Verga e il verismo, vita opere di Giovanni Verga

 

 

 

Verga e il verismo, vita opere di Giovanni Verga

 

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Verga e il verismo, vita opere di Giovanni Verga

 

I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo, di Giovanni Verga

Verga verista: una lezione di realismo e di impegno civile
Benché l’opera narrativa di Giovanni Verga sia ampia e variegata, questo capitolo punta sui due capolavori romanzeschi della sua cosiddetta fase verista, cioè le opere di quel decennio circa (fine anni Settanta-anni Ottanta dell’Ottocento) nelle quali egli è fedele ai princìpi e alle tecniche espressive del cosiddetto verismo (un’etichetta italiana equivalente al naturalismo francese), e in cui applica quei princìpi e quelle tecniche alla rappresentazione della sua terra natale, la Sicilia del suo secolo: I Malavoglia (1881) e Mastro-don Gesualdo (1889; a questi romanzi bisogna aggiungere le novelle, raccolte in Vita dei campi, 1880, e Novelle rusticane, 1882). Questa preferenza è fondata su una convinzione che da decenni è data per scontata presso la critica e nei manuali: il Verga verista è, insieme con Manzoni, il più grande narratore realista dell’Ottocento, e il co-fondatore del romanzo moderno (cioè del romanzo realista) in Italia; è una tesi oggi ovvia, ma che qui è opportuno esplicitare e motivare.
Gli argomenti a sostegno di questa tesi (che qui elenchiamo sommariamente per riprenderli poi più in dettaglio) consistono nei caratteri più importanti della visione e della pratica della letteratura così come si possono enucleare dalla stagione verista di Verga, e che possiamo (semplificando per comodità) ricondurre a due esigenze fondamentali: il realismo applicato alla rappresentazione della società contemporanea e in particolare delle classi umili, e l’impegno letterario e civile derivante da tale scelta.
1) Verga adotta, dalla cultura a lui contemporanea e precisamente dal positivismo e dal naturalismo francesi (XXXXXRINVIO?), una concezione della narrativa (novella e romanzo) come strumento di rappresentazione veritiera della psicologia individuale e dei meccanismi collettivi profondi della società contemporanea, vale a dire i meccanismi economici e sociali che producono il mutamento storico, “il progresso”, per usare un termine diffusissimo nella cultura ottocentesca. La letteratura, cioè qui la narrativa, non è affatto una forma di intrattenimento o di passatempo per il suo pubblico (la società colta, aristocratica e borghese), ma, pur essendo un’opera d’invenzione, assume la dignità di una forma conoscitiva della realtà individuale e sociale, una dignità pari a quella delle scienze sociali che proprio in quel periodo andavano sorgendo o affermandosi definitivamente (la psicologia, la sociologia, l’economia): la narrativa avrà come suo obiettivo ideale la ricostruzione ‘oggettiva’, documentaria di uno studio sulla società contemporanea.
È evidente la continuità tra questa concezione realistica della letteratura e quella manzoniana di circa cinquant’anni prima, ma è anche evidente l’avanzamento (che non dipende tanto dall’autore quanto dai suoi tempi) di tali ambizioni realistiche dalla storia passata (tramite il romanzo storico) alla storia contemporanea, e in particolare ai suoi fenomeni e movimenti nuovi e caratterizzanti studiati non in generale, ma in determinati ambienti ben noti agli scrittori: come il francese Zola (maestro riconosciuto e teorico del naturalismo e degli obiettivi ‘scientifici’ della letteratura) rappresenta e studia, nei suoi romanzi, la vita e le miserie delk proletariato parigino oppure la condizione di sfruttamento disumano degli operai vittime del grande capitalismo industriale, così il siciliano Verga rappresenta le condizioni storico-economiche della Sicilia ottocentesca attraverso le vicissitudini e le sofferenze di personaggi e di ambienti di diverse classi sociali, in particolare le classi povere oppure (come nel Mastro-don Gesualdo) la borghesia imprenditrice e poi proprietaria che nasce dall’ascesa di uomini venuti (dal punto di vista delle gerarchie sociali) dal nulla e dal parallelo declino economico dell’aristocrazia terriera. Così sulla scena dell’appena nato romanzo moderno italiano diventa protagonista l’età contemporanea, e per di più rappresentata da personaggi lontanissimi dal mondo sociale dell’autore e dei suoi lettori: personaggi che discendono dagli “umili” manzoniani, ma che acquisiscono per il lettore una fisionomia molto più storicamente definita, cioè legata al loro ambiente storico-economico e alla mentalità che è ad esso intimamente legata, eppure, paradossalmente, sono ben più lontani e poco familiari dal lettore tardottocentesco di quanto lo fossero Renzo e Lucia: gli “umili” di Verga sono pescatori, contadini, pastori analfabeti che parlano solo il loro dialetto, e anche nei casi in cui ottengono l’ascesa sociale (come Mastro-don Gesualdo) la loro provenienza originaria resterà attaccata su di loro come un marchio indelebile.
2) Da queste esigenze di rappresentazione ‘oggettiva’, e da questa volontà di ricostruzione fedele di ambienti e personaggi così lontani dalle letteratura borghese e dal suo pubblico, discende una ricerca espressiva anch’essa nuova nella nostra letteratura: l’elaborazione di tecniche narrative che restituiscono la voce dei personaggi nel modo più fedele possibile, e quindi la mentalità e la cultura del mondo narrato attraverso le peculiarità del loro linguaggio; la conseguenza, profondamente innovativa, è la scomparsa del narratore onnisciente tipico del romanzo primottocentesco, il narratore portavoce dell’autore perché di solito si identifica esplicitamente con l’autore stesso (come il narratore dei Promessi sposi). Anche in questo campo Verga mette a frutto le idee e gli esempi del realismo francese (Flaubert) e del naturalismo, cioè la cosiddetta poetica dell’impersonalità dell’opera, secondo cui la narrazione non deve lasciare le tracce esplicite del narratore-autore, come gli interventi a commento delle vicende; tuttavia la rielaborazione di tale poetica da parte di Verga conduce a risultati di grande complessità e originalità nella nostra letteratura, che culminano nei Malavoglia. Quest’originalità formale è indissociabile dalla scoperta del contenuto nuovo costituito dalla storia e dalla società della Sicilia contemporanea, ma anche dalla visione del mondo che scaturisce dalla rappresentazione di quel contenuto: una visione dolorosa e rassegnata, ben lontana dalla fiducia nell’evoluzione storica che è tipica della cultura positivistica su cui si fonda il naturalismo francese. Rispetto ai suoi modelli francesi, quindi, il Verga verista attua un paradosso che è anche una sua invenzione geniale: la compresenza della scomparsa del narratore come portavoce esplicito dell’autore («ecclissare completamente lo scrittore», come scrive Verga in una lettera del 1881 a Francesco Torraca, uno storico della letteratura che aveva recensito i Malavoglia), e di una partecipazione profonda e di giudizio morale da parte dell’autore, nascosto dietro altre voci narranti diverse dalla sua, eppure sempre presente a orientare il giudizio del lettore. Il realismo del Verga verista è quindi ‘oggettivo’ e ‘impersonale’ (secondo le esigenze del naturalismo francese), nella rappresentazione del mondo narrato e nell’assenza del narratore onnisciente e giudicante, ma allo stesso tempo non ‘scientifico’, cioè non impassibile ma nato da un atteggiamento giudicante e non neutrale da parte dell’autore, e non ottimista (a differenza della cultura positivistica contemporanea, che crede nel progresso inevitabile dell’umanità); un realismo pessimista, se si vuole usare una formula di comodo.
3) Infine, la scelta di rappresentare (nei modi suddetti) una realtà nuova per la letteratura e la cultura italiane costituisce un contributo di grande importanza alla ‘scoperta’ che l’Italia appena nata come stato unitario fa di se stessa, portando alla luce le profonde differenze che separano il Nord e il Sud e rivelando l’arretratezza storica complessiva di cui sono prigioniere le regioni meridionali: nasce la “questione meridionale”, cioè la presa di coscienza di uno dei problemi cha da allora in poi accompagnano la storia dell’Italia contemporanea. Di questa scoperta (tutt’altro che lieta) dell’altra Italia, dell’Italia delle campagne, povera, remota e arretrata (incomparabile con l’Italia cittadina, borghese e industriale che sta cominciando ad affermarsi), Verga è la voce letteraria più importante del secondo Ottocento, e il suo contributo a tale scoperta è una forma di impegno civile; il Verga verista è quindi definibile uno scrittore ‘impegnato’, perché la rappresentazione ‘oggettiva’ della Sicilia dei suoi tempi assume implicitamente una funzione di denuncia, perché non è una rappresentazione né idillica né falsificante o di maniera. È però importante precisare che qui per ‘impegno civile’ non intendiamo affatto un impegno politico esplicito e tanto meno un impegno oggi definibile progressista (Verga fu anzi, e sempre di più col passare degli anni, un uomo di posizioni politiche conservatrici), ma un impegno nei confronti della realtà e della letteratura, un impegno civile perché letterario, almeno secondo la poetica del naturalismo: cioè l’obbligo, per lo scrittore, di rappresentare, con la maggiore fedeltà possibile, la realtà sociale contemporanea; da quest’obbligo discende il fatto che la letteratura, in quanto strumento di conoscenza e di analisi dell’individuo e della società, non può essere inutile, non può cercare di mentire, ma deve contribuire alla conoscenza della società contemporanea, non alla sua celebrazione. E poiché il Verga verista ha scelto di rappresentare le storture, i mali e le ingiustizie storiche oppure i costi dolorosi del “progresso” per la vita di tanti individui, e se così facendo ha profondamente corroso l’idea positivistica di “progresso”, dissolvendola in una rappresentazione dolorosa del caso e delle forme di necessità storico-sociali da cio è sempre minacciata la vita degli uomini e in particolare delle classi povere,  è evidente che egli non è stato un benpensante o un esaltatore dei suoi tempi, ma un critico che indaga e denuncia fenomeni e movimenti storici che non tutti i suoi lettori vorrebbero conoscere.

Questa fisionomia del Verga verista – una concezione seria della letteratura, la letteratura come strumento di conoscenza della società contemporanea e di impegno civile – risulta secondo noi confermata dal valore di svolta che le opere ‘veriste’ di Verga segnano nella letteratura italiana, una svolta la cui portata si può misurare dall’eredità che da essa è nata, e che si concretizza in almeno due filoni importanti. La prima forma dell’eredità del Verga verista nella letteratura dopo di lui si può riassumere in una formula usata dal più grande scrittore siciliano nato dopo di lui, Luigi Pirandello, in un suo discorso (del 1920, poi ripreso nel 1931): lo «stile di cose», cioè uno stile volutamente antiretorico (e anche qui è evidente, come del resto sa anche Pirandello. che le conquiste del Verga verista presuppongono la grande lezione di Manzoni, creatore della prosa narrativa moderna in Italia): Pirandello definisce Verga «il più “antiletterario” degli scrittori» a causa del suo «stile di cose» funzionale all’oggetto del racconto, alla rappresentazione del mondo narrato, uno stile «la parola non vuol valere se non in quanto esprime la cosa». Pirandello oppone lo stile di cose verghiano allo «stile di parole» di d’Annunzio romanziere, cioè uno stile in cui «la cosa non vale tanto per sé quanto per come è detta, e appar sempre il letterato che ti vuole far vedere com’è bravo a dirvela»: l’antitesi tra stile di cose e stile di parole, anche se ne eliminiamo il significato polemico che essa ha per Pirandello (che detesta d’Annunzio), resta valida nel definire due concezioni e due pratiche della letteratura agli antipodi, di cui in effetti Verga e d’Annunzio sono i due rappresentanti esemplari, e non solo per il loro tempo: da una parte una concezione per così dire autoriflessiva e autocelebrativa (in d’Annunzio la letteratura, attraverso la raffinatezza e la ricchezza formale insuperabili, celebra se stessa); dall’altra una concezione ‘oggettiva’, secondo cui le tecniche della narrazione sono subordinate all’impegno di rappresentare nel modo più nudo e fedele possibile la realtà esterna. Ora non è un caso che il Verga verista, relativamente ignorato ai suoi tempi (i romanzi che oggi tutti considerano i suoi capolavori non ebbero successo quando uscirono), sia stato scelto fin dal primo Novecento (come testimonia il saggio di Pirandello) come padre di una corrente letteraria che si riconosce in uno “stile di cose”, di giovani scrittori (scrive ancora Pirandello) «sazi e stanchi di troppa letteratura». Un’altra lezione decisiva di Verga per la letteratura italiana è legata alla suddetta eredità formale: si tratta della sua lezione di impegno civile perché impegno nei confronti della rappresentazione fedele e quindi della ‘scoperta’ di un’Italia sconosciuta alla letteratura e in genere alla cultura dell’appena nato Stato unitario. Verga è infatti il primo scrittore definibile siciliano in senso stretto, in cui cioè l’identità regionale sia il segno di una vocazione letteraria che lega l’opera (nel suo caso la sua parte più importante) alla rappresentazione cruda e ‘oggettiva’ il più possibile delle condizioni della Sicilia contemporanea, e per questo si può considerare il primo autore della conoscenza della Sicilia nella letteratura italiana contemporanea. Perciò non a caso che a Verga e al verismo si siano richiamati, come a un maestro e a un padre letterario, gli scrittori che nel Novecento hanno voluto riscoprire e rappresentare senza retorica l’altra Italia, l’Italia lontana e socio-economicamente arretrata del Mezzogiorno, e in particolare non a caso da Verga è nata la letteratura siciliana ‘impegnata’, cioè tesa a scoprire, a raccontare e a denunciare, al di fuori di ogni falsificazione e di ogni semplificazione idillica, i caratteri storici e i drammi peculiari della Sicilia: a partire dai suoi contemporanei Capuana e De Roberto, per arrivare a Pirandello novelliere e romanziere (anche se il suo romanzo storico siciliano, I vecchi e i giovani, del 1913, non è tra le sue opere più famose e celebrate), fino a Leonardo Sciascia.

 

La vita

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La poetica del Verga verista: la letteratura come indagine psicologica e sociale.

Questo paragrafo riassumerà alcuni elementi fondamentali delle idee sulla letteratura, o per meglio dire sulla narrativa, dalle quali sono nati i capolavori del Verga verista. Non ci occuperemo perciò della prima fase di Verga narratore, che coincide all’incirca con il decennio degli anni Settanta ed è contraddistinta da numerosi romanzi “mondani”, sentimentali e spesso melodrammatici, ambientati nell’alta società o nell’ambiente irregolare degli artisti; è opportuno però citare uno di questi, Eva (1873), non per la trama (che non è diversa dagli altri: una storia di passione, di amore e morte, tra un pittore e una ballerina), ma per la sua prefazione polemica, in cui Verga rivendica il diritto per l’arte di dire la verità («Eccovi una narrazione – sogno o storia poco importa – ma vera, com’è stata o come potrebbe essere, senza rettorica e senza ipocrisie», sono le prime parole), e assegna all’arte una funzione di coscienza autentica in una società falsa e ipocrita come quella borghese, che disprezza l’arte come inutile perché è devota solo alla religione del denaro e del piacere; l’arte perciò «getta in faccia» ai lettori borghesi, ai benpensanti senza cuore, le storie dolorose e le miserie della loro società che essi però non vogliono vedere. Come si vede dalla rivendicazione polemica della funzione morale dell’arte e dalle accuse alla società borghese, il Verga di questa prefazione è influenzato dall’ambiente della cosiddetta scapigliatura, un movimento letterario per l’appunto realista e antiborghese diffuso nell’Italia del Nord, e in particolare a Milano, nei primi decenni post-unitari (XXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXQUALCHE RINVIO?XXXXXXXXXXXXXXXXXXXX). Non si può perciò considerare la prefazione a Eva come un precedente diretto del verismo verghiano, ma come il documento di alcune esigenze (il realismo, la polemica contro la società borghese, schiava dell’economia e priva di valori morali autentici) che torneranno, sia pure profondamente modificate, nel Verga degli anni Ottanta.
Le novelle di Vita dei campi: l’impersonalità e il punto di vista rovesciato.
Il secondo volume di racconti pubblicato da Verga, Vita dei campi (prima ediz. 1880) è anche il primo bilancio del nuovo Verga, poiché è questo il suo primo libro a possedere una fisionomia unitaria dal punto di vista tematico (come suggerisce il titolo, il protagonista collettivo è il mondo della campagna siciliana). Tale novità e tale fisionomia unitaria sono accompagnate da testi esplicitamente programmatici: benché Verga, tanto il Verga dei romanzi “mondani” quanto il Verga verista, non abbia mai scritto un saggio di teoria della letteratura o di poetica, ha più volte sentito il bisogno di giustificare o di annunciare al lettore i principi e i metodi della sua opera narrativa. È per questo che su otto novelle della prima edizione di Vita dei campi si trovano ben due testi definibili di poetica: la lettera all’amico Salvatore Farina che apre L’amante di Gramigna, e un testo ambiguo, tra racconto e manifesto di poetica, intitolato Fantasticheria, che costituisce l’annuncio della trama e del mondo dei Malavoglia. Nei due testi possiamo trovare due importanti principi di tecnica narrativa provenienti dalla lezione del romanzo francese contemporaneo, precisamente da Flaubert e dal naturalismo di Zola:
1) la narrazione “oggettiva” e la tecnica dell’impersonalità narrativa: il racconto deve presentarsi al lettore con la nudità e per così dire l’oggettività di un fatto di cronaca (un «documento umano», un «fatto nudo e schietto», nelle parole della lettera-prefazione all’Amante di Gramigna); di conseguenza il romanzo (che Verga considera il genere letterario più maturo) dovrà cancellare le tracce esplicite della presenza dell’autore, cioè la voce del narratore come controfigura dell’autore (il cosiddetto narratore onnisciente, tipico del grande romanzo realista del primo Ottocento e, in Italia, dei Promessi sposi): nel romanzo futuro auspicato da Verga «la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale, e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore» (prefazione all’Amante di Gramigna).
2) Il punto di vista rovesciato: la narrazione deve essere lo specchio del mondo narrato, e quanto questo mondo è lontanissimo da quello borghese a cui appartengono l’autore e i suoi lettori, l’autore ha il dovere di presentare tale mondo non secondo il punto di vista di se stesso e dei suoi lettori, ma restituendo il punto di vista, la visione del mondo, i valori della vita del mondo narrato, e quindi deve rovesciare il proprio punto di vista, farsi portavoce dell’orizzonte culturale e mentale del mondo che sarà oggetto della sua narrazione. Questo principio è l’applicazione della suddetta esigenza di oggettività impersonale alla rappresentazione del mondo e della cultura popolari che, come si è detto, sono i protagonisti di Vita dei campi e dei Malavoglia, che Verga ha già progettato e che annuncia in Fantasticheria. Questo racconto, a metà tra la novella e il manifesto di poetica, annuncia il progetto di Verga di tornare a raccontare più ampiamente la storia di una famiglia di poveri pescatori del villaggio di Aci-Trezza (dove il narratore e una sua amica, ricca borghese, hanno soggiornato per due giorni), ma soprattutto motiva tale intenzione con un allontanamento polemico dal punto di vista dell’amica, che sta per il punto di vista di tutti i lettori borghesi, e perciò estranei al mondo e all’orizzonte mentale arcaici di un villaggio di pescatori siciliani. E tuttavia Verga rivendica la dignità e il valore etico di quell’orizzonte mentale proprio contrapponendolo al lusso e alla superficialità del mondo dei lettori borghesi; e proprio per consentire ai lettori borghesi di apprezzare la bontà (e per certi versi la superiorità) della vita e dell’etica arcaiche di quei pescatori, Verga annuncia un procedimento narrativo necessario per il narratore e per il lettore dei futuri Malavoglia: «[...] per comprendere siffatta caparbietà [la tenacia disperata con cui quella povera gente, malgrado disgrazie di vario genere, è attaccata alla sua esistenza miserabile e ai suoi luoghi di nascita], che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori» (Fantasticheria). Quel che appare «piccolo» al lettore borghese, abituato ai lussi del suo mondo e alla letteratura che celebra quel mondo (proprio quella letteratura mondana di cui, come si è detto, Verga era un noto rappresentante), viene ora riscoperto e raccontato in contrapposizione polemica alle psicologie raffinate e alle trame complicate della narrativa borghese d’intrattenimento: la riscoperta del mondo popolare e arcaico della Sicilia è, per Verga, la riscoperta di un mondo allo stesso tempo degno d’interesse e di rispetto, e che per questo deve essere guardato dal punto di vista di quel mondo stesso.
La prefazione ai Malavoglia: la narrativa come «studio sincero e spassionato».
L’ultimo documento per così dire pubblico di poetica verghiana è la prefazione ai Malavoglia, datata 19 gennaio 1881; di questo scritto torneremo a parlare nella lettura conclusiva del romanzo, perciò qui ne sottolineiamo soltanto gli elementi relativo non al suo contenuto, ma alla funzione e alle tecniche del romanzo considerate in se stesse. Da tale punto di vista, anche qui possiamo ricavare alcuni principi che ribadiscono le idee già espresse in Vita dei campi:
1) la rappresentazione oggettiva è intesa come assenza di partecipazione sentimentale da parte del narratore e come fedeltà ai caratteri peculiari dell’ambiente sociale rappresentato: le prime parole della prefazione definiscono il romanzo «uno studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel [per il] benessere», e più avanti precisa che per rappresentare correttamente questi meccanismi psicologici (e la trama che ne nascerà) «basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille»; e la prefazione si conclude ribadendo che «chi osserva questo spettacolo [la lotta per la vita, il meccanismo che fa vivere e progredire la società umana] non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori dal campo della lotta per studiarla senza passione,  e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere».
2) Di conseguenza, la narrativa (in questo caso il romanzo) per Verga è l’indagine documentaria e in un certo senso scientifica della realtà umana (cioè della psicologia individuale e dei meccanismi della vita sociale): lo indica un termine inequivocabile come «studio», ma tutta la definizione di «studio sincero e spassionato» dichiara che il romanzo, cioè un’opera di letteratura creativa, vuole, sia pure attraverso i mezzi della letteratura creativa (l’invenzione di personaggi e fatti), emulare le cosiddette scienze umane, cioè la psicologia e la sociologia, cioè ricostruire le leggi che governano la psicologia umana e la società. Dunque un romanzo sarà, negli scopi anche se non nei mezzi, una sorta di equivalente di un’indagine sociologica o di una ricerca di storia contemporanea, e l’autore avrà le preoccupazioni “scientifiche” di un sociologo o di uno storico che sta conducendo un’inchiesta sul campo, cioè l’esigenza di far parlare l’ambiente oggetto della sua ricerca senza distorcere la rappresentazione e giudicare il mondo che sta osservando.
Questi principi e lo stesso linguaggio utilizzato esprimono una concezione della letteratura, e in particolare del romanzo, ben riconoscibile come naturalista, cioè discendente dall’esempio dei romanzi di Zola (XXXXRINVIO?XXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXX): la letteratura come strumento di indagine sociologica, il narratore come studioso della società contemporanea, il romanzo come documento, «quadro» di una parte della società contemporanea. Che Verga si fondi su tale concezione naturalistica, è indiscutibile; ma è altrettanto importante osservare che, come vedremo nel commento ai passi scelti e nel punto sull’opera, I Malavoglia non sono interamente riconducibili ad essa, e non sono certo uno «studio sincero e spassionato» nel senso in cui questa formula viene spiegata nella prefazione. Questo dimostra che non si può fare a meno di conoscere la poetica del Verga verista, ma che tale poetica non è sufficiente da sola a spiegare i capolavori nei quali essa si è concretizzata.

 

I Malavoglia
Presentazione dell’opera
Nel 1874 Verga (allora noto autore di romanzi ‘mondani’) pubblica a Milano Nedda, bozzetto siciliano, il suo primo racconto di ambientazione popolare siciliana, ottenendo un successo superiore alle attese. Incoraggiato dal suo editore, prosegue l’esplorazione di questa nuova tematica, con altri racconti e con un progetto di «bozzetto marinaresco» da intitolarsi Padron ’Ntoni, a cui pensa fin dal 1874 ma che rielaborerà, senza mai esserne soddisfatto, fino al 1878. Ma proprio nel 1878 questo progetto ha assunto una portata ben più ambiziosa: un grande ciclo dal titolo collettivo La marea, composto di cinque romanzi, di cui Padron ’Ntoni sarà il primo; da allora in poi Verga lavora al romanzo fino all’inizio del 1881, quando il libro uscirà col titolo definitivo I Malavoglia, e come primo grande capitolo del ciclo I vinti. Un titolo come I Malavoglia indica già una caratteristica fondamentale di quest’opera: si tratta di un romanzo familiare, incentrato sul declino di una famiglia di pescatori di Trezza nei primi anni dell’Italia unita, in una comunità arcaica e ai margini delle trasformazioni socio-economiche causate dal «progresso»; e tuttavia sarà proprio l’azione del «progresso», insinuatasi a Trezza e nei Malavoglia attraverso l’attrazione del mondo al di fuori del villaggio e attraverso la logica dell’economia, a contaminare i valori tradizionali della famiglia e a traviare il giovane ’Ntoni, intorno al quale (e anche per altre cause) si svolgeranno le vicende tragiche che porteranno la famiglia sull’orlo della rovina e rischieranno di distruggerla.

 

Fonte: http://www.liceo-carducci.it/templates/downloads/derosa/APPUNTI_3O.zip

Sito web : http://www.liceo-carducci.it/

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