio  gridò:  “ Corri al punto di discesa; è bene che tu scenda, mentre è infuriato ”.
L'immagine del toro colpito a morte è già in Seneca e Virgilio. Questi autori, nel descrivere l'uccisione dell'animale in occasione di un sacriflcìo agli dei, sanno infondere a tutta la scena un senso di nobile pietà. In Dante il quadro sembra ritrarre piuttosto la scena di un macello, e si concretizza in una accentuazione dei tratti più crudi e realistici. Come Cerbero, il Minotauro è anch'esso animalità allo stato puro, forza cieca che l'umana ragione non può non disprezzare e deridere.
Così ci avviammo  attraverso l’ammasso di quelle pietre, che si muovevano spesso sotto i miei piedi per l’insolito peso.
Dante ravviva sovente la narrazìone del suo viaggio nell'al di là con osservazioni, come questa, solo in apparenza insignificanti; in realtà esse hanno tutte la funzione di insistere sulla singolarità della sua esperienza nel mondo dei morti. Egli è il vivo, dotato di consistenza e peso, nel regno degli spettri, egli ha il potere, come osserverà in questo stesso canto il centauro Chirone, di muovere ciò che tocca. Questo motivo si ripresenterà diverse volte nel corso del poema e darà luogo, soprattutto nella seconda cantica, a momenti di delicata poesia.
Procedevo meditabondo; e Virgilio disse:  “Tu pensi forse a questa frana custodita  da quella belva irosa che ora ho reso inoffensiva.
Voglio dunque che tu sappia che la volta precedente, allorché scesi nella parte inferiore dell’inferno, questo pendio non era ancora franato.  
Ma, se non mi inganno, senza dubbio poco prima della venuta di colui che tolse a Satana il glorioso bottino del limbo,
il profondo abisso immondo  tremò in ogni sua parte tanto, che io credetti che l’universo fosse preso da quell’amore, a causa del quale alcuni ritengono
che più di una volta il mondo sia ritornato  nel caos; e allora questa antica rupe  subì, in questo luogo e altrove (nella bolgia degli ipocriti; Inferno XXI, 106-108), tale franamento.
Virgilio spiega al discepolo come il terremoto che determinò la frana tra il sesto,e il settimo cerchio abbia preannunciato la discesa di Cristo nel limbo, e la liberazione delle anime, in esso racchiuse, dei Patriarchi dell'Antico Testamento. Tutto l'inferno tremò; il poeta latino credette per un istante che l'universo stesse per tornare nel caos primigenio.
Secondo la teoria del filosofo greco Empedocle, riportata e discussa da Aristotile nella Metafisica, il mondo esiste infatti in virtù dell'odio reciproco tra gli elementi costitutivi della materia; qualora a quest'odio dovesse sostituirsi l'amore, essi si confonderebbero l'uno nell'altro, dando origine al caos.

Ma guarda attentamente in basso, poiché si avvicina  il fiume di sangue bollente in cui è immerso chiunque rechi danno ad altri con la violenza ”.
O irragionevole  avidità e ira sconsiderata, che a tal punto ci stimoli  nella breve vita terrena, e poi in tanto dolore ci immergi  in quella eterna!
Vidi un largo fossato circolare, in quanto cinge tutto il piano (del settimo cerchio), secondo quello che aveva detto il mio accompagnatore;
e tra la base del dirupo e questo fossato, dei centauri correvano raccolti in gruppo, armati di frecce, come solevano fare sulla terra quando andavano a caccia.
I centauri, cavalli fino al busto e uomini dal busto in su, sono protagonisti, nelle leggende dell'antica mìtologia, di episodi di violenza (alle nozze di Piritoo la loro impulsività provoca uno scontro armato coi Lapiti; Nesso rapisce Deianira, ecc.), ma anche di episodi che ne mettono in rilievo i tratti umani e la saggezza (Chirone istruisce Achille). Secondo l'opinione di antichi commentatori, come il Boccaccio e Benvenuto da Imola, essi rappresenterebbero, per la legge del contrappasso, gli armigeri di cui i tiranni, qui immersi nel sangue bollente, si sono serviti in vita per opprimere i loro sudditi. Ora, nell'al di là, l'oggetto delle violenze di questi esecutori d'ordini sono i tiranni stessi. E' indubbio che nei loro atteggiamenti, nel loro andare in gruppo, nella pronta obbedienza agli ordini di un capo, nella semplicità imperiosa del loro linguaggio c'è qualcosa di militaresco, ma si tratta di un elemento interamente calato in una raffigurazione concreta, la quale non ha bisogno dell'aggiunta di interpretazioni allegoriche per riuscire persuasiva. Opportunamente osserva in proposito il Sapegno: "Ia ragione morale non sopravviene in Dante a limitare e impoverire la pienezza dell'immaginazione, sempre attenta alla ricchezza e alla complessità del dato fantastico. Egli può pertanto darci delle belle fiere una rappresentazione attenta e vivacissima, tutta rivolta a far campeggiare quelle immagini di agilità e di potenza fisica, di cui ricavava lo spunto da qualche verso di Virgilio, di Ovidio e di Stazio; con un'intensità di rilievo plastico, che è il segno del suo robusto realismo, alieno da ogni compiacimento meramente estetistico e decorativo e sempre contenuto, e come trasportato, nel ritmo incalzante e grave del racconto".
Vedendoci scendere, ciascuno si fermò, e tre di loro si separarono dalla schiera con archi e frecce  scelte  in precedenza;
e uno gridò da lontano: “ Verso quale pena vi dirigete voi che scendete il pendio ? Ditelo dal punto in cui vi trovate; altrimenti tendo l’arco ”.
La minaccia di questo centauro, così diversa dalle incomposte manifestazioni di sdegno e rabbia bestiale degli altri guardiani infernali, esprime un'intelligenza pronta e decisa. I centauri non hanno nulla di abbietto nella raffigurazione che ne fa il Poeta. Sono i ministri della giustizia divina, non i tormentatori (come Cerbero) dei dannati. Il loro compito è quello di far rispettare le leggi imposte da Dio all'oltretomba, non di infliggere il dolore per il gusto perverso di fare del male. Tra i custodi dell'inferno sono inoltre gli unici che si dimostrano in grado di sostenere un dialogo con Virgilio.
Virgilio disse:  “ Risponderemo a Chirone quando vi saremo vicini: con tuo danno la tua volontà fu sempre così impulsiva ”.
Poi mi toccò, e disse: “Quello è Nesso, che perdette la vita per amore della bella Deianira e vendicò da sé la propria morte.
Il centauro Nesso, preso da amore per Deianira, moglie di Ercole, aveva tentato di rapirla; colpito a morte dall'eroe, con una freccia avvelenata, aveva fatto dono a Deianira di una camicia intrisa del suo sangue, facendole credere che aveva la virtù di  far innamorare chi la indossasse. Deianira, volendo riacquistare l'amore di Ercole, che si era invaghito di Iole, ne fece dono al marito. Ma, non appena l'ebbe indossata, l'eroe fu preso da spasimi atroci e dopo poco morì. In tal modo Nesso fu il vendicatore della propria morte.
E quello che sta In mezzo, e tiene lo sguardo abbassato, è il grande Chirone, che educò  Achille; l’altro è Folo, che fu così iroso.
Chirone è qui ritratto in un atteggiamento meditativo che concorda con quanto la leggenda ha tramandato di lui (fu maestro di Achille). Folo, secondo quanto narra Ovidio nelle Metamorfosi  (XII, 219 sgg.), invitato con altri centauri al banchetto per le nozze tra Piritoo e Ippodamia, tentò di rapire la sposa e le donne degli altri Lapiti.
Girano a migliaia intorno al fossato, colpendo con frecce qualsiasi dannato si trae fuori  dal sangue più di quanto il suo peccato gli diede in sorte ”.
Ci avvicinammo a quegli animali ve1oci: Chirone prese una freccia, e con la cocca trasse indietro la barba sulle mascelle.
Il gesto di Chirone che, prima di parlare, si serve della freccia per allontanare la barba dalla bocca, ha in sé dell'umano e del ferino, ma resta un gesto nobile, che sottolinea la maestà di questa figura. Tutta la raffigurazione, dei centauri si ispira ad un senso vivissimo dei decoro esteriore.
Quando la grande bocca fu completamente libera disse ai compagni: “Vi siete accorti chè colui che sta di dietro è un essere vivente ?
E Virgilio, che già gli era di fronte, e arrivava all’altezza del suo petto, là dove le due nature (di uomo e di cavallo) si uniscono,
rispose: “ E’ veramente vivo, e a lui, a lui solo, devo  mostrare l’inferno: ci spinge a ciò la necessità, non il piacere.
Dal cielo si mosse qualcuno che mi affidò  questo straordinario  incarico: non è un ladrone, né io sono l’anima di un ladro.
Ma in nome di quel potere divino, ad opera del quale percorro  un cammino cosi impervio, dacci uno dei tuoi, a cui possiamo stare vicini,  
e che ci indichi il punto dove il fiume può essere attraversato  e trasporti costui sulla sua groppa, poiché egli non è uno spirito che possa volare ”.
Il tono di questa risposta di Virgilio a Chirone si differenzia nettamente da quello delle risposte date ai guardiani dei cerchi superiori. Questi sono stati trattati finora, se non sempre con aperto disprezzo (come Cerbero, Pluto e il Minotauro), con un'impazienza che non ammetteva repliche (nel caso di Caronte, Minosse, Flegiàs). Qui, per la prima volta, Virgilio non si accontenta della solita formula, breve, solenne ed enigmatica, per rivelare ad un ministro dell'inferno la volontà di Dio. Egli tenta di convincete Chirone della fondatezza delle sue ragioni, non di imporgliele dall'alto della sua superiorità intellettuale. Questo perché in Chirone si esprime un'intelligenza forse  "elementare ed aliena da sottigliezze" (Sapegno ), quale è quella che meglio si addice alla sua indole militaresca ed autoritaria, ma pronta ed acuta. Virgilio crede quindi doveroso ricordare a Chirone gli antefatti della discesa di Dante nel regno dei morti (l'incarico affidatogli da Beatrice), protesta l'innocenza propria e del suo compagno (non è ladron, né io anima fuia) e motiva (ché non è spirto che per l'acre vada) la sua richiesta di una guida che indichi il punto di più facile guado del fiume.
Chirone si volse a destra, e parlò a Nesso: “Volgiti indietro, e fa loro da guida, e fa scansare qualunque altra schiera s’imbatta  in voi”.
Ci avviammo dunque insieme col sicuro accompagnatore  lungo la sponda del sangue bollente, nel quale i dannatì emettevano grida laceranti.
Vidi una rnoltitudine immersa fino agli occhi; e Nesso spiegò: “Essi sono tiranni che uccisero e depredarono.
Qui si sconta il male arrecato agli altri senza pietà; qui si trovano Alessandro, e il crudele Dionisio, che fu causa alla Sicilia di anni dolorosi.
Alessandro potrebbe essere il tiranno di Fere, in Tessaglia, della cui crudeltà parla fra gli altri Cicerone, oppure il re dei Macedoni, che alcuni autori latini hanno descritto come un tiranno sanguinario (Seneca lo chiama "ladro e distruttore di popoli", Lucano lo definisce fortunato predone"), ma che Dante elogia tanto nel Convivio quanto nella Monarchia. Questo peraltro non sarebbe motivo sufficiente per farci ritenere impossibile la sua destinazione all'inferno; molti tra i personaggi della storia che il Poeta ammira maggiormente sono infatti, nella Commedia, fra i reprobi, essendo i criteri della giustizia divina necessariamente superiori a quelli del giudizio degli uomini.
E quella fronte coperta di così neri capelli, è (la fronte) di Ezzelino; quello biondo è invece Obizzo d’Este, il quale davvero
fu ucciso in terra dal figlio snaturato ”.  Allora mi rivolsi a Virgilio, ed egli disse: “ Nesso sia ora la tua guida, io verrò secondo ”.
Ezzelino III da Romano, capo ghibellino e signore della Marca Trevigiana, morto nel 1259, è definito da uno storico di parte guelfa, il Villani, il più crudele tiranno della cristianità (Cronaca VI, 72).
Obizzo II d'Este, marchese di Ferrara, fu, secondo una leggenda che qui Dante sembra voler confermare, ucciso dal figlio Azio VIII nel 1293.

Poco più oltre il Centauro si arrestò  presso una moltitudine  che appariva immersa in quel bollore fino alla gola.
Ci indicò un’ombra isolata in un angolo  e disse:  “ Quel dannato trafisse  in chiesa il cuore che è ancora venerato  a Londra ”.
Guido, conte di Montfort, vicario in Toscana di Carlo I d'Angiò, pugnalò nel 1272, in una chiesa di Viterbo, Arrigo, cugìno del re d'Inghilterra Edoardo I, che gli aveva ucciso il padre. Sulla tomba di Arrigo, posta sul ponte del Tamigi a Londra, una statua dorata, secondo quanto riferisce un antico commentatore, Benvenuto da ImoIa, reggeva un calice contenente il suo cuore imbalsamato.
Vidi in seguito una moltitudine che teneva fuori del fiume il capo ed anche tutto il petto; e riconobbi parecchi di costoro.
A questo modo il livello del sangue andava sempre più diminuendo, fino a bruciare soltanto i piedi; qui  guadammo  il fossato.  
“ Così come vedi che il liquido bollente  si abbassa progressivamente da questa parte ” disse il Centauro, “ voglio che tu sappia
che dalla parte opposta il suo alveo diventa sempre più profondo, finché si ricongiunge  al punto dove è giusto che i tiranni espiino.
Da quest’altra parte la giustizia di Dio punisce Attila che sulla terra fu strumento di dolore  e Pirro e Sesto; e per l’eternità spreme
le lagrime, che fa sgorgare con il supplizio del sangue bollente, a Rinieri da Corneto, a Rinieri dei Pazzi, che resero così pericolose le strade. ”
Attila, re degli Unni dal 433 al 453, fu soprannominato, per la sua crudetà, il " flagello di Dio".
Pirro è qui, probabilmente, non il re dell'Epiro che mosse guerra ai Romani, ma Neottolemo, il sanguinario figlio di Achille, uccisore, secondo quanto narra Virgilio nel secondo libro dell'Eneide (versi 526-558), del giovane Polite, figlio di Priamo, e poi di Priamo stesso.
Sesto è probabilmente il figlio di Pompeo, datosi alla pirateria dopo la morte del padre.
Rinieri da Corneto fu un brigante ai tempi del Poeta, terrorizzò tutta la Maremma.
Rinieri dei Pazzi di Valdarno, anch'egli un famoso ladrone di quei tempi, fu scomunicato da papa Clemente IV e dichiarato ribelle dal comune di Firenze.

Poi si voltò indietro, e riattraversò il pantano.

 

Inferno – Canto XIII

Nesso non era, ancora arrivato di là (dal guado), quando noi entrammo  in un bosco che non aveva alcuna traccia di sentieri.
Non c’erano foglie verdi, ma di colore scuro; non rami lisci e diritti, ma nodosi e contorti; non frutti, ma spine  con veleno:
quegli animali selvaggi che (in Maremma) tra il fiume Cecina e la località di Corneto odiano i luoghi coltivati, non hanno (per loro dimora) macchie  così irte e pungentì  e così folte.
Il bosco è rigido, scheletrico, innaturale; l'armonioso scorrere della vita qui è fissità, desolazione, morte. Fosco il colore delle fronde; aggrovigliati e come rivolti contro se stessi ('nvolti) i rami; infine la cattiveria: spine avvelenate, strumenti di dolore. L'antitesi, ripetuta tre volte, suggerisce l'innaturalità del paesaggio. Questo a sua volta è come un'introduzione a una tragedia innaturale: il suicidio. Come ha finemente osservato il Sapegno, lo stile elaborato e aspro di questo canto si accorda, fin dalle terzine iniziali, "con un proposito di strane e orrende fantasie, in cui si rifletta e prenda consistenza poetica l'incubo dì una tragedia che trascende la norma comune dell'umano sentire".
Qui  fanno i loro nidi le sozze  Arpie, che costrinsero alla fuga dalle isole Strofadi  i Troiani con la funesta profezia di mali futuri.
Le Arpie, mostri della mitologia classica, per metà donne e per metà uccelli, cacciarono i Troiani di Enea dalle isole Strofadi con la profezia della fame che essi avrebbero dovuto sopportare nel viaggio verso le rive dei Lazio (Virgilio -Eneide III, 209 sgg). Qui appaiono come annunciatrici dì un male misterioso che si cela nel bosco.
Hanno ali larghe, colli e facce di esseri umani, piedi con artigli, e il grande ventre coperto di penne; si lamentano, in modo strano, sugli alberi.
E il valente  maestro: “ Prima che tu ti inoltri, sappi che sei nel secondo girone ” cominciò a dirmi, “ e vi starai fino a quando
tu arriverai all’orribile distesa sabbiosa: perciò  guarda ripetutamente  e con attenzione; così facendo vedrai cose tali che toglierebbero credito  alle mie parole ”.
Un momento di pausa: la ragione (Virgilio) interviene. L'uomo (Dante), guardando e esaminando (riguarda ben), prenda coscienza della realtà; si basi anche sull'esperienza maturata da altri, ma faccia le proprie esperienze dirette; la ragione indica la via, dà suggerimenti di metodo; la sperimentazione è diritto e dovere dell'individuo.
lo sentivo da ogni parte emettere  lamenti acuti, e non vedevo nessuno che li facesse; per questo tutto smarrito mi fermai.
Ritengo che Virgilio pensasse che io credessi che voci così numerose uscissero, (passando) tra quegli alberi secchi, da gente che si nasc:ondesse a noi.
Alcuni critici hanno voluto attribuire l'uso di artifici retorici come quello del verso cred'io ch'ei credette ch'io credesse all'intento di parafrasare lo stile concettoso di Pier delle Vigne, il protagonista dell'episodio che sta per cominciare, ma questa spiegazione non chiarisce la funzione che simili moduli espressivi hanno sul piano della poesia. In essi dobbiamo vedere altrettanti mezzi dei quali il Poeta si serve per esprimere, attraverso la distorsione del linguaggio, l'errore intellettuale e morale che ha condotto i suicidi al loro peccato, nonché, al tempo stesso, l'allucinante atmosfera in cui il loro empio proposito è maturato.
Qu i gli occhi, i sentimenti, l'atto perplesso e interrogatorio di Dante vanno da Virgilio agli alberi, da questi alla ricerca dell'origine delle voci, poi ancora a Virgilio: all'intrico dei rami si aggiunge questo intrico psicologico, dell'incertezza di Dante.

Perciò il maestro disse: “ Se tu spezzi un qualsiasi ramoscello di una di queste piante, i tuoi pensieri si dimostreranno tutti erronei ”.
Gli interventi di Virgilio (versi 16 -21, 28 -30) sono quelli del " maestro "; partecipi ma controllati, calmi, come di chi assolve un grave dovere; Virgilio sa, dunque non c'è stupore o timore in lui, ma la sicurezza precisa e quasi impassibile del chirurgo che guida la mano incerta (allor porsi la mano un poco avante) dell'allievo sul corpo dell'ammalato: sappi... riguarda ben... se tu tronchi.
Allora stesi la mano un poco in avanti, e colsi un ramoscello da un grande albero spinoso; e il suo tronco gridò:  “ Perché mi schianti  ? ”
L'inquietante crescendo dei primi trentatré versi, l'ansia tesa che dal paesaggio, si trasmette all'animo di Dante, si raccolgono e culminano in questo grido innaturale: e 'l tronco suo gridò. Un vegetale con voce umana. E voce che si articola nell'atto più alto dell'intelletto umano, l'interrogazione, lo strumento teso alla ricerca della conoscenza perché... Fin qui Dante aveva, in silenzio, maturato domande; le aveva tradotte in un gesto (e colsi); ora la risposta è arrivata, ma rimbalza, terribile domanda, quasi atto d'accusa, sul richiedente: non hai tu ... ?  
Poi, dopo che si coprì di sangue, ricominciò a dire: “ Perché mi strappi ? non hai tu alcun senso di pietà?
Fummo uomini, e ora siamo trasformati in piante selvatiche: la tua mano dovrebbe essere anche  più pietosa, se fossimo state anime di serpi ”.
Il bosco ha rivelato il suo segreto: fummo uomini, e ora siamo fatti sterpi. Le anime dei suicidi che rifiutarono violentemente il corpo, sono degradate alla prigionia in queste forme arboree dove, impotenti, soffrono contorcendosi e contorcendole, con un dolore che spasima, muto, cieco, sordo, murato nelle fibre del legno, fino a quando le Arpie, pascendosi delle foglie fosche, lo accrescono ma anche gli aprono una via di sfogo: fenestra.
Come da un tizzone verde al quale ad una estremità sia appiccato il fuoco, che dall’altra stilla gocce di umore  e stride  a causa dell’arla interna  che ne esce,
allo stesso modo dal ramo rotto  uscivano insieme parole e sangue; perciò io lasciai cadere il ramoscello, e rimasi immobile  come chi ha paura.
La similitudine dei legno che lagrima è gìá nel provenzale Gaucelm Faidít: "Dagli occhi piango - per dolore - come la legna verde  che nel fuoco ardente s'accende piangendo. In Dante essa esprime un'attenzione tesa a cogliere nella natura un significato drammatico, non la pausa lirica, e si inserisce mirabilmente nel tema che è alla base di questo canto: il perdersi dell'umano nella natura arborea, il cristallizzarsi degli alberi nella rigidità della morte. Quando, attraverso il dolore (il ramoscello spezzato), l'albero-uomo riprende a vivere, ad esprimersi (sanguina, parla), questa manifestazione di vita è simile in tutto ad un processo meccanico, non c'è nulla di libero in essa. Così, in conseguenza del calore che ne prosciuga una estremità, l'umidità di cui il pezzo di legno messo sul fuoco è pregno, affluisce tutta all'estremità opposta, e di qui geme, si riversa, condensata in gocce, all'esterno. La reazione di Dante all'innaturale spettacolo non è analizzata: si concretizza in un gesto (lasciai la cima cadere) e in un atteggiamento (stetti come l'uom che teme). "Come spesso avviene in Dante, un fatto si commenta con un altro fatto, e non con termini soggettivi." (Aglianò)
“Se egli avesse potuto credere senza provare” rispose il saggio Virgilio:  “o anima ferita, ciò che ha veduto soltanto per mezzo della mia poesia,  
non avrebbe stesa la mano contro di te; ma la cosa, in sé incredibile, mi spinse a indurlo a compiere un atto che rincresce a me per primo.
Rima sta per poesia; qui in particolare indica il poema di Virgilio, l'Eneide. Nel libro terzo (versi 19 -68) Virgilio narra l'episodio di Polidoro, figlio di Priamo re di Troia, fatto uccidere a tradimento da Polinestore, re della Tracia, e sul cui tumulo crebbero dei virgulti. Enea, giunto sul luogo, ne strappò alcuni; dai rami spezzati e sanguinanti usci la voce di Polidoro. Ma il senso della trasformazione dell'uomo in pianta è profondamente diverso, nei versi di questo canto, rispetto a quello dell'episodio virgiliano. Il contrasto così netto fin dall'inizio in Dante, tra natura arborea e natura umana (dal ramo escono parole e sangue), appare in Virgilio assai più attenuato. Ciò che atterrisce Enea è il sangue che sgorga dal virgulto spezzato. Solo in un secondo momento Polidoro parlerà; le sue parole non saranno più allora motivo di terrore, ma soltanto di meraviglia. L'idea tragica si diluisce così in una successione cronologica. Bene osserva in proposito l'Aglianò: "In Virgilio gli effetti sono sempre anticipati... e al momento culminante, al gemito e alle parole di Polidoro, si arriva progressivamente, attraverso un regolare crescendo... La linea ascendente è invece in Dante rapidissima". E ancora: "A Virgilio interessava l'episodio nel suo complesso, il fatto prodigioso, l'avventura sensazionale, nel quadro generale delle peripezie di Enea; a Dante interessa far sentire l'angoscia, la pena anche morale dello stato in cui si trovano i suicidi".
Nell'episodio di Polidoro il dramma dell'anima-pianta si risolve in un raffinato contrappunto di impressioni naturalistiche, non prorompe, come qui, nel grido di una coscienza offesa (ben dovrebb'esser la tua man più pia).
Va aggiunto inoltre che, mentre questa metamorfosi ha in Virgilio un valore positivo, essendo per Polidoro "il risarcimento, accordato dal cielo in compenso dell'iniqua morte datagli da Polinestore" (Medin), in Dante è la espressione della condanna inflitta da Dio a chi si è privato da sé della vita.
Di qui anche la diversità di tono tra i due episodi: elegiaco nell'Eneide, tragico in questo canto dell'inferno.

Ma digli chi tu fosti, cosicché invece di un qualche risarcimento  ravvivi  la tua fama nel mondo dei vivi, dove gli è lecito  ritornare. ”
Tua fama rinfreschi: quasi tutti i dannati manifestano il desiderio che la loro memoria continui a vivere in terra; soprattutto quelli che, pur essendo peccatori, furono anche magnanimi e degni, per alcuni aspetti, di ammirazione. Pier delle Vigne sembra crucciarsi, più che della sua condizione presente, delle calunnie con le quali è stata offesa la sua fama, la sua onorabilità. Dante sentirà pietà di questo cruccio fino a esserne accorato. Non sarà pietà per la sorte  del peccatore che è voluta dalla giustizia di Dio, alla quale il Poeta cristiano non può non consentire; sarà invece partecipazione alla giusta sofferenza di Pier delle Vigne provocata dal misconoscimento della sua lealtà.
E il tronco (disse) : “ Mi attiri, con l’esca delle tue dolci parole in modo tale, che io non posso tacere; e a voi non pesi se io mi trattengo un poco  a discorrere.
Io sono colui, che tenni tutte e due le chiavi del cuore di Federico, e che le girai, aprendo e chiudendo, così delicatamente,
che esclusi  quasi ogni altra persona dalla sua intimità: fui tanto fedele  al mio glorioso incarico, che a causa di ciò  perdetti la quiete  e la salute.  
L’invidia, rovina di tutti è male  delle corti, che mai ha distolto il suo sguardo disonesto  dalla corte imperiale,
aizzò tutti gli animi contro di me; e gli aizzati aizzarono tanto  l’imperatore, che le gloriose onorificenze  si convertirono in cupi dolori.
Pier delle Vigne nato a Capua alla fine del secolo XII, studiò legge a Bologna; in gioventù conobbe la miseria e gli stenti; acquistatosi suoi meriti, fece parte come notaio della corte imperiale di Palermo, dove entrò nelle grazie di Federico Il di Svevia, fino a diventare consigliere segreto, " protonotaro ", giudice della Magna Curia e cancelliere del Regno di Sicilia. Accusato - e Dante ritiene a torto -  forse di arricchimenti illeciti, di eccesso di potere e di tradimento, da cortigiani invidiosi e offesi dalla sua fortuna, dopo vent'anni di onori, cadde in disgrazia del suo signore che lo fece incatenare e accecare (1248); l'anno dopo, disperato, si uccise. Fu uomo colto, raffinato, poeta in volgare, rinomato per la sua eloquenza e per la maestria del suo comporre in latino.
Il mio animo, per sprezzante compiacimento, credendo che con la morte si sarebbe sottratto al disprezzo, mi rese ingiusto contro me stesso (che ero invece) giusto.
 
Ingiusto fece Me contra me giusto: la ingiustizia che Pier delle Vigne fa a se stesso è anzitutto violazione di un diritto inalienabile: il diritto alla vita. Per un cristiano l'uomo non può togliersi la vita, essendo questa un dono di Dio. Con molta penetrazione si esprime in proposito un antico commentatore, il Buti:  "Quelle cose che l'uomo non si può dare, non si dee togliere; anzi le dee tenere quanto vuole colui che gliele dà; e, se le rifiuta, ragione è che non le riabbia".
L'ingiustizia, che il protonotaro imperiale ha commesso uccidendosi, non va quindi considerata soltanto in rapporto alla sua vita giusta, ma in rapporto alla sua vita senza ulteriori specificazioni di valore. In altri termini, agli occhi di Dio l'atto del suicida è altrettanto riprovevole qualunque sia la validità morale delle opere da questo compiute in vita. Naturalmente, sul piano umano, e agli effetti della poesia, il fatto che Pier delle Vigne si uccida senza aver nulla da rimproverarsi colora di patetico la sua tragedia.
Giova ricordare ìn proposito come tutte le vicende che, nella Commedia, le anime narrano di se stesse, sono dal Poeta concepite come messaggi di verità morale che ci giungono dal mondo dove più non si può mentire; le azioni più abominevoli, per il fatto di proporsi come esempi negativi, acquistano la dignità del sacro. Nessuna però di queste storie, messe nella cornice dell'al di là, a contrasto con la condizione eterna, di chi ne fu il protagonista, è in Dante soltanto un esempio: quale più quale, meno, tutte sfuggono ad una definizione unilaterale e aprioristica delle nozioni di bene e di male in esse contenute. Come in tutta la grande arte, questa definizione è in Dante sempre proposta, mai imposta: lo schema, concettuale si invera di continuo nella varia e ricca umanità dei suoi personaggi.

Per le mostruose  radici di questo albero vi giuro che mai  venni meno alla fedeltà verso il mio  signore, che fu tanto degno di rispetto.
E' del De Sanctis l'osservazione che fino  a questo appassionato giuramento Pier  delle Vigne ha parlato senza commuoversi, esprimendosi in una forma ricercata (in cui è come un compiacimento  per la propria perizia di maestro dell'ars dictandi) e sottile, e che solo di  fronte all'accusa di tradimento egli palesa, attraverso il dolore, la propria  umanità, mentre il suo linguaggio, libero infine da ogni preoccupazione formale, ritrova la schiettezza delle grandi  passioni: "vi è una cosa, una sola cosa  seria che gli pesa, l'infamia che si tenta  gittare sulla sua memoria, l'accusa che  gli è lanciata di traditore. Qui è il  patetico del racconto: qui la sua immaginazione si scalda, di sotto alla veste del cortigiano spunta l'uomo, e il  suo linguaggio diviene semplice ed eloquente".
E se l’uno o l’altro  di voi torna  nel mondo, renda giustizia alla mia memoria, che è ancora prostrata per il colpo che l’invidia le inferse ”.
Virgilio attese un poco, e poi mi disse:  “ Dal momento che egli tace non perdere tempo; ma parla, rivolgigli domande, se hai piacere di sapere di  più ”.
Perciò io dissi a lui: “ Domanda ancora tu ciò che credi possa appagarmi; perché io non potrei, da così  grande pietà sono toccato nel cuore! ”
Perciò riprese: “ Se ti verrà fatto spontaneamente il favore che le tue  parole chiedono in tono di  preghìera, spirito prigioniero,  ti sia gradito ancora    
di dirci in che modo l’anima si rapprende  in questi duri nodi; e rivelaci, se puoi, se mai  qualche anima si libera da  simili membra.
Allora il tronco soffiò forte, e poi quel soffio  si convertì in tali parole  “ Vi sarà data una risposta breve.
Il suo secondo discorso - premette Pier delle Vigne  - sarà una breve comunicazione. In realtà i sedici versi di cui è composto non sono pochi, soprattutto se paragonati ai ventiquattro del primo. Brevemente sta però a significare la volontà dell'anima di non parIar troppo del proprio supplizio; il tono è staccato, oggettivo, impersonale: sarà risposto a voi.
Quando l’anima crudele (contro il corpo) si separa dal corpo dal quale essa stessa si è strappata, Minosse la manda al settimo cerchio.
Cade nella selva, e non le è prescelto il luogo; ma là dove il caso la scaglia, qui germoglia come seme di frumento.
Cresce in forma di virgulto e di pianta selvatica: poi le Arpie, pascendosi delle sue foglie, le procurano dolore, e un varco  alle manifestazioni di esso.
Come le altre (anime) verremo (nella valle di Giosafàt) a riprendere i nostri corpi, ma non per questo alcuna di noi se ne rivestirà, poiché non è giusto avere ciò di cui ci si è privati.
Trascinererno penosamente  i nostri corpi (fin qui), ed essi saranno appesi nella mesta selva, ciascuno alla pianta in cui è chiusa la sua anima  nemica a se stessa ”.
L'anima, mentre dà le notizie richieste sul proprio itinerario attraverso l'inferno (si parte... la manda... cade... la balestra... germoglia... surge), si fa a poco a poco nuovamente partecipe, della sua estrema vicenda: l'anima del suicida è feroce contro il corpo dal quale  s'è divelta, strappata con violenza e sforzo come radice dal proprio terreno, e contro se stessa; e alla fine - dopo la prefigurazione oggettiva della processione che seguirà al Giudizio Universale - scopre con un brivido, fra tanti corpi, il suo: ciascuno al prun..
Noi eravamo ancora tutti intenti all’albero, credendo che ci volesse dire altre cose, quando fummo sorpresi da un rumore,
come colui che sente arrivare il cinghiaie  e i cani e i cacciatori  al luogo dove si è appostato, e ode le bestie e lo stormire delle fronde.
Finora questo canto è stato quasi totalmente privo di azione apparente, anche se ricchissimo di svolgimenti psicologici. Qui, con notevolissimo risalto, irrompe nell'immobile il movimento. "La selva che credevamo ormai di conoscere ci rivela ignote paurose profondità sprigionando dal suo oscuro seno inattesi esseri umani e inattesi mostri, in un tumulto di caccia, dove con infernale travolgimento il cacciato è l'uomo." (Parodi)
Ed ecco apparire due dal  lato sinistro, nudi e pieni di graffi, che scappavano così in fretta, da rompere ogni fronda  del bosco.
Quello (che correva) davanti (gridava):  “ Presto  corrimi in aiuto, corrimi in aiuto, o morte ! ” E l’altro, che si accorgeva di restare pericolosamente indietro, gridava: “ Lano, non furono così abili
le tue gambe nella battaglia del  Toppo! ” E poiché forse gli mancava il fiato, di sé e di un cespuglio fece un viluppo annodato strettamente.
Dilapidatori dei propri beni, quindi nudi, inseguiti dalle cagne (forse i rimorsi o, secondo alcuni, i creditori), i due sono Lano da Siena (forse Ercolano Maconi), ucciso a Pieve del Toppo in una battaglia fra Senesi e Aretini (alle giostre: ai tornei; è detto con crudele ironia), e Giacomo da Sant'Andrea, padovano, morto nel 1239, famoso per le sue stravaganze.
Lano grida invocando una seconda morte impossibile; il compagno è colui che "si sente rimaner solo nel pericolo e grida dietro all'altro uno scherno ch'è una maledizione, in cui si fondono insieme invidia e disperazione"(Parodi).  

Dietro di loro c’era la selva piena di nere cagne, bramose e veloci  come cani da caccia  sguinzagliati in quel momento,
Azzannarono quello che si era nascosto (nel cespuglio), e lo lacerarono pezzo per pezzo; poi se ne andarono portando (con sé) quelle membra dolenti.
Allora la mia guida mi prese per mano, e mi condusse al cespuglio che piangeva inutilmente  attraverso gli squarci  sanguinanti.
Diceva il cespuglio:  “ O Giacomo da Sant’Andrea, a che ti è servito farti scudo di me? che colpa ho io della tua vita colpevole? ”
Quando il maestro si fermò presso di lui, disse: “ Chi fosti, che attraverso tante ferite  emetti parole  dolorose insieme a sangue? ”
Il bosco non è costituito di soli alberi; come le selve maremmane non tocche ancora dall'uomo, che Dante prende come punto di partenza naturale per la sua fantasia: esso è un intrico quasi impenetrabile di piante grandi e piccole, sterpi, alberi, bronchi, pruno, vermena, pianta silvestra, e poi ancora una proliferazione di fronde, rami, ramicel, stecchi, frasche, fraschette, rosta, punte, cesto. Pier delle Vigne, anima nobile, è un gran pruno; ora invece Virgilio è fermo, ritto presso un cespuglio: un'anima da poco.
Chi fosse non si sa. Il Boccaccio parla dei molti suicidi fiorentini di quel tempo: forse Dante lo ha lasciato di proposito anonimo. E' un fiorentino: i' fui della città... e tanto basta.
La selva infernale scompare in dissolvenza, e dietro, a chiusura di canto, si profila Firenze, l'altra città di Satana, gemella di Dite, la tua città, che di colui è pianta che pria volse le spalle al suo fattore (Paradiso IX, 127-128). Ancora una volta l'inferno ha la sua controfigura in terra.

Ed egli (rispose) a noi:  “ O anime che siete arrivate per vedere lo strazio indecoroso che ha staccato con tanta violenza  le mie fronde da me stesso,  
radunatele ai piedi del cespuglio miserevole. Io fui della città (Firenze) che mutò il primo patrono  (Marte) con il Battista (San Giovanni Battista); onde egli (Marte) a causa di ciò
sempre la affliggerà  con la sua arte (la guerra); e se non fosse che sul ponte dell’Arno  rimane ancora un’immagine  di lui,
quei cittadini che più tardi  la fondarono nuovamente  sulle ceneri rimaste dopo Attila, avrebbero fatto fare il lavoro inutilmente.
La distruzione di Firenze ad opera di Attila - confuso con Totila re dei Goti, che assediò la città nel 542 - è leggenda. Come osserva l'Aglianò, Firenze appare, nelle parole di questo suicida,  "dominata da un potere diabolico". Il suo destino sembra dipendere "da quel frammento di statua, quasi da un idolo". Al riparo dell'effigie (coniata sul fiorino) del patrono cristiano operano ancora gli influssi malefici dell'antico dio della guerra: una minaccia di annientamento incombe sulla città dilaniata dalla discordia e induce i suoi abitanti al suicidio.
Io mi impiccai nella mia casa ”.

 

Inferno – Canto XIV

Poiché l’amore di patria  mi riempì di commozione, raccolsi le fronde disperse, e le restituii a quell’anima, che ormai  era muta.
Qui finisce il racconto delle cose vedute nella selva dei suicidi, cosicché questa terzina si lega idealmente, per quanto riguarda il contenuto, più che al canto che inizia, a quello precedente.
Quest'ultimo non poteva tuttavia terminare con una nota patetica e di raccoglimento (nel verbo strinse sono presenti le due connotazioni, quella affettuosa e quella che indica l'intensità, la concentrazione di questo affetto), senza contraddire il senso intimo del suo sviluppo. Il tredicesimo canto è infatti il canto dell'orrore, del paradosso divenuto realtà, del dolore che non può sfogarsi che per mezzo di un dolore momentaneamente più vivo (le piante si esprimono soltanto attraverso le " fenestre " che in esse aprono le Arpie; Pier delle Vigne è messo nella condizione di parlare dopo che Dante ha reciso un membro del suo corpo vegetale), del suicidio che assurge, nelle parole del fiorentino anonimo, a simbolo della rovina della sua città. D'altra parte questa terzina iniziale si isola, sia per l'argomento sia per il tono, anche dal canto di cui fa parte. Il tema della violenza (Capaneo) le è estraneo, come le è estraneo quello dell'universale corruzione da cui si origina il pianto della umanità peccatrice (Veglio di Creta). Lo Spitzer ha messo in rilievo il parallelismo tra i due gesti che Dante compie all'inizio e alla fine dell'episodio dei suicidi:  "Dante fa ammenda al suo atto involontario di aprire ferite, col suo atto, deliberato e compassionevole, di ristorarle; l'episodio giunge ad una conclusione con il suo gesto, che intende placare il turbamento che l'altro gesto aveva provocato".

Giungemmo quindi al confine dove il secondo girone si separa  dal terzo, e dove si contempla una spaventosa opera della giustizia.
Per spiegare bene le cose qui vedute per la prima volta, dico che arrivammo presso una pianura  che respinge dalla sua superficie ogni forma di vegetazione.
La triste foresta (dei suicidi) la circonda, come il fiume di sangue  circonda quest’ultima: qui ci arrestammo sul margine.
Il terreno  era una sabbia asciutta e compatta, non dissimile  da quella che fu calpestata  un tempo da Catone.
I critici hanno variamente notato l'andamento discorsivo di questa prima parte del canto. Dante indugia stranamente qui nella descrizione e nella precisazione. Come giustamente osserva il Varese, ivi "l'abbondanza delle pause, delle inflessioni di raccoglimento, d'indicazione, imprimono sin da principio un senso di chiarezza, direi di minuziosa logicità: sono punti di passaggio e d'obbligo, che ci danno tuttavia il segno della lucidità preoccupata della mente dantesca, nel suo bisogno di aiutare e non di confondere il lettore".
Per quello che riguarda l'accenno a Catone Uticense, occorre ricordare che Dante non aveva mai veduto un deserto. Il riferimento storico (la guerra combattuta in Libia tra Cesare e i Pompeiani guidati da Catone nel 45 a. C.) serve qui, come nei versi 31 -36, a suggerire per via indiretta il riferimento reale per uno spettacolo fantastico. Lo scrupolo della realtà non abbandona mai Dante; è questo un altro aspetto della serietà del suo impegno morale e, nello stesso tempo, un elemento indispensabile alla sua poesia, la quale, quanto più ritrae l'irreale, tanto più lo convalida attraverso l'oggettiva fermezza della cosa vista e documentabile. Il linguaggio, di Dante non è quello del sogno,  ma sempre, anche nel Paradiso, alle soglie dell'inesprimibile, quello delle distinzioni nette.

O castigo  di Dio, quanto devi essere temuto da chiunque legge ciò che apparve  ai miei occhi!
Vidi molte schiere  di dannati indifesi  che piangevano tutte con grande strazio, e appariva imposta  a ciascuna una diversa punizione.
Alcuni (i bestemmiatori) giacevano in terra in posizione supina; altri (gli usurai) sedevano tutti rannicchiati, altri ancora (i sodomiti) camminavano senza posa.
Quelli che camminavano girando intorno erano più numerosi, mentre quelli che sostenevano il castigo distesi  erano in minor numero, ma più pronti a manifestare il dolore.
Sulla distesa dì sabbia, per tutta la sua ampiezza, scendevano lentamente, larghe falde di fuoco, come (falde) di neve su una montagna senza vento.
L'idea della pioggia di fuoco è venuta a Dante probabilmente dalla Bibbia (distruzione di Sodoma, Genesi XIX, 24). Ma nuovo, e tipicamente dantesco, è l'accostamento di questa pioggia ignea ad una nevicata. La precisazione sanza vento suggerisce indirettamente la lentezza del fenomeno, come rilevava già un antico commentatore, il Buti:  "nevica la neve a falde nell'alpi quando non è vento; impero che quando è vento, la rompe, e nevica più minuta". Il verso come di neve in alpe sanza vento è la rielaborazione di un analogo verso di Guido Cavalcanti: "e bianca neve scender sanza venti". Ma, come ha mostrato il Sapegno, mentre nel Cavalcanti si afferma un gusto decorativo "da gotico fiorito", gusto che si manifesta attraverso una specificazione elegante, ma non necessaria, "bianca", in Dante tutto è ridotto all'essenziale, messo in rapporto con lo spettacolo innaturale che intende presentarci. Dove, come nell'inferno, la natura contraddice se stessa, anche l'arte deve saper trovare i mezzi per esprimere questa contraddizione.
La forza dell'immagine contenuta in questa terzina nasce dall'accostamento immediato, senza mezzi toni interposti, di due termini (foco, neve) che nella nostra comune percezione si escludono reciprocamente.

Come le fiamme che nelle calde regioni dell’India Alessandro vide cadere compatte  fino a terra sul suo esercito,
e perciò fece calpestare  il terreno dalle schiere, perché  il fuoco si spegneva meglio, finché era isolato,  
allo stesso modo, scendeva  il fuoco eterno; e perciò la sabbia si infiammava, come materia infiammabile  sotto l’acciarino, per raddoppiare la sofferenza.
Dante attinge le notizie riguardanti Alessandro Magno ad un passo del trattato sulle meteore di Sant'Alberto Magno, ma in questo passo appaiono fusi insieme due eventi descritti separatamente in una lettera attribuita ad Alessandro e diretta ad Aristotile: una abbondante nevicata, dopo la quale il re macedone ordinò ai suoi soldati di calpestare il suolo, e una pioggia di fuoco dalla quale si ripararono opponendo ad essa i loro indumenti.  
Il movimento frenetico  delle misere mani era incessante, nello scostare  dai corpi il fuoco appena caduto.
La tresca è, secondo la definizione del Buti, un "ballo saltereccio, ove sia grande e veloce movimento e di molti, inviluppato". Qui il termine è usato in senso figurato come l'analogo riddi del settimo canto (verso 24). Soltanto che mentre là riddi acquistava rilievo dallo stile volutamente " aspro " del brano in cui era inserito (lo preparava un crescendo di rime intenzionalmente disarmoniche) ed esprimeva un atteggiamento di sarcastica condanna, qui tresca, immesso in un contesto rispondente ad altre esigenze stilistiche, implica soprattutto un sentimento di commiserazione e di stupito orrore.
Cominciai a parlare:  “ Maestro, tu che superi ogni difficoltà, tranne i diavoli ostinati  che ci uscirono  incontro mentre stavamo per entrare attraverso la porta (di Dite),
chi è quel grande che non sembra tenere in considerazione  le fiamme e giace sprezzante e torvo, in modo che la pioggia (di fuoco) non sembra fiaccarlo ?”
E quello stesso accortosi che chiedevo di lui a Virgilio, gridò: “ Come fui da vìvo, così sono da morto.
Chi parla è Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe. Già nella Tebaide di Stazio (III, 602, 605, 661) appare come empio e disprezzatore degli dei. Il poeta latino narra che, dopo essere salito sulle mura di Tebe, osò sfidare Bacco ed Ercole, protettori della città, e infine lo stesso Giove, che, sdegnato, lo fulminò (Tebaide X, 845 sgg.).
Il par, due volte ripetuto in questa terzina (versi 46 e 48), è stato addotto da alcuni critici a conferma dell'interpretazione secondo la quale il tratto che contraddistinguerebbe il personaggio di Capaneo sarebbe la vanagloria; par starebbe così ad indicare una contraddizione tra apparenza e realtà, ostentazione di forza e intima debolezza. In realtà, come altrove in Dante, il termine ha qui soltanto il significato di " essere manifesto ", "essere visibile ". Del resto, la presentazione della figura di Farinata avviene in modo analogo: com'avesse l'inferno in gran dispitto.
La tesi che vede in Capaneo un personaggio privo di forza morale, compiaciuto di sé e vacuo, avanzata dal De Sanctis, è stata ripresa recentemente, tra gli altri, dall'Apollonio, che riduce il mitico bestemmiatore alla statura di un eroe da melodramma: "Intona il suo pezzo canoro, al primo pretesto che gli si presenta: dipana il suo dire senza sosta, in una unica cadenza di parola e di canto, d'un fiato... quando il periodo oratorio, metrico e musicale è al suo culmine, all'acuto, e accompagnato dal gesto mimico contratto con cui il protagonista istituisce da solo la battaglia contro l'antagonista invisibile, chiude con un riso di scherno proclamandosi da sé vittorioso: non ne potrebbe aver vendetta allegra". Per altri (Scherillo) Capaneo sarebbe la "personificazione della forza materiale".
Più nel giusto appare il Croce, allorché avverte in questa figura "una forza che è qualcosa di più che forza fisica e materiale, è ancora energia spirituale, volontà, ma volontà rabbiosa, indomita e ostinata, che, appunto perché tale, inclina in qualche modo verso la forza materiale e irrazíonale. Dante lo chiama grande, e non solo per la prestanza della persona; e nella risposta di lui: qual io fui vivo, tal son morto, si sente l'ammirazione, che non è abolita ed è solo repressa dal rimbrotto morale-religioso, messo in bocca a Virgilio".
Né meno esatta è la seguente osservazione del Varese: "Capaneo permane nella sua situazione umana, nel suo peccato, che era in lui la ribellione, come Francesca nel suo amore colpevole, nel momento stesso del peccato. Di questo atteggiamento... Capaneo ha coscienza, unico forse fra tutti i dannati, appunto perché il suo stesso peccato consiste in questa coscienza, ed è, in questo senso, esemplare".

Anche se Giove facesse lavorare fino all’esaurimento delle forze il suo fabbro (Vulcano) dal quale adirato prese il fulmine acuminato con cui mi colpì nell’ultimo giorno della mia vita;
anche se facesse stancare gli altri (i Ciclopi), un gruppo dopo l’altro, nella nera fucina dentro l’Etna, invocando: “Esperto Vulcano. Aiuto, aiuto!”,
così come fece durante la battaglia di Flegra (combattuta tra i giganti che tentavano di scalare l’Olimpo e gli dei), e mi fulminasse con tutta la sua forza, non potrebbe gioire della sua vendetta”.
Nel discorso di Capaneo, l'accavallarsi tumultuoso delle subordinate e degli incisi, se dà l'impressione di una forza immane e quasi gioiosamente scatenata, che non conosce limiti, si svolge in realtà per nessi rigorosissimi ed esprime un forte potere di sintesi e organizzazione logica. Nel suo tono beffardo non c'è traccia di quella fiacchezza morale che alcuni hanno voluto vedervi. Così giustamente osserva il Varese: "L'ampiezza del periodo serve questa volta alla concentrazione e a mettere in evidenza, nello sfondo di questa scena agitata e goffa, la immobilità tetragona di Capaneo..." La contrapposizione fra il gruppo delle prime due condizionali (se Giove... o s'elli ... ) e la terza (e me saetti) è l'espressione sintattica della irriducibilità di questo grande, che oppone se stesso inerme a suo onnipotente antagonista.
Allora Virgilio parlò con tanta veemenza, come non lo avevo udito mai fino allora: “ O Capaneo, proprio nel fatto che non si modera  
la tua superbia, tu sei maggiormente punito: nessun supplizio, all’infuori della tua rabbia, sarebbe una sofferenza adeguata  al tuo furore ” .
Poi si rivolse verso di me con viso più sereno  dicendo: “Quello fu uno dei sette re che assediarono  Tebe; ed ebbe e sembra abbia
Dio in dispregio, e sembra che poco lo stimi; ma, come gli dissi, i suoi atteggiamenti di disprezzo sono ornamenti assai appropriati al suo animo.
Il Momigliano nota una certa affinità fra l'episodio di Capaneo e quello di Filippo Argenti. In senso generico, sia l'uno sia l'altro prospettano un esempio di superbia punita, ma il critico ravvisa in essi anche una somiglianza più stretta: nelle parole di cui Virgilio si serve per condannare la presunzione di questi dannati, in cui "ritornano...le rime regi e fregi, e la seconda sembra aver suggerito tutta l'idea della frase li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi. Identico appare. inoltre, l'atteggiamento benevolo del maestro verso Dante. Più che all'episodio di Filippo Argenti, tuttavia, il rimprovero di Virgilio a Capaneo fa pensare al discorso con cui il poeta latino apostrofa Pluto: in esso è già anticipato il concetto dei furore impotente che tormenta, nell'inferno, sia i dannati che i loro carnefici.
Seguimi adesso, e stai attento, anche ora, a non mettere i piedi nella sabbia bruciata; ma tieni sempre i piedi a contatto  col suolo del bosco ”.
In silenzio giungemmo, nel punto dove scaturisce  dalla selva un fiumicello, il cui colore rosso ancora mi fa raccapricciare.
Come dal Bulicame esce un ruscello che le pettinatrici (della canapa) dividono poi fra di loro, similmente quello scorreva  attraverso la sabbia.
Fin dal XIII secolo la lavorazione della canapa si svolgeva intorno a Viterbo in piscine che derivavano l'acqua dal Bulicame, piccolo lago d'acqua sulfurea bollente, nelle vicinanze della città. Le pettatrici potrebbero essere qui le donne addette a cardare la canapa. La lezione peccatrici, che si ritrova nei manoscritti, non trova conferma nelle testimonianze del tempo; non risulta in alcun documento che le meretrici di Viterbo usassero servirsi delle acque del Bulicame per i loro bagni, come spiegano basandosi su questo verso, gli antichi commentatori.
Il suo letto  ed entrambe le sponde  erano fatti di pietra, come pure gli argini laterali; e perciò mi accorsi che lì era il passaggio (attraverso la sabbia infuocata).
“ Fra tutte le altre cose che ti ho mostrato, dopo che entrammo attraverso la porta (dell’inferno) il cui ingresso non è precluso a nessuno,
i tuoi occhi non videro nessuna cosa notevole  come questo corso d’acqua, che sopra di sé smorza  tutte le fiammelle. ”
C'è un contrasto fra l'apparenza modesta di questo ruscello e la portata universale del suo significato. Virgilio prepara l'alunno alla grandiosa leggenda che sta per raccontargli: il suo vocabolario è scelto, non senza un'ombra di pedanteria; Dante dovrà accogliere le sue parole come espressione di una verità che non nega, ma convalida i sistemi dottrinalí da lui appresi nelle scuole.  
Queste furono le parole della mia guida; perciò la pregai che mi concedesse il cibo di cui mi aveva dato il desiderio (che mi spiegasse le cose che, dopo il suo accenno, desideravo sapere).
“ In mezzo al mare si trova  una terra desolata ” disse Virgilio allora, “ che si chiama Creta, sotto il cui re un tempo  il mondo fu virtuoso.
Sotto il re cretese Saturno il mondo godette della favolosa " età dell'oro ", durante la quale gli uomini vissero in perfetta pace e in completa felicità (cfr. Virgilio - Eneide VIII, 319 sgg.).
Anche la rappresentazione dell'isola di Creta un tempo ricca e ora caduta in rovina, è di origine virgiliana (Eneide 111, 104 sgg.).

Vi si trova una montagna una volta allietata da acque e vegetazione, il cui nome fu Ida: ora è abbandonata come cosa vecchia.
Rea la scelse una volta come nascondiglio sicuro  per suo figlio, e per celarlo meglio, quando piangeva, ordinava di gridare.
Rea, moglie di Saturno, per. sottrarre il figlioletto Giove al padre che voleva divorarlo, lo nascose sul monte Ida e quando il bambino vagiva, i Coribanti, seguaci del suo culto (cfr. Virgilio, - Eneide III, 111-113), facevano un grande fragore perché non lo si udisse.
Dentro il monte sta eretto un gran vecchio, che tiene le spalle volte verso Damiata (Damietta, su una delle foci del Nilo: indica qui l’Oriente) e guarda Roma come fosse il suo specchio,
Il discorso di Virgilio procede. come ha, osservato il Momigliano, "senza legami sintattici, per tempi staccati, che isolano via via i luoghi e i fatti in una stupita lontananza, in un magico silenzio". La favola del Veglio di Creta, che qui inizia, è poetica soprattutto nella sua parte iniziale, dove prevale il senso del mistero, come afferma anche il Croce.
L'idea profonda che è alla base dell'allegoría del Veglio è il legame che unisce il peccato al dolore, il mondo in cui il peccato si compie a quello in cui esso è punito. Dante fonde in questa leggenda un passo della Bibbia e uno di Ovidio.
Nel Libro di Daniele (II, 31-33) è detto della statua apparsa in sognò a Nabucodonosor: essa appare fatta di materiali sempre più vili a mano a mano che lo sguardo del re babilonese la percorre dalla testa ai piedi.
Nelle Metamorfosi (I, 89-150) il progressivo decadere dell'umanità dallo stato di innocenza è adombrato nel mito delle "quattro età dell'uomo": l'aurea, l'argentea, quella del rame, quella del ferro.

Il suo capo è fatto di oro puro, le braccia e il petto sono di puro argento, poi è di rame fino al punto in cui le gambe si biforcano;
da questo punto in giù è tutto di ferro scelto, eccetto il piede destro che è di terracotta; e si appoggia  più su questo che sull’altro piede.
Stabilito che la statua del Veglio simboleggia il decadimento del genere umano, l'interpretazíone più plausibile di questa allegoria è che i metalli di cui la statua è formata, alludano alle " età dell'uomo " elencate da Ovidio. In particolare, la parte meno nobile di essa, quella dalla forcata in giù, indicherebbe l'era della massima corruzione. Nel piede di ferro occorrerebbe allora vedere l'Impero, e in quello di terracotta la Chiesa che si è arrogata il potere temporale ed erroneamente, secondo Dante, pretende di essere la suprema autorità politica in terra.
Ogni parte, fuorché quella d’oro, è incisa  da una fessura che stilla lagrime, le quali, raccolte insieme, perforano la roccia.
Esse  precipitano di roccia in roccia  in questo abisso: formano l’Acheronte, lo Stige e il Flegetonte; poi scendono attraverso questo stretto canale
fino al punto ove più non si scende: formano il Cocito; e che aspetto abbia quella palude, lo vedrai; perciò adesso non ne parlo.”
Cocito è lo stagno ghiacciato che occupa il nono cerchio; in esso sono immersi i traditori e lo 'mperador del doloroso regno, Lucifero, che tradì la fiducia in lui riposta da Dio.
L'origine dei fiumi infernali è un elemento nuovo che non si trova nei modelli biblico e classico, che hanno ispirato l'allegoria dei Veglio. Dante voleva, come scrive lo Steiner, "che il dolore, in quanto è conseguenza dei peccato, fosse restituito a colui che del peccato è la prima origine". Perciò il pianto dell'umanità intera "cinge l'inferno, lo attraversa, diventa strumento della punizione di quei tristi che lo hanno fatto versare più copioso ai loro simili, ma infine scende a cercare nel profondo di quello il signore d'ogni malizia e al ripugnante contatto di esso si muta in ghiaccio e costituisce così i ceppi eterni del superbo che ha scatenato nel mondo il peccato e la morte, e che fu agli uomini causa prima di infelicità".
L'allegoria dei Veglio di Creta e la teoria dei fiumi infernali non hanno soltanto un valore strutturale (in quanto ci mettono al corrente della topografia infernale), ma anche e soprattutto poetico, nella misura in cui si concretano in una solenne, accorata meditazione sul corso della storia umana. Quello simboleggiato nella figura del Veglio di Creta e nella teoria sulla formazione dei fiumi infernali è tuttavia soltanto l'aspetto negativo - indispensabile, ma non definitivo - del pensiero di Dante sulla storia: cardine di questo pensiero è infatti la provvidenzialità divina, la ferma fede nel trionfo del bene e della razionalità, oltre ogni ingiustizia e dolore.

E io:  “ Se questo  fiumicello scaturisce quindi  dalla terra, perché ci si mostra soltanto su questo margine ? ”
E Virgilio:  “Tu sai che questo luogo ha forma circolare; benché, scendendo verso il fondo, tu ti sia inoltrato parecchio procedendo sempre a sinistra,  
non hai ancora compiuto un giro intero: perciò, se appare una cosa nuova, essa non deve apportare un’espressione di stupore sul tuo volto ”.
E io ancora: “ Maestro, dove si trovano il Flegetonte e il Letè ? poiché di uno di questi non parli, e dell’altro dici che ha origine da questa pioggia (di lagrime)”.
Il Flegetonte è il fiume di sangue bollente in cui sono puniti i violenti contro il prossimo; il Letè scorre sulla vetta del monte del purgatorio (dove è il paradiso terrestre) e fa perdere alle anime che si sono pentite, e sono sul punto di ascendere al cielo, la memoria delle loro colpe.
“ In tutte le tue domande riscuoti certamente la mia approvazione ” rispose; “ma il ribollire dell’acqua rossa doveva ben risolvere uno dei due quesiti che proponi.
Vedrai il Letè, ma fuori di questo abisso, là dove le anime vanno a detergersi quando ogni peccato di cui si sono pentite  è cancellato. ”
Quindi disse:  “ Ormai è tempo di allontanarsi dal bosco; fa in modo di seguire i miei passi: gli argini, che non sono bruciati dal fuoco, indicano la strada,  
e sopra di loro ogni fiamma  si spegne ”.

 

Inferno – Canto XV

Ora ci porta una delle due salde sponde; e il vapore del ruscello fa schermo, in modo da riparare dalle fiamme l’acqua e gli argini.
Come la diga  che i Fiamminghi, temendo la marea  che si scaglia contro di loro, innalzano tra Wissant e Bruges perché il mare si ritiri,
e come quella che i Padovani (innalzano) lungo il corso del Brenta, per proteggere le loro città e i loro borghi fortificati, prima che la Carinzia (comprendeva anche la Valsugana dove nasce il Brenta) senta il caldo (che, sciogliendo le nevi, fa ingrossare i fiumi),
in tal modo erano costruiti quegli argini, benché  l’artefice, chiunque egli fosse stato, non li avesse fatti  né così alti né così larghi.
Nell'impegno di dar consistenza visiva e verosimiglianza alle scene da lui immaginate, Dante spesso non si contenta di un solo termine di riferimento, ma raffronta il dato fantastico a diversi aspetti della realtà a noi più consuete. La prima di queste due similitudini grandiosa e cupa; i suoni stessi suggeriscono la lotta senza quartiere l'uomo e il mare, veduto come un mostro scatenato. Di fronte all'impeto alla paura espressi in s'avventa e fuggia è posto il semplice, disadorno impersonale fanno, quasi a significare che la forza dell'uomo inerme è nella sua operosità e nel suo essere sociale.  La seconda similitudine, più iíposata precisa (l'avversario da combattere non è l'oceano misterioso e lontano, ma un fiume noto al Poeta), evoca, qui per contrasto, nel momento in cui dopo il lungo letargo invernale le nevi sciolgono, un clima dolce e sereno.
Già ci eravamo allontanati  dalla selva tanto,  che non avrei veduto dove essa era, anche se io  mi fossi voltato indietro,
quando incontrammo un gruppo di anime che camminavano lungo l’argine, e ognuna ci osservava  come ci si scruta di sera
nel periodo del novilunio; e aguzzavano lo sguardo verso di noi avvicinando l’una all’altra le palpebre  così come il vecchio sarto fa (nello sforzo di introdurre il filo) nella cruna dell’ago.
Due immagini tratte dalla nostra esperienza più comune suggeriscono, più che l'oscurità del luogo, la difficoltà (una pena che si aggiunge al loro consueto dolore) che hanno queste anime di riconoscere forme e aspetti del mondo, e la loro tesa attenzione. La prima si ispira a due passi dell'Eneide (VI, 268 sgg. e 452 sgg.), ma non ha nulla della solennità distaccata del suo modello; è un momento di vita colto nella sua più fresca e felice immediatezza. L'accenno alla nuova luna (innocente dunque, appena nata) nel buio di questo cerchio, dove la sola luce è quella crudele della pioggia di fuoco che solca l'aria, propone il tema della nostalgia per il mondo dei vivi, ribadito, con maggiore insistenza che altrove, nell'episodio di Brunetto Latini che qui ha inizio. Soltanto alcune trasparenze notturne dei cieli del Leopardi hanno, la casta evidenza di questa evocazione.
La seconda immagine "ci introduce decisamente nell'atmosfera del canto. Troveremo più innanzi un Brunetto paterno rispetto a Dante, e dunque anziano, ma non descritto propriamente come vecchio: se la nostra fantasia lo vede tale, ciò si deve anche alla suggestione che su essa opera questa similitudine iniziale; e sulla tenerezza che la figura di Brunetto ci ispirerà, nella sua debolezza umiliata, influisce certo anche questa immagine del vecchio tremante sartore" (Bosco).

Osservato in tal modo da questa schiera, fui riconosciuto da uno, che afferrò l’orlo della mia veste e gridò:  “Quale sorpresa! ”
E io, allorché tese il suo braccio verso di me, fissai lo sguardo in quei lineamenti bruciati, in modo che il volto ustionato non impedì
alla mia mente di riconoscerlo; e chinando il mio viso verso il suo, risposi:  “Qui vi trovate, ser Brunetto? ”
La domanda è breve, scarna, il suo altissimo potenziale affettivo può passare inosservato, l'accento batte sul qui, in posizione di forte rilievo prima della seconda cesura, e sul ser che ad esso si giustappone: l'uomo da tutti onorato in terra, il maestro di sapienza e di rettitudine, il politico esperto è, nell'al di là, tra i peccatori lerci, secondo la definizione che poi (verso 108) egli stesso darà di un vizio infamante. Gli scrittori dell'antichità classica avevano sempre cercato di moderare, entro una cornice di decoro formale, gli aspetti più dolorosi della condizione umana. Dante non ha queste preoccupazioni. Egli esprime, con una violenza priva di riscontri nella letteratura mondiale, il contrasto tra il nostro modo di manifestarci agli occhi, dotati di vista insufficiente, dei nostri simili e il nostro apparire agli occhi di Dio.
E quello: “ Figliolo, non ti rincresca il fatto che Brunetto Latini torni un po’ indietro con te e abbandoni la schiera ”.
Brunetto Latini, nato a Firenze intorno al 1220, fu uomo di lettere (scrisse in francese i Lívres du Trésor, enciclopedia della scienza medievale, e un breve poemetto didascalico in italiano, il Tesoretto; tradusse le opere retoriche di Cicerone), notaio (di qui la qualifica di ser) e cancelliere del comune. Partecipò alla vita politica militando tra i Guelfi. Morì nel 1294.
Nelle parole che Brunetto rivolge in questa terzina al suo discepolo di un tempo "cozzano insieme - come scrive il Parodi - mirabilmente contraddittorie e concordi, la preghiera e l'accorato rimprovero, l'angoscioso riconoscimento dell'umiliazione presente e l'allusione al tempo così diverso che fu, e questa culmina in quel nome pronunciato lentamente, e per intero. Brunetto Latini, che dice tante cose, ed è soprattutto una malinconica e velata ma energica affermazione della propria dignità personale, offuscata ma non in tutto perduta".  

Gli dissi: “ Ve ne prego di tutto cuore; e se volete che mi sieda  con voi, lo farò, se la cosa incontra l’approvazione di costui insieme al quale cammino ”.
Brunetto ha pregato Dante di permettergli di percorrere un tratto del cammino insieme a lui; ma il tono della sua preghiera esprimeva dolorosa incertezza: il suo antico discepolo non Io avrebbe rinnegato? Nella sua risposta Dante sottolinea la sua immutata venerazione (quanto posso, ven preco; e se volete ... ), si fa umile egli stesso, pone il notaio fiorentino sullo stesso piano di Virgilio (faròl, se piace ...).
“ Figlio ”, disse, “ chiunque di questa schiera  si ferma per un attiimo, giace poi per cento anni senza poter difendersi  quando la pioggia di fuoco lo colpisce.
Perciò continua a procedere: io ti camminerò accanto; poi raggiungerò la mia schiera, che sconta dolorosamente la sua pena eterna. ”
Io non osavo scendere dall’argine (della strada) per camminare al suo stesso livello; ma tenevo la testa china come chi cammina pieno di riverenza.
A questo punto ha termine la parte introduttiva dell'episodio. Le parole pronunciate sin qui da Brunetto Latini, così sommesse e dignitose al tempo stesso, fanno di lui un personaggio al quale va tutta la nostra simpatia; la riverenza dimostratagli dal Poeta lo innalza al di sopra dei suoi compagni di pena e ci fa sentire che siamo in presenza di un non comune ingegno e di una forte personalità. E' stata così preparata la parte centrale dell'episodio, nella quale l'indignazione di Dante per l'ingratitudine dei Fiorentini troverà, proprio nelle parole di Brunetto Latini, e per la prima volta nel poema, le espressioni del suo stile più alto e immaginoso: quello profetico.
Egli cominciò a parlare: “Quale caso o quale volere divino  ti conduce quaggiù prima dell’ultimo giorno (prima della morte)? e chi è costui che indica la strada? ”
“ Lassù, nel mondo luminoso ” gli risposi “ mi perdetti in una valle, prima che la parabola della mia vita fosse giunta al suo culmine.
Soltanto ieri mattina l’ho lasciata: costui mi si mostrò nel momento in cui stavo per rientrare in essa, e mi riconduce  a casa (sulla retta via) attraverso questo cammino.”
Dante cerca quasi di mettere in ombra, per reverenza verso il suo antico maestro, i propri meriti e racconta l'antefatto dei suo viaggio con dimessa semplicità (là su di sopra... in una valIe-... e reducemi a ca ... ).
Nell'episodio di Brunetto Latini il vero protagonista è Dante. Argomento dell'incontro è il destino del Poeta, la sua persecuzione ad opera dei concittadini. Le parole del notaio fiorentino, nella parte centrale dell'episodio, esprimono anch'esse la passione civile di Dante. Lo stile è qui l'opposto di quello che, nel canto tredicesimo, caratterizzava le effusioni di un personaggio intimamente incoerente, egli pure vittima dell'odio politico, Pier delle Vigne. Lì un discorrere raffinato ma contraddittorio, concettoso e fiorito, qui la semplicità delle cose evidenti e corpose, dei simboli elementari e perenni (la valle, la stella, il porto, il monte, il macigno ecc.).

Ed egli: “ Se tu segui l’astro che ti guida, non puoi non approdare alla gloria, se non errai nel mio giudizio mentre ero tra i vivi;
e se io non fossi morto tanto presto, vedendo il cielo a te così favorevole, ti avrei incoraggiato e sostenuto nella tua opera.
La profezia di Brunetto si articola in due tempi. Nel primo è predetto al Poeta, genericamente, un futuro di gloria; nel secondo, che fa seguito alla espressione del suo desiderio che il vecchio maestro fosse ancora in vita (è il momento in cui Dante, non più impacciato dalla necessità di convincere Brunetto della propria venerazione nei suoi confronti, manifesta liberamente la piena del suo affetto), si accenna, con maggiore dovizia di particolari e di riferimenti, all'odio dei Fiorentini per Dante, conseguenza del suo disinteressato operare. L'immagine della stella che guida il Poeta nella sua vita (ripresa, nella terzina successiva, da quella del cielo a lui benigno) poggerebbe, per alcuni, su un presupposto astrologico. Dante è nato nel segno dei Gemelli, dagli astrologi ritenuto favorevole allo studio delle arti liberali, in quanto, come scrive un antico commentatore, l'Ottimo,  "significatore di scrittura, e di scienza e di cognoscibilitade". Il presupposto astrologico che pur non è da escludersi, non appare tuttavia indispensabile.
Per il Bosco questa immagine non è astrologica, ma, come risulta dall'immagine che la completa, quella del porto, soltanto nautica.
"La stella è quella che guida i naviganti: se la seguono, questi giungono al loro porto. Brunetto dice insomma a Dante: se seguirai la tua stella, se non devierai dal tuo cammino, se terrai il timone della tua vita dritto verso la meta che ti sei prefissa, non potrai mancarla."

Ma quel popolo ingrato e perverso che anticamente  scese da Fiesole, e ancora conserva l’indole della rupe e della pietra,  
diventerà, per il tuo retto agire, tuo nemìco: ed è giusto, poiché il dolce fico non deve produrre i suoi frutti in mezzo ai sorbi aspri.
Secondo una leggenda diffusa nel Medioevo, Firenze era stata fondata dai Romani subito dopo la distruzione di Fiesole, che aveva aiutato Catilina nella sua ultima disperata impresa. La nuova città sarebbe stata popolata, secondo questa leggenda, in parte con abitanti di Fiesole, in parte con cittadini romani. Dante attribuisce qui le miserie della sua patria alla natura, ancora barbara ai suoi tempi, dei discendenti dei Fiesolani. Anche il Villani (Cronaca I, 38) vede l'origine delle discordie intestine di Firenze nella convivenza entro la stessa cerchia di mura "di due popoli così contrari e nemici e diversi di costumi, come furono gli nobili Romani virtudiosi, e Fiesolani ruddi e aspri di guerra". La rozzezza di cui parla il Villani, in Dante è condensata in un'immagine che ripropone, in forma nuova ed energica, e nel tono di popolare saggezza che è caratteristico di questa parte del canto, il tema tradizíonale dell'insensibilità della natura inorganica: tiene ancor del monte e del macigno. Di fronte alla pervicacia del rifiuto opposto dal popolo maligno ad ogni forma dì educazìone spirituale, di ingentilimento dei costumi, si profila, nella terzina successiva, il doloroso contrasto fra i sorbi selvatici (i Fiorentini incivili) e il dolce fico (Dante). L'immagine è di ispirazione biblica, e nello stile biblico, come avverte il Marzot,  "le piante e i frutti sono piuttosto idee che cose, e perciò entrano meglio nel linguaggio del proverbiare".
Nelle profezie della Commedia la realtà, che nelle similitudini è colta sempre nella sua immediatezza, anche là dove il riferimento letterario appare evidente, si carica di un solenne peso di pensieri, si circonda di echi che vanno al di là del visibile e, più genericamente, al di là dell'esperienza storica nel suo complesso.

Un antico detto  nel mondo dei vivi li definisce ciechi; è gente avara, invidiosa e superba: fa in modo di mantenerti immune dai loro costumi .
Un antico detto accusava di cecità i Fiorentini per essersi lasciati ingannare dal re goto Totila, che, dopo essersi detto loro amico, ne distrusse la città, oppure, secondo altri, per aver accettato come buone due colonne spezzate che i Pisani inviarono loro, avvolte in panno scarlatto, come ricompensa per l'aiuto dato da Firenze a Pisa in una spedizione alle Baleari. La citazione di questo proverbio si accorda con il tono generale della profezia di Brunetto Latini, espressa nelle forme vigorose dei linguaggio popolaresco.
La tua sorte  ti riserva tanto onore, che sia l’uno che l’altro partito (sia i Neri che i Bianchi) vorranno divorarti; ma l’erba sarà lontana dal caprone,
Le belve discese da Fiesole facciano foraggio  di loro medesime (si divorino fra di loro), e non tocchino l’albero, se in mezzo alla loro sozzura se ne eleva ancor uno,
nel quale riviva il sacro seme di quei Romani che lì si fermarono allorché si costituì il covo di tanta malvagità ”.
Come rileva il Rossi, il discorso di Brunetto Latini, cominciato "con largo movimento oratorio", esprime, nei versi 65-66 una mordace ironia, per traboccare quindi  "in accenti di scherno e di ingiuria (versi 67-68) e in frasi e immagini di rude gagliardia popolaresca (versi 69-72)", e placarsi infine "nella ampia trama di un solenne e risonante periodo (versi 73-78)", in cui Dante, nato da stirpe romana, giganteggia in mezzo alle risse dei suoi concittadini. La logica dei fatti è, in questa profezia, adombrata in una trama di richiami analogici, attraverso i quali i simboli si legano fra loro. Alla compattezza indifferenziata del mondo minerale (monte, macigno) fa seguito la varietà delle forme vegetali e animali: i lazzi sorbi contrastano col dolce fico, l'immagine dell'erba suggerisce quella del becco malefico che la bruca, continuandosi poi in pianta e sementa, cui si contrappone strame.
“ Se la mia preghiera  fosse stata interamente esaudita ” gli risposi, “ voi non sareste ancora morto (dell’umana natura posto in bando: esiliato dalla vita umana).
poiché nella mia memoria è impresso, e adesso mi addolora, il caro e buon aspetto paterno che avevate quando in vita di tanto in tanto
mi insegnavate come l’uomo acquista gloria imperitura: e quanto (il vostro aspetto) mi sia gradito, è giusto che si veda  attraverso le mie parole.
Quello che mi raccontate sul corso della mia vita lo annoto nella memoria, e lo conservo per farlo interpretare insieme con un’altra predizione (la profezia di Farinata) da una donna (Beatrìce) che ne sarà capace, se sarò in grado di arrivare fino a lei.  
Questo soltanto voglio che sappiate: sono preparato  ai colpi della Fortuna, comunque voglia colpirmi, purché la mia coscienza non mi rimproveri.
Una tale promessa non è nuova al mio udito: perciò la Fortuna giri pure la sua ruota come vuole, e il contadino la sua zappa.”
Nella risposta di Dante a Brunetto alla malinconia dei ricordi fa seguito un sentimento più deciso, vigorosamente scandito nella sua dichiarazione di essere pronto a raccogliere la sfida della Fortuna. Esso prorompe alfine impaziente nel motto che accomuna, fatte oggetto di una medesima sdegnosa indifferenza, le misteriose operazioni della Fortuna all'innocuo lavoro del contadino. Il tema della Fortuna, già trattato ampiamente nel canto degli avari e prodighi, è qui ripreso, ma in una prospettiva mutata. Mentre nella digressione di Virgilio del canto settimo la Fortuna è veduta nel suo aspetto impersonale ed astratto, come la reggitrice delle sorti di tutti gli uomini, qui appare invece come colei che volontariamente insidia il corso della nostra vita e che, in quanto tale, deve essere affrontata a viso aperto. La Fortuna non è onnipotente  sostiene il Poeta basta la coscienza del dovere compiuto per poterla affrontare.
Virgilio si volse allora indietro verso destra, e mi fissò; poi disse: “Ascolta con profitto una cosa chi sa ricordarla ”.
Nondimeno continuo a camminare parlando con ser Brunetto, e chiedo chi siano i suoi compagni più celebri e più egregi.  
Ed egli: “ E’ bene apprendere qualcosa intorno ad alcuni (di loro); degli altri sarà cosa lodevole non fare menzione, poiché il tempo non basterebbe a un discorso così lungo.
Sappi in breve che furono tutti ecclesiastici e dotti di grande valore  e di grande rinomanza, insozzati in vita da un medesimo peccato.
Con quella folla infelice  se ne vanno Prisciano e Francesco d’Accorso; e se avessi avuto desiderio di guardare una tale sozzura,
avresti potuto vedere in essa colui che dal pontefice fu trasferito da Firenze  a Vicenza, dove lasciò la sua vita peccaminosa.
Fra i dotti e gli ecclesiastici che fanno parte della sua schiera, Brunetto ne menziona tre soli, senza indugiare peraltro in una loro caratterizzazione; solo a proposito dell'ultimo, definito genericamente tigna (malattia ripugnante della pelle), un particolare incisivo e grottesco (li mal protesi nervi); allude al vizio di cui si macchiò.
I tre sono: Prisciano di Cesarea, autore delle Institutiones gramaticae, vissuto nel sesto secolo dopo Cristo, Francesco d'Accorso (c. 1225-1294), docente di diritto all'università di Bologna e di Oxford, e Andrea de' Mozzi, vescovo di Firenze, trasferito poi a Vicenza (nel 1295) da Bonifacio VIII.
L'espressione servo de' servi (servus servorum Dei), con cui i pontefici sogliono designare se stessi, è forse qui usata, trattandosi di Bonifacio VIII, in senso ironico.

Parlerei più a lungo; ma il camminare e il parlare non possono essere prolungati, poiché vedo laggiù levarsi nuova polvere  dalla distesa sabbiosa.
Si avvicina una schiera alla quale non devo  unirmi: ti sia raccomandato il mio Tesoro nel quale sopravvívo, e non chiedo altro ”.
Tutti i dannati si preoccupano della fama che hanno lasciato fra gli uomini. E' il loro modo più tipico di partecipare ancora alla vita. In Brunetto c'è però qualcosa di più: la certezza di sopravvivere attraverso un'opera di cultura. Del suo Tesoro parla come di una persona cara, sottolineando che gli appartiene (mio... nel qual io vivo ancora). Anche qui, non diversamente che nella prima domanda rivolta dal Poeta al suo antico maestro, una carica affettiva fortissima si traduce in una estrema semplicità di espressione.
Poi si voltò, e sembrò uno di quelli che a Verona corrono nella campagna (gareggiando per vincere) il drappo verde; e sembrò
quello che tra costoro vince, non quello che perde.
Nei dintorni di Verona, come in quelli di altre città italiane, si correva il palio, gara di velocità che prendeva il nome dal drappo che il vincitore otteneva in premio; l'ultimo arrivato riceveva invece un gallo ed era oggetto di scherno da parte degli spettatori. Dante, volendo indicare la rapidità con cui Brunetto si allontana da lui per raggiungere la sua schiera, lo paragona al vincitore del palio. Ma l'ultimo verso sembra quasi distaccarsi dagli altri e alludere al riscatto della figura di Brunetto, per virtù di poesia, dalla colpa infame che lo costringe tra i dannati.

 

Inferno – Canto XVI

Mi trovavo già in un luogo dal quale si udiva il fragore dell’acqua (del fiumicello) che precipitava nel cerchio seguente, simile a quel ronzio cupo che producono gli alveari,
allorché tre ombre si staccarono  contemporaneamente, correndo, da una schiera che passava sotto la pioggia del crudele supplizio.
I due poeti sono giunti in un punto in cui è percepibile il rumore che fanno le acque del Flegetonte, convogliate nel fiumicello che esce dalla selva dei suicidi, precipitando nell'ottavo cerchio. A un rumore ancora avvertito in lontananza e come indistinto. E' stato messo in rilievo, nel succedersi dei suoni cupi della similitudine contenuta nell'ultimo verso della prima terzina, come un equivalente fonico dell'immagine che essa ci comunica. Questa immagine non ha tuttavia nulla di terribile come è parso ad alcuni; essa anzi, introducendoci nell'atmosfera di questo canto - nel quale l'orrore della pena infernale è di continuo attenuato dall'affettuoso rispetto dei Poeta per i dannati che ivi incontra - mira a dissipare, con l'evocazione di una natura docile all'uomo, quello che di misterioso e di ineluttabile era contenuto nei primi due versi della terzina. Al rimbombo del fiume infernale si sovrappone il più familiare rombo delle arnie, alle tenebre che non consentono al Poeta di individuare il posto in cui si trova se non attraverso un confuso dato acustico, si sostituisce, implicitamente contenuta nell'immagine, la campagna serena e assolata, nella quale le api armonicamente, in fervida concordia, attendono al loro lavoro.
Venivano verso di noi, e ciascuna gridava: “ Fermati  tu che dall’abito ci  sembri essere uno della nostra città  malvagia ”.
Le tre ombre che corrono verso l'argine sul quale si trovano Dante e Virgilio sono quelle di tre uomini politici fiorentini di parte guelfa, appartenenti alla generazione che precedette di poco quella del Poeta. Non deve apparire strano il fatto che riconoscano in lui immediatamente un loro concittadino. Scrive il Boccaccio, che a quei tempi "quasi ciascuna città aveva un suo singular modo di vestire, distinto e variato da quello delle circunvicine" . I Fiorentini portavano il  " lucco " (veste senza pieghe stretta alla vita) e il cappuccio.
Fin da questi versi di apertura dell'episodio è fortemente messo in rilievo il sentimento che spinge le tre anime dannate a interrogare Dante: l'amore di patria. Come in Farinata, questo sentimento sembra quasi abolire in esse per un attimo la coscienza del luogo in cui si trovano. Ma Farinata è immobile, torreggia solitario in un atteggiamento di disprezzo: la tragedia nel canto degli eretici si sviluppa a poco a poco entro una cornice di epica grandezza. Qui la situazione fin dall'inizio appare diametralmente opposta a quella dell'incontro con Farinata: i tre concittadini del Poeta, ch'a ben far puoser li 'ngegni (Inferno VI, 81), corrono verso di lui e neppure si fermano nel rivolgergli la parola. Il loro affanno è bene messo in evidenza in un verso all'apparenza puramente descrittivo - venìan ver noi, e ciascuna gridava - in cui al generico plurale venìan, inteso ad esprimere l'automatico accordarsi dei loro movimenti esteriori, si contrappone il singolare gridava, ad indicare l'incoercibile spontaneità del loro sentire.

Ahimè, quali ferite recenti e antiche, aperte dalle fiamme, vidi nelle loro membra! Ne provo ancora dolore  soltanto a ricordarmene.
Alle loro grida Virgilio fermò la propria attenzione; volse il viso verso di me, e disse: “ Aspetta: bisogna essere cortesi con costoro.
E se non fosse per le fiamme che la natura del luogo scaglia, direi che converrebbe a te più che a loro l’affrettarsi ”.
Non appena ci fummo fermati, essi ripresero (a muoversi) nel solito modo; e quando furono giunti presso di noi, si disposero in cerchio tutti e tre,
come sono soliti fare i lottatori  nudi e unti, nel momento in cui cercano con gli occhi  la presa più vantaggiosa, prima di colpirsi e ferirsi a vicenda;
e così girando, ciascuno volgeva il viso verso di me, in modo che il collo si muoveva continuamente  in direzione opposta a quella dei piedi.
L'immagine della rota con tutto quello che di meccanico essa evoca (non un movimento indirizzato a un fine, ma una periodicità insensata), sottolinea in senso grottesco la reale condizione di queste anime: nonostante i loro grandi meriti sono dei dannati. La loro libertà interiore, la schiettezza del loro modo di esprimersi, propria di chi è stato uomo d'azione (quale differenza fra i loro discorsi e quelli di un Pier delle Vigne, ad esempio!), il loro appassionato disinteresse, per cui i loro dolori personali sono come obliati nella contemplazione delle sciagure di Firenze, vengono di continuo contraddetti da quanto c'è di ridicolo nei loro movimenti: la rota e il continuo viaggio che fanno i loro colli. A sua volta, però, l'immagine della rota si umanizza e si nobilita in quella dei campion, attraverso la quale è anche suggerita la figura morale di questi dannati, che in vita furono dei lottatori, sostenitori dell'idea guelfa in Firenze.
La similitudine dei campion si riferisce, secondo alcuni, ad un uso diffuso nel Medioevo: il giudizio di Dio, al quale si faceva ricorso allorché due parti non avevano argomenti sufficienti per dirimere una controversia.

E  “ Se la triste condizione  di questo luogo sabbioso e il nostro aspetto annerito  e devastato  rendono spregevoli noi e le nostre preghiere” cominciò uno di essi
“ la nostra fama induca  il tuo animo a dirci chi sei tu, che così immune da tormenti  cammini ancora vivo  nell’inferno.
In queste prime parole che Jacopo Rusticucci (dirà egli stesso il proprio nome alla fine del suo discorso) rivolge a Dante, si sente l'esitazione, il dubbio che tormenta questi dannati:  "temono che vedendoli... [il Poeta] li abbia in dispregio. E perché sentono che così meriterebbero, al noi aggiungono subito: e nostri prieghi, ben sapendo la durezza d'animo che ci vorrebbe a disprezzare anche le preghiere degli infelici" (Pietrobono).
Questo, di cui mi vedi calpestare le orme, benché  cammini nudo e spellato, fu di condizione più elevata di quanto tu possa credere:
fu nipote della virtuosa Gualdrada; ebbe nome Guido Guerra, e nella sua vita si distinse per ingegno e valore,
Il primo dei dannati presentati a Dante da Jacopo Rusticucci è Guido Guerra, appartenente alla famiglia dei conti Guidi, valoroso combattente di parte guelfa, nato verso il 1220. Bandito da Firenze dopo la sconfitta di Montaperti (1260), fu capo dei fuorusciti guelfi nella battaglia di Benevento (1266), combattuta contro i Ghibellini di re Manfredi, figlio di Federico II. Questa battaglia segnò il crollo delle fortune del partito ghibellino in Italia. Guido Guerra era, come qui viene ricordato. nipote di Gualdrada, figlia di Bellincione Berti de' Ravignani, il quale sarà presentato dal Poeta, attraverso le parole dell'antenato Cacciaguida (Paradiso XV, 112-113), come il modello del fiorentino frugale di antico stampo. Molte leggende celebravano, ai tempi di Dante, insieme alla sua bellezza, la virtù di Gualdrada.
L’altro, che dietro me calpesta  la rena, è Tegghiaio Aldobrandi, le cui parole avrebbero dovuto essere apprezzate nel mondo.
Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, Il "cavaliere savio e prode in arme e di grande autoritade" (Villani - Cronaca VI, 78), appartenne anch'egli al partito guelfo. Si narra che tentò vanamente di dissuadere i suoi concittadini dall'intraprendere la spedizione contro i Senesi e i fuorusciti ghibeilíni comandati da Farinata degli Uberti, spedizione destinata a concludersi tragicamente a Montaperti (1260). Per questo Dante fa dire a Jacopo Rusticucci che i pareri espressi da Tegghíaio avrebbero dovuto essere tenuti in maggior considerazione.

Come di Tegghiaio Aldobrandi, anche di Jacopo Rusticucci Dante aveva chiesto notizie a Ciacco, ricordandolo tra i protagonisti della storia recente di Firenze. Secondo l'Anonimo Fiorentino fu "valoroso uomo e piacevole". Non abbiamo molte altre notizie di lui. Nelle parole che il Poeta gli attribuisce appare un velato cenno al suo peccato (e certo la fiera moglie più ch'altro mi noce).
Se io fossi stato al riparo  dal fuoco, mi sarei lanciato di sotto in mezzo a loro, e credo che Virgilio lo avrebbe permesso;
ma poiché sarei stato arso dalle fiamme, il timore prevalse sul mio lodevole desiderio che mi rendeva bramoso  di abbracciarli.
Poi cominciai:  “La condizione nella quale vi trovate non ha suscitato in me disprezzo, ma un dolore tanto grande che passerà molto tempo prima che io me ne liberi completamente,
allorché Virgilio mi disse parole dalle quali argomentai che si avvicinassero anime grandi quali voi siete.
Appartengo alla vostra città, e ho sempre appreso e ascoltato le vostre opere e i vostri nomi onorati con commozione.
Nota opportunamente il Montanari come l'affetto che Dante sente per questi concittadini "è più impetuoso e fiero di quello per Brunetto che pur aveva, a differenza di questi, conosciuto familiarmente". L'incontro con queste tre anime è "più drammaticamente concitato" di quello col suo antico maestro, risolto in una tonalità elegiaca, poiché in Dante "la passione di patria ha accenti più sonori dell'affetto familiare".
Lascio l’amarezza del peccato  e mi dirigo verso i dolci frutti del bene a me promessi dalla mia guida (Virgilio) veritiera; ma occorre che io precipiti  prima fino al centro (della terra) ”.
In questa terzina il Poeta riassume, come già nella risposta a Brunetto Latini, ma in forma più concisa, armonizzando così il suo modo di parlare a quello dei suoi interlocutori, la vicenda del suo viaggio nell'al di là. Riappare per un attimo il linguaggio simbolico, di chiara intonazione scritturale (lo tele... dolci pomi), che aveva caratterizzato il suo colloquio con il notaio fiorentino nel canto precedente.
“ Possa tu vivere a lungo ” rispose ancora quello,  “ e la tua fama risplendere dopo la tua morte,
ma di’ se nella nostra città abitano ancora cortesia e valore così come solevano, o se sono completamente scomparsi;
poiché Guglielmo Borsiere, il quale da poco soffre qui con noi, e cammina là con i compagni, ci addolora molto con le sue parole.”
Come già nell'episodio di Farinata, sembra che anche per questi tre Fiorentini i tormenti dell'inferno passino in seconda linea di fronte all'interesse che essi nutrono per la sorte della loro città. Ma in loro la carità del natìo loco (Inferno XIV, 1) è più pura che in Farinata: essi non guardano agli interessi della patria attraverso quelli del loro partito; la loro dedizione va intera a Firenze, al di là di ogni discordia intestina; la loro attenzione si rivolge, non al fatto politico in sé, ma ai suoi riflessi civili e morali (cortesia e valor di' se dimora).
Guglielmo Borsiere fu, secondo il Boccaccio, "cavalier di corte, uomo costumato molto è di laudevol maniera".

“ La gente nuova (pervenuta di recente alle cariche politiche e arrivata in gran parte dal contado) e gli improvvisi guadagni hanno prodotto superbia e sfrenatezza, in te, Firenze, tanto che già te ne duoli.”
L'apostrofe di Dante, una delle più celebri della Commedia, ripropone, in questa terzina, quelli che già negli episodi di Ciacco e di Brunetto Latini sono stati considerati i motivi determinanti del corrompersi delle antiche virtù in Firenze. Qui, alla domanda di Jacopo Rusticucci, ansioso di sapere la sorte toccata in Firenze a cortesia e valor, il Poeta risponde rivolgendosi, nel tono degli antichi profeti, direttamente alla sua città: al binomio cortesia e valor, se ne oppongono, nelle sue parole, due, quasi a rafforzare, col peso delle determinazioni, la durezza della sua affermazione: la gente nova e' subiti guadagni, cui fa eco, subito dopo, il duplice complemento oggetto orgoglio e dismisura. Nel drammatico prorompere del suo dolore Dante insiste sulla presenza in Firenze del male, più che soffermarsi sul suo primo manifestarsi nel tempo: ecco perché i quattro sostantivi che questo male denunziano sono anteposti, come a formare un unico indissolubile blocco, al verbo che sintatticamente li unisce (han generata).
Così gridai a testa alta; e i tre,  che interpretarono queste parole come una risposta, si guardarono l’un l’altro come ci si guarda quando si ode una verità (che rattrista).
“ Se ti costa sempre  così poco sforzo ” risposero tutti “ accontentare gli altri, te fortunato se riesci ad esprimerti così bene !
Perciò, possa tu scampare  a questi luoghi oscuri e tornare a rivedere le belle stelle, quando ti sarà dolce dire “Io fui (nell’inferno)”,
(in nome di questo augurio) fa in modo di parlare alla gente di noi. ” Quindi ruppero il cerchio, e le loro agili  gambe sembrarono ali nel fuggire.
Il Momigliano attira l'attenzione, a proposito di questa immagine, sulla "precisione visiva di rupper" e sull'impressione che da tutto il periodo scaturisce,  "d'una ruota che si spezza in tanti raggi sbalestrati nell'aria".
Non si sarebbe potuto pronunciare un amen così rapidamente  come essi sparirono; e perciò Virgilio giudicò opportuno che ci allontanassimo.
lo lo seguivo, ed avevamo percorso poco cammino, quando il fragore dell’acqua ci fu così vicino, che se avessimo parlato ci saremmo uditi appena.
Come quel fiume che, per primo (per chi guarda) dal Monviso verso levante, ha (tra i fiumi che nascono) dal versante sinistro dell’Appennino, un corso interamente suo,
il quale nella parte superiore  si chiama Acquacheta, prima di scendere  nel suo alveo in pianura, e a Forlì non ha più quel nome 
rimbomba sopra San Benedetto dell’Alpe per il fatto che precipita  attraverso una sola cascata  ove dovrebbe essere ricevuto  da mille (cascate),
così trovammo che rimbombava quell’acqua oscura, riversandosi  attraverso un pendio ripido, in modo tale che avrebbe in poco tempo danneggiato l’udito.
Anche questa similitudine, così ricca di riferimenti ad una realtà che non pare concedere nulla all'insorgere del sentimento, così minuziosa nella determinazione di particolari apparentemente superflui (come, ad esempio, quello riguardante il nome che il fiume, il Montone, ha, prima di precipitare nella cascata sopra San Benedetto dell'Alpe), è concepita in funzione di quella umanizzazione della cupa atmosfera infernale già rilevata nelle similitudini delle arnie e della rota. Come opportunamente scrive il Caretti, "tutta la serie delle precisazioni geografiche (inutili soltanto per chi tenga d'occhio la similitudine in se stessa) hanno lo scopo di togliere ogni carattere fantomatico al fragore ormai vicino e di prepararci progressivamente all'incontro con la ripa discoscesa e con l'acqua tinta".
Io avevo una corda legata intorno (ai fianchi), e con essa avevo pensato una  volta di catturare la lonza dal manto screziato.
Il significato del simbolo adombrato nella corda è piuttosto oscuro. Non sembra che in essa possa vedersi, come voleva un antico commentatore, il Buti, il cordiglio francescano. Tra le varie ipotesi avanzate al riguardo, grande credito ha goduto quella dello Scartazzini, secondo il quale la corda alluderebbe alla castità che vince la lussuria (simboleggiata dalla lonza). La corda non servirebbe ormai più a Dante, "dal momento che egli ha lasciato dietro di sé l'ultimo cerchio dove si puniscono peccati di lussuria" (quelli dei violenti contro natura). Egli può quindi a questo punto liberarsene. Secondo un'altra interpretazione, essa non designerebbe soltanto una difesa contro la lussuria, ma anche contro la frode (il peccato punito nei due cerchi che il Poeta si appresta a visitare) : in essa dovremmo pertanto vedere, oltre la mortificazione della carne, anche il senso della legalità, il potere della legge. "La corda è gettata via prima che Dante scenda tra i fraudolenti, perché la legge si rivela insufficiente quando a sostegno della colpa sopravviene l'ausilio dell'intelletto, quando il peccatore si arrocca nelle agili formule del farisaismo leguleio..." (Pasquazi)
Dopo essermi completamente slegato, così come mi aveva ordinato Virgilio, gliela porsi stretta e avvolta.
Per cui egli si volse verso destra, e la gettò giù in quel profondo precipizio  alquanto lontano  dalla sponda.
“ Eppure occorre che qualcosa di nuovo  appaia ” dicevo fra me stesso “ in risposta al segnale inusitato  che Vìrgìlio segue  con lo sguardo così attentamente. ” 
Ahi quanto prudenti devono essere gli uommi davanti a coloro che non vedono soltanto le azioni, ma penetrano con l’inteffigenza  dentro i pensieri !
Egli mi disse:  “ Fra poco  salirà ciò che attendo e che il tuo pensiero confusamente immagina  : fra poco dovrà apparire alla tua vista ”.
L’uomo deve sempre tacere, finché può, quella verità che ha apparenza  di menzogna (per il fatto che è incredibile), poiché essa, senza che egli ne abbia colpa, lo pone nella condizione di vergognarsi;
ma a questo punto non posso tacere (la verità); e sui versi di questa commedia, o lettore, ti giuro, così possano essi non essere privi di accoglienza gradita che duri a lungo,
che vidi attraverso quell’aria densa e tenebrosa venire nuotando verso l’alto una figura, tale da destare sgomento in ogni animo forte,
così come torna alla superficie colui che scende talvolta a disincagliare  l’ancora impigliata  o in uno scoglio o in altra cosa chiusa nel mare,
il quale si tende nella parte superiore del corpo, e si rattrappisce in quella inferiore.
Per conferire maggior credibilità alla scena irreale che si prepara a descrivere (l'arrivo del mostro Gerione, simbolo della frode), Dante giura sui versi del proprio poema. Secondo quanto il Poeta dice nella lettera da lui indirizzata a Cangrande della Scala per dedicargli il poema (XIII, 29-31) e in un passo del De vulgari eloquentia (II, IV, 5-6), il termine comedia designerebbe ogni componimento poetico trattato in uno stile familiare e in una lingua semplice e caratterizzato da un lieto scioglimento. Nel Paradiso (XXV, 1-2) il poema sarà invece definito 'l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra.
Il mostro che sale dall'abisso, in risposta al segnale della corda gettata da Virgìlio, è per ora ancora soltanto una immagine indeterminata (figura), animata però da una vitalità possente e armonica. La similitudine del sommozzatore mette in rilievo l'energia controllata di ogni suo movimento. Proprio perché simboleggia la frode, Gerione appare, fin da questi primi versi, del tutto diverso, nelle sue manifestazioni, dalle potenze infernali poste a custodia dei cerchi degli incontinenti e dei violenti .

 

Inferno – Canto XVII

“ Ecco il mostro dalla coda acuminata, che varca le montagne, e infrange ogni ostacolo; ecco quello che appesta col suo fetore l’intero universo! ”
Virgilio annuncia l'arrivo di un altro custode infernale, Gerione, simbolo della frode. Soltanto un particolare dell'aspetto fisico del mostro è messo in rilievo in questa terzina - la coda - ma è il particolare che meglio ne caratterizza l'indole ambigua e pericolosa e sul quale con maggior insistenza si soffermerà la fantasia del Poeta. E' solo col guizzare della coda che Gerione, protagonista muto di questo canto, di una quasi agghiacciante sottomissione ai comandi di Virgilio (è il primo dei custodi infernali che non tenta di ostacolare il cammino dei due poeti), mostrerà il nervosismo della bestia non doma. La frode colpisce a tradimento, senza dichiarare le proprie intenzioni; ecco perché vedremo, dietro la faccia di uomo giusto di Gerione, enigmatica nella sua immobilità, celarsi l'insidia, rappresentata dalla sua coda armata di aculei velenosi.
Anche la figura di Gerione deriva, come quelle dei custodi infernali sin qui incontrati dai due poeti, dalla mitologia. Le leggende ne parlavano come di un re crudelissimo, che accoglieva gli ospiti benignamente per poi ucciderli; fu a sua volta ucciso da Ercole. I poeti latini lo descrivono come un gigante che aveva tre corpi e tre teste. "Ma non solo quella natura tricorporea non aveva una descrizione precisa, essa non appariva chiara come simbolo, e a Dante importa ritrovare nelle favole della mitologia, almeno adombrato, un valore simbolico. Per questo la stranezza di quei tre corpi gli suggerì l'idea dell'inganno, della frode, ma egli volle dare concretezza visiva e simbolica a quella figura e la immaginò non con tre corpi, ma con tre nature diverse in un corpo solo." (Gallardo)
Ma nella figura di Gerione confluisce, insieme all'ispirazione mitologica, anche quella scritturale. E probabile, infatti, che nell'immaginarla il Poeta abbia tenuto presente un passo dell'Apocalisse (IX, 7-11) ove si parla di locuste dal volto umano e dalla coda di scorpione. Il re di queste locuste, Abaddon, chiamato  "angelo dell'abisso", salirà, secondo la profezia di San Giovanni - e in ciò è forse un'altra concordanza fra questa pagina della Commedia e il testo biblico, - dal "pozzo dell'abisso" per dirigersi verso Gerusalemme. Anche il moto ascendente di Gerione, tenuto conto di quella che è la posizione dell'inferno dantesco, è diretto verso Gerusalemme. Occorre altresì ricordare che nella pittura, nella scultura e nella miniatura del Medioevo è frequente la rappresentazione di figure mostruose o grottesche. Nell'immaginare Gerione Dante può quindi essersi ispirato anche alle arti figurative del suo tempo. Scrive al riguardo A. Venturi: "Da una sfinge, scolpita dai Cosmati sotto le cattedre vescovili, sotto le colonne tortili dei pulpiti, innanzi ai parapetti degli altari, Dante ricava la figura di Gerione, che poi colora secondo le rappresentazioni comuni di belve nelle stoffe orientali, con la cute dipinta di nodi e di rotelle".

Così cominciò a dirmi Virgilio; e gli fece segno di accostarsi all’orlo del burrone, vicino al termine degli argini pietrosi che avevamo percorso.
E quell’immondo simbolo di frode gíunse, e portò sull’orlo  la testa e il tronco, ma non depose sulla riva la coda.
Il suo volto era volto di uomo onesto, tanto benevolo era il suo aspetto esteriore, e tutto il resto del corpo  era quello di un serpente;
Diversamente da quello degli altri custodi infernali, il viso di Gerione non ha nulla di bestiale, anzi suggerisce una perfetta equità di pensieri ed azioni (era faccia d'uom giusto).
La frode è per essenza un male che non si rivela, occultato sotto apparenza di bene. Un passo del Convivio chiarisce il significato simbolico di questi versi: "quelle cose che prima non mostrano li loro difetti sono più pericolose, però che di loro molte fiate prendere guardia non si può; sì come vedemo nel traditore, che ne la faccia dinanzi si mostra amico, sì che fa di sé fede avere, e sotto pretesto d'amistade chiude lo difetto de la inimistade" (IV, XII, 3).

aveva due zampe artigliate  pelose fino alle ascelle; aveva il dorso  e il petto e ambedue i fianchi  disegnati con nodi e piccoli cerchi:
né Tartari né Turchi fecero mai tappeti con più colori, con maggior varietà di fondi  e di disegni a rilievo, né simili tele furono tessute da Aracne (espertissima tessitrice della Lidía che sfidò Minerva e fu dalla dea trasformata in ragno).
Le zampe pelose e artigliate ricordano quelle del drago, animale che ossessionò la fantasia dei narratori, pittori e scultori del Medioevo e si riferiscono alla crudeltà del male da Gerione simboleggiato; il complicato arabesco che stria la pelle del mostro allude probabilmente alle tortuose macchinazioni di cui i fraudolenti si servono per sorprendere la buona fede altrui. Nessuno dei custodi infernali è stato descritto con tanta dovizia di particolari come questa immagine di froda. Erano tutti stati colti sinteticamente in una manifestazione di vitalità incomposta, che da sola bastava a denunciare il male che personificavano. Ma Gerione appare tranquillo, per nulla turbato dalla presenza di un vivo nel regno delle ombre. Anzi, nella prima parte del canto, se non fosse per il minaccioso guizzare della coda nel vuoto, dal quale, come abile nuotatore, è emerso, sembra quasi non avere vita. A determinare in noi questa impressione contribuiscono, oltre che il volto inespressivo e la sincronia di ogni suo movimento, messa in luce nelle due ultime terzine dei canto precedente, le símilitudini usate per dare verosimiglianza alla sua figura. Queste similitudini, fatta eccezione per quella del castoro (versi 21-22), riallacciano la figura di Gerione al mondo inorganico anziché a quello della vita. Tuttavia si tratta di mondo inorganico che porta in sé la traccia dell'intelligenza umana (i drappi, le tele, i burchi). La frode smentisce ogni forma di passionalità, proprio perché la passionalità, quale, che sia il giudizio morale che su di essa possiamo formulare, non può non essere schietta e manifestarsi per quella che è. L'inganno invece richiede calcolo, pazienza, capacità di dissimulazione, sangue freddo.
Gerione, misterioso e immobile nella prima parte del canto, scenderà poi lentamente, docile alle ingiunzioni di Virgilio, fino a deporre i due poeti alla base del costone roccioso che dal settimo cerchio precipita nell'ottavo, ma soltanto dopo avere adempiuto a questo suo ufficio manifesterà compiutamente, per un attimo, l'estrema mobilità di cui è capace.

Come a volte le barche  sono ferme a riva, con una parte del loro scafo in acqua e una parte sulla terraferma, e come nelle terre abitate dai Tedeschi crapuloni
il castoro  si dispone  a cacciare i pesci, così il peggiore dei mostri, stava sul margine che, pietroso, cinge  la distesa di sabbia.
Calzante il paragone con le barche per questa figura che era venuta nuotando attraverso l'aria ed ora giace in subdola calma sull'orlo pietroso del sabbione. Nota il Soldati come Gerione sia "bestia e veicolo insieme" e suggerisce un accostamento, per quel che riguarda il loro aspetto esteriore, fra il mostro e  quelle navi da corsa la cui poppa era sormontata da un fregio alto e ricurvo. Figuriamocene una, di notte, appoggiata alla riva nella posizione dei burchi. Gerione, nave-fiera-demonio, è così!">
Il secondo paragone richiama, come ha giustamente rilevato il Grabher, non solo la posizione di Gerione sull'orlo interno del cerchio, ma anche "l'intenzione di lui: quel disporsi a far sua guerra e in modo così insidioso".

L’intera sua coda si agitava nel vuoto, contorcendo in alto la velenosa estremità biforcuta  che aveva le punte munite di aculei  come quella di uno scorpione.
La coda biforcuta di Gerione sta ad indicare la doppiezza dell'azione fraudolenta. Secondo alcuni interpreti le due punte della coda alluderebbero ai due tipi di frode: la frode contro chi si fida e quella, contro chi non si fida (cfr. Inferno XI, versi 53-54).
Occorre notare che il paragone con la coda dello scorpione si riferisce al veleno di cui è munita quella di Gerione, non alla biforcazione, che richiama piuttosto le due pinze poste sul capo dello scorpione, dato che la coda finisce in una punta sola.

Virgilio disse:  “ Occorre adesso che il nostro cammino sia deviato  un poco fino a quella bestia perversa che si trova  là ”.
Così un antico commentatore, l'Ottimo, spiega la deviazione che a questo punto i due poeti compiono, allontanandosi dalla direzione fino allora seguita: Il non si potea per diritto calle andare alla frode, anzi per tortuoso; nulla via mena a lei diritto".
Perciò scendemmo verso destra, e percorremmo  dieci passi sull’estremità del cerchio, per evitare completamente  la sabbia e la pioggia di fuoco.
E quando fummo giunti vicino a lei, vidi un po’ più in là sulla sabbia gente che sedeva vicino  all’abisso.
Qui Virgilio: “ Affinché tu abbia una conoscenza completa di questo girone” mi disse,  “avvicinati a loro, e osserva la loro condizione.
I tuoi discorsi  siano lì brevi: finché non sarai tornato, parlerò con questa (bestia), perché ci offra le sue vigorose spalle ”.
Dante non assiste al colloquio di Virgilio con Gerione, il quale rimane chiuso, in tutto il canto, in un assoluto mutismo. Il silenzio che circonda il mostro rende con grande evidenza il carattere ambiguo e sfuggente della fiera, che presenta ai due pellegrini, assoggettato ed obbediente, il solo corpo.
Così me ne andai tutto solo ancora sull’orlo estremo del settimo cerchio, dove sedeva la gente tormentata.
Il dolore di questi dannati prorompeva in lagrime attraverso gli occhi; si proteggevano  con le mani, agitandole di qua e di là, ora dalle fiamme, e ora dal terreno infuocato:
non diversamente fanno i cani d’estate  ora con il muso, ora con la zampa, quando sono morsicati o dalle pulci o dalle mosche o dai tafani.
Per esprimere l'inanità degli sforzi, destinati a ripetersi in eterno, di questi dannati (gli usurai), il Poeta ricorre ad una similitudine efficace nella sua brutale immediatezza: quella dei cani che cercano di difendersi dal morso fastidioso di parassiti ed insetti. "L'assíllo della pena e il meccanico ripetersi dei gesti sono sottolineati anche da certe insistenti ripetizioni: quando... quando ... ; or col... or col ... ; o da... o da... o da." (Grabher) L'atteggiamento degli usurai esprime qui e alla fine del discorso di Reginaldo degli Scrovegni (versi 74-75) tutta la degradazione del loro essere.
Dopo che ebbi fissato lo sguardo nel volto di alcuni, sui quali cade il fuoco tormentatore, non riconobbi nessuno; ma osservai
che a ciascuno di loro pendeva dal collo una borsa, che aveva un colore determinato e un determinato disegno, e sembrava che il loro sguardo traesse nutrimento da queste borse.
Come nel canto degli avari e prodighi, Dante mostra di ignorare l'identità di questi peccatori: la borsa, simbolo della loro sfrenata cupidigia di beni materiali, appare come l'espressione più esauriente della loro personalità. Per maggior irrisione, sul sacchetto che pende dal collo dei dannati è dipinto lo stemma della loro famiglia.
E a mano a mano che li andavo osservando più attentamente, vidi su una borsa gialla dell’azzurro che aveva sembianza  e atteggiamento  di leone.
Il leone azzurro in campo giallo rappresenta lo stemma dei Gianfigliazzi, famiglia guelfa fiorentina, alla quale apparteneva Catello Gianfigliazzi, usuraio in Francia. L'attenzione dei Poeta non si ferma sulla persona di questo peccatore, che rimane del tutto nell'ombra, come se non esistesse, ma sull'emblema del suo peccato.
Poi, mentre il carro  dei mio sguardo procedeva, oltre, ne vidi un’altra rossa come sangue, che ostentava  un’oca candida più del burro.
L'oca bianca in campo rosso è lo stemma degli Obriachi, nobile famiglia. ghibellina, i cui membri esercitarono l'usura. Quanto al raffronto del colore dell'oca con quello del burro il Sapegno rileva che "I'immagine gastronomica si intona... aI tono beffardo e sarcastico, che serpeggia per tutto questo gruppo di terzine".  Ma forse, nella descrizione degli stemmi degli usurai, prevale, sull'intento moraleggiante, il puro gusto degli accostamenti di colore.
E uno che aveva disegnata sulla sua borsa bianca una scrofa azzurra e pingue, mi disse:  “ Che fai in questa voragine?
Parla, secondo la maggior parte dei critici, il padovano Reginaldo degli Scrovegni. "L'interrogazione stizzosa - scrive il Torraca - lascia intendere che l'usuraio s'è accorto di aver innanzi un vivo, e ne è scontento".
Ora vattene; e poiché sei ancora vivo, sappi che il mio concittadino  Vitaliano siederà qui alla mia sinistra.
Reginaldo si compiace di riversare sui suoi compagni di pena (verso 70) l'onta che gli deriva dall'essere stato veduto dal Poeta, che riporterà questa notizia nel mondo dei vivi. Egli perciò ne denuncia, non richiesto, la presenza accanto a lui e il prossimo arrivo nel suo girone. Osserva ancora il Torraca: "Dopo l'interrogazione scortese, l'ingiunzione sgarbata. E non basta: non per usar cortesia a quel vivo, ma per sfogare la sua stizza, se la piglia con due, che sono ancora in terra, e con i suoi stessi compagni di pena; di questi fa la caricatura, di quelli proclama il peccato e annunzia la punizione, di sé e degli altri cinicamente dice la patria".
L'usuraio  qui menzionato è probabilmente Vitaliano del Dente, podestà a Vicenza nel 1304 e a Padova nel 1307.

Insieme a questi fiorentini sono padovano: molte volte  mi assordano  l’udíto gridando: “Venga il grande  cavaliere,
che porterà la borsa coi tre caproni !” ” A questo punto storse la bocca e tirò fuori la lingua come un bue che sì lecca, il naso.
Il cavalier sovrano è il fiorentino Giovanni Buiamonte della famiglia dei Becchi, morto nel 1319. Il Poeta "vuol mettere proprio in vista che l'usuraio atteso in inferno era cavaliere, e dei più rinomati, a maggior vergogna di Gianni Buiamonte e della città che dava l'onore della cavalleria a siffatta gente", poiché  "è ben più vergognosa l'usura in tale che si teneva o era tenuto primo dei cavalieri, come è, d'altra parte, vergogna dar l'onore della cavalleria a siffatta gente" (Barbi).
E io, temendo che un ulteriore indugio  infastidisse Virgilio che mi aveva raccomandato una breve sosta, tornai indietro (allontanandomi) da quelle anime afflitte.
Trovai Virgilio che era già salito sulla groppa del mostro terrificante, e che mi disse:    “ Ora sii forte e coraggioso.
D’ora in poi si scende con tali mezzi: sali davanti, perché io voglio stare nel mezzo,  in modo che la coda non possa nuocere ”.
Omaí si scende per sì latte scale: i due poeti scenderanno dal settimo all'ottavo cerchio sulle spalle di Gerione, saranno deposti sulla superficie ghiacciata dello stagno Cocito (nono cerchio) dalla mano del gigante Anteo e raggiungeranno il centro della terra calandosi lungo il corpo di Lucifero. Il loro viaggio diventerà sempre più pericoloso a mano a mano che si inoltreranno nel regno della frode.
Come colui che sente così vicino il brivido della malaria, da averne già le unghie livide, e che trema in ogni sua fibra al solo vedere un luogo pieno d’ombra,
tale divenni dopo le  parole pronunciate (da Virgilio); ma mi ammonì  il pudore, il quale rende il servo coraggioso in presenza di un valente padrone.
Vivissimo è in Dante il senso della concretezza, l'attenzione ai particolari che tutta una tradizione letteraria, prima e dopo di lui, ha sdegnato. In questa similitudine, ad esempio, il Poeta non si limita a dire che il malarico impallidisce, ma ci pone sotto gli occhi questo pallore e ne suggerisce il subitaneo diffondersi attraverso la relativa c'ha già l'unghie smorte.
lo mi sedetti su quelle paurose spalle: provai bensì a dire, ma la voce non uscì come credetti:  “ Fa in modo di cingermi con le tue braccia ”.
Ma egli, che già altre volte mi aveva aiutato in altri momenti di pericolo, appena fui salito, mi cinse e mi sorresse con le braccia;
e disse:  “ Gerione,  è tempo di partire: i giri  siano ampi, e la discesa graduale: tieni conto del carico inusitato  che trasporti ”.
Corne la barca si stacca dal punto dove ha attraccato  procedendo a ritroso, così si staccò di lì; e dopo che si sentì del tutto a suo agio,
volse la coda, là dove prima era il petto, e, tesa, la mosse come un’anguilla, e con le zampe tirò a sé l’aria.
Non credo che fosse maggiore la paura quando Fetonte lasciò andare le redini, motivo per cui il cielo, come ancora si vede, fu bruciato;
né quando l’infelice Icaro sentì le spalle perdere le penne  a causa della cera che si era scaldata, mentre il padre gli gridava:  “ Fai un percorso sbagliato! ”,
di quanto fosse la mia, allorché vidi che mi trovavo circondato da ogni parte dall’aria, e vidi scomparire la vista di ogni cosa fuorché quella del mostro.
Fetonte, figlio del Sole, avendo ottenuto dal padre il permesso di guidarne il carro, fu colpito da un fulmine di Gíove per aver deviato dal giusto cammino e precipitò nell'Eridano. Secondo questa leggenda la Via Lattea è il segno della bruciatura provocata sulla superficie del cielo dal passaggio del carro del Sole guidato da Fetonte. Dante rappresenta il giovinetto nel momento in cui, perduto il controllo dei cavalli, è colto dal terrore (Ovidio - Metamorfosi II, 1 sgg.).
lcaro, figlio di Dedalo, l'architetto che aveva edificato a Creta il labirinto, era stato imprigionato insieme con il padre in questa costruzione. I due riuscirono ad evadere servendosi, delle ali che Dedalo aveva fabbricate e incollate alle proprie spalle e a quelle del figlio con la cera. Mentre volavano sul Mediterraneo, per essersi Icaro troppo avvicinato al sole, la cera che teneva attaccate le ali alle sue spalle si sciolse, le ali caddero ed egli precipitò nel mare (Ovidio - Metamorfosi VIII, 182-235).
Il Poeta ricorre a questi due richiami mitologici per esprimere la paura da lui provata durante la navigazione aerea, sul dorso di Gerione. Ma tanto è l'interesse con cui si sofferma sul volo dei due personaggi ovidiani (notiamo il vigore di un termine così inconsueto come questo si cosse, riferito a ciel, e lo scorcio grandioso del verso 111: quel padre isolato in uno spazio senza confini, padrone delle vie dell'aria, che con tanta semplicità - tre parole in tutto sa manifestare la sua angoscia, per la sorte del figlio), che finisce, quasi per dimenticare la sua paura.

Esso procede nuotando lentamente: scende compiendo cerchi, ma non me ne rendo conto se non per il fatto che l’aria mi colpisce in volto e dal basso.
Io sentivo già a destra la cascata (del Flegetonte) fare sotto di noi uno spaventoso fragore, per cui sporsi verso il basso la testa per vedere,
Opportunamente il Getto rileva come in questi versi non sia la paura ad occupare la fantasia del Poeta,  "ma la sostanza, profondamente assaporata, delle immagini della discesa lenta, progressiva e circolare, che avvicina e rende percepibile ai sensi quel che ne era prima lontano ed estraneo, e, intrecciate a queste, quelle della posizione del corpo nell'aerea cavalcata, gli occhi e il capo che, si piegano in giù curiosamente, e le cosce che solo timidamente, ad assecondare quello sguardo nel vuoto, si scostano dalla cavalcatura e subito istintivamente vi si stringono".
Allora temetti maggiormente di cadere, perché vidi fuochi e udii pianti; perciò tremando strinsi fortemente le gambe (al dorso di Gerione).
E mi resi conto allora, poiché non me ne ero accorto prima, dello scendere in cerchio a causa dei grandi supplizi che si avvicinavano ora da una parte ora dall’altra.
Come il falco che è stato a lungo in volo, il quale, senza aver veduto il richiamo del cacciatore  o alcuna preda, fa dire al falconiere “ Ahimè, tu stai calando! ”,
scende stanco verso il luogo dal quale si era mosso agile, con innumerevoli giri, e si posa lontano  dal suo padrone, sdegnoso e crucciato,
così Gerione ci depose sul fondo, proprio ai piedi della rupe tagliata a picco e, liberatosi del peso dei nostri corpi,
sparì come freccia che si stacchi dalla corda dell’arco.
Di queste due similitudini, quella del falcone disdegnoso e fello sembra per un istante avvicinare a un mondo di consuetudini umane (la caccia) la figura di Gerione; quella della cocca ne ripropone appieno l'enigma. Nulla giustifica, infatti, questa sparizione improvvisa se non l'obbedienza del mostro a un volere che trascenda ogni nostra capacità di intendimento.

 

Inferno – Canto XVIII

Vi è nell’inferno un luogo chiamato Malebolge, fatto interamente di una pietra del colore del ferro, come la parete rocciosa che tutt’intorno lo  circonda.
Il canto inizia con la descrizione della topografia dell’ottavo cerchio, nel quale sono puniti i fraudolenti contro chi non si fida. Il cerchio è diviso in dieci bolge (borse, sacche: cioè fossati, avvallamenti) concentriche. Il verso di apertura, così solenne e sobrío, segna un netto distacco dalla fine del canto precedente, tutto dominato dalla presenza del sovrannaturale e culminante nella miracolosa sparizione di Gerione. Esso, se da un lato rimanda, per la sua struttura, ad altri inizi di discorsi o di narrazioni dell’Inferno, come, ad ‘esempio, all’endecasillabo, così delicatamente atteggiato, siede la terra dove nata fui del canto di Francesca, e a quello che apre la leggenda del Veglio di Creta, in mezzo mar siede un paese guasto, da questi si distacca per la scansione severa, che nulla concede al patetico o al fiabesco.
Proprio nel centro  di questo piano malvagio si apre  un pozzo molto largo e profondo, del quale descriverò la struttura  quando sarà il momento.
Il pozzo che si apre nel centro di Malebolge porta dall’ottavo al nono cerchio, nel quale sono puniti i fraudolenti contro chi si fida, cioè i traditori. In questa descrizione preliminare della parte più bassa dell’inferno la natura è “contemplata con distacco, nella sua definizione architettonica” (Sanguineti) : di qui l’uso del termine pozzo per designare l’ultimo precipizio della voragine infernale. La rigorosa geometria dell’ottavo cerchio è la manifestazione visibile “della mente ordinatrice che ad ogni colpa ha assegnato il suo luogo di punizione” (Gallardo).
Quella fascia  che resta tra il pozzo e la base dell’alta parete rocciosa è pertanto circolare, e ha la superficie suddivisa in dieci avvallamenti.
Quale aspetto  presenta, dove numerosi fossati circondano i castelli, per proteggerne le mura, il luogo  in cui questi si trovano,
tale figura offrivano lì quegli avvallamenti e come tali fortezze hanno dalle loro soglie fino alla riva esterna dell’ultimo fossato dei piccoli ponti,
così dalla base  della parete partivano  ponti di pietra  che attraversavano  gli argini e i fossati fino al pozzo che li interrompe  e nel quale convergono.
Opportunamente il Grana rileva che in questa descrizione “la grandiosa topografia del basso inferno è come rimpicciolita in un plastico, semplificata e spoglia di particolari, ridotta a forme e dimensioni rigorosamente geometriche. Nel corso della discesa, Malebolge rivelerà un cumulo di forme sconvolte, informi, con tutti gli orrori che la giustizia divina vi ha racchiusi; ma ora, nella sua conformazione generale, offre una visione gelida, e impressionante di armonia, una forma orrida ma mirabile per precisione e simmetria: orma dell’Eterno Fattore impressa anche nell’inferno, come in tutto il creato, secondo il disposto d’una « alta Provvedenza », visibile nella natura del luogo di pena, come nei tormenti inflitti ai dannati”. Eppure anche in una descrizione così volutamente distaccata e impersonale, il linguaggio prepotentemente dinamico e drammatico del Poeta sa ricondurre la vita. Movìen, ricidìen, tronca e racco’gli sono immagini che rendono la natura geometrica di questo cerchio “quasi partecipe dell’atto di giustizia che l’ha plasmata” (Grana).
In questo luogo ci venimmo a trovare, scesi  dal dorso di Gerione; e Virgilio si diresse verso sinistra, e io mi avviai dietro di lui.
Vidi verso destra nuovo dolore, pene mai prima vedute e fustigatori di nuovo genere, di cui il primo avvallamento era pieno.
I dannati stavano nudi nel fondo: dalla metà della bolgia verso l’esterno  procedevano in direzione contraria alla nostra, dall’altra parte camminavano nella nostra stessa direzione’, ma più velocemente’,
come i Romani a causa della grande folla, nell’anno del giubileo, hanno trovato  un espediente per far transitare la moltitudine sul ponte (di Castel Sant’Angelo),
in modo che da un lato del ponte tutti avevano la fronte rivolta al Castello e si dirigevano verso San Pietro; dall’altro lato andavano verso il monte (Giordano: collina sta alla sinistra del Tevere).
Nel 1300, anno del giubileo indetto Bonifacio VIII, Roma fu visitata da un gran numero di pellegrini. Scrive in proposito il Villani (Cronaca VIII, 36): “al continuo in tutto l’anno durante avea in Roma, oltre al popolo romano, duecentomila pellegrini, sanza quegli ch’erano per gli cammini andando e tornando”. Per regolarne il transito sul ponte di Castel Sant’Angelo, esso fu diviso con un tramezzo, in modo che tutti quelli che camminavano nella medesima direzione si trovassero dalla stessa parte.
La prima bolgia è idealmente divisa in due zone concentriche. In quella esterna camminano, sferzati dai diavoli, i seduttori per conto altrui (ruffiani), nella seconda, sottoposti ad analogo tormento, i seduttori per conto proprio. L’ordine rigoroso messo in luce nella descrizione della topografia del cerchio è presente anche in questa veduta d’insieme della bolgia. “Senza posa, per l’eternità, con una simmetria, che piace a quell’architetto che è Dante (come piaceva ai suoi contemporanei educati alla logica della scolastica) conservare anche nello inferno, circolano così i frodatori dell’onore e della verginità femminile.” (Gallarati-Scotti)

Da tutte le parti, sulla buia pietra vidi diavoli cornuti con grandi fruste, che Ii percuotevano spietatamente sulla schiena.
Ahi come facevano loro alzare le calcagna  fin dai primi colpi! nessuno certo aspettava i secondi e i terzi.
Il linguaggio astratto e solenne delle prime terzine è qui dei tutto dimenticato. Ancora nel presentare la visione della bolgia (versi 22-24) il Poeta si era servito di termini estremamente generici (pièta, tormento, frustatori nel senso di tormentatori) o letterari (il latinismo repleta). Qui la stessa scena, veduta nella sua concretezza, dopo il paragone con l’essercito molto, che mirava a cogliere in essa un significato di portata universale - l’ordine che si riflette, in quanto manifestazione della mente di Dio, anche nell’inferno - si rivela comica e volgare. “I frustatori sono adesso ritrascritti come i demon cornuti, il tormento, così astrattamente posto all’ínizio, si traduce ora in aperta visione: li battien crudelmente; la nova pieta trova alfine una esauriente illustrazione.” (Sanguineti)
Mentre camminavo, il mio sguardo s’imbatté in uno di loro; e immediatamente dissi:  “ Non è la prima volta che vedo costui ”;
perciò per poterlo osservare meglio mi fermai: e la mia cara guida si fermò con me, e acconsentì che tornassi un po’ indietro.
Dante non solo rinuncia a darci un ritratto di questo personaggio, ma, quasi a sottolinearne l’abiezione, il nessun conto in cui deve essere tenuto, lo indica attraverso un pronome indefinito: uno. Questa designazione anonima acquista tuttavia il suo intero significato soltanto se messa in rapporto con l’episodio che qui ha inizio e nel quale Dante costringerà il dannato a confessare la sua colpa, facendogli capire di averlo riconosciuto e chiamandolo per nome.
E quel frustato credette di nascondersi abbassando il viso; ma a poco gli servì, poiché io gli dissi:  “ O tu che volgi lo sguardo a terra,
se le tue fattezze non sono ingannevoli, tu sei Venedico Caccianemico: ma quale peccato ti conduce a così brucianti supplizi ? ”
Il bolognese Venedico Caccianemico (c. 1228-1302) fu a capo del partito guelfo nella sua città e ricoprì la carica di podestà in diversi comuni dell’Italia centrale e settentrionale. Favorì la politica degli Estensi, che miravano ad estendere la loro influenza su Bologna, e, secondo la diceria alla quale Dante mostra di dar credito, indusse sua sorella Ghisolabella, già sposata, a concedersi a uno di loro (Obizzo II o Azzo VIII). Le parole che Dante rivolge a questo dannato sono, “sotto l’apparenza della corretta educazione” (Caretti), crudeli e sarcastiche. Il frustato ha cercato di non farsi riconoscere: non vuole che nel mondo dei vivi si sappia che egli è nell’inferno per una colpa così abietta. Il Poeta, per mostrare di averlo riconosciuto, ne pronuncia il nome, ma, per maggiore derisione, finge di non essere del tutto certo del suo riconoscimento (se le fazion che porti non son false). Infine, per far ben capire a Venedico di averlo identificato, si serve del termine salse, che, se in un’accezione immediata è soltanto una metafora per « supplizi », rappresenta anche il nome di una valle nei pressi di Bologna, dove venivano gettatí i cadaveri dei giustiziati, dei suicidi e degli scomunicati.
Ed egli:  “ Lo dico controvoglia; ma mi costringono le tue precise parole, che richiamano alla mia memoria la vita terrena.
lo fui colui che indusse Ghisolabella a cedere alle brame  del Marchese, comunque venga narrata questa turpe storia.
Ma non sono il solo bolognese che qui dolorosamente sconta la sua colpa; al contrario, questo luogo è così pieno di Bolognesi, che attualmente non vi sono tante lingue avvezze
a dire “sia” tra i fiumi Sàvena e Reno; e se di questo fatto vuoi una prova sicura, ricordati del nostro animo avido ”.
“Sipa”: è forma dell’antico dialetto bolognese per la terza persona singolare del congiuntivo presente del verbo essere. La risposta di Venedico - osserva il Caretti - “non fa che perfezionare il tono di cinica commedia, già reperibile nell’allusiva interrogazione... Costretto a ricordare il mondo antico, Venedico non sa infatti far altro che sciorinare impudicamente il poco onorevole catalogo delle proprie benemerenze .....”
Mentre così parlava un diavolo lo colpì con la sua frusta, e disse: “ Vattene, ruffiano! qui non ci sono donne da prostituire ”.
lo mi riaccostai  alla mia guida; poi, percorsi pochi passi, arrivammo  in un punto dove dalla parete rocciosa si staccava un ponte di pietra.
Salimmo su di esso con molta facilità; e, diretti verso destra, su per la sua superficie scheggiata, ci allontanammo da quell’eterno girare.
Quando fummo nel punto in cui (il ponte) è vuoto sotto di sé per consentire ai frustati di passare, Virgilio disse:  “ Fermati, e fa in modo che cada
su di te lo sguardo  di questi altri sciagurati, dei quali ancora non hai veduto il volto poiché hanno camminato nella nostra stessa direzione ”.
Dal ponte antico osservavamo la fila  che avanzava nella nostra direzione percorrendo l’altra parte della bolgia, e che la frusta sospingeva così come faceva con i ruffiani.
E Virgilio, senza che io facessi domande, mi disse:  “ Guarda quel grande che si avvicina, e che non sembra versare lagrime per il dolore.
Quale portamento regale ancora conserva! Quello è Giasone, che con il coraggio e la saggez;a  privò i Colchi del montone.
Giasone è un personaggio della mitologia del quale Dante ebbe notizia probabilmente attraverso la Tebaide di Stazio (V, 404-485). Figlio di Esone re della Tessaglia, questo eroe guidò la spedizione degli Argonauti nella Colchide per conquistare il vello d’oro.
La figura di Giasone si isola nella folla grottesca dei dannati di questa bolgia. Egli non alza le berze per fuggire, ma incede dignitosamente, come si addice ad un sovrano: vene. Non diversamente da Capaneo, egli è additato come quel grande, non diversamente da Capaneo anche Giasone sa dominare il proprio dolore. La presentazione di questa figura ad opera di Virgilio richiama anche il modo in cui lo stesso Virgilio indica Omero al suo discepolo, nel quarto canto (versi 86-88).
Come nota il Fubini, a Virgilio è affidato, nella grottesca commedia dell’ottavo cerchio, “il compito di ricordare gli eroi e i miti della poesia antica, e per le sue parole si dischiude nella greve atmosfera di Malebolge un’apertura verso un mondo diverso, quello che già commosse l’animo suo e degli altri antichi poeti e che commuove tuttora l’animo di Dante”.

Egli passò per l’isola di Lemno, dono che le audaci donne senza pietà avevano ucciso tutti i loro uomini.
Qui con gesti e con parole lusinghiere ingannò Isifile, la giovane che prima aveva ingannato tutte le altre donne.
La abbandonò lì, incinta, sola; questo peccato lo rende meritevole di tale supplizio; e si rende giustizia anche per il male da lui fatto a Medea.
Con lui va chi usa l’inganno in tal modo: e basti questa conoscenza della prima bolgia e di coloro che essa strazia ”.
Ci trovavamo già nel punto dove l’angusto sentiero s’incrocia  con il secondo argine, e di questo fa sostegno per un altro arco di ponte.
Di qui udimmo gente che emetteva lamenti soffocati nell’altra bolgia e soffiava rumorosamente, e percuoteva se stessa con le palme aperte.
Le sponde erano incrostate di muffa, a causa delle esalazioni che, provenendo dal basso vi si solidificavano formando come una pasta, la quale irritava la vista e l’olfatto.
Il fondo è così profondo, che non vi è luogo adatto per vedere in esso, a meno di salire sulla sommità dell’arco, là dove il ponticello di píetra è più alto.
Arrivammo in quel punto; e di là vidi in basso nella bolgia una moltitudine immersa in uno sterco che sembrava provenire dalle latrine umane.
E mentre io percorrevo con lo sguardo il fondo della bolgia, scorsi uno con la testa, così imbrattata di sterco, che non si distingueva se avesse o no la tonsura.
Quello mi apostrofò “ Perché sei così avido di fermare il tuo sguardo  su di me più che sugli altri insozzati ? ” E io: “ Perché, se ricordo bene,
io ti ho già veduto quando i tuoi capelli erano puliti, e sei Alessio Interminelli di Lucca: per questo ti osservo  più di tutti gli altri ”.
Ed egli allora, picchiandosi il capo: “ Mi hanno fatto affondare in questo luogo le adulazioni delle quali non ebbi mai sazia  la lingua ”. 
Poi Virgilio mi disse: “ Fa in modo di spingere  lo sguardo un po’ più avanti, in modo da raggiungere con gli occhi la faccia
di quella sudicia e scarmigliata donnaccia che si graffia laggiù con le unghie lorde, e ora si siede in terra, e ora è dritta in piedi.  
E’ Taide, la meretrice che al suo amante, quando costui le chiese “Ho io per te grandi meriti?” rispose: “Più che grandi, straordinari!”
E di questo spettacolo  i nostri occhi siano sazi ”.

 

 

Inferno – Canto XIX

O mago Simone, o suoi sciagurati seguaci, che gli uffici sacri, che devono essere uniti alla bontà (dati e ricevuti da chi è buono), voi avidamente
  prostituite per denaro; è giusto che adesso sia proclamata la vostra condanna, poiché vi trovate nella terza bolgia.
In un passo degli Atti degli Apostoli (VIII, 9-20) si narra che Simone, il quale praticava l’arte magica in Samaría, offrì del denaro agli apostoli Pietro e Giovanni in cambio del potere di comunicare ai fedeli, attraverso l’imposizione delle mani, lo Spirito Santo. Ma San Pietro gli disse: “Va in perdizione tu e il tuo denaro, perché tu hai creduto che il dono di Dio si potesse acquistare col denaro!”. Dal mago Simone prese nome di «simonia» l’atto di comprare o vendere quelle che Dante chiama qui le cose di Dio: cariche ecclesiastiche e sacramenti. Nel Medioevo la simonia fu a volte usata dai pontefici come strumento politico, per accrescere il potere temporale del papato. Occorre notare tuttavia che Dante considera la simonia in un senso molto lato, poiché egli condanna come tale non solo la compravendita dei beni spirituali, ma anche il nepotismo e tutta la politica di alcuni papi del suo tempo, colpevoli, ai suoi occhi, di trascurare le cose sacre per brama di dominio e di ricchezza. In queste due terzine lo stile  è quello profetico e i richiami alle Sacre Scritture sono evidenti. Poiché il legame che unisce le cose di Dio ai buoni è il solo legame giusto, legittimo, esso si configura come «matrimonio» (spose); poiché il legame che le unisce ai cattivi, a coloro che se ne servono per acquistare, ricchezze e prestigio, è iniquo, illecito, esso si configura come « adulterio » o « lenocinio » (avolterate). Nella Bibbia e poi in tutta la letteratura di ispirazione biblica queste immagini sono frequenti e di grande efficacia, ‘ poiché trasferiscono concetti astratti in un ambito di esperienze semplici, ma fondamentali, in cui  tutti possiamo riconoscerci.
Già eravamo saliti, nella bolgia seguente, su quel tratto del ponte  che sovrasta perpendicolarmente  proprio  la parte mediana della bolgia.
O sapienza infinita, quanta forza creativa  dimostri in cielo, in terra e nell’inferno, e con quanta giustizia il tuo potere distribuisce premi e castighi !
Notai sulle pareti e sul fondo la roccia scura piena di buchi,  tutti della stessa ampiezza e tutti circolari.
Non mi sembravano meno larghi né più ampi di quelli che si trovano nel Battistero di San Gìovanni, creati perché in essi prendessero posto  coloro che somministravano il battesimo;
uno dei quali, non molti anni fa, fu da me spezzato a causa di uno che era sul punto di morirvi soffocato: e questa sia testimonianza,  che tolga dall’errore ogni persona.
Stando a quanto qui dice il Poeta e alle spiegazioni dei primi commentatori, nel Battistero di San Giovanni erano stati costruiti, intorno al fonte, battesimale, alcuni piccoli pozzi, in cui prendevano posto i preti che celebravano il battesimo. Essi in tal modo stavano al riparo dalla folla che, nei due giorni dell’anno in cui a Firenze si usava battezzare (la vigilia dì Pasqua e la vigilia di Pentecoste), si accalcava numerosa  intorno a loro e potevano, più facilmente immergere i bambini nell’acqua.
Altri commentatori interpretano peró battezzatori come “fonti battesimali”. Il Pagliaro, sulla scorta di una testimonianza dell’Ottimo e di un disegno trovato in un antico codice, propende per questa seconda accezione e suggerisce, al fine di rendere chiara l’espressione fatti per luogo de’ battezzatori, di dare a luogo il senso di “spazio vuoto”, in modo che essa venga a significare “fatti come spazio vuoto, cavità, vasca dei battezzatoi”.

Fuori dell’apertura sporgevano sopra ogni buco  i piedi e parte delle gambe, fino alla coscia, di un dannato, e il resto dei corpo era conficcato dentro.
Entrambe le piante dei piedi di tutti questi peccatori erano cosparse di fiamme; e perciò le loro articolazioni, si agitavano con tanta forza, che avrebbero spezzato funi di vimini  e di erbe.
Come le fiamme che consumano gli oggetti unti ne sfiorano soltanto la superficie più esterna, così avveniva sulle piante di quei piedi  dalle calcagna alle punte (delle dita).
“ Maestro, chi è colui che manifesta il suo dolore agitando più degli altri suoi compagni di sorte ” io domandai, “ e che una fiamma più viva  consuma ? ”
La similitudine dei versi 28-29 richiama quella dello stizzo verde dell’episodio di Pier delle Vigne. Ambedue hanno la funzione di rendere credibile, avvicinandolo alla realtà più umìle e, in apparenza, insignificante, un particolare aspetto - forse il più tragico - delle pene infernali: quello che ci mostra il linguaggio ridotto a manifestazione fisiologica, portato sul piano della più evidente materialità (nel canto tredicesimo troviamo il binomio inscindibile parole e sangue; qui, nella grottesca scenografia della terza bolgia, al verso 45, sì piangeva con la zanca). Osserva il De Sanctis: Quest’uomo pensa e sente per mezzo dei piedi che soli paiono di fuori, e simile ad un cieco che ha la vista nel tatto, i suoi cinque sensi sono concentrati nel piede e se sente dolore della fiamma che gli succia la carne, egli piange, piange con la zanca; e se sente dispetto, il suo dispetto esprime torcendo i piedi; é il gesto del piede sostituito al gesto della testa e delle mani . Succia si riferisce al termine paragonato (il peccatore conficcato nel foro, o, più precisamente, le piante dei suoi piedi), ma è suggerito dal termine di paragone (le cose unte) se la fiamma assorbisse gli umori delle membra del paziente” (Casini-Barbi).
E Virgilio: “ Se desideri che io ti accompagni laggiù scendendo da quell’argine che è più basso (più giace: è là via più interna della bolgia, che è più bassa di quella esterna perché il piano di Malebolge declina verso il pozzo centrale), apprenderai da lui chi fu e quali furono i suoi peccati ”.
E io: “ Tutto quello che piace a te mi è gradito: tu sei quello che comanda, e sai che non mi allontano dalla tua volontà, e conosci quello che, da parte mia, è taciuto ”.
Giungemmo allora sul quarto argine: ci dirigemmo e scendemmo verso sinistra  giù nel fondo pieno di fori e malagevole da attraversare,
Virgilio non mi pose a terra dal suo fianco, finché  non mi accostò al foro  di colui che tanto intensamente manifestava il proprio dolore con la gamba.
“ Chiunque tu sia, che hai la parte superiore del corpo in basso, anima malvagia conficcata  come un palo ”, presi a dire, “ se ti è possibile, parla. ”
La pena dei simoniaci riflette - come ha mostrato il D’Ovidio - un rigoroso contrappasso: “i simoniaci, cupidi, mirarono alla terra, fonte dell’oro e di tutti i beni materiali, terreni, dimenticando interamente il cielo a cui avrebbero dovuto tener sempre volti gli occhi; ebbene, la loro pena è per l’appunto d’essere ora infissi a terra, e al cielo tener volti i piedi, tirar’ calci al cielo anche nella vita futura... Il simoniaco capovolse l’ufficio suo traendo vantaggi materiali per l’appunto, dalle cose spirituali, dando esempi che erano il preciso opposto di quelli che l’uomo di chiesa avrebbe dovuti dare; ed è capovolto! Avrebbe dovuto aspirare alla aureola del santo, e un nimbo di fuoco gli succia i piedi: un’aureola a rovescio!” La pena dei simoniaci presenta alcune affinità con quella degli eretici: tra l’altro, agli avelli degli eretici corrispondono i fori dei simoniaci, mentre, tanto nel sesto cerchio che nella terza bolgia, il fuoco, simbolo dello Spirito Santo, tormenta coloro i quali contro lo Spirito Santo maggiormente hanno peccato. Ma, accanto alle affinità, occorre notare le differenze: mentre gli eretici sono distesi nei loro sepolcri (la gente che per li sepolcri giace) e possono, sia pure per poco, cambiare la loro posizione (Farinata si erge, Cavalcante si leva in ginocchio), i simoniaci sono imprigionati a testa in giù come pali confitti in terra (di qui lo straordinario rilievo che assume il movimento delle loro gambe); il fuoco, che fa da cornice grandiosa alle tombe degli eretici, nella terza bolgia si limita a sfiorare le piante dei piedi dei simoniaci come cose unte qualsiasi.
lo stavo nella posizione del frate che raccoglie la confessione del sicario spergiuro, il quale, dopo essere stato confitto in terra, lo richiama, in modo che allontana la morte.
Il termine assessin è di origine araba e fu introdotto in Occidente dopo le Crociate. Gli Assassini erano una setta musulmana, i cui membri, legati da un giuramento di obbedienza assoluta al loro capo, il Veglio della Montagna, e sotto l’influsso di una droga (l’hascisc), commettevano ogni sorta di misfatti. In Italia ai tempi di Dante la parola indicava colui che uccide per danaro. Come ha mostrato il Paglíaro, l’aggettivo perfido che qualifica al verso 50, assessin, è riferito, con il significato di « infedele », « traditore », al “sicario, il quale venga meno all’obbligo dei silenzio, che egli, si presume, ha contratto nell’atto di ricevere il suo ignobile mandato”. Errata sarebbe quindi l’interpretazione di coloro che attribuiscono a cessa il valore di “allontana, differisce, sia pur di pochi istanti, la morte” (Sapegno). Il sicario che rivela al confessore il nome del proprio mandante non si limita a prolungare, in base a quest’analisi del Pagliaro, la propria vita di alcuni istanti, ma la salva. Cessa non può quindi avere altro significato che quello di « allontana definitivamente ».
I sicari erano condannati nel Medioevo alla  « propagginazione »: venivano cioè sepolti vivi con la testa in giù.

Ed egli gridò: “ Sei già qui dritto in piedi, sei già qui dritto in piedi, Bonifacio? Il libro del futuro mi ha ingannato di molti anni.
Il dannato che parla è Giovanni Gaetano Orsini, papa dal 1277 al 1280 col nome di Niccolò III. Ecco come lo descrive un antico commentatore, il Lana: “Per acquistar moneta non si vedea stanco né sazio di vendere e di alienare le cose spirituali per le temporali, commettendo continuo simonia, in per quello che ogni suo atto si drizzava ad avere pecunia; e questo volea per far grandi quelli di casa sua e sé nel mondo”. Niccolò III scambia Dante per Bonifacio VIII, il pontefice destinato a prendere il suo posto all’entrata del foro dei papi simoniaci e si meraviglia che sia arrivato in anticipo sulla data prevista (Bonifacio VIII, asceso al soglio pontificio nel 1294, morì nel 1303, tre anni dopo l’immaginario viaggio di Dante nell’oltretomba, avvenuto nella primavera del 1300). Bonifacio VIII è considerato da Dante il principale responsabile delle sciagure di Firenze (sostenne il partito dei Neri che costrinse il Poeta all’esilio). In più luoghi della Commedia la figura di questo pontefice, chiamato da Dante a render conto delle sue colpe politiche non meno che delle sue infrazioni alla legge di Dio, grandeggia come quella di un genio del male. Di lui scrive uno storico guelfo, il Villani (Cronaca VIII, 6): “pecunioso fu molto per aggrandire la Chiesa e’ suoi parenti, non facendo coscienza di guadagno, che tutto dicea gli era licito quello ch’era della Chiesa”. Il grande tema di questo canto è quello del capovolgimento del rapporto tra valori umani (la ricchezza, il potere) e valori divini (la bontate del verso 2). Esso è evidente non solo nella posizione dei simoniaci, conficcati a testa in giù nelle loro buche, ma anche nel rapporto che si istituisce fin da principio fra Dante e Niccolò III. “Laggiù dove tutto è capovolto, è capovolta, vorremmo dire, anche la gerarchia: il papa in giù, a confessarsi e lasciarsi sgridare; in su, un semplice laico. attingendo autorità dal suo zelo generoso, lo sgrida e vitupera, curvo verso i piedi d’un papa non per baciarglieli ma per udire la trista confessione e fargli giungere i debiti rimproveri.” (D’Ovidio)
Sei tu così presto sazio di quei beni materiali  per i quali non esitasti ad impadronirti con l’inganno della Chiesa, e poi a prostituirla ? ”
Dante mostra di dar credito alle dicerie che correvano sull’elezione al pontificato di Bonifacio VIII. Questi, secondo tali voci, aveva indotto Celestino V ad abdicare e si era fatto eleggere ricorrendo alla frode e all’intimidazione.
lo divenni come quelli che, per il fatto che non comprendono la risposta che viene data loro, restano come confusi, e non sanno rispondere.
Allora Virgilio disse: “ Digli subito: “Non sono quello, non sono quello che credi” ”; e io risposi come mi fu ordinato. 
Per questo il dannato contorse quanto più poteva i piedi; poi, sospirando e con voce lamentosa, mi disse: “ Allora, cosa vuoi sapere da me ?
Se a tal punto ti importa conoscere chi io sia, da essere disceso dall’argine per questo motivo, sappi che io fui rivestito del manto papale.
e fui davvero degno della famiglia degli Orsini, alla quale appartenni, a tal punto desideroso di rendere potenti gli altri membri della mia famiglia, che nel mondo misi nella borsa le ricchezze, e qui me stesso.
Niccolò III non rivela se non indirettamente la propria identità, attraverso una perifrasi che ha lo scopo di mettere in luce come egli fosse avido di beni materiali e propenso a favorire in tutti i modi i membri della sua famiglia: e veramente fui figliuol dell’orsa. L’orso era ritenuto animale ingordo e amantissimo della prole.
Sotto la mia testa, nelle crepe della roccia stanno appiattiti, dopo esser stati trascinati fin li, gli altri (papi) che mi precedettero nel peccato di simonia.
Anch’io precipiterò laggiù allorché giungerà colui che io ritenevo tu fossi. quando ti rivolsi l’improvvisa domanda.
Ma più lungo è il tempo in cui mi sono bruciato i piedi e sono stato così capovolto, di quello in cui egli starà confitto con i piedi arsi dalle fiamme:
poiché dopo di lui verrà da occidente un papa senza rispetto delle leggi umane e divine, dalla condotta ancor più riprovevole, tale da dover ricoprire sia lui (Bonifacio VIII) sia me.
Il nuovo pontefice destinato ad occupare l’imboccatura del foro dei papi simoniaci dopo Bonifacio VIII e a ricoprire col suo corpo sia il corpo di quest’ultimo sia quello di Niccolò III (che saranno in tal modo spinti in basso, verso le fessure che finiranno per occupare definitivamente, nel profondo della roccia) è Bertrand de Got, originario della Guascogna e arcivescovo di Bordeaux (ecco perché Niccolò III dice che verrà... di ver ponente), pontefice dal 1305 al 1314 col nome di Clemente V. Ebbe fama di uomo “molto cupido di moneta e simoniaco, che ogni beneficio per denari s’avea in sua corte” (Villani - Cronaca IX, 59).
Sarà un novello Giasone, del quale si possono avere notizie nel libro dei Maccabei; e come nei confronti di Giasone il suo sovrano si mostrò debole, così si mostrerà debole, nei confronti di questo papa, il re di Francia ”.
Nel secondo libro dei Maccabei (IV, 7-14) è detto che Giasone, dopo aver ottenuto, con una promessa di danaro, il sommo sacerdozio degli Ebrei dal re di Siria Antioco Epifane, si attirò l’odio di tutti per la sua vita empia e dissoluta. Sia Giasone sia Clemente V, secondo il Poeta, ottennero la suprema carica sacerdotale, rispettivamente nella religione ebraica e in quella cristiana, per l’eccessiva condiscendenza dei loro re. Si diceva infatti che Bertrand de Got fosse asceso al pontificato per il forte appoggio avuto dal re di Francia Filippo il Bello, al quale aveva promesso, secondo quanto riferisce il Villani (Cronaca VIII, 80), ampie concessioni e, tra l’altro, l’uso di “tutte le decime del reame per cinque anni”. Dante si limita qui a preannunziarne l’arrivo nella bolgia dei simoniaci, alla quale è destinato. ma le colpe più gravi di cui questo papa si macchiò agli occhi del Poeta, e delle quali si parla in altri luoghi della Commedia, furono il trasferimento della sede pontificia da Roma ad Avignone (1309) e l’opposizione alla politica di Arrigo VII, sceso in Italia nel 1310 a ristabilire l’autorità imperiale.
Io non so se a questo punto fui troppo temerario (perché, pur essendo dannato, l’interlocutore era un pontefice), dal momento che gli risposi proprio in questo modo : “ Orsù, dimmi adesso: quanta ricchezza  pretese
Gesù Cristo da San Pietro prima di mettere in suo potere le chiavi (del regno dei cieli)? Sicuramente non gli chiese se non: “Seguimi”.
I versi 91-92 si riferiscono al seguente passo del Vangelo di Matteo (XVI, 18-19) : “Ed io dico a te, che tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno mai prevarranno contro di lei. E a te darò le chiavi del regno dei cieli: e qualunque cosa avrai legata sulla terra, sarà legata anche nei cieli; e qualunque cosa avrai sciolta sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli”.
Né Pietro né gli altri apostoli si fecero consegnare da Mattia oro e argento, allorché questi ottenne in sorte di occupare il posto perduto dal malvagio Giuda Iscariota.
Negli Atti degli Apostoli (I, 13-26) è detto che dopo il suicidio di Giuda Iscariota fu tratto a sorte il nome di colui che avrebbe dovuto occuparne il posto e “Ia sorte cadde su Mattia, che fu aggregato agli undici apostoli”.
Perciò stattene dove sei, poiché sei giustamente punito; e custodisci con attenzione il denaro sottratto con l’inganno, che ti rese audace contro Carlo.
Niccolò III osteggiò in vari modi la politica di Carlo I d’Angiò, ma non è chiaro a quale fatto specifico intenda riferirsi il Poeta quando accenna alla mal tolta moneta. Secondo una notizia, rivelatasi poi infondata, questo pontefice avrebbe accettato, per denaro, di appoggiare la congiura che preparò la rivolta dei Vespri Siciliani, la quale però, scoppiò due anni dopo la morte del papa. Tuttavia può darsi che la espressione usata da Dante al verso 98 alluda soltanto alle rendite dei territori della Chiesa, delle quali Niccolò III si appropriò indebitamente e che ne aumentarono il potere rendendolo ardito contro Carlo d’Angiò.
E se non fosse per il fatto che ancora me lo impedisce il rispetto dovuto alle chiavi, simbolo della dignità pontificale, che tu avesti in tuo potere nella vita terrena,
ricorrerei a parole ancora più aspre; poiché la vostra avidità corrompe il mondo, calpestando i buoni ed elevando (alle cariche più alte, per simonia) i cattivi.
A voi, pontefici, pensò l’evangelista (San Giovanni), allorché quella che siede sulle acque fu da lui veduta fornicare con i re,
quella che nacque con le sette teste, e trasse vigore dalle dieci corna, finché al suo sposo fu cara la virtù.
Nell’Apocalisse (XVII, 1 sgg.) San Giovanni narra di aver avuto la visione della “gran meretrice, che è assisa sopra le vaste acque, con la quale hanno fornicato i re della terra, e che ha inebriati gli abitanti della terra col vizio della sua lussuria” e di aver veduto, nel deserto, “una donna seduta sopra una bestia di color rosso scarlatto, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna”. Per San Giovanni la “gran meretrice” è la Roma pagana. Essa “siede sopra le vaste acque”, intendendo per acque “i popoli, le moltitudini, le nazioni e le lingue” (Apocalisse XVII, 15); con questa espressione San Giovanni vuole probabilmente rilevare che le fondamenta del potere di Roma sono instabili. Anche la bestia sulla quale siede la donna veduta nel deserto simboleggia Roma. “Le sette teste sono i sette monti sui quali sta assisa la donna.” (Apocalisse XVII, 9) “Le dieci corna.. sono dieci re, che non han ricevuto ancora il regno.” (Apocalisse XVII, 12) Dante, sviluppando liberamente il passo biblico, identifica la donna (colei che siede) con la bestia (quella che con le sette teste nacque) e si serve di questa allegoria per designare la Roma dei papi, quella Roma che divenne cristiana (e, in quanto cristiana, nacque, cominciò a vivere) per opera dei sette sacramenti (le sette teste) e prese alimento, e quindi forza, dai dieci comandamenti (diece corna), fin quando il papa (suo marito) non la contaminò con la simonia, spingendola, per avidità di beni terreni, a prostituirsi  con i principi della terra, partecipando alle lotte per il potere.
Dell’oro e dell’argento avete fatto il vostro Dio: e quale altra differenza c’è tra voi e gli idolatri, se non quella che, per ogni idolo che essi adorano. voi (in quanto adoratori dei denaro, di ogni pezzo d’oro e d’argento) ne adorate un numero sterminato?
Ahi, Costantino, di quanto male fu cagione, non la tua conversione (alla fede cristiana), ma quella donazione che ricevette da te il primo papa che fu ricco! ”
Secondo una leggenda, ritenuta nel Medioevo verità storica e confutata soltanto nel quindicesimo secolo dall’umanista Lorenzo Valla, Costantino donò, convertendosi al Crístianesimo, la città di Roma a papa Silvestro I, ponendo così le basi del potere temporale dei papi. Dante contesta nella Monarchia il valore giuridico di questa donazione, sostenendo che nessun imperatore può avere il diritto di alienare una parte dell’Impero, non essendo questo proprietà personale di un singolo, e, rifacendosi al Vangelo, ammonisce che la Chiesa non può accettare alcun bene temporale (III, X e XIII).
E, mentre gli facevo sentire simili parole, fosse rabbia o rimorso ciò che lo tormentava, scalciava violentemente con entrambi i piedi.
Credo davvero che a Virgilio piacesse (quello che avevo detto), tanto soddisfatta era l’espressione con la quale prestò attenzione, per tutta la durata del mio discorso, alle parole veraci da me pronunciate.
Perciò mi prese con entrambe le braccia; e dopo avermi sollevato all’altezza del petto, risalì per il cammino dal quale era disceso.
Né si stancò di tenermi abbracciato strettamente, finché non mi ebbe portato nel punto più alto del ponte che serve da passaggio dal quarto al quinto argine.
Qui depose  dolcemente il carico, dolcemente  sul ponte irto di sporgenze  e ripido che rappresenterebbe anche per le capre un passaggio malagevole.
Di lì  mi si aprì davanti un’altra bolgia.

 

 

Inferno – Canto XX

Devo ora scrivere versi intorno ad una pena mai prima vista  e fornire argomento  al ventesimo canto della prima cantica, che è quella dei dannati sprofondati (nell’inferno).
Io ero già del tutto pronto a scrutare nel fondo visibile (della bolgia), che era bagnato da lagrime d’angoscia;
e notai una folla che avanzava nella gran valle circolare, silenziosa e piangente, col passo che tengono nel nostro mondo le processioni.
Nel ritmo di questa processione di anime si avverte già quella che sarà la tonalità fondamentale del canto, tutto pervaso dal fascino di miti arcani e remoti. Osserva in merito il Caccia: “qui tutta la scena si slarga improvvisamente: il vallon dà al quadro una vastità e una risonanza che oseremmo dire più arcana, e si prolunga in quell’attributo tondo che lo estende in una curva infinita, mentre il verbo venir rende, con il suo suggestivo accamparsi all’inizio del verso, il lento procedere dei peccatori, che tacciono e piangono”.
Quando il mio sguardo scese più in basso su di loro, ognuno mi apparve essere rivolto all’indietro in modo mostruoso tra il mento e l’inizio del petto;
poiché il viso era girato verso le reni, e dovevano camminare all’indietro, in quanto davanti la vista era loro preclusa.
E’ uno dei più chiari esempi di contrappasso: le anime di coloro che vollero vedere troppo avanti a sé sono ora costrette a vedere solo all’indietro; vollero parlare di ciò di cui sarebbe stato meglio tacere ed ora tacciono per sempre; vollero, come nota il Pietrobono,  “stravolgere il senso delle Scritture ed ora sono stravolte”. Questi significati  “non restano cosa cerebrale, ma si fanno vivi, si respirano come se fossero sospesi nel clima allucinante di questa bolgia suggellata dal silenzio” (Grabher).
Forse già qualcuno si stravolse così completamente a causa di una paralisi; ma io non lo vidi mai, né credo che ciò avvenga.
Lettore, voglia Dio lasciarti trarre profitto dalla tua lettura, (in nome di questo augurio) pensa adesso da te come avrei potuto trattenermi dal piangere,
allorché vidi da vicino la nostra figura umana così stravolta, che le lagrime bagnavano la fenditura che si apre tra le natiche.
L’uomo, con il suo corpo fatto ad immagine e somiglianza di Dio, pareva a Dante essere “intra li effetti della divino sapienza... mirabilissimo” (Convivío III, VIII, 1). Qui, in questo spaventoso stravolgimento, viene offesa la sua dignità, viene degradata la sua nobiltà e la sua perfezione nella scala delle creature; per questo il Poeta prova un dolore profondo, un sentimento di orrore e, insieme, di avvilimento, di fronte a questa umiliazione che, in quanto uomo, sente come anche sua.
In verità io piangevo, appoggiato ad una delle sporgenze  dello scoglio pietroso, così che il mio accompagnatore mi disse: “ Fai ancora parte degli altri stolti (che si commuovono di fronte alla punizione dei malvagi) ?
Qui la pietà ha valore quando è del tutto spenta: chi é più empio di colui che mostra compassione là dove Dio ha giudicato ?
Il significato di questi versi è assai controverso. Per il D’Ovidio e il Barbi si deve intendere - e questa spiegazione appare assai convincente -: “Chi più scellerato di colui che prova compassione di fronte agli effetti di una giusta sentenza divina?
Per il Casini, la scelleratezza non è di colui che prova compassione, ma degli indovini, i quali “osarono prevenire il giudizio divino e portarvi le umane passioni”. Interessante la spiegazione fornita dal Parodi, con particolare riferimento al termine passion: “chi più scellerato di colui che pretende di portar passione al giudizio di Dio; che cioè crede di render passivo, di sottomettere all’azione umana, contrastandovi o favorendolo, il consiglio di Dio, che è attività per essenza?

Alza il capo, alzalo, e guarda colui al quale sotto gli occhi dei Tebani si spalancò la terra, così che tutti gridavano: “Dove precipiti,
Anfiarao? perché abbandoni la guerra?” E non smise di precipitare in basso  fino a Minosse che ghermisce tutti.
Virgilio vuole che il suo discepolo osservi con occhio severo, con animo impietoso, questi personaggi, in modo da potersi sottrarre al fascino che emana dalle loro figure, fascino profondamente sentito da un poeta come Dante che, proprio nell’antichità classica trova gli esempi più meravigliosi del potere della ragione umana. Come scrive il Comparetti, Dante, “pur considerandola come limitata, venera coloro che la rappresentarono indipendentemente dalla rivelazione e anteriormente alla missione i Cristo”.
Virgilio dunque, che nel poema rappresenta l’antichità classica e la sua tradizione letteraria, richiama bruscamente Dante alla verità cristiana, per la quale la magia e la superstizione sono peccato. Il rimprovero di Virgilio al suo discepolo è una decisa condanna dell’umana superbia, del desiderio di conoscere ciò che deve essere lasciato alla sapienza divina. Da tutto questo insieme di motivi nasce l’esortazione ad osservare i peccatori. Il primo di questi, Anfiarao, fu uno dei sette re che assediarono Tebe e, secondo quanto narra Stazio (Tebaide VII, 690-893), perì durante l’assedio essendoglisi aperta la terra sotto i piedi.

Osserva come ha trasformato in petto le spalle: poiché volle veder troppo davanti a sé, (ora) guarda all’indietro e cammina a ritroso.
Nell’insistenza con cui il Poeta fa sottolineare da Virgilio gli aspetti fisici e morali della pena degli indovini è stata vista da alcuni una implicita smentita alla fama di mago e indovino che nel Medioevo circondava l’autore dell’Eneide. Dante stesso, del resto, fu creduto ai suoi tempi un mago: gli venne infatti attribuita una corresponsabilità nei sortilegi fatti da Gian Galeazzo Visconti contro papa Giovanni XXII.
Vedi Tiresia, che cambiò aspetto quando si tramutò da maschio in femmina mentre tutte le membra si trasformavano;
e dovette  poi percuotere nuovamente, con la verga, i due serpenti avvinti prima di riavere le forme maschili.
L’indovino tebano Tiresia fu trasformato in donna, secondo quanto narra Ovidío (Metamorfosi III, 324-33l), per aver separato, colpendoli con la sua verga, due serpenti in amore; dopo parecchi anni dovette percuotere ancora gli stessi serpenti per poter riacquistare il sesso maschile. Troviamo, in questa metamorfosi terrena così umiliante, come un presagio della trasformazione infernale.
Quello che volge la schiena al ventre di Tiresia è Arunte, il quale nei monti di Luni, dove i Carraresi che abitano in basso dissodano la terra,
ebbe come sua dimora la grotta tra i marmi bianchi; dalla quale la vista rivolta alle stelle e al mare non gli era impedita.
L’indovino etrusco Arunte previde, secondo quanto riferisce Lucano nella Forsaglia (I, 584 sgg.), la guerra civile fra Cesare e Pompeo e la vittoria di Cesare. Sempre Lucano scrive che Arunte abitò “le mura spopolate di Luni” (città etrusca situata alle foci della Magra). Dante tuttavia preferisce mostrarcelo intento a scrutare gli astri nella solitudine di una spelonca montana, in mezzo al candore dei marmi: “il Carrarese «roncava» giù in basso, affaticandosi nel duro e aspro terreno: egli, lassù in alto, in una marmorea spelonca, alieno dalle opere consuete degli uomini, guardava, superbamente confidando di strappar loro il segreto dei loro misteri, le stelle ed il mare” (Parodi). In questi versi non dobbiamo vedere soltanto l’evocazione di un paesaggio; essi contengono anche un’evocazione indiretta di quei misteri di magia nei quali Arunte fu esperto e della vita da lui trascorsa lontano dagli uomini e dal loro quotidiano affannarsi: “di contro alla virtuosa fatica dell’uomo e alle bellezze della natura da lui vinta con l’onesto lavoro, sta la semplice e selvaggia spelonca in cui abitò l’indovino, sta la vanità ma anche la nobiltà del suo sogno: quel suo sguardo fisso alle stelle e al mare lontani, in cui la bellezza della natura non vinta dall’uomo si ammanta di un fascino misterioso” (Caccia).
E colei che si copre il seno, che tu non puoi vedere, con le trecce sciolte, e ha dall’altra parte tutte le parti pelose del corpo,
fu Manto, che peregrinò per molti paesi; poi si fermò là dove io nacqui: per cui sarei lieto che tu mi prestassi un po’ d’attenzione.
Come Tiresia, di cui era figlia, anche Manto è un personaggio della mitologia greca. Gli antichi poeti narrano che fuggì da Tebe dopo la morte del padre e che, venuta in Italia, si fermò nel luogo dove in seguito fu fondata la città di Mantova.
Tutte le figure degli indovini di questa bolgia appaiono dominate da un destino che le isola dal consorzio umano. Come Arunte anche Manto ha cercato la lontananza dai suoi simili: nel racconto sulle origini di Mantova, che qui inizia, domina “il motivo della solitudine di questa donna che non volle essere donna” (Caccia) e la sua vicenda “sembra definirsi in quattro potenti aggettivi: le trecce sciolte, le terre incolte, la vergine cruda, il corpo vano. Anche qui una biografia poetica toccata nei suoi tratti essenziali sino alla tragedia di quel cadavere vano nella solitaria pianura”.

Dopo che il padre morì, e la città di Tebe (di Baco: di Bacco, sacra a Bacco) fu asservita, costei andò per il mondo lungamente.
Tebe era sacra a Bacco perché là il dio aveva avuto i suoi natali. Dopo la guerra che vide schierati in campi opposti i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, cadde sotto il dominio del tiranno Creonte.
Lassù  nella bella Italia vi è un lago, ai piedi dei monti  che segnano i confini della Germania  sopra il Tirolo, il quale si chiama Benaco.
Incomincia qui con l’accorata ed affettuosa evocazione della Italia bella una minuta descrizione geografica della regione in cui si trova Mantova, tributo d’affetto del discepolo al maestro mantovano. 
Attraverso mille e più sorgenti, credo, la regione tra il Garda, la Val Camonica e l’Appennino, è irrigata dall’acqua che poi ristagna nel lago suddetto.
Col nome di Appennino è qui designata una parte della catena delle Alpi (le Alpi Venoste), tra la Val Camonica e la riva veronese del lago di Garda.
In mezzo ad esso è un posto dove il vescovo di Trento, quello di Brescia e quello di Verona potrebbero dare la benedizione, se facessero quel percorso.
In questo luogo immaginario o reale che sia (alcuni hanno creduto di poterlo identificare nell’isola dei Frati, oggi chiamata Lechi, in cui la chiesa di Santa Margherita era soggetta alla giurisdizione dei tre vescovi), si sarebbe potuto esercitare, secondo quanto afferma Dante, il ministero dei tre pastori.
Peschiera, bella e robusta fortezza atta a fronteggiare Bresciani e Bergamaschi, è posta dove la riva intorno è più bassa.
La fortezza dì Peschiera faceva parte del sistema difensivo allestito dagli Scaligeri intorno a Verona. Dante, che fu ospitato durante il suo esilio da Cangrande della Scala, rende implicitamente omaggio con questo verso alla potenza dei signori di Verona.
Lì (presso Peschiera) necessariamente trabocca tutto quello che non può essere contenuto nel Benaco, e diventa fiume giù per i pascoli verdeggianti.
Appena l’acqua ricomincia a correre, non si chiama più Benaco, ma Mincio, fino a Governolo, ove si getta  nel Po.
L’amore dell’autore delle Georgiche per la sua terra è messo in rilievo attraverso alcuni brevi ma incisivi cenni: è il Mincio, il fiume che bagna Mantova, quello che raccoglie le acque del Garda e scorre tra verdi pascoli. Nell’Eneide il Mincio viene rievocato quale “figliuolo del Benaco” e descritto come “velato dalle verdi canne” (X, 205), nelle Bucoliche (VII, 12-13) e nelle Georgiche (111, 14-15) ricorre la stessa immagine del Mincio che fluisce in pigre curve e riveste le sue rive di tenere canne.
Dopo un percorso non lungo, esso trova un avvallamento, nel quale straripa  trasformandolo in palude; e talvolta durante l’estate diventa malsano.
Passando di lì  la vergine crudele scorse della terra, in mezzo alla palude, non coltivata e priva di abitanti.
Dopo la minuta descrizione geografica Virgilio torna a parlare di Manto, che definisce vergine cruda,  “dove cruda sarà da intendersi meglio come selvaggia, solitaria, negata alla vita sociale, come aggettivo quindi adatto al paesaggio che le sarà caro, piuttosto che nel senso specifico di crudele, come colei che porgeva aiuto al padre nei suoi sortilegi, libando il sangue delle vittime e spargendone intorno le viscere fumanti, secondo la tradizione di Stazio. Non è ella l’effera Erichtho, la sua crudezza è una ripugnanza alla vita civile da cui fu delusa, non è desiderio di male e di sangue” (Caccia).
Lì, per evitare ogni contatto umano, si fermò con i suoi servitori ad esercitare le sue pratiche magiche, e lì visse, e vi lasciò il suo corpo esanime.
Il racconto delle origini di Mantova fra i versi 79 e 87 richiama, come nota il Momigliano, “Ia suggestiva intonazione mitica del principio dell’episodio del Veglio di Creta, soprattutto per la desolazione e la solitudine del paesaggio su cui si trova a vivere la protagonista”, solitudine “non arcanamente contemplativa come quella di Arunte, ma gravida di selvaggio orrore” (Grabher).
In seguito gli uomini che erano sparsi nei dintorni si radunarono in quel luogo, che era ben fortificato avendo da ogni lato la palude.
Costruirono la città dove erano sepolte le ossa di Manto; e in onore di colei che per prima aveva scelto quel luogo, la chiamarono Mantova senza bisogno di ricorrere ad alcun sortilegio.
Qui Virgilio attribuisce la fondazione di Mantova non a Ocno, figlio della maga, come è narrato nell’Eneide (X 198 sgg.), ma a genti di stirpe diversa, in modo che nulla di magico vi sia nelle origini di questa città, la quale, anzi, sorse senza che neppure si traessero gli auspici come “anticamente si usava, quando si doveva ponere nome ad alcuno luogo” (Lana). Questa è la versione dei fatti che deve essere creduta da Dante e da tutti.
Un tempo i suoi abitanti furono più numerosi nella cerchia delle sue mura, prima che la stoltezza di Alberto da Casalodi fosse tratta in inganno da Pinamonte.
Alberto da Casalodi, signore guelfo di Mantova, si lasciò convincere dal ghibellino Pinamonte dei Bonaccolsi a esiliare molti nobili per placare il malcontento dei popolo, privandosi così del principale sostegno e attirandosi molte inimicizie, per cui in un secondo tempo fu spodestato da Pinamonte che signoreggiò Mantova dal 1272 al 1291. 
Perciò ti avverto che qualora tu udissi spiegare in modo diverso l’origine della mia città, nessuna menzogna deve alterare la verità ”.
Ed io: “ Maestro, i tuoi ragionamenti sono per me a tal punto veritieri e conquistano talmente il mio assenso, che gli altri (ragionamenti) sarebbero per me inefficaci (tizzoni spenti, cioè privi di luce e di calore).
Profondamente suggestivo è questo paragone dei carboni spenti: ciò che è falso è inutile ed inefficace; il vero irradia luce e calore. Con questa adesione senza riserve alla versione dei fatti sostenuta dal maestro, Dante liricamente ribadisce il suo amore per la verità, quell’amore che lo guida e lo sorregge nel suo viaggio nell’oltretomba, quell’amore in nome del quale non si perita di condannare i grandi della terra.
Ma dimmi. dei dannati che camminano, se ne scorgi qualcuno degno di considerazione; perché la mia mente si indirizza di nuovo soltanto a ciò ”.
Allora mi disse:  “ Colui che lascia scendere dalle guance la barba sulle spalle abbronzate (invece che sul petto), fu, quando la Grecia rimase priva di uomini
Euripilo è l’indovino che insieme a Calcante interrogò gli dei per sapere quando la flotta dei Greci, ferma in Aulide per mancanza di venti favorevoli, avrebbe potuto iniziare a navigare alla volta di Troia. La spedizione militare dei Greci assume proporzioni gigantesche attraverso il particolare così semplice e umile dei bambini rimasti nelle culle.
in modo che ne restarono soltanto nelle culle, un indovino, e in Aulide indicò insieme con Calcante, il momento propizio per recidere la prima gomena.
Si chiamò Euripilo, e sotto questo nome lo celebra il mio sublime poema in un suo passo: lo sai bene tu che lo conosci tutto.
Quell’altro che è così magro nei fianchi, fu Michele Scotto, il quale fu davvero abile nelle frodi della magia.
Michele Scotto fu un filosofo scozzese, astrologo alla corte di Federico Il e “gran maestro in nigromantia” (Boccaccio - Decamerone VIII, 9): ebbe infatti fama di mago (si narra che preparasse banchetti con vivande portate da spiriti da lui evocati) e indovino (predisse la sorte di molte città italiane).
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, il quale adesso vorrebbe essersi occupato del cuoio e dello spago, ma si pente troppo tardi.
Il forlivese Guido Bonatti fu astrologo al servizio di molti potenti come Federico II, Guido Novello da Polenta, Ezzelino da Romano, Guido da Montefeltro. Scrisse un trattato sugli astri che ebbe larga diffusione.
Asclente era un calzolaio di Parma, che godette grandissima fama come indovino. Fra’ Salimbene nella sua cronaca ne parla come di un uomo “di intelletto molto illuminato nell’interpretare le scritture di quelli che avevano predetto il futuro”.

Vedi le sciagurate che abbandonarono l’ago, la spola e il fuso, e si fecero indovine; fecero incantesimi con erbe e con simulacri.
Ma vieni via di qui ormai; poiché già la luna occupa il confine dei due emisferi (boreale e australe) e si immerge nel mare nelle vicinanze di Siviglia; 
e già ieri notte la luna fu piena: te ne devi ben ricordare, poiché ti fu utile una volta nella selva buia ”.
Il canto della magía e della superstizione si chiude con una evocazione della luna. Secondo un’antica credenza popolare sulla superficie lunare è visibile l’immagine di Caino oppresso da un fascio di spine. Il Momigliano nota che questa immagine “fa un’arcana impressione in fondo ad una bolgia, ed è in segreta armonia con quel tanto di arcano che c’è nell’arte degli indovini. In nessun altro canto questo cielo di luna piena adombrato sullo sfondo di una selva folta avrebbe fatto l’impressione che fa in questa bolgia di incantatori... Dante che giudica quei peccatori, e Virgilio che li rinnega, finiscono per camminare in uno scenario di malia”.
 Così mi parlava, ed intanto camminavamo.

 

Inferno – Canto XXI

In tal modo giungemmo da un ponte all’altro (da quello della quarta bolgia a quello della quinta), discorrendo di cose che il mio poema non si propone di prendere in considerazione; e ci trovavamo sul culmine del ponte, allorché
ci fermammo per vedere l’altra cavità di Malebolge e gli altri lamenti inutili; e la vidi straordinariamente buia.
Con il termine comedìa, già usato alla fine del canto XVI (verso 128), Dante designa generalmente il proprio poema, perché, come è detto nel De Vulgari Eloquentia (II, IV, 56) e nella lettera indirizzata dal Poeta a Cangrande della Scala (XIII, 29), è scritto in uno stile che non è quello tragico, proprio dei componimenti medievali chiamati «canzoni», e perché la vicenda in esso narrata ha un lieto fine. Lo stile tragico, secondo quello che afferma Dante, si basa su di una rigorosa scelta degli argomenti e delle parole: è uno stile aristocratico; la tragedia, in questa accezione medievale, può trattare solo argomenti elevati e li deve trattare servendosi di un linguaggio selezionato. La commedia invece non ha limitazioni di argomento né di linguaggio. Nel poema di Dante gli argomenti più umili sono trattati con la stessa serietà con cui sono affrontati i più sublimi. Si è parlato perciò, molto opportunamente, a proposito di Dante, di “plurilinguismo” o “poliglottìa... dei generi letterari” (Contini), o di “mescolanza di stili” (Auerbach). A questo proposito deve essere notato che proprio col canto XXI si apre, nella cupa atmosfera infernale, un intermezzo che è stato generalmente definito comico e che è improntato ad un forte realismo. Il linguaggio stilizzato, che è stato proprio di Dante giovane, appare qui del tutto dimenticato. Al posto delle raffinate atmosfere dei dolce stil novo, che si riproporranno approfondite in alcuni passi della seconda e della terza cantica, troviamo, nei canti XXI e XXII dell’Inferno, una spregiudicatezza nel trattare la propria materia che avvicina Dante ai poeti giocosi e realistíci del suo tempo, come, tanto per fare un nome, Cecco Angiolieri.
Come nell’arsenale dei Veneziani durante l’inverno bolle la pece che aderisce e incolla e che serve a spalmare di nuovo le loro navi danneggiate,
poiché non possono navigare; e invece di navigare chi si costruisce una nave nuova e chi chiude con la stoppa le falle apertesi nelle fiancate di quella che ha fatto più viaggi;
chi dà colpi di martello a prua e chi a poppa; altri fabbricano remi ed altri attorcigliano la canapa per farne funi; alcuni rattoppano la vela minore e altri quella maggiore,
così, non a causa del fuoco, ma per opera di Dio, bolliva laggiù una pece densa, che aderiva viscosamente dappertutto alle pareti della bolgia.
La similitudine tra la bolgia mirabilmente oscura - più oscura delle altre, per la presenza in essa della pece - e l’arzanà de’ Viniziani, tutta contenuta nei versi 7-9, si dilata poi in un quadro che “è come un preludio che annunzia e in qualche modo anticipa la vasta commedia che sta per cominciare” (Sapegno). Per il Croce le comparazioni in Dante hanno a volte vita autonoma, indipendentemente dalla funzione che è loro assegnata dal contesto in cui sono inserite, e che è quella di chiarire o rendere più evidente l’oggetto paragonato. Sono cioè delle “piccole liriche”, delle poesie a sé stanti. “E tale è questa dell’arsenale, del famoso arsenale, dei Veneziani, tutta piena del sentimento del lavoro che ferve, della preparazione per l’opera che si svolgerà. E’ l’inverno, la navigazione è sospesa o meno attiva, si guadagna tempo col racconciare i legni danneggiati e col costruirne di nuovi: le diverse opere sono accennate l’una dietro l’altra, rapidamente, ottenendo l’effetto. di esprimere quel lavoro dal ritmo celere, vario e concorde, faticoso e allegro, che ha innanzi a sé la lieta visione del prossimo fendere sicuri l’aperto mare a traffico e acquisto di ricchezze.
Io scorgevo questa pece, ma in essa non scorgevo se non le bolle che il bollore sollevava, e la vedevo gonfiarsi tutta quanta, ed abbassarsi come premuta.
Mentre io guardavo con attenzione nel fondo della bolgia, Virgilio, dicendomi: “ Sta in guardia, sta in guardia! ”, mi tirò a sé dal luogo in cui mi trovavo.
Virgilio attira l’attenzione di Dante sullo spettacolo che sta per cominciare e che avrà per protagonisti i diavoli. Mai nella Commedia Dante si allontana tanto da alcune caratteristiche che sembrano essenziali al suo modo di concepire e di esprimersi (la staticità dei suoi personaggi, la sobrietà dei loro gesti, alle quali corrisponde una concentrazione estrema dei sentimenti), come nella descrizione di questa bolgia, dove al posto delle figure isolate e ferme troviamo ovunque, come ha rilevato il Bosco, massa e movimento. Secondo un giudizio del Momigliano, che ricalca in parte, sviluppandola, una formulazione critica del De Sanctis, a mano a mano che Dante si inoltra nell’inferno e “che la prepotenza della personalità si viene attenuando, sulle scene a personaggi singoli vengono predominando le scene di schiere e le scene di sfondo”. Nella commedia, ricca di colpi di scena, di contrattempi e di soluzioni impreviste, che si svolge lungo tutto l’arco dei canti dal XXI al XXIII, ritroviamo moduli compostivi propri della novellistica medievale, qui ricreati con un senso dell’intreccio ed una vivacità che non si riscontrano neppure nel Boccaccio, autore che, se da un lato appare assai più smaliziato di Dante, non ha, del poeta della Commedia, la schiettezza con cui questi si pone di fronte alla realtà.
Allora mi voltai come colui che è impaziente di vedere il pericolo al quale deve sfuggire, e che un’improvvisa paura indebolisce,
il quale, per il fatto che guarda, non rimanda la sua fuga; e vidi sopraggiungere alle nostre spalle un diavolo nero che correva sul ponticello roccioso.
Ahi, quanto era feroce nell’aspetto! e quanto mi sembrava crudele nell’atteggiamento, con le ali spiegate e leggiero nel suo avanzare! 
Un dannato gravava con entrambi i fianchi la sua spalla, che era appuntita  e sporgente, ed egli ne teneva stretta la caviglia.
Nel ritratto di questo diavolo, che sfiora appena la terra, avanzando leggiero quasi volasse “tutto è secco, nervoso, tagliente: anche la rabbia con cui il demonio non tiene ma ghermisce. E il punto in cui il peccatore è ghermito, cioè là ove i piedi si congiungono alla gamba e i tendini si rilevano nella loro forza, è detto il nerbo; che dà l’immagine di quei tendini, ma proprio cogliendone la « forza»” (Grabher). Da notare come in questo ritratto i tratti più salienti, quelli che meglio definiscono l’aspetto fisico, e, attraverso questo, il carattere, del diavol nero, sono messi in rilievo alla fine dei versi: fero, acerbo, leggiero. L’inversione sintattica del verso 30 contribuisce, insieme al ritmo che a questo endecasillabo deriva dall’inusitata cesura, al senso di movimento impaziente che caratterizza la scena. Questo diavolo ha una sua nobiltà di atteggiamenti e un suo vigore - impliciti nel suo essere dedito senza riserve alla funzione che gli è stata assegnata (quella di trasportare i dannati) - che saranno del tutto assenti nei vanagloriosi e volubili custodi della bolgia che tenteranno prima di impedire il viaggio dei due pellegrini, poi di ingannarli.
Dal ponte su cui ci trovavamo disse: “ O Malebranche (è il nome dei diavoli di questa bolgia), ecco uno degli anziani di Lucca (città devota a Santa Zita) ! Immergetelo completamente (nella pece), poiché io torno di nuovo
in quella città in cui questi peccatori abbondano: in essa ognuno è barattiere, escluso Bonturo; in essa per danaro il no è trasformato in sì ”.
Gli « anziani » erano, a Lucca e in altre città italiane, i magistrati che governavano il comune, insieme al podestà e al capitano del popolo. Il peccato di baratteria, di cui si macchiarono i dannati di questa bolgia, corrisponde, sul piano dei rapporti fra laici, a quello che è il peccato di simonia nell’ambito della gerarchia ecclesiastica ed equivale all’incirca a quel delitto che oggi è contemplato dal codice penale come  « corruzione di pubblico ufficiale ». Ai tempi di Dante l’accusa di baratteria, frequentissima, era un’arma di cui si servivano gli uomini politici per colpire i loro avversari.
Nella sentenza che lo condannò all’esilio Dante stesso fu accusato di baratteria. Qui quest’accusa viene indirettamente ritorta contro coloro che l’hanno formulata. Lucca, infatti, era in Toscana una roccaforte dei Neri, di quella fazione cioè del partito guelfo che ebbe in Firenze nella consorteria dei Donati i suoi rappresentanti più cospicui e in Corso Donati il suo capo violento e senza scrupoli. Ai Donati e agli altri Neri fiorentini si deve la cacciata dei Bianchi da Firenze nel 1302 e l’esilio del Poeta.
L’esclusione dal novero dei barattieri di Bonturo Dati, uomo politico che a Lucca fu a capo della parte popolare e che poi dovette riparare nel 1313 a Firenze, dove trovò buone accoglienze da parte dei Neri, è ironica. Bonturo Dati fu infatti celebre a Lucca proprio come barattiere.

Lo gettò laggiù, e tornò indietro sul ponte roccioso; e nessun mastino liberato dalla catena fu mai così veloce nell’inseguire il ladro.
Quello sprofondò, e riemerse raggomitolato; ma i diavoli che stavano nascosti sotto il ponte, gridarono: “Qui non c’è il Santo Volto:
qui si nuota diversamente che nel Serchio! Perciò, se vuoi evitare le nostre unghiate, non sporgerti al di sopra della pece ”.
L’anonimo barattiere di Lucca - che peraltro secondo alcuni sarebbe un certo Martin Bottaio, la cui morte avvenne nel periodo in cui Dante immagina di trovarsi nella quinta bolgia - dopo essere stato scagliato nella pece bollente, ne riemerge convolto. Questo termine è suscettibile di diverse interpretazioni. Se lo si prende nella accezione di « impeciato », riscontrabile in alcuni scrittori del Trecento, allora occorre intendere che i diavoli, stabilita un’affinità fra il volto nero, perché imbrattato di pece, di questo dannato, e il volto di un antico crocifisso di legno nero venerato a Lucca nella basilica di San Martino, si rivolgono al convolto per dirgli: “qui non si usa far l’ostensione del Santo Volto; non è il caso che tu mostri fuori della pece il tuo muso nero” (Barbi). Se invece si dà a convolto il significato di «raggomitolato», « con la schiena inarcata », in modo che la posizione del dannato possa far pensare a quella di una persona che preghi in ginocchio, occorre intendere che i diavoli lo scherniscono per questo atteggiamento. L’espressione, qui non ha luogo il Santo Volto, dovrebbe allora essere interpretata così: “E’ inutile che ti inginocchi! Qui non ci sono sacre immagini da venerare”.
Dopo averlo trafitto con innumerevoli uncini, dissero: “ Qui dovrai darti da fare  coperto (dalla pece), in modo da arraffare, se ti riesce, di nascosto ”.
La baratteria, in quanto reato, veniva esercitata di nascosto. Ora i diavoli esortano questo barattiere, nell’imporgli di non far sopra la pegola soverchio, a vedere se mai gli riesca di arraffare qualche ricchezza, come faceva sulla terra, nascostamente, cioè sotto la superficie della distesa di pece. Il sarcasmo è messo in rilievo dal dubbio espresso nell’inciso se puoi, col quale i diavoli sollevano  se stessi da qualsiasi responsabilità in rapporto all’affermazione da loro fatta: vorrà dire che, se il dannato non riuscirà ad arraffare nella pece alcuna ricchezza, la colpa sarà stata unicamente sua; non ne sarà stato capace, non avrà potuto. Un Impiego analogo dell’inciso se puoi  è quello usato da Dante nel rivolgersi a Niccolò III: se puoi, fa motto (Inferno XIX, 48).
Non diversamente i cuochi fanno immergere dai loro inservienti la carne nella pentola con gli uncini, in modo che non venga a galla.
Nelle leggende medievali l’inferno era spesso descritto come una cucina in cui si affaccendavano, in veste di cuochi, i diavoli. Così, nel De Babilonia civitate infernali di Giacomino da Verona il cuoco Belzebù serve in tavola al sovrano dell’inferno l’anima di un peccatore, arrostita “come un bel porco al fogo”; tuttavia questo cibo non soddisfa il suo padrone, perché non cotto abbastanza. “Ma Dante riduce la tradizione realistica ad immagine: un’immagine... che mostra il distacco del Poeta dalla scena raccapricciante, nello stesso tempo, precisa i limiti di quel mondo diabolico.” (Scolari)
Virgilio mi disse: “ Perché non si veda che tu ci sei, nasconditi giù, dietro una sporgenza rocciosa, che ti offra qualche riparo;
e non lasciarti prendere dal timore, per nessuna offesa che mi venga arrecata, poiché io so come stanno le cose, e già un’altra volta mi trovai in una simile baruffa ”.
Poi passò oltre l’estremità del ponte; e non appena arrivò sul sesto argine, gli fu necessario avere un atteggiamento risoluto.
Con lo stesso impeto e lo stesso frastuono con cui i cani si avventano contro il mendicante il quale chiede l’elemosina subito nel punto in cui si è fermato,
i diavoli uscirono da sotto il ponticello, e puntarono contro di lui tutti gli uncini; ma egli gridò: “ Nessuno di voi abbia cattive intenzioni !
La similitudine dei cani richiama quella del mastino dei versi 44-45, ma qui l’attenzione del Poeta si ferma su quello che da un punto di vista logico costituisce soltanto un elemento secondario. Di fronte allo scatenarsi dei cani, sottolineato dall’insistenza (con quel... e con quella) con la quale il loro impeto viene dapprima indicato nella sua astratta genericità (furore) e poi veduto nel suo concreto, plastico manifestarsi (tempesta), spicca, isolandosi inerme, la figura dei poverello, di cui sono messi in luce il dolore e l’umiliazíone attraverso una semplice determinazione avverbiale: di subito. Per un attimo Dante si è distratto dalla commedia volgare che si svolge sotto i suoi occhi. Il pericolo corso dal maestro ha ridestato in lui la sua umanità più profonda.
Prima che i vostri uncini mi colpiscano, si faccia avanti uno di voi e mi ascolti, e dopo si prenda la deliberazione di uncinarmi ”.
Gridarono tutti: “ Si faccia avanti Malacoda! ”; per cui uno avanzò, e gli altri stettero fermi, e quello si avvicinò a  Virgilio dicendo: “ Che gli giova ? ”
I diavoli sono convinti che a nulla serviranno le parole che Virgilio rivolgerà ad uno di essi. Ma, per pura malignità, prima di suppliziarlo, consentono ad ascoltarne le ragioni. Il loro capo Malacoda esprime questa sicurezza condiscendente e spavalda.
“ Credi, Malacoda, di vedermi giunto sin qui  ” disse Virgilio “ al riparo fino ad ora  da tutte le vostre opposizioni,
senza la volontà di Dio e il destino favorevole? Lasciaci andare, poiché è voluto da Dio che io faccia da guida a qualcuno (Dante) per questo orrido cammino. ”
Allora la tracotanza lo abbandonò a tal punto, che lasciò cadere l’uncino ai suoi piedi, e rivolto agli altri disse: “ Dal momento che le cose stanno così, non sia ferito ”.
Malacoda, tanto certo della propria superiorità sullo sconosciuto capitato nella bolgia dove lui è padrone, scopre in se stesso un vinto dopo le parole di Virgilio: il suo orgoglio cade, così come di mano gli casca l’uncino. Il parallelismo tra atteggiamento esteriore e stato d’animo è sottolineato dalla strettissima affinità fra i due verbi, di cui l’uno non rappresenta che una lieve variante dell’altro.
E Virgilio: “ O tu che stai appiattato tra le rocce del ponte, torna ormai presso di me senza timore ”.
Perciò io mi avviai, e velocemente mi avvicinai a lui; e i diavoli avanzarono tutti quanti, tanto che temetti che non avrebbero rispettato il patto:
così vidi una volta essere presi dal timore i soldati che uscivano dal castello di Caprona dopo aver raggiunto un accordo sulla loro resa, vedendosi in mezzo a tanti nemici.
Il castello pisano di Caprona fu espugnato nell’agosto del 1289 dalle milizie della lega guelfa di Toscana, formate in prevalenza da Lucchesi e Fiorentini. Dante prese parte a questa spedizione. I soldati di Pisa, arresisi dopo otto giorni di assedio, ebbero in cambio salva la vita. In questa similitudine è rievocato il momento in cui i difensori di Caprona, dopo la resa, uscivano dal castello, senza sapere se i nemici avrebbero serbato fede ai patti. Di qui il loro timore.
lo mi avvicinai con tutto il mio corpo a Virgilio, e non distoglievo lo sguardo dal loro aspetto, che non era benevolo.
Essi  abbassavano gli uncini e: “ Vuoi che lo tocchi ” dicevano fra loro “ sulla schiena? ” E rispondevano: “ Sì, fa in modo di assestargli un colpo! ”
Ma il diavolo che stava discorrendo con Virgilio, con grande prontezza si voltò, e disse: “ Fermo, fermo, Scarmiglione! ”
Quindi, rivolto a noi, disse: “ Non è possibile proseguire su questa fila di ponti rocciosi, poiché il sesto ponte giace sul fondo (della bolgia) ridotto in frantumi.
E se tuttavia desiderate proseguire, andate su per questa roccia (l’argine che separa la quinta dalla sesta bolgia); vicino vi è un’altra serie di ponti che consente il passaggio.
Ieri, cinque ore più tardi di quest’ora, si compirono 1266 anni da quando la strada franò in questo punto.
Col suo discorso che contiene una parte di verità (la fila dei ponti rocciosi si interrompe effettivamente sulla sesta bolgia) e una parte di menzogna (non esiste infatti un’altra fila di ponti ancora intatta) Malacoda, il quale non si è rassegnato a sottomettersi ai voleri dei cielo, cerca di prendersi su Virgilio una rivincita dello smacco che il poeta latino gli ha fatto subire. Per avvalorare quel che dice, fa sfoggio di grande esattezza (versi 112-114). Il modo di parlare di Malacoda esprime vanità e sufficienza. Egli si sente fiero di apparire un capo agli occhi dei due estranei che pure fino a poco fa stava per lacerare col suo uncino e nello stesso tempo gioisce all’idea di ingannarli.
Il ponte sulla sesta bolgia è crollato nel momento della morte di Cristo, cioè 1266 anni e un giorno meno cinque ore (essendo la morte avvenuta, secondo il Vangelo di Luca che Dante nel Convivio mostra di seguire, verso mezzogiorno del venerdì santo) prima delle sette antimeridiane del sabato santo del 1300, ora in cui i due poeti si trovano nella quinta bolgia. Dante riteneva che Cristo fosse morto a 34 anni, poiché ne calcolava l’età a partire dall’Incarnazione invece che dalla Natività.

Io mando in quella direzione qualcuno di questi miei sottoposti, per osservare se mai qualche dannato esce (dalla pece): andate con loro, poiché non saranno cattivi ”.
“ Vieni avanti, Alichino, e Calcabrina ”, prese a dire, “ e tu, Cagnazzo; e Barbariccia sia a capo dei dieci.
Venga anche Libicocco e Draghignazzo, Ciriatto munito di zanne e Graffiacane e Farfarello e il rabbioso Rubicante.
Secondo il Torraca, alcuni almeno dei nomi di questi diavoli derivano dalla storpiatura di nomi di contemporanei del Poeta. Ma indipendentemente da questa origine, quasi tutti riecheggiano uno o più nomi comuni. Così Alichino, che deriva da Hellequin, nome di un diavolo che appare spesso in leggende francesi, suggerisce una vaga affinità col sostantivo ali; nel canto successivo vedremo che questo diavolo finirà per precipitare nella pece proprio per essersi troppo fidato della potenza delle sue ali. Calcabrina appare ai commentatori antichi come “colui che calpesta la rugiada” (calcans pruinam). Cagnazzo può voler dire « grosso cane » o, meglio, «livido», «paonazzo». Il significato di Barbariccia è evidente, come pure quello di Graffiacane, Malacoda, Scarmiglione. Draghignazzo, sempre secondo Benvenuto, significherebbe “grosso drago”, mentre Ciriatto deve essere ricollegato alla parola greca choiros, che significa «porco». Libicocco, secondo il Parodi, risulterebbe da un incrocio fra i nomi di due venti, il libeccio e lo scirocco. Farfarello era nell’immaginazione popolare un folletto; Rubicante, nel colore rosso che il nome evoca, rifletterebbe la sua indole rabbiosamente bizzarra.
Ispezionate tutt’intorno le bollenti peci: questi siano incolumi fino all’altra fila di ponti che varcano le bolge senza interrompersi. ”
“Ahimè, maestro, che è quello che vedo?” dissi. “Ti prego, andiamo via di qui  soli senza guida, se tu conosci il cammino; poiché, per quel che mi riguarda, non ne ho bisogno.
Se tu sei perspicace adesso come di solito, non vedi che digrignano i denti, e con gli occhi minacciano di procurarci dolori ? ”
E Virgilio: “ Non voglio che tu abbia timore: lascia che digrignino come a loro piace meglio, poiché essi lo fanno per i bolliti che soffrono ”.
Voltarono a sinistra sull’argine; ma prima ciascuno di loro, rivolto al capo che li guidava, aveva stretto, per un segnale, la lingua con i denti;
ed egli aveva fatto uno sconcio suono di tromba.
Nell’ultima parte del canto l’allocuzione di Malacoda ai diavoli ha impresso alla poesia un ritmo eroicomico; a mano a mano una contraddizione si è venuta sempre più chiaramente delineando fra la sostanza elementare e grossolana dei sentimenti dei diavoli e il desiderio del loro capo di farli apparire diversi da quelli che sono, all’altezza cioè dei loro interlocutori per ragionevolezza e maturità di pensiero. Questa contraddizione, ribadita nello stile dall’impiego di forme proprie della poesia epica (ad esempio la congiunzione - e - che ricorre ben sette volte nell’appello che dei suoi fidi fa Malacoda, non ha nei versi 118-123 una funzione sintattica, ma serve soltanto a far maggiormente spiccare,  isolandoli, i nomi dei dieci privilegiati), culmina nella trovata del segnale di partenza del plotone assegnato come scorta ai due pellegrini. Nonostante le arie che si è dato Malacoda, i suoi soldati non sono disciplinati. Non prendono nulla sul serio, fuorché una cosa: lo scherzo. Il massimo della disciplina e della concordia lo raggiungono qui, in questo epilogo di canto, proprio perché l’ordíne che devono eseguire (il segnale) coincide interamente con la loro vocazione alla beffa pesante e oscena.

 

 

Inferno – Canto XXII

Io vidi un tempo cavalieri mettersi in marcia, e iniziare l’assalto  e fare evoluzioni durante le parate, e a volte ritirarsi per mettersi in salvo;
vidi soldati a cavallo sul vostro suolo, o Aretini, e vidi fare incursioni devastatrici, scontrarsi le squadre nei tornei  e cimentarsi i singoli nei duelli;
a volte con trombe, e a volte con campane, con tamburi e con segnali dalle fortezze, e con strumenti nostri  e forestieri;
ma certamente mai con un così insolito zufolo  vidi partire cavalieri o fanti, o nave ad un segnale dato dalla riva o indicato da una costellazione.
Questa scena, come molte di quelle con cui si aprono i canti di Malebolge, costituisce un quadro a sé, ben delimitato nel flusso della narrazione.
La similitudine dell’arzanà de’ Vinizíani, posta all’inizio del canto precedente, risultava più strettamente legata al contenuto di questo, poiché in essa erano anticipati alcuni dei motivi di maggior rilievo della quinta bolgia: l’oscurità accentuata dal colore della pece, l’irrequietezza di diavoli e dannati, l’attenzione dei Poeta rivolta ai gruppi e all’azione, più che ai singoli e all’indagine etico-psicologica. La scena ariosa che introduce al racconto nel canto XXII, così contrastante con l’atmosfera infernale nell’evocazione di vasti spazi e’ nell’insistente richiamo a movimenti di moltitudini disciplinate e concordi, fa spicco più decisamente nel tessuto di raggiri e di primitive cupidigie che caratterizza l’episodio dei barattieri. Va ancora notato che mentre la similitudine dell’arzanà de’ Viniziani riallaccia la pena di questi peccatori ad un mondo di instancabile operosità artigiana, il quadro delle precise evoluzioni di eserciti, che funge da preludio al secondo tempo della commedia di questa bolgia, ricollega lo sconcio comportamento dei diavoli ad un mondo di virtù pittoresche e feudali, per cui non a torto il Croce ha scorto in esso un’amplificazione in chiave eroicomica de motivo accennato alla fine del canto precedente. Per il Sapegno questa apertura di canto avrebbe una funzione catartica; servirebbe cioè ad  “alleggerire e nobilitare, per via d’arte, una materia grossa e triviale”, a “schiarire e aereare un’atmosfera pesante e afosa”.
Il Sanguineti scorge in essa invece un’intenzione opposta: “non di alleggerire e di nobilitare si tratta, ma anzi di approfondire e degradare, sia pure per via di contrasto”, per cui  “l’apparente abbandono inaugurale del bene fissato luogo drammatico del cenno si risolve in una dilatazione esasperata dei suo significato espressivo: non « liberazione » dunque da una materia grossa e pesante, ma calco severo, ma accentuazione rigida e intensa”. La struttura stilistíca di queste terzine, basata su di una “giustapposizione analítica d’immagini” (Marti), che trova il suo riscontro nella serie degli infiniti presenti, è tipica di certa poesia realistica del tempo.

Noi procedevamo con i dieci diavoli: ah, paurosa compagnia! ma in chiesa si sta con i santi, e nell’osteria con i furfanti.
Dante enuncia la sua rassegnazione ad accettare l’infida compagnia dei diavolì con una frase di sapore proverbiale, simile a quella che si ritrova in un passo di un romanzo popolare del ‘200, la Tavola Ritonda: “qui si afferma la parola usata, che dice così: gli mercatanti hanno botteghe, e gli bevitori hanno taverne, e’ giuocatori hanno taolieri, e ogni simile con simile”.
La mia attenzione era rivolta costantemente alla pece, per osservare ogni aspetto della bolgia e della moltitudine che in essa era bruciata.
Come i delfini, quando, inarcando il dorso, avvertono i marinai d’ingegnarsi a salvare la loro nave,
così talvolta, per alleviare la sofferenza, qualcuno dei dannati esponeva la schiena, e la celava più rapido del lampo.
Secondo una credenza molto diffusa nel Medioevo i delfini avvertono i marinai dell’avvicinarsi della tempesta inarcando le schiene e saltando sopra il pelo dell’acqua.
E come i ranocchi stanno sull’orlo dell’acqua di un fossato col solo muso fuori, in modo da nascondere le zampe e il resto del corpo,
così i peccatori stavano da ogni parte; ma non appena Barbariccia si avvicinava, subito si ritiravano sotto la pece bollente.
In una sua analisi del canto XXII il Chiappelli nota come in esso “annullata nella pece, l’immagine dell’uomo se appare, non è che in gesti animaleschi, in attitudini mostruose. Il bisogno di un momentaneo refrigerio non ne trae a galla i volti, ma le schiene inarcate nel guizzo del delfini; se sono le teste che emergono, la sofferenza e l’ansietà le trasformano in teste di rana... Queste grosse figurazioni plastiche in cui appaiono deformati i peccatori son scelte specialmente fra gli anfibi”. Di qui il critico prende l’avvio per istituire una contrapposizione fra il modo in cui sono concepiti i diavoli e quello in cui sono concepiti i dannati.
I suggerimenti impliciti in questo modulo interpretativo non sono accettati dal Del Beccaro, il quale osserva che nella bolgia dei barattieri si stabilisce. tra dannati e diavoli, “una sorta di osmosi o per lo meno uno scambio di termini per cui avviene di assistere al capovolgimento della situazione stessa e degli atteggiamenti psicologici che ne derivano: da ingannatori ad ingannati, con reazioni che presentano evidenti analogie”.

Vidi, e ancora il mio cuore ne prova sgomento, uno di loro stare in attesa, così come accade che una rana resta ferma e un’altra spicca il salto;
e Graffiacane che più degli altri gli stava di fronte, gli afferrò con l’uncino i capelli impeciati e lo sollevò, in modo che mi sembrò, una lontra.
Il paragone della lontra esprime, secondo il Chiappelli, “l’impotenza dell’animale catturato” ed ha un fortissimo rilievo plastico. Il Malagoli annota: “Bellissima immagine del calcato realismo infernale, che si riconnette al convolto del canto precedente ed emerge in contrasto col realismo semplice e comune della rappresentazione delle rane che se ne stanno sull’orlo del fosso”. L’ApolIonio definisce il verso 36 “stupendo, lentissimo e grottescamente trionfale” ed aggiunge: “il disegno della lontra lucida e umida, che lo rompe, con uno squarcio nero, vale un commento orchestrale, in un’opera buffa”.
Io conoscevo già il nome di tutti quanti i diavoli. poiché li avevo con tanta cura annotati quando vennero scelti, e poi avevo fatto attenzione al modo in cui si chiamavano l’un l’altro.
“ O Rubicante, fa in modo di mettergli addosso gli artigli, in modo da scuoiarlo! ” urlavano concordi i malvagi.
E io: “ Maestro, cerca, se puoi, di sapere chi è lo sventurato caduto in balìa dei suoi nemici ”. 
Virgilio gli si avvicinò fermandosi al suo fianco; gli chiese di dove fosse, e quello rispose: “ Io fui nativo del regno di Navarra.
Mia madre, che mi aveva generato da un furfante, suicida e scialacquatore, mi mise al servizio di un signore.
Fui in seguito alla corte  del valente re Tebaldo: qui mi diedi ad esercitare la baratteria; del quale peccato rendo conto in questo bollore ”.
Il barattiere che, lustro di pece e tenuto sospeso a mezzaria da Graffiacane con l’uncino, dichiara la sua origine e la sua vicenda terrena è un non meglio identificato Giampolo o Ciampolo. Osserva il Del Beccaro che Ciampolo, il quale ha prontamente intuito che, parlando, potrà ritardare lo strazio che i diavoli si preparano a fare di lui,  “si afferra disperato all’occasione dell’indugio e con linguaggio fratto, che ben confessa lo spavento, dà contro di sé e di altri compagni di pena, di sé innanzi tutto come frutto di una torbida vicenda di vizio, quasi che un irrevocabile destino lo abbia segnato fin dalla nascita”.
Tebaldo Il, re di Navarra dal 1253 al 1270, ebbe fama di sovrano munifico, giusto e clemente.
E Ciriatto, al quale dalla bocca sporgeva da ogni parte una zanna come a un cinghiale, gli fece sentire come una di esse lacerava.
Il topo era capitato tra gatte cattive; ma Barbariccia lo circondò con le braccia, e disse: “ State lontani, finché lo tengo stretto ”.
Il terrore del dannato ha risvegliato la crudeltà dei diavoli: Ciriatto lo azzanna. Ma più che sulla crudeltà dei custodi di questa bolgia, Dante insiste, in questo come nel canto precedente, sulla loro irrequietezza, sulla mobilità dei loro istinti e atteggiamenti, sulla loro indisciplina. Barbariccia, al quale il suo capo Malacoda ha affidato il compito di guidare il plotone dei dieci diavoli e di accompagnare Dante e Virgilio, cerca di affermare la propria autorità di capo e l’efficienza del manipolo da lui comandato. Come ha osservato il Sozzi, nel contrasto fra la sua “autorevolezza teorica, nominale e velleitaria” e la sua “esautorazione ad opera degli indocili sudditi” trova la sua espressione una delle note di maggior risalto comico del canto.
E rivolse il viso a Virgilio: “ Chiedi ancora ” disse “ se desideri sapere altro da lui, prima che qualcuno ne faccia scempio ”.
Allora Virgilio: “ Dimmi dunque: degli altri malvagi che stanno sotto la pece, conosci qualcuno che sia italiano ? ” E quello: “ Io mi allontanai,
poco fa, da uno che fu di quelle parti: potessi ancora essere sotto la pece con lui! non avrei infatti da temere artiglio né uncino ”.
Si ripete qui la scena dei versi 55-57. Basta che Ciampolo accenni (verso 54) alla propria pena o manifesti terrore per la sorte che i diavoli gli rIserbano perché questi, in ciò assai più simili ad animali che ad esseri consapevoli di fare il male, sentano insorgere in loro irresistibile la crudeltà. Il rapporto che si stabilisce tra loro e l’impegolato Navarrese, per tutto il tempo che quest’ultimo rimane appeso per i capelli all’uncino di Graffiacane, è mirabilmente definito, con espressione pregnante e di sapore popolaresco, dal verso 58: tra male gatte era venuto il sorco. Crudeltà dunque da parte dei diavoli, ma, giova ripetere, crudeltà scarsamente illuminata dalla consapevolezza di sé, facile a distrarsi, determinata dagli umori del momento e subordinata a quello che è il tratto più saliente dei carattere di questi custodi infernali: il gusto della beffa, dello scherzo fine a se stesso.
Pure Draghignazzo lo volle colpire giù nelle gambe; per cui il loro capo si volse tutto intorno con espressione adirata.
Il Momigliano così mette in luce il carattere eroicomico di questa terzina: è maestoso; mal piglio è minaccioso; intorno intorno è pesante come il ballonzolare di una massa bruta: il complesso è un ritratto grottesco sbozzato con due tratti di penna”. Il termine che maggiormente spicca in questa terzina è decurio: questo latinismo, togato e solenne, riferito a Barbariccia, suona come una presa in giro, ne esprime tutta la vanità e la prosopopea.
Quando costoro si furono un po’ quietati, Virgilio senza indugio domandò a lui, che ancora osservava la sua ferita:
“Chi fu quello dal quale dici che facesti male a separarti per avvicinarti alla riva ? ” Ed egli rispose: “Fu frate Gomita,
quello di Gallura, ricettacolo d’ogni inganno, il quale ebbe in suo potere  i nemici del suo signore, e li trattò in maniera tale che ognuno se ne compiace. 
Prese denaro, e li lasciò andare liberi con procedimento sommario, così come egli stesso dice; e anche neglì altri incarichi non fu barattiere da poco, ma sommo.>
Frate Gomita fu, secondo gli antichi commentatori, vicario di Ugolino Visconti di Pisa, che governò col titolo di giudice, dal 1275 al 1296, la Gallura. La Sardegna era stata divisa dai Pisani in quattro- « giudicati », dei quali quello di Gallura occupava la parte nord-orientale dell’isola.
Frate Gomita, secondo quanto qui riferisce Dante, diede la libertà, dietro compenso in denaro, ai nemici del suo signore che aveva fatto prigionieri. L’espressione di piano mostra che questo barattiere “conversando col suo compagno di pena e di peccati intorno alle cose di Sardegna, ancora nella pece si vanta della bella frode compiuta con tutte le forme legali” (Casini-Barbi).

Sta spesso  con lui messer  Michele Zanche di Logudoro; e le loro lingue, nel parlare della Sardegna, non avvertono mai la stanchezza.
Michele Zanche governò il giudicato di Logudoro (Sardegna nord-orientale) per incarico di re Enzo, figlio dell’imperatore Federico Il. Fu ucciso a tradimento da uno dei suoi generi, il genovese Branca D’Oria.
Ahimè, guardate l’altro diavolo che digrigna i denti; parlerei ancora, ma temo che quello si prepari a graffiarmi  ”.
“Un nuovo timbro - scrive il Chiappelli - risuona in quel condizionale posto subdolamente nel cuore dei ricorso: i’ direi  anche ... : il timbro dell’astuzia. Il frodatore non si sente più solo; l’idea degli altri innumerevoli peccatori che potrebbero emergere modifica il suo rapporto coi diavoli e coi poeti. Le forze che componevano la tensione narrativa cominciano a trasformarsi mentre la pressione minacciosa dei demoni è costante, al terrore nel dannato si aggiunge la forza « astuzia ».”
E il grande capo, rivolto a Farfarello che stralunava gli occhi pronto a colpire, disse:     “ Tirati in là, uccellaccio ”.
L’accostamento, nell’ambito di questa, terzina, di un modo di dire solenne (l’, gran proposto) e di un’espressione realistíca e brutale (fatti ‘n costà,  malvagio uccello) ne determina la fondamentale comicità. Da notare anche Ia tensione che si viene a stabilire fra il  qualitativo gran e il diminutivo Farfarello. Dall’alto della sua boria Barbariccia vede nel suo sottoposto un essere privo di intelligenza, niente più, che un animale (uccello). Ma, sotto apparenze che vogliono essere più vili, anche il gran proposto partecipa dello stesso sentire primitivo e sommario degli altri diavoli.
“ Se voi desiderate vedere o ascoltare ” riprese a dire quindi quello spaventato  “Toscani o Lombardi, io ne farò arrivare;
ma che i Malebranche si tengano un po’ in disparte, in modo che essi  non temano le loro punizioni; ed io, stando in questo stesso luogo. 
per uno solo che sono, ne farò venire parecchi quando fischierò, come è nostra abitudine fare allorché qualcuno di noi si tira fuori.”
Ciampolo è deciso a trovare un espediente per sottrarsi allo scempio che i Malebranche si preparano a fare di lui. Ma egli sa abilmente dissimulare il suo progetto di fuga. “L’allontanamento dei diavoli, il vero scopo del suo discorso, è sepolto in un’abbondanza d’offerte, e attenuato in tutti i modi con la forma del verbo scelto (stieno i Malebranche) invece di un imperativo o di una richiesta diretta, con l’avverbio un poco, con la locuzione in cesso, cioè « nascosti quasi per gioco »; e poi con l’intera proposizione esplicativa sì ch’ei non teman delle lor vendette; e infine con le nuove promesse.” (Chiappelli)
Cagnazzo a queste parole alzò il muso, scrollando la testa, e disse: “ Senti, I’astuzia che ha escogitato per tuffarsi giù! ”
Per cui egli, che conosceva raggiri in abbondanza, rispose: “ Sono fin troppo astuto, dal momento che causo maggior dolore ai miei compagni ”.
Alichino non si trattenne e, in contrasto con gli altri demoni gli disse: “ Se tu ti immergi, io non ti inseguirò correndo,
ma volerò sulla pece: si abbandoni la sommità dell’argine, e l’argine stesso sia a noi riparo, per vedere se tu da solo sei più abile di noi ”.
O lettore,  saprai di un gioco strano ogni diavolo rivolse lo sguardo verso la parte opposta dell’argine; e per primo quello (Cagnazzo) che era stato il più restio  a fare ciò.
Dante si rivolge al lettore con una espressione che riecheggia il modo in  cui si rivolgevano al pubblico i giullari. Questi cercavano di attirarne l’attenzione mettendo in rilievo la novità degli argomenti da loro trattati. Dante sfrutta qui effetti comici del tipo più basso, al fine di sottolineare lo stato di degradazione in cui si trovano accomunati dannati e tormentatori della quinta bolgia.
L’interpretazione che il Croce dà di questo passo riesce abbastanza persuasiva nel determinare lo stato d’animo con il quale Dante considera lo spettacolo: “Plebeo è lo spettacolo, e Dante ride, ma non come plebe che si affiati con plebe, bensì sempre come lui, Dante, che getta lo sguardo su quell’aspetto dell’umanità, di un’umanità che è quasi fanciullescamente sfrenata e chiasseggìante, e non permette la seria indignazione, e nemmeno la ripugnanza che si vela il volto, ma anzi eccita all’osservazione curiosa e al riso, per la stravaganza stessa e l’enormità di ciò che si osserva, e che esce da ogni gentile e civile consuetudine”.
Il Navarrese scelse bene l’attimo a lui favorevole; puntò  i piedi  a terra, e di colpo saltò e si liberò dal loro capo.

Di ciò ognuno si sentì colpevole, ma maggìormente quello che era stato causa dello sbaglio; perciò si slanciò e gridò: “ Tu sei preso ! ”
Ma a poco gli servì perché le (sue) ali non poterono avere la meglio, sulla paura (del Navarrese) : quello s’immerse, e questo volando diresse verso l’alto il petto:
non diversamente l’anitra si tuffa nell’acqua all’improvviso, quando si avvicina il falcone, e questo se ne torna su indispettito”e spossato.
Il barattiere è riuscito nel suo intento: si è liberato, ricorrendo ad un inganno, dai diavoli. Inerme, è riuscito ad avere ragione della loro forza e del loro numero. “Ma si noti che anche quando ha la meglio egli non esce dalla mostruosità animalesca nella quale si è venuto evolvendo. La sua vittoria... è frutto di un falso intelletto, di un istinto di frode che somiglia, ma non è l’intelligenza. La lontra passiva che dondolava nella mano del cacciatore, il sorco terrorizzato tra le male gatte, la bestia tignosa e querula, rimane’una bestia; è il palmipede che si tuffa di colpo e per viltà che sì butta giù senza 1 grazia” (Chiappelli).
Ma Caicabrina adirato per la beffa, lo seguì  volando, preso dal desiderio che il Navarrese si salvasse  per aver modo di azzuffarsi  con Alichino;
e non appena il barattiere fu scomparso, immediatamente rivolse gli artigli contro Il suo compagno, e con lui si avvínghiò sopra lo stagno.
Ma l’altro fu davvero  un rapace  sparviero nell’artigliarlo a dovere, e caddero entrambi nel mezzo della palude bollente.
Il calore immediatamente li separò; ma uscirne era impossibile, a tal punto avevano le ali invischiate.
L’animata narrazione che ha avuto per oggetto diavoli e dannatì della quinta bolgia culmina in una rissa fra diavoli causata dall’astuzia di un dannato. Ma nessuno dei due contendenti può considerarsi vincitore; è la pece, lo strumento muto della giustizia divina, il vero trionfatore di questo singolare scontro. Per una sorta di bizzarro contrappasso tocca ora ai tormentatori subire la sorte riservata alle loro vittime. “I cuochi sono diventati lessi a loro volta.” (Bosco)
Barbariccia crucciato insieme agli altri suoi compagni, ordinò che quattro volassero fin sull’altra sponda con tutti i loro uncini, e questi, molto velocemente
di qua, di là, calarono nel posto indicato: tesero gli uncini in direzione degli invischiati, che erano già bruciati sotto la pelle diventata dura
e noi li abbandonammo mentre si trovavano in queste difficoltà.

 

Inferno – Canto XXIII

Silenziosi, soli, non più accompagnati (dai diavoli) procedevamo l’uno davanti all’altro, come i francescani camminano per la strada.
Dopo la fortissima animazione dei due canti precedenti, tutti risolti in movimento e contrapposizione di masse, l’inizio del XXIII propone il tema del silenzio e della meditazione. L’andatura lenta dei due poeti si riflette anche nella scansione ritmica del primo verso, mentre il paragone con i frati minor suggerisce l’atmosfera claustrale che caratterizzerà la bolgia degli ipocriti. Il primo verso, “grave, ci dà il senso di smarrimento e di soggezione dei due poeti di fronte al soprannaturale che li circonda” (Malagoli), il secondo ribadisce l’isolamento in cui ciascuno di loro si trova: Dante e Virgilio avanzano probabilmente anche qui, come all’inizio dei canto X, per un secreto calle, che impedisce loro di procedere affiancati.
A causa della recente zuffa il mio pensiero era rivolto alla favola di Esopo, nella quale egli narra della rana e del topo;
poiché “ora” e “adesso” non sono più uguali, di quanto non lo siano la favola e la zuffa, se si confrontano con attenzione l’inizio e la fine.
La citazione di Esopo non ha carattere dotto, ma popolare. Nel Medioevo le favole esopiche erano molto conosciute attraverso volgarizzamenti e rielaborazioni del testo latino di Fedro. La favola alla quale Dante paragona la rissa che ha avuto come protagonisti Alichino e Calcabrina narra di una rana che, per far attraversare ad un topo un corso d’acqua, lo persuase a legarsi a lei. Giunti a metà cammino, la rana cominciò ad immergersi, volendo far affogare il topo. In quell’istante sopraggiunse un nibbio, che li ghermi entrambi. Come la rana, Calcabrina era accorso in apparenza per porgere aiuto ad Alichino, in realtà per azzuffarsi con lui, e come il nibbio della favola la pece bollente aveva posto fine alla loro contesa (XXII, verso 142). “Certamente il rapporto tra la favoletta e la disavventura dei due diavoli è calzante; anzi, come avverte il Poeta, il raffronto del principio e della fine dei due casi; ma più della corrispondenza di contenuto alla fantasia dell’artista si imponeva quella storia di animali tra i meno nobili... anche nella tradizione favolistica, per la sua concordanza con la trascrizione caricaturale del mondo demoniaco attuata nei due canti precedenti.” (Bonora)
E come un pensiero scaturisce all’improvviso dall’altro, così da quello ne venne fuori in un secondo tempo un altro, che raddoppiò in me la paura di prima.
La situazione drammatica prospettata dal Poeta in questo inizio di canto è soltanto immaginata. Il silenzio e la solitudine accrescono in Dante la paura. Non è tanto su questa che egli ferma la sua attenzione, quanto sulle modalità del suo determinarsi. Opportunamente osserva il Sanguineti: “Dalla intensa azione del ludo, dal suo colore aperto di spettacolo e di dramma, l’inizio del canto conduce... alle sole figure della coscienza: il dramma ora è primamente un dramma mentale”. Testimonia di questa attenzione volta alle operazioni dell’intelletto, al modo in cui il pensiero prende forma e si lega ad un pensiero precedente, la precisione dei linguaggio, denunziata, fra l’altro, dal singolare impiego di avverbi altrimenti consueti come mo e íssa, da quello di sostantivi astratti, considerati nel loro distinguersi o contrapporsi reciproco (l’un con l’altro... principio e fine), e di verbi che indicano un massimo di genericità (la) o processi nei quali questo distinguersi e questo contrapporsi si fondono (s’accoppia, cui corrisponde, messa in forte rilievo dalla rima, la determinazione esatta, quantitativa, di un sentimento: fe’ doppia).
Io ragionavo in questo modo: “ Costoro sono stati per causa nostra derisi con tale danno e tale scorno, che ritengo che a loro rincresca grandemente.
Se l’ira si aggiunge alla cattiveria, essi ci inseguiranno più inferociti del cane nei confronti della lepre che addenta.
Sentivo già arricciarmisi tutti i peli per lo spavento, e volgevo attento lo sguardo indietro, allorché dissi: “ Maestro, se non nascondi
rapidamente te e me, io ho paura dei Malebranche: li abbiamo già alle nostre spalle: li vedo a tal punto con l’immaginazione, che già li sento (dietro di noi) ”.
E Virgilio: “ Se fossi uno specchio, non rifletterei più rapidamente la tua immagine esterna, di quanto ora imprimo in me la tua immagine interna.
Osservazioni, analoghe a quelle sopra riportate a proposito del linguaggio astratto e preciso con il quale Dante definisce l’insorgere in lui della paura (soltanto nell’immagine del cane che ghiermisce la lepre e in quella, immediatamente successiva, dei peli che gli si “arricciano”, quasi egli fosse, come ha notato il Momigliano, un cinghiale, una selvaggina inseguita, la paura trova una sua espressione diretta) possono farsi a proposito di questa risposta di Virgilio. Scrive il Mattalia: “Nemmeno in questa circostanza Virgilio vien meno al suo stile di poeta-filosofo amante della più  calibrata precisione tecnica: Dante aveva parlato di « immaginazione », e Virgilio riprende il vocabolo risolvendolo nel significato di figura o immagine, e svolgendolo nella chiave comparativa dello specchio che riflette le immagini”.
Proprio ora i tuoi pensieri raggiungevano i miei, col medesimo atteggiamento  e con il medesimo aspetto dei miei, in modo che dagli uni e dagli altri ho tratto una sola risoluzione.
Se si dà il caso che la parete a destra abbia una così scarsa pendenza, che noi possiamo scendere nell’altra bolgia (la sesta), sfuggiremo all’inseguimento temuto ”.
Non finì neppure di manifestare tale proposito, che io li vidi sopraggiungere non molto lontani da noi con le ali spiegate, per volerci ghermire.
Virgilio mi afferrò immediatamente, come la madre che si sveglia al frastuono, e vede accanto a sé le fiamme ardenti,
la quale afferra il figlio e fugge e, avendo più cura di lui che di se stessa, non si ferma neppure quel poco tempo necessario ad indossare una camicia;
e dalla sommità dell’argine pietroso si lasciò scivolare sul dorso lungo la parete scoscesa, che chiude  uno dei lati dell’altra bolgia.
L’affetto della madre che, incurante delle fiamme, pensa soltanto a porre in salvo il figlio, è messo in forte rilievo dal susseguirsi incalzante delle coordinate. Le similitudini in Dante fanno talvolta quadro a sé. isolandosi dal contesto narrativo. “Ma non è questo il caso del paragone della madre che, pur assumendo un forte rilievo tra gli altri versi, non si stacca dal resto, non interrompe il movimento della prima parte del canto. Anzi accelera e conclude il racconto della fuga con la sua concitazione.” (Bonora)
L’acqua non corse mai così velocemente attraverso un condotto per far girare la ruota di un mulino costruito sulla terraferma, nel punto in cui essa maggiormente si avvicina alle pale,
come Virgilio su quella parete dell’argine, mentre mi portava tenendomi, sul petto, come se fossi stato suo figlio, non un compagno.
Alla similitudine della madre, così ricca di contenuto umano, segue una similitudine volta a determinare soltanto la velocità con la quale Virgilio scende lungo la scarpata che porta al fondo della sesta bolgia.
In essa la tinta patetica cede momentaneamente di fronte alla nuda vìolenza della figurazione rapinosamente incisiva” (Sanguineti).

Appena i suoi piedi raggiunsero la superficie del fondo della bolgia, essi furono sulla sommità dell’argine sopra di noi; ma non vi era più motivo di temere,
poiché la divina provvidenza che volle porli quali esecutori dei suoi decreti  nella quinta bolgia, toglie a tutti loro la possibilità di allontanarsi di lì.
Laggiù incontrammo una moltitudine dipinta che andava  intorno con passi lentissimi, lacrimando e stanca e affranta  nell’aspetto.
L’attributo dipinta, per ora non meglio specificato, si riferisce alle cappe dorate che coprono i dannati di questa bolgia: gli ipocriti. Ma, usato in questa terzina in modo assoluto, caratterizza più che altro in senso morale questi peccatori, suggerendo l’idea della falsità, dell’apparenza brillante sotto la quale si cela uno squallore profondo. Riprende, a partire da questa terzina, il motivo accennato nell’immagine dei frati minor, con la quale il canto si apre.  “Ma è pur vero - scrive il Bonora - che il motivo annunziato al principio del canto, in tutta la prima parte, sino alla fuga dei due poeti, è soggetto alle complesse variazioni della situazione drammatica. All’apparire degli ipocriti invece il motivo del silenzio claustrale domina ininterrotto.”
Questi dannati indossavano cappe con i cappucci abbassati  davanti agli occhi, fatte nel modo  in cui si fanno a Cluny per i monaci.
Esternamente sono dorate tanto da abbagliare; ma dentro sono completamente di piombo, e così pesanti, che (al confronto) Federico Il le faceva indossare di paglia.
Le cappe degli ipocriti somigliano a quelle, molto ampie, indossate dai benedettini del monastero di Cluny, in Borgogna. Il loro peso è tale - precisa il Poeta con un’iperbole che si colora di sarcasmo - che quello delle cappe di piombo fatte indossare da Federico Il ai rei di lesa maestà appare, al confronto, irrisorio.
Secondo una leggenda che ebbe vasta diffusione negli ambienti guelfi l’imperatore Federico II faceva morire i colpevoli di lesa maestà sul fuoco, dopo averli fatti rivestire di cappe di piombo.
La pena degli ipocriti è stata probabilmente suggerita a Dante dalla strana etimologia proposta per il termine ipocrita da Uguccione da Pisa, nelle sue Magnae Derivationes: ipocrita si dice da yper, che significa « sopra », e da crisis, che significa « oro », quasi « sopradorato », poiché nella superficie e di fuori sembra buono, mentre internamente è cattivo; oppure da ypo, che significa « sotto » e da crisis che significa « oro », quasi avente qualcosa « sotto l’oro ». Per quel che si riferisce al significato morale adombrato nel contrasto tra lo sfavillare dell’oro che ricopre le cappe degli ipocriti e l’opacità del piombo, di cui sono fatte, Dante ha probabilmente tenuto presente un passo del vangelo di Matteo (XXIII, 27-28), in cui gli Scribi e i Farisei, definiti ipocriti, sono paragonati a sepolcri imbiancati, belli esteriormente, ma pieni all’interno di ossa e di sudiciume.

Oh veste opprimente per l’eternità! Noi ci dirigemmo ancora, come al solito, verso sinistra nella stessa direzione di quei dannati, osservandone il pianto sconsolato;
ma a causa del peso quella moltitudine sfinita avanzava così lentamente, che noi avevamo nuovi compagni ad ogni passo.
Perciò dissi a Virgilio: “ Cerca di trovare qualcuno che sia famoso per le sue azioni  o per il suo nome, e, continuando a camminare così, volgi lo sguardo intorno a te ”.
E uno, che udì il parlare toscano, gridò dietro di noi: “ Fermatevi, voi che avanzate così veloci nell’aria buia!
Esatta la seguente osservazione del Biondolillo: “Il dannato, misurando le distanze alla stregua dell’estrema lentezza de’ propri movimenti... sente il bisogno di « gridare » (e l’accento percuote fortemente su gridò) quasi che essi non possano udirlo, e giudica un « correre » quello che per Dante era un « muover d’anca », un camminare a passi lentissimi e regolari”.
Forse otterrai da me quello che domandi ”. Perciò Virgilio si voltò e disse: “Attendi, e poi avanza col suo passo ”.
Sostai, e vidi due che, con l’espressione del volto, mostravano una grande ansia  di essere con me; ma il peso e l’angusto cammino li rendevano lenti.
Quando furono arrivati, mi osservarono a lungo con sguardo obliquo  senza parlare; quindi si rivolsero l’uno verso l’altro, dicendo fra loro:
“Questo sembra vivo dal movimento della gola (perché respira); e se invece sono morti, per quale privilegio avanzano privi della pesante cappa?”
I pesanti cappucci di piombo non consentono agli ipocriti di volgere la testa; perciò essi sono costretti, per osservare Dante che si trova al loro fianco, a guardarlo di traverso. Ma lo sguardo obliquo, non meno del loro silenzio del successivo confabulare fra loro, esprime quella che è la loro indole.
Poi mi dissero: “O Toscano, che sei giunto al raduno dei tristi ipocriti, non disdegnare di dire chi sei”.
E io a costoro: “ Nacqui e fui allevato nella grande città  sulle rive del bel fiume Arno, e mi trovo qui col corpo che ho sempre avuto.
Ma chi siete voi, ai quali tante lagrime quante ne vedo scendono copiose lungo le gote? e quale castigo è il vostro, che brilla in tal modo? ”
E uno di loro mi rispose: “ Le cappe dorate  sono di piombo così spesso, che i pesi fanno in tal modo gemere le loro bilance.
L’insistenza sul dato fisico, assunto nella sua evidenza più cruda, ripropone in questo canto alcune soluzioni già prospettate nel canto XVI e culmina nella similitudine che trasforma, dietro la suggestione del termine pesi, i dannati della sesta bolgia  in bilance. Questa immagine richiama quella della rota (canto XVI, versi 21-24), senza tuttavia riscattarsi in una prospettiva umana.
Fummo frati Gaudenti, e bolognesi; chiamati  io Catalano e questo Loderingo, e scelti  entrambi dalla tua città,
come è usanza che sia scelto  un uomo solo per salvaguardarne la pace; e il nostro comportamento fu tale, che le conseguenze sono ancora visibili tutt’intorno al Gardingo ”.
L’ordine laico dei Cavalieri di Maria Vergine Gloriosa, detto anche dei frati Gaudenti, fu fondato a Bologna nel 1261 con lo scopo di assistere i poveri e i deboli contro le violenze dei potenti e di promuovere la pace fra i partiti e le famiglie che si contendevano il potere nelle città italiane. In origine la designazione di frati Godenti non aveva un senso dispregiativo, poiché il significato di godente era “«gioioso» di quella gioia che sta nella santità della fede, nel sacrificio di sé, nella pura e candida aspettazíone della felicità eterna e, in particolare, nella compartecipazione al mistico godimento dei sette gaudii della Vergine: l’annunciazione, la nascita di Cristo, l’adorazione dei Re Magi, la risurrezione, l’ascensione, la pentecoste, l’assunzione” (Bertoni). In seguito l’ordine degenerò e i frati Gaudenti furono soprannominati per dileggio “capponi di Cristo”.
Catalano dei Catalani. appartenente alla famiglia guelfa dei Malavolti, e Loderingo, della famiglia ghibellina degli Andalò. nacquero entrambi a Bologna intorno al 1210. Furono tra i fondatori dell’ordine dei frati Gaudenti. A Firenze, dove furono chiamati nel 1266 per fare opera di conciliazione fra i partiti, favorirono i Guelfi, che, poco dopo la fine del loro governo, cacciarono dalla città i Ghibellini e rasero al suolo le dimore degli Uberti, situate nei pressi della località chiamata Gardingo. Secondo il Villani, i due frati Gaudenti “sotto coverto di falsa ipocrisia furono in concordia più al guadagno loro proprio che al bene comune” (Cronaca VII, 13). Morirono in un monastero dell’ordine da loro fondato, Catalano nel 1285 e Loderingo nel 1293.

Cominciai a dire: “ Frati, i vostri supplizi ... ”; ma non aggiunsi altro, poiché mi si presentò allo sguardo uno, crocifisso in terra per mezzo di tre pali.
V. Rossi ha messo in rilievo la somiglianza tra questa apostrofe, subito interrotta, ai due frati Gaudenti ed espressioni analoghe con le quali Dante si è rivolto a Francesca (canto V, verso 116) e a Ciacco (canto VI, verso 58), sottolineando tuttavia che “qui tutto è ambiguo: l’apostrofe, che riprende la qualificazione con cui i frati si sono presentati, ma può anche celare un rinfaccio (gente di Chiesa, così ben finita!), l’espressione i vostri mali, che fa pensare al tormento (ma perché non alla colpa?), la reticenza”.
Quando mi vide, si contorse tutto quanto, sospirando nel folto della barba; e frate Catalano, che si era accorto di ciò,
mi disse: “ Quell’inchiodato che tu osservi, espresse ai Farisei il parere che era opportuno per il bene pubblico suppliziare un uomo.
Il crocifisso è il sommo sacerdote Caifas, che nel sinedrio dei sacerdoti e Farisei manifestò l’opinione che Cristo dovesse, per il bene comune, essere ucciso. La sua ipocrisia fu nel fatto che “invece di esprimere direttamente il suo parere, lo espresse in forma sentenziosa e generica non sicuramente interpretabile, credendo in tal modo di sottrarsi a ogni responsabilità diretta nella condanna di Cristo, e ammantandolo con la scusa del bene pubblico” (Mattalia).
E’ posto di traverso, nudo, sul cammino, come tu stesso vedi, ed è necessario che egli senta, prima che sia passato, quanto pesa chiunque passa.
E allo stesso modo soffrono in questa bolgia suo suocero, e gli altri appartenenti al concilio che per gli Ebrei rappresentò un inizio di sventure ”.
Il suocero di Caifas, Anna, partecipò anch’egli alla riunione in cui venne deliberata la condanna a morte di Cristo. Da allora, secondo Dante (Purgatorio XXI, 82-84: Paradiso VI, 92-93; VII, 19-51 ), una serie di sventure si abbatté sugli Ebrei, tra cui la distruzione di Gerusalemme ad opera dell’imperatore Tito e la dispersione del popolo ebraico nel mondo.
Allora vidi Virgilio stupirsi riguardo a  colui che stava disteso in croce in modo così ignobile nel luogo dell’eterna dannazione.
La maggior parte dei commentatori spiega la meraviglia di Virgilio col fatto che, nella sua precedente discesa nel basso inferno, avvenuta prima che Cristo morisse, e della quale è fatto cenno nel canto IX (versi 22-27), Caifas e gli altri membri dei concilio non si trovavano ancora tra i dannati.
Per il Momigliano, invece, la meraviglia di Virgilio sarebbe “espressione di profonda commozione morale”.

Quindi rivolse al frate queste parole: “ Non vi spiaccia, se vi è permesso,. dirci se verso destra si apre un passaggio
attraverso il quale noi due possiamo uscire di qui, senza dover obbligare i diavoli  a venire a toglierci da questa fossa ”.
Allora  rispose: “ Più di quanto tu non speri è vicino un ponte  che parte dalla grande parete che circonda Malebolge (dalla gran cerchia) e attraversa tutti gli spaventosi ripiani,
il quale però in questa bolgia è spezzato e non la valica: potrete salire su per le macerie (di questo ponte), che si adagiano lungo il pendio (che giace in costa) e si elevano sul fondo della bolgia ”.
Virgilio restò per un po’ a testa bassa; poi disse: “ Riferiva male lo stato delle cose colui che afferra con gli uncini i peccatori nella quinta bolgia ”.
E il frate: “ A Bologna io udii una volta menzionare molti vizi del diavolo, tra i quali appresi che egli è bugiardo, e mentitore per eccellenza ”.
A Virgilio, che si meraviglia e si addolora per l’inganno di Malacoda, frate Catalano ricorda come cosa di cui ha sentito dissertare nelle scuole teologiche della dotta Bologna, una verità semplicissima: tra i vizi del diavolo c’è anche la menzogna, anzi, il diavolo è all’origine di ogni menzogna. Il commento è canzonatorio e, un pochino pungente, e scopre insieme, nell’ipocrita Catalano, una sorta d’inconscia ammirazione per i vizi del diavolo. a proposito dei quali egli possiede una particolare competenza.” (Mattalia)
Dopo ciò Virgilio se ne andò  a gran passi, un po’ alterato dall’ira nell’aspetto, per cui mi allontanai dagli oppressi dalle cappe
dietro le orme  degli amati piedi.

 

Inferno – Canto XXV

Non appena ebbe finito di parlare il ladro levò entrambi i pugni col pollice sporgente fra l’indice e il medio, gridando: « Prendi, Dio, poiché rivolgo a te questo gesto! »
A proposito dello sconcio gesto di Vanni Fucci può essere utile ricordare quanto scrive nella sua Cronaca (VI, 5) il Villani: sulla rocca pistoiese di Carmignano “avea una torre alta settanta braccia, e ivi due braccia di marmo che faceano con le mani le fiche a Firenze”. Nel suo commento il Tommaseo dà notizia di una disposizione dello statuto di Prato, in base alla quale chi avesse compiuto questo gesto verso un’immagine di Dio o della Vergine doveva pagare “dieci lire per ogni volta; se no, frustato”.
Il gesto imprevedibile e gratuito del ladro - il quale, dopo essersi fatto, per predire al suo avversario politico la sconfitta dei Bianchi, “solenne e severo come un profeta”, “apostrofa brevemente Dio, con irridente familiarità, come chiamerebbe per nome un suo degno compagno o avversario di risse e di alterchi” (Ferrero-Chimenz) - è in questi termini motivato dal Torraca. “Vanni Fucci... al termine della sua profezia... è così pieno di maligna soddisfazione, e insieme, così eccitato, da osar di rivolgersi contro, Dio stesso... Non godrà Dante di averlo veduto, e non deve godere Dio di averlo messo tanto giù; e che monta la condanna e la pena, se egli ha potuto quasi infiggere un pugnale nel cuore di quel vivo, di quel Bianco, di quel suo nemico?

Da allora in poi i serpenti mi diventarono cari, poiché uno gli si attorcigliò in quello stesso istante al collo, come per dire  “Non voglio che parli oltre”,
ed un altro alle braccia, e lo legò nuovamente, congiungendo con tale forza capo e coda sul suo davanti, che (il dannato) non poteva con esse fare alcun movimento.
Il significato del termine « amicizia » è in Dante assai vicino a quello di «affetto», «amore». Più forte dell’istintivo orrore che l’uomo prova alla vista del serpente è nel Poeta la riconoscenza per gli strumenti della giustizia divina, che pongono fine al blasfemo rovesciamento di ogni valore.
Ahi Pistoia, Pistoia, perché non decidi di ridurti in cenere in modo da non esistere più, dal momento che superi nel fare il male i tuoi fondatori ?
Secondo una leggenda assai diffusa nel Medioevo i fondatori di Pistoia erano stati i soldati dell’esercito di Catilina, per cui, come scrive il Villani, “non è da maravigliarsi se i Pistolesi sono stati e sono gente di guerra, fieri, crudeli, intra loro e con altrui. essendo stratti dal sangue di Catellina” (Cronaca 1, 32). Per quel che riguarda l’invettiva di Dante contro questa città, essa, come fa notare il Tomaselli, appare perfettamente legittimata nel quadro dei principii giuridici medievali, secondo i quali tutti i cittadini di un comune erano ritenuti corresponsabili del reato compiuto da uno di loro. Il tono di quest’apostrofe riecheggia quello dei profeti dell’Antico Testamento: l’augurio espresso dal Poeta è una risposta indiretta alla profezia di Vanni.
In nessuno dei tenebrosi cerchi infernali vidi mai un dannato così superbo verso  Dio, neppure colui (Capaneo) che precipitò dall’alto delle mura di Tebe.
L’accenno a Capaneo, fatto attraverso una perifrasi che richiama l’attenzione del lettore non sulla superbia di questo personaggio, ma sul momento in cui questa superbia si dimostrò insufficientemente fondata (la caduta dalle mura di Tebe), mette in luce il carattere assolutamente disumano, non riducibile neppure alle proporzioni del mito, dell’empietà di Vanni Fucci. “Capaneo spunta l’asprezza del proprio sarcasmo tra le pieghe della sua magniloquenza; Lucifero è un vinto, un grande vinto, che nella coscienza della propria impotenza goccia tutta l’amarezza del proprio dolore: Satana di quell’inferno è Vanni.” (Cosmo) Molto persuasive le seguenti osservazioni del Sapegno: “Proiettata su uno sfondo di vicende e di costumi moderni, ritratti con immediatezza realistica; resa più torbida e insieme più intensa dalla presenza di una feroce passione politica, che coinvolge anche lo stato d’animo dello spettatore; la ribellione di Vanni Fucci si svolge secondo una linea di tensione drammatica e di esasperato movimento, che nettamente si contrappongono, sul piano artistico, alla costruzione immobile e prevalentemente scultorea della figurazione di Capaneo”.
Quello fuggì senza più dire parola; ed io scorsi un centauro gonfio d’ira avanzare gridando: « Dov’è, dov’è quel ribelle ? »
Non credo che la Maremma abbia tante serpi, quante quello aveva sulla groppa fin dove cominciano le fattezze umane.
Sopra le sue spalle, dietro la nuca, stava un drago con le ali aperte; e questo investiva col fuoco chiunque s’imbatteva in lui,
Virgilio disse: « Costui è Caco, il quale nella spelonca sul monte Aventino molte volte fu autore di sanguinose stragi.
Non percorre la medesima strada dei suoi simili (posti a guardia del primo girone dei violenti) a causa del furto che compì con l’inganno della grande mandria che ebbe a portata di mano;
per questo le sue azioni scellerate ebbero termine sotto la clava di Ercole, il quale probabilmente gli assestò cento colpi, mentre egli non riuscì a sentirne nemmeno dieci ».
Il centauro Caco, figlio di Vulcano, si servi della frode, oltre che della violenza, come specifica Virgilio in un passo dell’Eneide (VIII, verso 206), per derubare Ercole di alcune giovenche e di alcuni tori facenti parte dell’armento che era stato di Gerione. Infatti per far perdere le proprie tracce Caco trascinò il bestiame rubato per la coda, facendolo camminare all’indietro fino alla propria spelonca. Questo è il motívo per il quale non si trova insieme con gli altri centauri a guardia del girone in cui sono puniti, insieme con gli omicidi, coloro che rubarono usando la sola violenza. La figura semi-umana e semiferina descritta da Virgilio è deformata da Dante, con la aggiunta del groviglio di serpi e del drago che vomita fuoco, secondo un gusto tipicamente medievale. Essa risulta, rispetto all’originale virgiliano, più terribile e più grottesca ad un tempo. La presentazione ironica della sua morte ad opera di Ercole (l’ironia è in un avverbio - forse - e nella simmetrica contrapposizione dei due emistichi del verso 33, per cui a diè corrisponde sentì, a cento, diece) non si risolve in una semplice arguzia, al livello di un malizioso, ma in fondo innocente, gioco di parole. Per V. Rossi “c’è nella frase un pò d’arguzia irrisoria”; per il Torraca: “L’osservazione di Virgilio ha dell’arguto, e fa sorridere con la chiusa che non si aspetterebbe”; analogo è il punto di vista espresso nella loro monografia su questo canto dal Ferrero e dal Chimenz. Più nel giusto appare il Momigliano allorché vede in essa l’espressione di una “vitalità vigorosa”, di una “rudezza vichiana”.
Mentre diceva queste cose, ecco che Caco passò oltre e tre ombre vennero sotto il luogo in cui ci trovavamo, delle quali né io né Virgilio ci accorgemmo,
se non quando gridarono: «Chi siete?»: onde il nostro discorrere cessò, e da quel momento in poi facemmo attenzione soltanto a loro.
Io non li riconoscevo; ma accadde, come suole accadere casualmente, che uno di loro dovesse fare il nome di un altro,
dicendo: «Dove sarà rimasto Cianfa? »: per la qual cosa io, affinché Virgilio prestasse attenzione, gli feci segno di tacere.
Del fiorentino Cianfa, appartenente alla famiglia dei Donati, capi dei Neri, consígliere del capitano dei popolo per il sesto di porta San Piero nel 1282, un antico commentatore scrive che “sempre si dilettò di furare bestie e di robare bottiglie e votare cassette”; ma, a parte questa caratterizzazione faceta che sa di leggenda, si conosce ben poco di questo personaggio.
Se tu ora, lettore, sei restio a credere ciò che dirò, non sarà cosa strana, dal momento che io, che ne fui spettatore, consento a malapena a me stesso di crederlo.
Mentre tenevo gli occhi rivolti verso di loro, ecco che un serpente con sei piedi si scaglia contro uno di loro, e aderisce a lui interamente.
Con i piedi centrali gli serrò il ventre, e con quelli anteriori gli afferrò le braccia; poi gli morsicò entrambe le guance;
stese i piedi posteriori lungo le cosce, e fra queste infilò la coda, e la tese nuovamente su per il suo dorso.
Edera non fu mai a tal punto stretta ad un albero, come il mostro spaventoso avvinse le sue membra a quelle dei dannato.
In merito a questa prima metamorfosi del canto, nella quale è stato veduto “il vertice poetico, la chiave di volta dell’episodio” (Ferrero-Chimenz), acutamente osserva il Momigliano: “Sembra una presa di possesso. Il serpe è lo strumento di Dio, della sua giustizia così illuminata ed esatta: senza di questo la sua adesione al corpo del ladro non sarebbe così geometrica, non ci sarebbe, pure in tanto impeto, tanta compostezza... Ogni mossa è diretta ad ottenere la più completa compenetrazione dei due corpi: e nulla potrebbe manifestar meglio del matematico combaciar dei due esseri, l’intenzione divina di cancellare nella mostruosa fusione ogni traccia dello spirito umano”. La violenta presa di possesso dell’uomo da parte del serpente è “affermata e ribadita, con urgenza spietata, dai verbi che s’incalzano: si lancia, s’appiglia, avvinse, prese, addentò, avviticchiò. Così gagliarda è questa vitalità ferina, che qualcosa di essa, quasi una prepotenza animalesca, pare trasmessa all’immagine affettuosa e familiare dell’edera che il Poeta prende a paragone” (FerreroChimenz).
Dopo che si fusero insieme come fossero stati di cera calda, e mescolarono i loro colori, né l’uno né l’altro sembrava più quello di prima,
come sulla superficie della carta si muove, precedendo la fiamma, un colore scuro che non è ancora nero e non è più bianco.
Dopo la violenta aggressione, nettamente scandita in ciascuno dei suoi termini, per cui la distinzione tra agente e paziente si ripropone, nelle terzine 52 e 55, in ciascun verso “I’ispirazione, secondando il fatto, da plastica si fa pittorica” (Momigliano). Dopo la similitudine dell’ellera che suggella, definendolo visivamente, l’impeto del serpente, le distinzioni si attenuano, i due principii di individuazione si offuscano, i due corpi si fondono, le due forme si perdono in un che d’indefinito e mai visto. Questo secondo tempo della metamorfosi è espresso, sintatticamente, dal sostituirsi della terza persona plurale nei versi 61-62, alla terza persona singolare delle terzine 52 e 55. “Non c’è più né aggredito né aggressore;  alla rapida, aspra, tagliente precisione di principio del quadro succede una lentezza e una pietà nascosta”, per cui, ad esempio, la similitudine del papiro, così riposata e mesta in confronto a quella dell’ellera, termina con una parola - more - la quale, “più che al quadro, ci fa pensare al sentimento, all’agonia di quelle due forme vive invasate l’una nell’altra, all’angoscia inespressa dello spirito umano che muore confuso colla bestia” (Momigliano).
Gli altri due lo osservavano attentamente, e ciascuno gridava: « Ahimè, Agnolo, come, ti trasformi ! Vedi che ormai non sei né due figure né una sola ».
Su Agnolo Brunelleschi, appartenente a nobìle famiglia fiorentina passata dal partito ghibellino a quello dei Guelfi neri, non abbiamo notizie precise, a parte quelle, umoristiche e poco attendibili, contenute in una chiosa anonima: “infino picciolo votava la borsa al padre e alla madre, poi votava la cassetta alla bottega, e imbolava; poi da grande entrava per le case altrui, e vestiasi a modo di povero, e faciasi la barba di vecchio; e però il fa Dante così trasformare per li morsi di quello serpente come fece per furare”.
Le due teste erano già divenute una sola, allorché ci apparvero due aspetti fusi  in un unico volto, nel quale erano due esseri che avevano smarrito la propria fisionomia.
Il tema della tristezza e della pietà, implicito al di là della perspicuità visiva dei termini nelle immagini della cera e del papiro, ed esplicitamente denunziato dal verbo, more con il quale si chiude il verso 66, riaffiora nell’espressione perduti alla fine del verso 72. Il suo significato immediato è: “confusi in modo da non essere più riconoscibili”. Ma altri significati, appartenenti non più alla sfera delle cose visibili, fondano questa confusione che gli occhi registrano e della quale la mente prende atto con terrore: la “perdizione” di questi due esseri, prima che fisica, è stata metafisica e morale: solo in quanto morti e dannati (morti quindi due volte, alla vita fisica e a quella dello spirito) essi possono perdere la propria individualità confondendosi l’uno nell’altro.
Dall’unione di quattro strisce (le braccia dell’uomo ed i piedi anteriori del serpente) ebbero origine le braccia; le cosce, le gambe, il ventre e il petto divennero membra mai vedute prima d’allora.
Ogni sembianza precedente era li cancellata: la figura deforme aveva l’aspetto di due cose e di nessuna; e così se ne andò con lenta andatura.
Come il ramarro sotto la grande sferza del sole nei giorni della Canicola (dal 21 luglio al 21 agosto), nel passare da una siepe all’altra, sembra un fulmine se attraversa la strada,
così appariva, nel dirigersi verso i ventri degli altri due, un piccolo serpente infuriato, scuro e nero come un granello di pepe;
e trafisse ad uno di loro quel punto del corpo attraverso il quale, quando siamo nel grembo materno, riceviamo il cibo; poi cadde disteso per terra davanti a quello.
La rapidità del serpentello (è il ladro Francesco Cavalcanti; cfr. nota ai versi 139-141 e 151), sottolineata dalla similitudine della terzina 79, contrasta fortemente col passo torpido del mostro generatosi davanti agli occhi del Poeta attraverso l’innaturale fusione di due esseri appartenenti a specie diverse. Per un attimo “la malia sembra cessata, fugata l’aria immobile e stregata” (Momigliano). Da notare il contrasto fra l’immobile luce solare (la gran fersa dei dì canicular) e l’immagine della folgore, cui è ricondotto il movimento del ramarro: la stasi sonnolenta della natura è percorsa come da un brivido, da un principio di attività, di vita non rassegnata all’inerzia, da un essere mobilissimo, animato da una volontà sicura.
Il trafitto lo guardò, ma non disse nulla; anzi, con i piedi immobili, sbadigliava proprio come se fosse preso da sonno o febbre.
Egli guardava il serpente, e questo (guardava) lui; l’uno attraverso la ferita, e l’altro attraverso la bocca emettevano un fumo denso, e i due fumi si mescolavano incontrandosi.
Il fumo è il veicolo attraverso il quale si opera la seconda metamorfosi di questo canto. Il Momigliano rileva che esso “è un elemento comune nelle scene magiche: la sua forma indeterminata è come la figurazione concreta della loro anima misteriosa”. Il “senso della fascinazione” (durante tutte le fasi della loro reciproca trasformazione il serpente e l’uomo non cessano di guardarsi negli occhi) è reso musicalmente, nella terzina 91, dalla “simmetria tre volte ripetuta della prima parte del verso colla seconda, che incanta lo spirito colla monotonia lievemente sonnolenta del ritmo”.
Più non si vanti Lucano per il passo in cui tratta dell’infelice Sabello e di Nassidio, e ascolti attentamente ciò che ora esce dalla mia fantasia.
Più non si vanti Ovidio a proposito di Cadmo e di Aretusa; poiché se nei suoi versi trasforma quello in serpente e quella in fonte, io non lo invidio;
mai infatti egli trasformò due esseri posti l’uno di fronte all’altro in modo che le forme di entrambi fossero in grado di scambiarsi la loro materia.
Nella Farsaglia di Lucano (IX, versi 761-804) è descritta la morte di due soldati romani nel deserto libico: Sabello, morso dal serpente “seps”, divenne in brevissimo tempo cenere; Nassidio, morso dal serpente “prester”, si dilatò fino al punto di scoppiare, trasformandosi così in una massa informe. Ovidio narra, nelle Metamorfosi, la trasformazione di Cadmo, il leggendario fondatore di Tebe. in serpente (IV, versi 563-603), e quella della Nereide Aretusa, la quale, inseguita dal fiume Alfeo, fu da Diana mutata in fonte (V, versi 572-641).
Dante sostiene, rispetto ai due modelli latini, l’originalità della propria invenzione poetica, basata sul reciproco trapasso delle forme da un essere all’altro. La terminologia filosofica (nature... forme... matera) dà rilievo al carattere miracoloso di questa metamorfosi. Essa avviene - come rileva il Mattalia - in deroga “da alcuni capitali postulati scientifico-dottrinali: che da una « forma » all’altra non c’è passaggio; che ogni mutamento o distruzione dei vincolo della « forma » con la sua materia comporta alterazione e morte dell’organismo; che una stessa materia non può esser soggetta contemporaneamente all’attività di due « forme »; e che la materia di un corpo, infine, infranto quel che gli scolastici chiamavano il principio d’individuazione, non può comportarsi come materia organizzata o, per l’intervento della forma, in via di organizzazione; e insieme come pura potenza o materia informe”.

(Le due nature) si corrisposero l’una all’altra secondo questa regola, il serpente divise la sua coda in forma di forca, e il trafitto unì insieme i suoi piedi.
Le gambe, e nel medesimo tempo le cosce, si fusero insieme a tal punto, che in breve la linea d’unione non mostrava più alcun segno che fosse visibile.
La coda divisa prendeva la forma che si perdeva nell’uomo, e la sua pelle diveniva morbida (come quella dell’uomo), mentre quell’altra s’induriva (come quella del serpente).
Vidi le braccia ritirarsi attraverso le ascelle, e i due piedi della bestia, che erano corti, allungarsi tanto quanto quelle si accorciavano.
Poi i piedi posteriori, attorcigliati l’uno all’altro, si trasformarono nel membro che l’uomo nasconde, e l’infelice dal suo membro aveva fatto uscire due piedi.
Mentre il fumo ricopriva di nuovo colore sia l’uno che l’altro, e faceva spuntare il pelo sul serpente privandone l’uomo,
uno si alzò (quello che era serpente) e l’altro (quello che era uomo) piombò a terra, senza che per questo l’uno distogliesse dall’altro gli occhi malvagi, sotto i quali ognuno mutava volto.
Quello che era in piedi, ritirò il suo muso verso le tempie, e per l’eccessiva materia che in quella parte della testa si raccolse, vennero fuori dalle gote, che in precedenza ne erano prive, le orecchie:
L’ultima delle metamorfosi dei ladri, seguita dal Poeta in tutte le sue fasi e minuziosamente descritta, è quella che dà anche l’impressione di maggior freddezza. Avverte tuttavia il Momigliano: “Che questa descrizione sia molto precisa, non è che un’impressione superficiale; quella più profonda, quella che toglie ogni apparenza di vano virtuosismo, è il vagare affascinato dell’occhio fra l’una e l’altra figura”. Le mutazioni infatti “procedono, a due a due, sicché noi rivediamo continuamente nella seconda quel che nella prima s’era dileguato dinanzi al nostro occhio”.
ciò che di quell’eccesso di materia non si ritirò e rimase dov’era, formò il naso per il volto, e ingrossò le labbra quanto fu necessario.
Quello che stava disteso a terra, aguzzò il proprio volto, e ritirò le orecchie dentro la testa, come la lumaca fa con le sue corna;
e la lingua, che in precedenza aveva avuto tutta d’un pezzo e pronta a parlare, si divise, mentre quella biforcuta nell’altro divenne unita; e il fumo cessò.
Lo spirito che si era trasformato in serpente, fuggì sibilando per la bolgia, e l’altro parlando sputò dietro di lui.
Quindi gli voltò le spalle formale da poco, e disse all’altro (al ladro che non ha subìto metamorfosi): «Voglio che Buoso corra carponi per questo sentiero, come ho fatto io».
Il ladro che, ríacquistate le fattezze umane, parla e sputa è Francesco Cavalcanti, quello divenuto serpente è Buoso Donati, o, secondo altri commentatori, Buoso degli Abati, membri entrambi di famiglie nobili di Firenze. L’atto dello sputare è messo dal Torraca in relazione con la “credenza dell’antichità e del Medioevo che la saliva dell’uomo avesse virtù contro i serpenti”.
Vidi in tal modo i dannati della settima bolgia trasformarsI e scambiarsi le fattezze; e a questo proposito la straordinarietà dell’argomento valga a scusarmi, se il mio scrivere manca un poco di chiarezza.
E sebbene i miei occhi fossero alquanto disorientati, e l’animo sgomento, quei due non poterono allontanarsi tanto di nascosto,
che io non riuscissi a distinguere chiaramente Puccio Sciancato; ed era il solo, dei tre dannati che prima erano sopraggiuntí insieme, che non aveva subìto trasformazioni:
l’altro era quello a causa del quale, tu, Gaville, ti lamenti.
Del fiorentino Puccio Sciancato, appartenente alla famiglia ghibellina dei Galigai, una chiosa trecentesca dice che fu autore di “belli furti e leggiadri” e aggiunge che “fue cortese furo [ladro] a tempo, e però non era trasmutato, overo perché li suoi furti erano di die e non di notte”.
Colui a causa dei quale Gaville, un borgo del Valdarno, si lamenta, è Francesco Cavalcanti, ucciso, secondo quanto narra l’Anonimo Fiorentino, in questa località; “per la qual morte i consorti di messer Francesco molti di quelli da Gaville uccisono e disfeciono; e però dice l’autore che per lui quella villa ancor ne piagne e per le accuse e testimonianze e condennagioni e uccisioni di loro, che per quella cagione ne seguìtarono”.

 

Inferno – Canto XXVI

Gioisci, Firenze, poiché sei così famosa, che voli per mare e per terra, e il tuo nome si diffonde per l’inferno!
Tra i ladri incontrai cinque tuoi cittadini di tale condizione che ne sento vergogna, e tu Firenze non ne sali in grande onore.
Ma se nelle prime ore del mattino si sogna il vero (si credeva nel Medioevo che i sogni fatti all’alba fossero annunciatori di verità), tu proverai tra breve quello che Prato, per non dire di altri, ti augura.
E se ciò fosse già avvenuto, non sarebbe troppo presto: così fosse già avvenuto, dal momento che deve pur accadere! perché sarò più duro da sopportare, quanto più invecchio.
L’immagine grandiosa di Firenze che batte l’ali - espressione crudamente visiva,che riporta al concreto il metaforico « volare » della fama - richiama quella di Gerione, nella presentazione che ne fa Virgilio all’inizio del canto XVII: che passa i monti, e rompe i muri e l’armi... Non diversamente da Gerione, Firenze è qui veduta, in una raffigurazione apocalittica, come una incarnazione del male, il cui campo d’azione è l’universo intero. Ma mentre l’apertura del canto XVII (e quella del XIX, che ha in comune con l’esordio del XXVI la forma dell’invettiva) è soltanto tragicamente grandiosa, il sentimento che anima le terzine iniziali del canto dei consiglieri fraudolenti è più complesso e contraddittorio: nei confronti della sua città amore e rancore convivono dolorosamente nel cuore del Poeta. Nel verso 12 i commentatori antichi vedevano soltanto l’espressione dell’impazienza di vedere punita Firenze per le sue scelleratezze, una sete inappagata di giustizia interpretando: “ quanto più invecchio, tanto più mi sarà grave che tardi ad esser soddisfatta la mia ansia di vendetta”. Questa interpretazione non rende tuttavia conto della sofferta ammissione del verso precedente, per cui, come ha rilevato il Fubini, una sola spiegazione sembra possibile: “più tarda sarà la giusta vendetta più grande sarà il dolore del Poeta, il quale la sa necessaria, la desidera anche, ma è pur sempre figlio della sua città e vecchio maggiormente ne sentirà il colpo”. Sempre del Fubini è la seguente felice definizione della unità tonale e stilistica di questa apertura di canto: “più ancora che per se stessi, questi versi ci s’impongono per il loro svilupparsi l’uno dall’altro, per quel passaggio graduale dalla invettiva sarcastica dell’inizio alla confessione finale di debolezza e di amore, che fa di questo esordio un’unità poetica in sé piena e compiuta, quasi un sonetto diremmo, anche per la sua misura, un grande sonetto dell’esule che fissa in forma definitiva il sentimento e il giudizio suo sulla sua città”.Per quanto riguarda l’allusione a Prato del verso 9, essa è stata intesa in senso generico “secondo un motto che dice che l’uno vicino vorrebbe vedere cieco l’altro” (Ottimo), o in rapporto a qualche circostanza specifica: la maledizione lanciata contro Firenze dal cardinale Niccolò da Prato nel 1304, dopo il fallimento della sua missione di « paciaro », o la rivolta di Prato contro il governo dei Neri, domata dai Fiorentini nel giugno del 1309.
C’incamminammo, e Virgilio risalì per la scala formata dalle sporgenze rocciose che prima ci erano servite per scendere, e mi portò con lui;
e mentre proseguivamo nella via solitaria, tra le pietre e i massi del ponte  il piede non riusciva ad avanzare senza l’aiuto delle mani.
Allora mi addolorai, e ora nuovamente mi addoloro allorché rivolgo il pensiero a ciò che vidi, e tengo a freno il mio ingegno più di quello che non sia solito fare,
perché non vada troppo senza la guida della virtù, in modo che, se un benefico influsso astrale o la grazia divina mi ha dato il dono dell’ingegno, io stesso non me lo tolga.
I peccatori dell’ottava bolgia sono generalmente definiti « consiglieri fraudolenti » sulla base di un’espressione del canto XXVII (verso 116): perché diede il consiglio frodolento. In realtà, come ha ben visto il Fubini, essi sono piuttosto coloro “che il prossimo hanno ingannato non per trarne ricchezza o piacere, ma per la grandezza propria o del loro partito o della loro patria, i politici, i machiavellici, coloro che  stettero più sulla volpe che in sul lione », per citare un modo proverbiale reso famoso dal Machiavelli”.Il vizio punito in questa bolgia non ha nulla di volgare o di abietto; esso “nasce dal non tenere nei giusti limiti l’eccellenza dell’ingegno” (Sapegno); proprio per questo può rappresentare una tentazione per chi, come Dante, ha veduto (Convivio) nell’attuazione delle capacità dell’intelletto un fine supremo, proprio per questo il Poeta premette, alla presentazione della pena dei consiglieri fraudolenti, una implicita condanna del loro peccato. Chiarificatrice, per capire il significato che rivestono i versi 19-24, appare la seguente osservazione del D’Ovidio: “ Dante nell’esilio diventò un uomo di corte, un negoziatore politico; e il consigliar frodi e ordire inganni sarebbe potuto divenire per lui un peccato professionale, un vizio del mestiere”.
Quante lucciole il contadino che si riposa sul colle, durante la stagione in cui il sole rimane più a lungo all’orizzonte,
allorché alle mosche succedono le zanzare, vede giù per la valle, dove gli sembra di scorgere le sue vigne e i suoi campi,
di altrettante fiamme splendeva tutta l’ottava bolgia, così come fui in grado di vedere non appena giunsi al centro del ponte da dove era visibile il fondo.
Questa similitudine si ricollega idealmente, “all’altro capo dello stesso arco tematico” (Mattalia), a quella del villanello (canto XXIV, versi 7-15) ed ha con essa in comune, oltre al tema, anche l’andamento sintattico e stilistico: determinazioni temporali indicate per via di perifrasi (qui la stagione: nel tempo che colui...; e l’ora: come la mosca... ) che sfociano in un quadro semplice e compatto (nel canto XXIV: veggendo il mondo aver cangiata faccia; qui: vede lucciole giù per la vallea ) . In questo quadro la similitudine, espressione dello sforzo dell’uomo di inquadrare in una struttura logica ogni fenomeno, si contrappone alla felice innocenza del divenire della natura. Da notare la funzione che ha il forse (verso 30 ) nel trasferire lo spettacolo cui assiste il villan dalla sfera delle determinazioni oggettive a quella di un mondo soggettivo di affetti e di preoccupazioni. Il contadino cerca di riconoscere le forme dei campi a lui familiari, ma è costretto, dal buio che si fa sempre più fitto, a limitarsi a delle supposizioni ( forse ), mentre, al posto di un mondo contenuto entro limiti certi e che l’umano volere può assoggettare ai suoi fini, si sostituisce una danza di punti luminosi, non sottomessa in apparenza ad alcun ordine.
E come colui che si vendicò per mezzo degli orsi vide il carro di Elia nel momento in cui si staccò da terra, quando i cavalli si impennarono verso il cielo,
tanto che non lo poteva seguire con gli occhi, in modo da non vedere altro che la sola fiamma salire in alto, come una piccola nuvola.
Così nel fondo della bolgia si muove ogni fiamma, poiché nessuna fa vedere quello che essa contiene, e ogni fiamma nasconde un dannato.
La perifrasi del verso 34 designa Eliseo, discepolo del profeta Elia. Secondo quanto narra la Bibbia (II Re II, 11-12; 23-24) Eliseo assistette all’ascesa in cielo, su un carro di fuoco, di Elia. Essendo poi stato schernito da una turba di ragazzi, ed avendoli maledetti, due orsi, sbucati da una foresta vicina, lo vendicarono uccidendone quarantadue. Tuttavia Dante ricrea il dato libresco con la consueta potenza e freschezza di visione fantastica, nel particolare dei cavalli che s’impennano al volo... e della nuvoletta” (Sapegno). Il verso 36, in particolare, sottolinea vigorosamente l’irrompere del miracolo nel corso naturale degli eventi.
Stavo sul ponte diritto in piedi per guardare, così che se non mi fossi afferrato a una sporgenza, sarei precipitato anche senza essere urtato.
E Virgilio, che mi vide così intento a guardare, disse: « Le anime stanno dentro i fuochi; ciascuna è avvolta dalla fiamma che la brucia ».
« Maestro », risposi, « per il fatto che lo sento dire da te sono più sicuro, ma già pensavo che fosse così, e già volevo domandarti:
chi c’è dentro a quella fiamma che avanza così divisa nella parte superiore, che sembra levarsi dal rogo dove Eteocle fu posto col fratello? »
Secondo quanto narrano Stazio e Lucano, i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice (sui quali gravava la maledizione di una nascita incestuosa, in seguito alla quale Edipo si era accecato e la maledizione dello stesso padre che essi avevano scacciato da Tebe), dopo essersi uccisi l’un l’altro in combattimento, furono posti su uno stesso rogo, ma la fiamma che da esso si innalzò si divise in due, come per testimoniare la sopravvivenza del loro odio oltre la morte.
Mi rispose: « Dentro a quella fiamma sono tormentati Ulisse e Diomede, e così insieme subiscono la punizione di Dio, come insieme si esposero alla sua ira;
e dentro alla loro fiamma si espia l’insidia del cavallo che aprì la porta dalla quale uscì Enea, il nobile progenitore dei Romani.
In essa si espia l’astuzia a causa della quale, anche ora che è morta, Deidamia continua a lamentarsi di Achille, e si soffre il castigo a causa del Palladio ».
Ulisse e Diomede si trovano in una medesima fiamma perché parteciparono insieme ad alcune imprese. Prima della guerra di Troia si recarono nelI’isola di Sciro per indurre Achille, che la madre Teti aveva lì nascosto per tenerlo lontano dalla guerra, a partecipare alla spedizione che si stava allestendo. Travestiti da mercanti, gli mostrarono alcune armi, risvegliando in lui l’amore per la guerra. Achille li seguì, abbandonando nell’isola Deidamia, figlia del re Licomede, da lui in precedenza sedotta.Durante la guerra di Troia i due eroi parteciparono al rapimento del Palladio, una statua di Pallade la cui presenza, secondo una profezia, garantiva la salvezza della città (Eneide II, versi 162 sgg.). Ma l’inganno che pare più grave agli occhi del Poeta è quello ideato da Ulisse perché i Greci potessero impadronirsi di Troia: il cavallo di legno, del quale parla ampiamente Virgilio nel II libro dell’Eneide.
« Se essi possono parlare da dentro quelle fiamme» dissi «maestro, ti prego e torno a pregarti, e possa la mia preghiera valerne mille,
che tu non mi impedisca di aspettare, fino a quando quella fiamma a due punte sia giunta qui: guarda come dal desiderio mi chino verso di lei! »
E Virgilio a me: « La tua richiesta merita un grande elogio, e io perciò l’approvo: ma fa che la tua lingua si trattenga dal parlare.
Lascia parlare me, poiché ho capito ciò che desideri: perché essi, essendo stati Greci, forse eviterebbero di parlare con te ».
Osserva il Fubini che nessun episodio del poema ha, come quello di Ulisse, “un preambolo così ampio e vario e solenne”. “Non basta a Dante dirci del desiderio suo di conoscere gli spiriti (o non piuttosto uno degli spiriti?) che sono nella bolgia... né basta dopo le parole di Virgilio, da cui ha appreso chi siano i peccatori chiusi nella fiamma cornuta, la preghiera che gli sia concesso di trattenersi con quei dannati, ma la preghiera ha accenti come non se ne trovano altre volte assai ten priego e ripriego che il priego vaglia mille e si rafforza di una nota patetica vedi che del desio per lei mi piego!” In relazione alla terzina 73, variamente interpretata dai commentatori, il critico molto opportunamente chiarisce: “Chi vorrà ancora sofisticare col Tasso, il qual poeta pur ha così bene inteso la poesia dell’Ulisse dantesco, di un Virgilio che ingannatore con gli ingannatori vuoi farsi credere Omero per indurre l’eroe greco a parlare? E’ evidente invece il proposito nel Poeta di creare come una più ampia prospettiva, frapponendo fra sé e il suo nuovo personaggio la figura di Virgilio, e un Virgilio così paludato... Se poi taluno stimasse troppo scoperta la ricerca di bello stile nelle parole virgiliane e in più di un punto di questa prima parte, è da rammentare che essa tutta ha rispetto alla grande poesia del racconto di Ulisse l’ufficio di un recitativo, di un discorso cioè necessariamente più analitico, di cui facile è cogliere gli elementi onde è composto, del tutto fusi e trasfigurati nel canto a cui esso tende e che in ogni suo accento annuncia e prepara .
Dopo che la fiamma giunse nel punto in cui Virgilio ritenne opportuno, io lo udii  parlare in questo modo:
« O voi che vi trovate in due dentro una sola fiamma, se io ebbi qualche merito nei vostri riguardi, mentre ero in vita, se io l’ebbi grande o piccolo
quando in terra scrissi i nobili versi, sostate: e uno di voi racconti dove, per parte sua, smarritosi  andò a morire. »
Le parole che Virgilio rivolge a Ulisse e Diomede sono un esempio di quello che per Dante era lo stile “tragico” e, proprio della poesia degli antichi: stile eloquente, basato su forme retoriche (qui la contrapposizione di due ad un nel verso 79, la ripresa, nel verso 81, del primo emistichio del verso precedente, l’accenno ad un’attenuazione dei meriti di chi parla, espresso nella disgiunzione assai o poco, perché maggiormente spicchino quelli dell’interlocutore), mirante in primo luogo a persuadere. La richiesta esplicita (non vi movete) è preparata da un giro di frasi volte ad ottenere il libero assenso di uno dei due eroi greci: non tende cioè, come altre volte, a costringere il dannato a parlare contro quella che è la sua volontà. L’ultima parte di questo discorso del poeta latino partecipa tuttavia già della concisione del racconto di Ulisse: in essa, come in quest’ultimo, i fatti prendono decisamente il sopravvento sulle considerazioni soggettive. La tragedia dell’eroe greco e già tutta nella contrapposizione che si istituisce, per virtù di stile e al di là di ogni significato immediato, tra il primo emistichio del verso 83 ( non vi movete) e il secondo emistichio del verso 84 ( a morir gissi ): Ulisse trovò la morte proprio per aver rifiutato ogni forma di stasi (rappresentata, come vedremo, da un mondo di affetti e da un monito enimmatico, le colonne d’Ercole), ogni indugio nel già compiuto, ogni approdo nell’inazione.
La punta più alta dell’antica (da secoli circonda i due dannati) fiamma cominciò a scuotersi rumoreggiando proprio come quella che il vento agita;
poi, muovendo di qua e di là la punta, quasi fosse la lingua che parlava, getto fuori la voce, e disse: «Quando
mi allontanai da Circe, che mi trattenne per oltre un anno là vicino a Gaeta, prima che Enea la chiamasse così,
né la tenerezza per il figlio, né l’affetto riverente per il vecchio padre, né il dovuto amore che doveva rendere felice Penelope,
poterono vincere dentro di me l’ardente desiderio che ebbi di conoscere il mondo, e i vizi e le virtù degli uomini:
La punta della fiamma parla, ma la sua voce si converte in linguaggio umano lentamente, con fatica, con dolore: gittò (verso 90) manifesta tutta la difficoltà che incontrano queste anime fasciate di fuoco nel convertire in parole, oltre il rumore della fiamma che resiste al vento, i loro pensieri. Il tema del linguaggio dei dannati - della possibilità loro concessa, una volta che sono stati privati delle apparenze umane e trasformati in oggetti, di esprimersi - si riaffaccia in questo e nel canto successivo, dopo essere stato alla base dell’episodio di Pier delle Vigne. Le due terzine che preludono al racconto di Ulisse - così lineare, limpido, interamente travasato nei fatti senza un’ombra di dubbio o ripensamento - esprimono una chiusa sofferenza: quella che provano questi dannati nel riprendere, per pochi istanti, contegno e parola di uomini. Tuttavia, come osserva il Momigliano, rispetto alla similitudine tematicamente analoga del canto XIII (come d’un stizzo verde) queste due terzine hanno “un andamento largo, arioso, in cui già spira, per un’occulta concordanza, il soffio del mare aperto”.Per il racconto dell’ultimo viaggio di Ulisse Dante ha tratto ispirazione da numerose fonti, sia antiche sia medievali, le quali tuttavia non gli hanno fornito che spunti isolati e suggerimenti di carattere molto generico.Ulisse, secondo Ovidio (Metamorfosi XIV, versi 223 sgg. ), si trattenne per un anno presso la maga Circe, sul promontorio Circeo, a nord di Gaeta. Qui la maga aveva trasformato tutti i compagni dell’eroe in porci; il solo Ulisse aveva saputo opporsi validamente, minacciandola con la spada, ai suoi incantesimi. Nel poema di Virgilio (VII, versi 1 sgg.) è detto che il luogo dove sorge la città di Gaeta fu così chiamato da Enea in memoria della propria nutrice, Caieta, che vi mori e vi ebbe sepoltura.La figura dell’Ulisse dantesco, nella quale pur confluiscono motivi già presenti in quella dell’eroe omerico, rappresenta tuttavia, presa nel suo insieme, l’antitesi di quella del protagonista dell’Odissea. Mentre questo, infatti, appare sempre nostalgicamente proteso verso il passato, la sua piccola Itaca, un mondo ben conosciuto, la tranquillità degli affetti familiari, l’Ulisse dantesco si lancia verso un avvenire che deve essere sempre fatto oggetto di conquista per porsi come valido, concepisce la vita come continuo superamento di ciò che, essendo, ha un limite, come un imperativo etico al quale non è lecito sottrarsi, In ciò è la sua modernità. Occorre tuttavia aggiungere che la morale dell’Ulisse dantesco non è quella del « superuomo », orgogliosamente proclamata dal Romanticismo decadente (alla sua figura si ispireranno, fra gli altri, Tennyson e D’Annunzio). Il mondo di affetti che si lascia alle spalle non è da lui deriso e disprezzato, ma soltanto subordinato al disinteressato ardore di conoscenza che lo spinge sempre avanti, verso l’ignoto. Giustamente osserva il Fubini: “Non la dismisura di quei personaggi [i protagonisti dei rifacimenti del Tennyson e del D’Annunzio], ma la misura è il carattere proprio del personaggio dantesco: il quale non mira a porsi col suo operato al di fuori dell’umanità. ma a fare quello che ogni uomo nella sua condizione non potrebbe non fare, che non aspira a una singolare o impossibile grandezza, ma unicamente ad attuare insieme coi compagni il suo destino di uomo, che degli affetti umani parla come chi tutti li senta e li intenda”.
ma mi spinsi per lo sconfinato alto mare solo con una nave, e con quella esigua schiera  dalla quale non ero stato abbandonato.
Vidi l’una e l’altra sponda fino alla Spagna, fino al Marocco, e alla Sardegna, e alle altre isole bagnate tutt’intorno da quel mare (il Mediterraneo ) .
Io e i miei compagni eravamo vecchi e lenti nei nostri movimenti allorché giungemmo a quell’angusto stretto dove Ercole fissò i suoi limiti,
affinché l’uomo non si avventuri oltre (Ercole, secondo il mito, piantò le rupi di Calpe e di Abila, l’una sulla sponda europea, l’altra su quella africana, perché, segnando i limiti del mondo esplorabile, nessuno osasse oltrepassarli ): lasciai alla mia destra Siviglia, alla mia sinistra ormai Ceuta (Setta: è l’antica Septa romana, sulla costa africana) mi aveva lasciato.
Una delle interpretazioni più persuasive della figura di Ulisse è quella avanzata e svolta con ricchezza di argomenti dal Mattalia, sulla base di alcune idee del Nardi. Secondo questa interpretazione l’eroe greco che Dante incontra nell’ottava bolgia rappresenta l’umanità pagana “capace di umana perfezione ma non di eterna salvezza: ricca di capitali insegnamenti anche per il mondo cristiano: animata da una indomabile fiducia nel potere della ragione, ma chiusa nei limiti della ragione stessa e di una civilitas basata su di un’etica a fondamento esclusivamente razionale, insufficiente a guidare l’uomo al conseguimento del suo fine unico (Dio)”. Da questo punto di vista la differenza tra il personaggio di Virgilio e quello di Ulisse sta nel fatto che laddove il primo è consapevole della limitatezza della ragione (state contenti, umana gente, al quia esorta il poeta latino nel terzo canto del Purgatorio, verso 37 ), Ulisse mostra di non averne coscienza. Sempre nell’ambito di questa interpretazione “Ulisse che varca le colonne d’Ercole è il mondo pur esemplare del paganesimo mosso dall’oscura intuizione di realtà esistenti oltre il limite della ragione e dall’avido bisogno di procedere oltre”. Questo atto dell’eroe greco non può tuttavia non convertirsi in follia “per la pretesa in esso implicita ( inconscia o solo oscuramente intuita in Ulisse, ma chiara agli occhi dell’interpretante e cristiano Dante) di surrogare la ragione alla Rivelazione, l’uomo al Dio-Uomo”.
“O fratelli”, dissi, “che avete raggiunto il confine occidentale (il mondo finiva, per gli antichi, allo stretto di Gibilterra) attraverso centomila pericoli, a questo così breve tempo
che ci rimane da vivere, non vogliate negare la conoscenza, seguendo il corso del sole, del mondo disabitato.
Riflettete sulla vostra natura: non foste creati per vivere come bruti, ma per seguire  la virtù e il sapere. “
Con questo breve discorso resi i miei compagni così desiderosi di proseguire il viaggio, che a stento dopo sarei riuscito a fermarli;
e rivolta verso Oriente la poppa della nostra nave, trasformammo i remi in ali per il viaggio temerario, sempre avanzando verso sinistra ( verso sud, ovest).
Nel rivolgersi ai suoi compagni Ulisse non promette loro, dopo cento milia peripli, agi o tranquillità, ma soltanto esperienza, li invita - e quanta affabilità è nel suo invito, quanta umanità in quel chiamarli fratelli - a spendere gli ultimi giorni che restano loro da vivere nel modo più degno di un nome: nella dedizione incondizionata e gioiosa ad un ideale di razionalità e di autosuperamento. A queste parole, nei vecchi e tardi marinai riaffluisce la gioventù, la vita, diventano aguti, la picciola vigilia, che ciascuno di loro vedeva forse stagnare davanti a sé in un futuro inerte, si tende verso un significato supremo, al di là del quale più nulla possono intravedere: conoscere le terre disabitate dell’emisfero australe.
Già la notte ci mostrava tutte le stelle dell’emisfero australe, e (ci mostrava) invece il nostro (emisfero) così basso. che non si alzava al di sopra della superficie del mare.
Cinque volte si era accesa e altrettante spenta (erano passati cinque mesi) la luce che la luna mostra nella sua parte inferiore, da quando avevamo iniziato il nostro difficile viaggio,
allorché ci apparve una montagna, scura a causa della distanza, e mi sembrò tanto alta come non ne avevo mai veduta alcuna.
Noi gioimmo, e subito la nostra gioia si mutò in disperazione: perché dalla terra da poco avvistata sorse un vento vorticoso, che investì la prua della nave.
Tre volte la fece girare insieme con le acque circostanti: alla quarta fece levare la poppa in alto e sprofondare la prua, come volle Dio,
finché il mare si richiuse sopra di noi ».
La montagna che si profila agli occhi di Ulisse e del suo equipaggio, indistinta nella lontananza, è quella del purgatorio, Per il Nardi, il quale interpreta l’episodio sulla base di alcuni passi della Scrittura, “nella follia di Ulisse e dei suoi compagni vi è tutto l’orgoglio umano che spinse Adamo ed Eva al trapassar del segno gustando la scienza del bene e del male, per essere simili a Dio. V’è anzi lo stesso orgoglio di Lucifero”. In base a questa interpretazione forse troppo radicale, ma comunque coerente con le premesse teologiche dalle quali difficilmente si può prescindere nel trattare della poesia di Dante, il Nardi scorge alla radice del motivo del turbine che investe la nave di Ulisse, un’ispirazione biblica: la “spada fiammeggiante e roteante” del cherubino posto da Dio a guardia del legno della vita.

 

Inferno – Canto XXVII

La fiamma si era già raddrizzata e stava ferma perché più non parlava, e già si allontanava da noi  col permesso del caro Virgilio,
quando un’altra, che sopraggiungeva dietro di lei, ci fece volgere lo sguardo verso la sua punta a causa  di un mormorio che da essa proveniva.
Come il toro siciliano che muggì per la prima volta, e ciò fu cosa giusta, con il lamento di colui che l’aveva costruito con i suoi arnesi,
muggiva con il gemito del martirizzato, tanto che, sebbene  fosse fatto di rame, sembrava che lui stesso soffrisse,
così, non trovando all’inizio né una via né un’apertura attraverso il fuoco, le parole dolorose  si mutavano nel suono di quest’ultimo.
Secondo una leggenda riportata da diversi scrittori latini (Ovidìo, Plinio il Vecchio, Valerio Massimo, Paolo Orosio) l’ateniese Perillo aveva costruito per il tiranno d’Agrigento, Falaride, un bue di rame, che, arroventato, causava la morte, tra atroci supplizi, dei condannati chiusi in esso. Il bue di Perillo aveva la particolarità di trasformare in gemiti bovini le grida di questi infelici. La prima vittima di questo strumento di tortura fu il suo stesso inventore. L’inciso dantesco e ciò fu dritto riecheggia, in forma lapidaria una più ampia considerazione di Ovidio (Ars amandi 1, 653-654): “Non esiste infatti legge più giusta di quella per cui gli artefici di morte periscono ad opera della loro arte”. Nel verso 9 il Torraca ha visto, con penetrante acume, il compiacimento dell’artefice intento a perfezionare, con alacrità disumana, il crudele prodotto del proprio ingegno. L’andamento della similitudine, che ripropone, all’inizio di questo canto, il tema del linguaggio dei consiglieri fraudolenti, già accennato in quello precedente (versi 85-90). è faticoso, complesso, contorto. A causare in noi questa impressione contribuiscono, fra l’altro, l’accavallarsi delle determinazioni - ognuna delle quali. pur logicamente in funzione subordinata, tende ad assumere un valore assoluto, ostacolando lo scorrere del discorso ~ e la ripetizione, appena variata, dello stesso verbo mugghiare - assunto dapprima a chiarire una circostanza secondaria ed in un secondo tempo il fatto sul quale poggia l’intera comparazione. Bene osserva in proposito il Crispolti: “Evidentemente Dante vuol produrre nei lettori una aspettazione, per cui tanto più le parole di Guido appariscano gravi, quanto più hanno tardato ad essere profferite”. Il Sanguineti, dal canto suo, nel raffrontare questa similitudine   con quella premessa al racconto di Ulisse, nota come “alla qualità dell’immagine invocata per Ulisse (la fiamma cui vento affatica), sostenuta tutta, così puntualmerite sobria, ancora dai valori descrittivi”, si contrappone quella dell’ “immagine singolarmente addotta per Guido, insistente e diffusa, lentamente disvelatrice”. Illuminante appare la seguente osservazione del Terracini: “il motivo di questa voce che esce a stento e non naturale dalle fiamme non si limita a questo esordio; lo ritroveremo implicito... in un elemento di stile: nell’onda del discorso ora serrata, ora spezzata, e sin nella duplicità ora ambigua ora drammatica, che scorre lungo tutto il raccontodi Guido e trae appunto la sua prima origine dal suon confuso emesso dalla fiamma”.
Ma dopo che ebbero trovato la loro via  verso l’alto  attraverso la punta, comunicandole quella vibrazione che la lingua aveva loro impresso mentre passavano,
udimmo dire: « O tu al quale rivolgo la parola e che or ora  parlavi in dialetto lombardo, dicendo “Adesso vattene; più non ti sprono a parlare”,
sebbene io  sia arrivato forse un po’ tardi, non ti dispiaccia rimanere a parlare con me: vedi che a me non rincresce, eppure brucio!
Se tu proprio ora  sei precipitato nell’inferno  da quella amata terra italiana  dalla quale  ho portato tutti i miei peccati,
dimmi se i Romagnoli sono in pace o in guerra; perché io nacqui nei monti là tra Urbino e il giogo da cui scaturisce  il Tevere ».
Il personaggio che parla, fasciato dalla fiamma (i consiglieri fraudolenti non sono trasformati in fiamme, ma da queste soltanto rivestiti, come risulta dal verso 48 del canto XXVI) è il conte Guido I da Montefeltro. Nato intorno al 1220, militò nelle file del partito ghibellino e fu, nel 1268, vicario a Roma di Corradino di Svevia. Nel 1275. in qualità di capitano generale dei Ghibellini della Romagna, sgominò presso Faenza, al ponte San Procolo, i Guelfi bolognesi e si impadronì di Cesena e di Bagnacavallo. Nel 1282, assediato in Forlì dalle milizie guelfe guidate dal francese Giovanni d’Appia, fece una vittoriosa sortita contro il nemico. Dopo la resa della città, fu confinato dalla Chiesa, alla quale aveva fatto atto di sottomissione, in Piemonte, ma nel 1289 riprese a combattere contro i Guelfi come podestà e capitano di guerra a Pisa. Tornato ìn Romagna nel 1292, ottenne la signoria di Urbino. Dopo essersi riconciliato col papa, indossò, nel 1296, il saio francescano. Morì due anni dopo.
Un punto assai oscuro, in questo primo discorso di Guido da Montefeltro, è rappresentato dai versi 20-21, dal momento che le ultime parole pronunciate da Virgilio sono state rivolte ad Ulisse per congedarlo (verso 3), e tenuto conto che è stato proprio Virgilio a consigliare Dante di non rivolgere la parola ad Ulisse e a Diomede, perché, essendo Greci, avrebbero evitato (e non sarebbero stati capaci) di esprimersi in volgare (canto XXVI, versi 73-75). C’è un contrasto nettissimo, come ha rilevato il Fubini, fra il colore lessicale dell’episodio di Ulisse (nel quale abbondano espressioni auliche e latinismi) e quello delle parole con le quali verosimilmente Virgilio congeda l’eroe greco. Il Sapegno avanza l’ipotesi che fosse “nell’intenzione di Dante di segnare, con questo curioso contrasto, il trapasso, che quì si attua, dal mondo del mito a quello della cronaca attuale”. Per il Lipari infine la cagione e la ragione del contrasto fra i due episodi stanno proprio lì e solo lì, nella diversità di stile: ché l’episodio di Ulisse è nello stile « tragico » o « alto », di Virgilio, mentre quello di Guido da Montefeltro è nello stile « comico » o « mezzano », particolare di Dante”.

Stavo ancora attento e chinato verso il fondo, allorché Virgilio mi toccò nel fianco (tentò di costa), dicendo: « Parla tu; costui è italiano (latino) ».
Ed io, che ero già preparato a rispondere, presi a parlare senza indugio: « O anima che sei celata laggiù,
la tua Romagna non è, e non è mai stata, in pace nel cuore dei suoi signori; ma ora non vi lasciai alcun conflitto manifesto.
Nella primavera dei 1300, periodo in cui Dante immagina di aver compiuto il suo viaggio nell’oltretomba, la Romagna appariva pacificata. Alla fine del 1299, infatti, era stato posto termine, per intervento di Bonifacio VIII, alla guerra combattuta dal marchese Azzo VIII d’Este contro il comune di Bologna e i signori romagnoli.
Ravenna si trova nella condizione in cui è stata per molti anni: l’aquila dei da Polenta se la custodisce, in modo da coprire con le ali  anche Cervia.
Dal 1270 Ravenna era sotto la signoria della famiglia da Polenta, che aveva come stemma, secondo il Lana, “una aquila vermiglia nel campo giallo”; nel 1300 era signore di Ravenna Guido il Vecchio, il padre di Francesca da Rimini. Il dominio dei signori di Ravenna si estendeva anche alla vicina Cervia.
La città (la terra: Forlì) che già sostenne il lungo assedio  e fece una strage  di Francesi. è ora sotto il dominio degli artigli verdi (degli Ordelaffi).
Signore di Forlì, la città in cui Guido da Montefeltro sconfisse sanguinosamente l’esercito francese guidato da Giovanni d’Appia, era in questo periodo Scarpetta degli Ordelaffi, che Dante conobbe probabilmente di persona essendo stato eletto nel 1303 capitano generale dei Bianchi esuli da Firenze. Secondo il Lana, gli Ordelaffi avevano “le branche verdi d’un lione nel campo giallo per arme”.
E il vecchio Malatesta  da Verrucchio e suo figlio, che fecero strazio di Montagna, là (a Rimini e nelle terre vicine) dove sono soliti farlo usano i denti a mo’ di succhiello.
Malatesta da Verrucchio, padre di Paolo e di Gianciotto (Inferno V, versi 88 sgg.), si impadronì di Rimini dopo averne cacciati i Ghibellini nel 1295 e tenne la signoria di questa città fino al 1312, anno in cui gli successe il figlio Malatestino. I due Malatesta erano probabilmente soprannominati « mastini » per la loro ferocia. Dante “inserisce qui il termine, con l’usuale immaginosa risoluzione del linguaggio figurato dell’araldica, e in una serie di indicazioni araldiche, quasi a suggerire che questa sarebbe stata la più degna insegna di una signoria ferocemente avida e sanguinaria”. (Mattalia) Il ghibellino Montagna di Parcitade, fatto prigioniero da Malatesta il Vecchio, fu da costui affidato alla custodia del figlio Malatestino, il quale lo fece uccidere.
Le città bagnate dal Lamone (Faenza) e dal Santerno (Imola) sono governate dal piccolo leone in campo bianco, che cambia partito  da una stagione all’altra.
Maghinardo Pagani da Susinana, il quale “aveva per arme un lione nel campo bianco” (Lana), fu signore di Imola e Faenza e morì nel 1302. Scrive di lui il Villani nella sua Cronaca (VII, 149), dopo averlo definito Il grande savio tiranno”: “ghibellino era di sua nazione e in sue opere, ma co’ Fiorentini era guelfo e nimico di tutti i loro nímici, o guelfi o ghibellini che fossono; e in ognì oste e battaglia ch’e’ Fiorentini facessono, mentre fu in vita, fu con sua gente a loro servigio e capitano”. Gli antichi commentatori interpretano il verso 51 come se contenesse un’allusione al fatto che Maghinardo Pagani era ghibellino in Romagna e guelfo, in quanto amico della guelfa Firenze, in Toscana. Dei moderni il Torraca vede riassunti in questa definizione lapidaria “i frequenti e rapidi passaggi di Maghinardo da una ad un’altra delle fazioni di Faenza e di tutta Romagna. Le storie romagnole attestano che egli fu quando favorevole, quando ribelle ai rettori pontifici; nemico a vicenda ed amico de’ Manfredi, de’ Calboli. de’ Malatesta guelfi; ora capo de’ Ghibellini, ora combattente in campo contro di essi; benedetto, scomunicato, ribenedetto dalla Chiesa”.
E Cesena  che è bagnata dal Savio, così com’è sistemata  tra la pianura e l’Appennino, vive tra la tirannide e la libertà.
Cesena, bagnata dal fiume Savio, fu governata dal 1296 al luglio del 1300 da un cugino di Guido da Montefeltro, Galasso da Montefeltro, che Dante nel Convivio (IV, XI, 14) menziona tra i signori più liberali. Nel quadro che Dante presenta a Guido sulle condizioni della Romagna ogni cosa, secondo quanto scrive il Croce, “è espressa in modo concreto e con immagini corpulente: gli stemmi, i nomi dei signori, i fiumi che bagnano quella terra, gli avvenimenti di cui essa fu teatro, si affollano all’immaginazione come esseri vivi, e della sorte di ciascuna città si parla come se si parlasse degli affanni e dei travagli delle proprie figliuole, e Romagna, che le lega tra loro, è tra esse come la primogenita: Romagna tua”.
Ora ti prego di raccontarci  chi sei: non essere restio a parlare più che non lo sia stato io, se vuoi che il tuo nome abbia nel mondo una fama duratura ».
Dopo che la fiamma ebbe alquanto rumoreggiato com’era solita fare, mosse la cima aguzza di qua e di là, e poi pronunciò tali parole :
« Se io pensassi che la mia risposta fosse data a una persona che prima o poi tornasse sulla terra, questa fiamma sarebbe silenziosa;
ma poiché da questo abisso  mai alcuno ritornò vivo, se è vero ciò che mi si dice, ti rispondo senza timore d’essere coperto d’infamia.
Osserva il Terracini, in merito a questa risposta di Guido a Dante: “Questo spirito cosi guardingo e ragionatore, si dimostra ciecamente ignaro dell’errore che lo insidia al fondo della sua stessa argomentazione... il dannato è qui tragicamente cieco; più parla sicuro, più poeta e lettore lo vedono brancolare nel vuoto. Dapprima una ipotesi data come irreale (s’io credessi ... starìa), poi sopraggiunge un più forte e più certo argomento (ma però... ), appena attenuato dall’ombra di un dubbio, prospettato per altro come assurdo (s’i’ odo il vero); infine la conclusione ciecamente decisa: sanza tema d’infamia ti rispondo”.
Fui guerriero, e poi frate francescano, ritenendo che, cinto da quel cordiglio, avrei riparato (alle mie colpe); e sicuramente ciò che io credevo si sarebbe avverato del tutto,
se non fosse stato per il papa, che mal gliene incolga!, che mi ece ricadere nei peccati di prima; e voglio che tu ascolti in qual modo e perché.
Finché fui il principio informativo (forma lui: in quanto anima, nel significato solito della Scolastica) del corpo che mi diede mia madre (cioè: finché fui vivo), le mie azioni non furono il risultato della forza, ma dell’astuzia (di volpe).
Io conobbi tutte le astuzie e tutti i raggiri, e li usai così bene, che la loro fama raggiunse  i confini del mondo.
Quando mi accorsi di essere arrivato a quell’età (la vecchiaia) in cui ognuno dovrebbe ammainare le vele e radunare le sartie,
quello che prima mi era piaciuto, allora mi dispiacque, e dopo essermi pentito e confessato mi feci frate; ah povero infelice!, e ciò mi avrebbe giovato.
L’immagine contenuta nel verso 81 è svolta ampiamente in un passo del Convivio (IV, XXVIII, 3 e 8) ove è fatto anche l’elogio di Guido da Montefeltro: “la naturale morte è quasi a noi porto di lunga navigazione e riposo. Ed è così: [ché], come lo buono marinaio, come esso appropinqua al porto, cala le sue vele, e soavemente, con debile conducimento, entra in quello; così noi dovemo calare le vele delle nostre mondane operazioni e tornare a Dio con tutto nostro intendimento e cuore, sì che a quello porto si vegna con tutta soavìtade e con tutta pace... Certo lo cavaliere Lancelotto non volse entrare con le vele alte, né lo nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano. Bene questi nobili calaro le vele delle mondane operazioni, che nella loro lunga etade a religione si rendero, ogni mondano diletto e opera disponendo”.
Il capo (Bonifacio VIII) dei Farisei dei nostri giorni, conducendo una guerra vicino a Roma, e non contro Saraceni né contro Ebrei (cioè contro i nemici della religione cattolica),
giacché ogni suo avversario era cristiano, ma nessuno era stato a conquistare Acri né a commerciare nel paese dei Sultano,
non rispettò in sé né l’elevato incarico né gli ordini sacerdotali, né in me quel cordone francescano che rendeva un tempo più magro chi se ne cingeva.
Bonifacio VIII (cfr. canto XIX, versi 52~57) è chiamato il più grande (questo il significato del termine principe) dei Farisei moderni; il sarcasmo dei Poeta coinvolge nella medesima condanna il papa, considerato responsabile del suo esilio e del trionfo del partito dei Neri in Firenze, e le alte gerarchie ecclesiastiche del suo tempo. I Farisei sono tacciati nel Vangelo di ipocrisia; alla doppiezza di Bonifacio VIII Dante ha già fatto riferimento nel canto VI, verso 69 (con la forza di tal che testé piaggia). Scrive il Chimenz: “la tremenda perifrasi iniziale (lo principe de’ nuovi Farisci), benché così carica di disprezzo, non suona come ingiuria da persona a persona: Fariseo Bonifazio, ma Farisei anche gli altri prelati di cui egli è il capo: la condanna generale attenua quella particolare: Bonifazio risulta solo l’esponente di una situazione generale, della degenerazione globale della Chiesa. La posizione dei dannato rispetto a Bonifazio appare, in questa requisitoria, identica a quella di Dante: li muove entrambi l’odio personale per un danno ricevuto, ma in entrambi l’odio è purificato e redento, trasformatosi in passione morale. La requisitoria non sarebbe diversa sulla bocca di Dante stesso”.
Presso San Giovanni in Laterano sorgevano le case dei Colonna, e contro di loro che non avevano riconosciuto la validità della sua elezione al trono pontificio, Bonifacio VIII intraprese nel 1297 una campagna militare conclusasi, dopo diciotto mesi, con la presa del castello di Palestrina.
L’episodio del consiglio fraudolento dato da Guido da Montefeltro a Bonifacio VIII e riguardante la presa della roccaforte dei Colonna, Palestrina (cfr. versi 102 e 110-111 ) , è con tutta probabilità soltanto una leggenda, assai diffusa peraltro ai tempi del Poeta. Essa è considerata fatto realmente accaduto dal cronista bolognese Francesco Pipino e dal ferrarese Riccobaldo, i quali narrarono l’evento senza conoscere il racconto, fattone da Dante.
Il verso 89 si riferisce alla conquista nel 1291, da parte dei musulmani. di San Giovanni d’Acri, ultima delle città rimaste in mano dei cristiani in Terrasanta dopo le Crociate, laddove il verso 90 allude ai divieti - a più riprese emanati dai pontefici (da Innocenzo III a Niccolò IV e allo stesso Bonifacio VIII) - di commerciare nelle terre degli infedeli.
Il verso 93 contiene un implicito riferimento ad un rilassamento dei costumi nell’ordine francescano. “Quanto più ampio il quadro storico e risonante di sdegno etico e politico, tanto più ree appaiono le persone: indegno e folle il papa che qui diventa protagonista, indegno il monaco tentato, meschini i francescani appena appena tratteggiati...”  (Terracini)

Ma come l’imperatore Costantino mandò a chiamare dalla grotta dei monte Soratte papa Silvestro I per essere guarito dalla lebbra, così quegli mi fece andare da lui come medico
per guarirlo dalla febbre della sua superbia: mi chiese consiglio, e io tacqui, perché le sue parole mi sembrarono dissennate.
Nel Medioevo era assai diffusa la versione leggendaria della conversione al Cristianesimo dell’imperatore Costantino, avvenuta in seguito alla sua guarigione ad opera di papa Silvestro. Secondo l’Anonimo Fiorentino, l’imperatore, ammalato di lebbra, richiese l’intervento di papa Silvestro che, per sfuggire alla persecuzione contro i cristiani, si era rifugiato in una grotta del monte Soratte: “e elli il battezzò; e subito guarì della lebbra e credette”.
Il confronto fra la richiesta di Costantino e quella di Bonífacio VIII è nota il Bonora - amarissimo, “perché il poco di somigliante che c’è fra i due episodi di Costantino e Silvestro, di Bonifazio e Guido mette ancor meglio in luce le differenze profonde. La Chiesa e il suo capo perseguitati, un imperatore assetato di potere che riconosce nella sua malattia un castigo del cielo e si umilia a chiedere l’aiuto di colui che perseguitava, il miracolo della guarigione, la grande vittoria della Chiesa: tutto questo è nella leggenda di Costantino che Silvestro guarisce dalla lebbra. Un capo spirituale spietato verso i suoi nemici, una malattia dello spirito e non dei corpo per la quale come medico egli cerca un uomo che, dopo le tempeste della vita, aveva trovato la pace del chiostro, la richiesta non del miracolo, ma di quello che di più abietto può dare l’intelligenza, il consiglio frodolento: questo è nella storia di Bonifazio al quale Guido insegna come vincere Palestrina”.

Egli poi disse: “Non aver timore; t’assolvo fin d’ora, e tu indicami il modo di abbattere Palestrina.
E’ in mio potere chiudere e aprire. come tu ben sai, il regno dei cieli; perciò due sono le chiavi che il mio predecessore (Celestino V, che rinunciò al trono pontificio) rifiutò “.
Dopo aver rivelato, in un’espressione brutale e aliena da qualsiasi infingimento (sì come Penestrino in terra getti), la sua sete di dominio e la violenza del suo odio, Bonifacio VIII, “mascherando di unzione pia il sussulto della sua anima profana, scocca il colpo maestro della sua sacrilega astuzia [finor t’assolvo]... Ma tosto egli si risolleva alla sua superba maestà (ora maestà pontificale) nel verso lo ciel poss’io serrare e disserrare, che noi vediamo, tanta ne è l’efficacia, illuminato da uno sguardo di trionfo e accompagnato da un ampio gesto di dominio... Di sotto al variare degli atteggiamenti traspare in Bonifacio l’esasperata tensione di tutto il suo cuore verso lo scopo agognato; ma ora che egli si sente vincitore, quella tensione s’allenta nel frizzo ingeneroso verso il povero Celestino, con cui finisce la grandiosa rappresentazione diretta dell’odiato pontefice” (Rossi-Frascino).
Allora i fondati argomenti mi spinsero là dove il silenzio mi parve la risoluzione peggiore, per cui dissi: “Padre, giacché tu mi assolvi
da quella colpa in cui ora devo cadere, promettere molto e mantenere poco ti faranno trionfare (sui tuoi nemici) nell’eccelso tuo trono”.
Molto persuasiva è l’interpretazione avanzata dal Chimenz del mutamento avvenuto nell’animo di Guido dopo la assoluzione anticipata impartitagli dal pontefice, mutamento che si riflette nella struttura sintattica e stilistica dei versi 108-111: “Fissati i termini del patto, che le pause imposte dalla fine del verso dopo: lavi e cader deggio sembrano rendere incrollabili, improvvisamente il frate appare liberato da ogni esitazione e da ogni scrupolo. La sua mente, ora sgombra, ha pronta la risposta conveniente alla sua richiesta: il suo pensiero è lucido e preciso; la sua parola ha la fredda e lapidaria sicurezza delle sentenze del Machiavelli. Il consiglio infatti, come è stato finemente osservato, non è formulato come tale (Terracini), ma come una sentenza, come asseverazione di cosa indiscutibilmente certa, un assioma scientifico”.
Secondo la tesi accolta dal Poeta, Bonifacio VIII avrebbe indotto, su consiglio di Guido da Montefeltro, i Colonna alla resa mediante promesse (tra cui quella di accogliere di nuovo nel collegio cardinalizio Jacopo e Piero Colonna, che ne erano stati scacciati) che poi non avrebbe mantenuto. Gli storici propendono tuttavia oggi a ritenere che il pontefice costrinse i Colonna, asserragliati nella rocca di Palestrina, alla resa incondizionata.

Giunse poi San Francesco, non appena fui spirato, per prendere la mia anima; ma uno dei diavoli gli disse: “Non portarla via con te: non farmi torto.
Egli deve venire nell’inferno tra i miei sudditi perché ha dato il consiglio ingannatore, dopo il quale sono stato sempre pronto ad afferrarlo per i capelli;
non si può infatti assolvere chi non si pente. né è possibile pentirsi e peccare al tempo stesso perché è cosa contraddittoria “.
Oh misero me! come trasalii quando mi ghermì dicendomi: “Forse non pensavi che io fossi logico!”
In una pagina dedicata al diavolo loico il De Sanctìs magìstralmente chìarìsce il sottofondo ironico del contrasto, ricalcato sugli schemi tipici delle “sacre rappresentazioni” medievali, tra il candido, serafico fondatore dell’ordine cui Guido apparteneva e il nero cherubino, l’arcangelo ribelle che il male non ha privato della capacità di cogliere con coerenza implacabile, al di là delle apparenze, l’essenza delle cose: “Vi è oggi una logica colla quale si cerca di giustificare questi mancamenti di fede; ma la logica è vecchia; e Guido aveva ancora la sua: - Di che mi potete riprendere? Io ho commesso un peccato; ma il papa mi aveva prima assoluto -. Ma non è vero. - Tu peccasti perché avevi paura, perché temevi che dal tuo silenzio non te ne venisse alcun male -. Di sotto alla ragione apparente vi è la vera ragìone, che Dante con una profonda intelligenza del cuor umano gli fa involontariamente uscire dal labbro. Guido mentre visse poté ingannare gli altri; due sole persone non poté ingannare: se stesso ed il demonio, o piuttosto l’altro se stesso, la sua coscienza fatta demonio accusatore. Morto, mentre San Francesco sta per recarselo in paradiso, eccoti un « ferma! » del demonio, che ti sfodera la sua logica, una logica ironica; in tono da cattedratico, contraffacendo i dottori scolastici di quel tempo, tra i quali era Guido, ti fa anch’egli il suo sillogismo in tutte le regole, fondato sul principio di contraddizione”.
Mi condusse da Minosse; e quello avvolse otto volte la coda intorno al suo duro dorso; e dopo essersela morsicata per la grande ira,
disse: « Costui è uno dei peccatori  che il fuoco sottrae alla vista”; perciò io sono dannato nel luogo che vedi, e così avvolto dalle fiamme, camminando, mi cruccio. »
Quando ebbe così finito di parlare, la fiamma si allontanò gemendo di dolore, torcendo e dibattendo la punta aguzza.
Noi proseguimmo oltre, sia io che Virgilio, su per il ponte fino al successivo che copre la bolgia nella quale è scontata la pena
da parte di coloro che, suscitando discordia, si gravano del peso della colpa.

 

Inferno – Canto XXVIII

Chi mai potrebbe sia pure in prosa parlare compiutamente del sangue e delle ferite che vidi allora, anche se le descrivesse più volte?
Certamente ogni lingua sarebbe inadeguata  a causa del nostro linguaggio e del nostro intelletto che hanno poca capacità  a contenere fatti così straordinari.
Se anche si riunisse tutta la gente che un tempo nella fortunosa terra di Puglia si dolse delle sue ferite
per opera dei Romani (Troiani: in quanto discendevano da Enea e dai suoi compagni) e a causa del lungo conflitto che fruttò un così ingente bottino di anelli, come narra Livio, il quale non sbaglia,>
con quella che provò dolori di ferite riportate nell’opporsi a Roberto Guiscardo, e con l’altra le cui ossa sono tuttora raccolte
a Ceprano, là dove ogni pugliese fu traditore, e là presso Tagliacozzo, dove il vecchio Alardo vinse senza far uso delle armi,
e ostentasse chi un suo membro trafitto e chi un suo membro mutilato, non sarebbe possibile uguagliare l’aspetto ripugnante della nona bolgia.
L’esordio di questo canto non si concreta, come quelli di altri canti di Malebolge, in un quadro amorosamente delineato in tutti i suoi particolari, in una “miniatura” vivente di vita propria nella desolazione dell’atmosfera infernale. Esso propone già in maniera esplicita gli elementi fondamentali del canto, caratterizzato dal “sistematico alternarsi della descrizione delle mutilazioni infernali alla rievocazione di battaglie e di stragi terrene” (Fubini).
Per il Momigliano questa apertura di canto ricorda, per la sua “intonazíone oratoría”, quella del canto dei simoniaci, pur risultandone, nel suo analitico dispiegarsi, meno vigorosa. Non a torto tuttavia il Fubini respinge questa presa di posizione, sottolineando che questo esordio, “così classicamente atteggiato, viene a conferire sin dall’inizio una dignità classica a una materia per se stessa e per non pochi dei modi in cui si atteggia, lontana dall’antica poesia, quasi a render più esplicita la ambizione dantesca di assumere anche una materia così tipicamente medievale entro un’arte che ai classici guarda come suo costante punto di rìferimento”. Il richiamo alla tradizione classica è evidente nella preterizione della prima terzina e nell’affermazione del verso 4, che riecheggiano due passi dell’Eneide (Il, versi 361-362 e VI, versi 625-627), nell’ampio, armonico distendersi dei periodi, nelle perifrasi, nel termine fortunata, riferito ad una terra, veduta, nel succedersi dei secoli, come ricettacolo di stragi e di desolazione (l’ossame che ancora rende illustre Ceprano), nella menzione di Livio definìto peraltro, medievalmente, colui che non erra e nel ricordo delle guerre sannitiche e puniche. La rappresentazione delle pene dei dannati della nona bolgia, i seminatori di discordia, sarà caratterizzata dalla scelta di vocaboli e forme “propri della più greve tradizione « comica »” (Fubini); le forme di questo esordio rappresentano invece un chiaro esempio di ciò che per Dante era lo stile «tragico », proprio dei poemi dell’antichità e delle « canzoni » medievali. A questo proposito occorre rilevare la somiglianza fra quest’apertura di canto e i versi con cui inizia il Compianto per la morte del Re giovane del trovatore Bertran de Bom (cfr. versi 133-135) che scrisse liriche di carattere eroico e celebrò la gloria dei guerreggiare: “Se tutti i duoli, gli affanni, i dolori, le sventure e le miserie, che mal si udirono in questo mondo dolente, fossero riuniti insieme, sembrerebbero tutti lievi a paragone della morte dei giovane re inglese”. Tra le guerre che insanguinarono la Puglia (nome con il quale viene qui designato l’intero regno di Napoli) il Poeta accenna, in questo esordio, a quelle contro i Sanniti (343-294 a. C.); alla seconda guerra punica, che culminò nella battaglia di Canne (216 a. C.), nella quale il numero dei cavalieri e senatori romani caduti in combattimento contro le milizie di Annibale fu così alto, secondo quanto racconta Tito Livio (XXII, 6; XXIII, 7 e 12), che con i loro anelli fu formato un cumulo di tre moggia; alla campagna condotta da Roberto il Guiscardo, capo dei Normanni e in seguito duca di Puglia e di Calabria (1059-1084), contro i Saraceni, che occupavano l’Italia meridionale; alla battaglia di Benevento (1266) combattuta dalle truppe guelfe al comando di Carlo I d’Angiò contro l’esercito ghibellino di Manfredi e vinta dai Guelfi, secondo la voce alla quale Dante mostra di dar credito, per il tradimento dei baroni meridionali, che si rifiutarono di difendere il passo di Ceprano sul fiume Liri; a quella di Tagliacozzo (1268), in cui le truppe imperiali, guidate dall’ultimo imperatore della casa di Svevia, Corradino, vennero sconfitte con l’astuzia (sanz’arme) da Erard di Valéry, uno dei consigheri di Carlo I d’Angiò.

Una botte, per il fatto che ha perduto la doga mediana o una delle laterali, non si apre  certo  così, come io vidi (aprirsi) un dannato, squarciato dal mento all’ano :
gli intestini gli pendevano tra le gambe; gli si vedevano le interiora (la corata: polmoni, cuore, fegato, milza) e il lurido involucro che trasforma in sterco ciò che si inghiotte.
Acutamente il Momigliano rileva che la figura del dannato, così come è descritta in queste due terzine, “sembra, più che un grande mutilato di una delle battaglie accennate nell’esordio, un disgustoso pezzo anatomico”, mentre il Sanguineti, dal canto suo, osserva che “ l’esplorazione anatomica, sul motivo del sangue e delle piaghe, del forato, e del mozzo... giunge a questo sezionare crudele ed esperto, che si compiace del dettaglio acre e crudo, freddamente avanzato, con tutta la diligenza di una risentita inchiesta: in tale sentimento di penetrante analisi è la stessa carica etica del canto, che si fa tecnica e tagliente parola”. In particolare la funzione delle perifrasi (infin dove si trulla... ‘l tristo sacco che merda la di quel che si trangugia) “qui non è già quella di equilibrare la tensione della puntualità linguistica e il suo aspro colore con una qualche distensione compensatrice, o con attenuata cautela rappresentativa, ma nasce, proprio all’opposto, da una violenta intenzione degradante”.
Mentre avidamente fissavo lo sguardo su di lui, mi guardò, e si aperse il petto con le mani, dicendo: « Vedi dunque come mi lacero!
vedi come è straziato Maometto! Davanti a me lagrimando cammina Alì, spaccato nel volto dal mento ai capelli.
Maometto (560-633 d. C.), fondatore della religione isiamica, è posto nella bolgia in cui sono puniti i seminator di scandalo e di scisma per aver determinato un’ulteriore divisione religiosa fra i popoli. Una credenza diffusa nel Medioevo vedeva in lui un cristiano che aveva abiurato alla propria fede e addirittura un cardinale che aveva aspirato al papato.
Ali Ebn Abi Talid (597-660 d. C.), cugino e genero di Maometto, introdusse, nell’ambito della religione islamica, i germi della scissione, fondando una setta che si staccò dall’ortodossia musulmana. Rispetto a quella di Ali, che ha solo il volto spaccato in due, la lacerazione di Maometto è più atroce, più grave essendo stata la discordia da quest’ultimo introdotta nel mondo.

E tutti gli altri che vedi in questo luogo, furono da vivi seminatori di discordia e di scissione, e perciò sono così spaccati.
Qui dietro è un diavolo che ci acconcia in modo tanto crudele, sottoponendo di nuovo  ciascuno di questa turba al taglio della sua spada,
quando abbiamo fatto il giro della bolgia dolorosa; poiché le ferite sono rimarginate prima che ciascuno di noi gli ritorni davanti.
Ma chi sei tu che ti trattieni a guardare sul ponte, forse per ritardare di andare al castigo  che è assegnato in giudizio in base a ciò di cui tu stesso ti sei accusato (davanti a Minosse; cfr. canto V, versi 7-8) ? »
«Né morte ancora lo ha raggiunto, né lo spinge il peccato » rispose Virgilio « a subire la pena; ma per dargli una conoscenza completa delle pene infernali,
io, che sono morto, debbo guidarlo quaggiù attraverso l’inferno di cerchio in cerchio: e ciò è vero com’è vero che ti sto parlando. »
Furono  più di cento le anime che, quando lo intesero, si fermarono nella bolgia a fissarmi  dimenticando, per lo stupore. il loro tormento.
« Dì dunque, tu che forse vedrai il sole tra poco, a fra Dolcino, se non vuole seguirmi all’inferno fra breve, di provvedersi
di vettovaglie, in modo che l’assedio causato dalla neve non consenta al vescovo di Novara  quella vittoria, che non sarebbe facile conquistare in altro modo. »
Il novarese Dolcino Tornielli, appartenente alla setta dei Fratelli Apostolici fondata dal parmense Gherardo Segarelli, dopo che quest’ultimo fu bruciato vivo nel 1296, raccolse un gran numero di seguaci nel Trentino e in altre regioni dell’Italia settentrionale. Anche egli, non diversamente da Maometto, si vantava profeta, predicando, tra l’altro, l’abolizione della gerarchia ecclesiastica e la comunanza dei beni e delle donne. Contro di lui fu bandita da Clemente V una crociata, alla quale parteciparono vescovi, feudatari e comuni. Costretto ad arrendersi per mancanza di cibo e per la caduta di un’abbondante nevicata sul monte Zebello (nel Biellese), ove si era rifugiato con i suoi seguaci, fu condannato a morte e giustiziato nel 1307. Il verso 60 contiene un’allusione alla strenua resistenza che Dolcino e i suoi fedeli opposero all’esercito dei Crociatí. I critici hanno fornito varie interpretazioni in merito al consiglio che Maometto prega di trasmettere a Dolcino. “E’ scherno verso l’aspettato compagno che non potrà rompere la cerchia di nemici e di ghiaccio, o ingenua solidarietà? Ammirazione per lo strenuo combattente, o derisione dei suoi sforzi?” si chiede lo Zingarelli, laddove il VossIer è convinto che la visione di Dolcino assediato e ridotto ad arrendersi per fame riempia di gioia Maometto. Considerazioni del genere rischiano tuttavia - in un canto come questo. nel quale l’attenzione del Poeta è in primo luogo presa dal modo della pena, dall’orrore (che in essa visibilmente si esprime) per quanto vi è di peccaminoso nell’aizzare all’odio, nel negare, attraverso la discordia e la anarchia, i principii dell’umano convivere - di apparire eccessive. Opportunamente scrive in merito il Fubini: “moto e vita porta nel canto quella improvvisa profezia-consiglio di Maometto, tanto diversa nella sua vivacità da tutto quel che precede e sulla quale vano sarà al solito voler psicologicamente sottilizzare, discutendo sulla opportuni. tà di un consiglio effettivamente inutile o su di una pretesa malizia di quel dannato, per non sentirvi altro che una commossa partecipazione del Poeta a un avvenimento prossimo al tempo in cui scriveva, la commozione per quella difesa disperata di fra Dolcino (che non implica un’approvazione dell’opera dell’eretico) “.
Dopo che aveva sollevato uno dei piedi per andarsene, Maornetto mi disse queste parole; quindi lo riappoggiò in terra per allontanarsi.
Anche l’atteggiamento di Maometto, il quale parla tenendo un piede sospeso e lo poggia a terra solo dopo aver terminato la sua profezia, è stato variamente interpretato. V. Rossi lo ha definito un atteggiamento da “ballerino” (metafora in verità non troppo indovinata tenuto conto di quelli che sono gli elementi di maggior rilievo del canto: l’orrore, l’osservazione spietata e precisa di piaghe e mutilazioni), mentre il Momigliano, per caratterizzarlo, ricorre anch’egli a un’immagine umoristica, quella della “cicogna”. Dante, secondo questi critici. si prenderebbe gioco del dannato, scomponendo analiticamente nelle sue fasi successive un movimento che, nella normale percezione delle cose, cogliamo nella sua unità. Effettìvamente in questa terzina Maometto prende ai nostri occhi l’aspetto di un manichino, di un fantoccio privo di vita e mosso da una volontà che non è la sua (il Fubinì parla, a proposito di questa e altre immagini analoghe del poema, di “rigidità burattinesca”, senza peraltro vedere, nel caso di Maometto, l’aspetto tragico - espressione della sua condizione di dannato - che essa riveste).
Un altro, che aveva la gola bucata e il naso mozzato fin sotto le ciglia, e non aveva più che un solo orecchio
fermatosi a guardare per lo stupore con gli altri, prima degli altri spalancò la gola, che da ogni parte era di fuori insanguinata,
e disse: « O tu che nessun peccato condanna e che io conobbi in Italia, se non mi trae in inganno
ricordati di Pier da Medicina, se mai torni a vedere la dolce pianura che scende da Vercelli a Marcabò.
Su Pier da Medicina non si hanno notizie sicure. Appartenne ad una famiglia nobile che governò l’omonima cittadina Romagnola; di lui i commentatori antichi dicono che fu promotore di discordie tra i nobili di Bologna e tra i comuni di Bologna e Firenze. Benvenuto da Imola sostiene che Dante fu ospite alla corte di questi feudatari.
La pianura padana è indicata (verso 75), attraverso una perifrasi, come quella che si stende da Vercelli al castello di Marcabò (o Marcamò), edificato dai Veneziani alla foce del Po di Primaro, a difesa dei loro commerci. Questa perifrasi è pervasa da un senso di struggente nostalgia e può essere, per taluni aspetti, avvicinata a quella con cui Francesca designa la sua terra natale (nel verbo dichina è come una eco della stanchezza che nelle parole di Francesca - canto V, versi 98-99 - spinge il Po a cercar pace, insieme con i suoi affluenti, nell’Adriatico).

E informa i due più ragguardevoli cittadini di Fano, messer Guido e anche Angiolello, che se la preveggenza nell’inferno non è errata,
saranno gettati fuori della loro nave, e affogati presso Cattolica per il tradimento di uno sleale tiranno.
Guido del Cassero e Angiolello di Carignano furono uccisi, secondo alcuni, nel 1312, poco dopo che Malatestino da Verrucchio (cfr. canto XXVII, verso 46) successe al padre nella signoria di Rimini. Il fatto non è comunque storicamente accertato. Così il Lana illustra la profezia di Pier da Medicina: Guido del Cassero e Angiolello di Carignano “furon richiesti da Malatestino de’ Malatesti da Arimino di parlamentare insieme per provvedere al buono stato della contrada; e ordinonno lo parlamento alla Cattolica, per luogo comunale: seppe sì ordinare lo detto Malatestino, ch’elli li fece uccidere”.
Fra le isole di Cipro e di Maiorca Nettuno non vide mai un misfatto così grande, né da parte di pirati, né da parte di Greci.
Nota finemente il Malagoli che “l’accento di sdegno del peccatore contro il tradimento fello di Malatestino si congiunge al senso della propria colpa, che emana dalle prime parole (tu cui colpa non condanna, verso 70) e al tremito di delicati affetti che anima i versi successivi; e anche in seguito, quando l’anima presenterà a Dante un altro peccatore, il senso del peccato e della colpa spira dalle parole (versi 96-99)”.
Quel traditore (Malatestino da Verrucchío, cieco d’un occhio) che vede soltanto con un occhio, e signoreggia la città  che uno che è qui con me vorrebbe non aver mai visto,
li inviterà a un abboccamento con lui; dopo farà in modo che essi non avranno più bisogno  né di voti né di preghiere per scampare dal vento dei monte Focara ».
Il Lana spiega che “Focara è un luogo sopra mare nella Marca, tra Pesaro e la Cattolica, in lo qual luogo è spesso di gran fortune [tempeste]; e usano molto li marinari, che si trovano in quello luogo al tempo della fortuna, di pregare Dio e li santi e di fare molti voti”; i versi 89-90 stanno quindi a significare che Guido e Angiolello saranno uccisi prima di giungere in quel luogo. L’atroce fatto di sangue che il dannato pronostica a Dante non ha nulla di indeterminato, non si cela nelle immagini enimmatiche che rendono così potentemente suggestive altre profezie di dannati (per esempio quella di Vanni Fucci). Ma la cornice in cui esso si svolge conferisce alle sue esatte determinazioni (la perifrasi del verso 85 incombe tuttavia minacciosa, senza circostanziarsi: il traditor che vede pur con l’uno vi assume dimensioni gigantesche: quelle dei male insondabile) il respiro della tragedia. Osserva il Momigliano che la terzina 82-84 “dà al fatto proporzioni straordinarie” e che “l’orizzonte immenso del Mediterraneo lo allarga fantasticamente”, mentre l’espressione poi farà sì, ch’al vento di Focara... “ha la medesima latitudine di quell’orizzonte marino. E per effetto di questo racconto di stile così unitario il truce fatto è circondato costantemente da una potente ventata di fortunale”.
E io a lui: « Mostrami e spiegami, se vuoi che io rechi nel mondo notizie di te, chi è colui al quale è stata dolorosa la vista (di Rimini) ».
Allora appoggiò la mano sulla mascella di un suo compagno e gli aprì la bocca, gridando: « E’ proprio lui, e non parla.
Costui, esiliato (da Roma), tolse a Cesare ogni esitazione, sostenendo che chi è preparato  sempre sopporta con danno l’indugio ».
Oh quanto mi sembrava avvilito con la lingua recisa nella gola, Curione, che fu così audace nel parlare!
Secondo quanto narra Lucano nella Farsaglía (I, versi 261 sgg.), il tribuno della plebe Caio Curione, costretto a fuggire da Roma perché troppo apertamente aveva preso le parti di Cesare, convinse il triumviro reduce dalla Gallia a varcare il Rubicone con queste parole: “Mentre i partiti trepidano, non consolidati da alcuna forza, tronca gli indugi: è sempre stato dannoso dilazionare le cose già pronte”. Egli appare agli occhi di Dante come il vero responsabile della guerra civile tra Cesare e Pompeo, e quìndi, in quanto seminatore di discordia, colpevole. “Considerato in se stesso e nelle sue conseguenze immediate, il consiglio da lui dato a Cesare fu la causa della sua dannazione; ma fu quel consiglio che liberò al volo inenarrabile il sacrosanto segno dell’aquila [cfr, Paradiso canto VI) e scatenò gli eventi onde per volere di Roma nacque l’Impero. Talché se Cesare, « primo principe sommo ». è tra gli spiriti magni nella luce del nobile castello (Inferno IV, verso 123) e Curione quaggiù nella nona bolgia sozza, questi ci appare come lo strumento inconsapevole e la vittima tragica della sacra volontà della storia.” (RossiFrascino)
Da notare la cruda contrapposizione, messa in maggiore evidenza dalla rima, tra l’audacia di un tempo - irresponsabile leggerezza di chi sommerse in Cesare ogni esitazione - e lo sbigottimento attuale del dannato, posto non solo in condizione di non poter parlare, di non poter giustificare in un modo qualsiasi il suo operato, ma condannato quasi a non essere più in grado di afferrarne il significato. Privato della parola, Curione sembra non aver più nemmeno la facoltà di pensare: non ha vita propria, è ormai soltanto un fantoccio dolorante, un monito terribile proposto alla meditazione di chi ha ancora la possibilità di salvarsi.

E uno che aveva entrambe le mani tagliate, alzando i moncherini nell’aria tenebrosa, così che il sangue gli imbrattava il volto,
urlò: « Ti ricorderai anche del Mosca, che dissi, ahimè!, “Cosa fatta non può disfarsi, parole che furono origine di sventure per i Toscani ».
E io replicai: « E rovina della tua stirpe »; per cui egli, aggiungendo dolore a dolore, se ne andò via come una persona esacerbata e fuori di sé.
A Mosca dei Lamberti (cfr. Inferno VI, verso 80) gli storici fiorentini del Trecento fanno risalire la divisione dei cittadini di Firenze in Guelfi e Ghibellini, seguita all’uccisione (1215), ad opera della famiglia degli Amidei, di Buondelmonte dei Buondelmonti. Non avendo quest’ultimo mantenuto fede alla promessa di sposare una fanciulla degli Amidei, costoro si radunarono insieme ai loro consorti per decidere sul modo di punirlo. Fu in quell’occasione che “il Mosca de’ Lamberti disse la mala parola: « Cosa fatta, capo ha », cioè che fosse morto: e così fu fatto” (Villani - Cronaca V, 38). Mosca dei Lamberti morì a Reggio, dove ricopriva la carica di podestà, nel 1243. I Lamberti furono banditi da Firenze, insieme con gli altri Ghibellini, nel 1258 ed esclusi dai provvedimenti di amnistia dei 1268 e 1280, anno a partire dal quale non si sa quasi più nulla di loro. La presentazione che il Poeta fa della figura di questo peccatore, promotore anch’egli, come Curione, di una lunga vicenda di odi e di violenze (ma annoverato, nell’episodio di Ciacco, tra coloro ch’a ben far puoser, li ‘ngegni), è tragica. priva delle sottolineature grottesche le quali rendono mostruose, irriducibili ad una misura umana, le figure di Maometto o di Curione. Mosca è consapevole del male che ha arrecato a sé (la dannazione), a Firenze, alla sua stirpe. “Lo lacerano il sentimento della patria e quello della famiglia: e questo fa più acuto l’altro. Botta e risposta, dogliose ed acri, che riconducono il pensiero nostro alla scena tra il Poeta e Farinata.” (Crescini)
Ma io restai a osservare fissamente la schiera dei dannati, e vidi una cosa, che avrei timore di riferire da solo, senz’altra testimonianza,
ma mi rende sicuro la coscienza, che è la valente compagnia che infonde coraggio all’uomo sotto la protezione della sua purezza.
Senza alcun dubbio vidi, e mi pare ancora di vederlo, un tronco privo di testa camminare come camminavano gli altri dannati della sciagurata schiera
e con la mano teneva sospeso per i capelli il capo mozzato come fosse stato una lanterna; e quello ci guardava, e diceva: « Ohimè! »
Il dannato che avanza, con passo in tutto simile a quello dei suoi compagni di pena (come nota il Momigliano, dopo che il verso 118 ha sottolineato “l’allucinante evidenza della visione”, la frase successiva “mette dinanzi agli occhi l’incredibile naturalezza di quel camminare di un busto senza capo”), tenendo in mano la propria testa a guisa di lanterna (immagine suggerita dalla presenza nella testa degli occhi e del cerebro - cfr. verso 140 - l’organo attraverso cui istituiamo un ordine, una luminosa evidenza nel mondo e in noi stessi), è Bertran de Born, signore dei castello di Hautefort in Aquitania e rinomato poeta provenzale. Vissuto nella seconda metà del secolo XII, fu amico di Enrico Il, re d’Inghilterra e duca d’Aquitania, e del figlio di lui, Enrico III soprannominato il Re giovane, che il padre aveva associato al trono. Dante accoglie la voce second o la quale Enrico III si ribellò al padre dietro i consigli di Bertran de Born.
Acuta e suggestiva è l’analisi che della presentazione di questa figura fa V. Rossi: “Il busto, privo di testa e quindi senza occhi, camminava guidato da’ « suoi » occhi, come il capo privo del busto e delle gambe, portato dalle « sue » gambe. Ma nella potente frase dantesca (verso 124) il busto e il capo diventano una cosa sola (di sé... a sé) , perché, scissi, li unifica l’unità dello spirito... La volontà dello spirito uno s’attua in associazioni di moti novissime e miracolose (versi 128-129), secondo la novissima e miracolosa condizione del corpo duplice ed uno... Lo sfondo insanguinato (verso 2) svanisce ormai nella lontananza... la fantasia del Poeta appare liberata dalla purpurea ossessione del sangue, è tutta assorta in un religioso stupor di miracolo”.

Con gli occhi della propria testa guidava il suo corpo, ed erano due parti in un corpo e un corpo in due parti: come ciò può avvenire, lo sa Dio che così dispone.
Quando si trovò proprio alla base del ponte, levò alto il suo braccio insieme con la testa, per farci giungere meglio le sue parole,
che furono: « Osserva dunque la pena angosciosa tu che, vivo, te ne vai guardando i morti: vedi se ce n’è una straziante come la mia.
E affinché tu possa recare notizie di me, sappi che io sono Bertran de Born, colui che diede al Re giovane i cattivi consigli.
Feci diventare il padre e il figlio nemici tra loro: Achitofel non causò maggior danno ad Assalonne e a Davide con i suoi perfidi incitamenti.
Achitofel, consigliere di Davide, istigò Assalonne a ribellarsi al padre e ad ucciderlo (II Samuele XV, 12 sgg.; XVI, 15 sqg.; XVII, I sgg.), Riguardo all’espressione in sé ribelli, il Mattalia rileva che, essendo tanto Enrico Il d’Inghilterra che suo figlio Enrico III investiti dell’autorità regia, “erano due-uno [cfr. verso 125; un’espressione analoga ricorre nella descrizione della seconda metamorfosi della bolgia dei ladri; Interno XXV, 77]. e ognuno, ribellandosi all’alter ego, veniva a trovarsi in stato di ribellione anche contro se stesso. Solo così interpretando si può spiegare come l’idea del reato di ribellione si possa applicare a un padre nei confronti del figlio”.
Poiché io divisi persone così unite, reco il mio cervello diviso, misero me!, dalla sua orìgine (principio: il midollo spinale) che sta in questo busto.
In tal modo è applicata nella mia persona la legge del contrappasso ».
La formulazione teorica del contrappasso è in San Tommaso (Summa Theologica II. II, 61,4): “La forma dei giudizio divino è che uno soffra secondo quello che ha fatto, secondo  il  detto di Matteo (VII, 2): sarete giudicati col giudizio con cui avrete giudicato; e sarete misurati con la misura con la quale avrete misurato. Perciò la giustízia si identifica semplicemente con il contrappasso”.

 

 

Fonte: http://digilander.libero.it/vasciarellipc/sezione_scuola.htm

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