Giacomo Leopardi

 

 

 

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Giacomo Leopardi

 

La vita
1798-1817: da bambino prodigio a geniale scrittore di provincia
Giacomo Leopardi nasce il 29 giugno 1798 a Recanati (un paese ora in provincia di Macerata e allora appartenente allo Stato della Chiesa), primogenito di sei figli del conte Monaldo Leopardi e della marchesa Adelaide Antici; dunque è di famiglia nobile ma proprio in quegli anni finanziariamente dissestata per speculazioni fallite da Monaldo, una condizione che segnerà il suo destino dal punto di vista economico, costringendolo a vivere del proprio lavoro intellettuale non appena vorrà separarsi dalla famiglia e da Recanati. Suo padre sarà altrettanto decisivo anche nella sua formazione intellettuale: Monaldo è infatti un nobile erudito e conservatore di provincia, possiede una biblioteca ricchissima, e non appena vede nel figlio i segni di un ingegno precoce quanto straordinario, lo incoraggia in tutti i modi. Dal 1809, a undici anni, il bambino Giacomo comincia una produzione letteraria in prosa e in poesia, e anche in latino, che trova un primo sbocco in un esame dato in pubblico nel 1812 e condotto dai suoi precettori privati, mentre dal 1812 in poi non avrà più bisogno di precettori e si immergerà ogni giorno nella biblioteca paterna, da cui attingerà materiali per una erudizione superiore alla media che si manifesterà nei suoi scritti giovanili (che vanno dall’attività letteraria alla filosofia, allo studio delle lingue antiche e dei classici latini e greci, ma anche dell’ebraico) e continuerà ad assimilare (come ha già fatto con i suoi precettori) la cultura illuministica del Settecento ma in modo per così dire indiretto, filtrata cioè dalla sua educazione cattolica e rigidamente conservatrice voluta da suo padre: è questo il periodo dei «sette anni di studio matto e disperatissimo» (come scriverà nel 1818) che, come dice lui stesso, gli rovineranno il corpo e lo renderanno di salute malferma. Dal 1816 comincia a farsi conoscere in Italia, pubblicando articoli di filologia e traduzioni poetiche, e orientandosi (come disse poi lui stesso) decisamente verso la letteratura. Ma l’anno più decisivo di questa fase della sua vita è il 1817: dal punto di vista sentimentale (vive il suo primo amore, non corrisposto anzi ignoto all’interessata, una cugina che fu ospite per qualche giorno a palazzo Leopardi); dal punto di vista psicofisico, perché ora comincia a rendersi conto e a soffrire delle conseguenze per il suo corpo degli anni di studio precedenti; e dal punto di vista culturale, perché comincia a nutrire grandi ambizioni letterarie e a sentire tutta l’oppressione dell’ambiente arretrato di provincia di cui ora si sente prigioniero, ambizioni e consapevolezza accresciute dalla sua prima grande amicizia umana e culturale dopo l’ambiente familiare, Pietro Giordani, uno dei più prestigiosi esponenti del classicismo, allora ritenuto il più importante scrittore in prosa contemporaneo; Giordani è così entusiasta della cultura e dei doni straordinari di Leopardi che lo ritiene il candidato migliore al suo ideale di perfetto scrittore italiano. Con la conoscenza di Giordani, in particolare, finisce l’adolescenza culturale di Leopardi e comincia una nuova fase, in cui il giovane erudito di provincia acquisisce la consapevolezza che il suo valore e le sue ambizioni non sono compatibili con le ambizioni di suo padre (che avrebbe voluto indirizzarlo verso la carriera ecclesiastica, secondo una scelta di vita tipica del letterato settecentesco) e con l’arretratezza culturale di Recanati e in genere dello Stato Pontificio. Da queste premesse nasceranno il dolore, i conflitti e le delusioni degli anni successivi, ma anche la sua identità di poeta e pensatore.


1818-1824: il conflitto con l’ambiente familiare e recanatese: nascita di un poeta-filosofo
Il 1818 è l’anno in cui nascono i primi frutti della maturazione culturale di Leopardi: tra i più importanti, la crescita dello Zibaldone, il diario di appunti e pensieri cominciato nel febbraio 1817, la composizione delle sue prime due canzoni, dedicate alla situazione politica dell’Italia contemporanea e ispirate da un patriottismo e da una condanna dell’età della Restaurazione lontanissimi dalle idee politiche di Monaldo e dall’opinione conservatrice, e la conoscenza personale di Giordani (che si ferma a Recanati nel settembre), che rese ancora più intensa quell’amicizia e le ambizioni di uscire da Recanati e separò per sempre i progetti del figlio sulla propria vita da quelli di suo padre (come poi osservò lo stesso Monaldo, che riteneva responsabile Giordani di avere trasmesso al figlio anche idee contrarie alla fede cattolica). Il 1819 è invece l’anno di una crisi definitiva: appena diventato maggiorenne, a luglio Leopardi cerca di fuggire da casa e si procura un passaporto all’insaputa di suo padre che però scopre casualmente questo piano di fuga; da allora in poi si sentirà un recluso a Recanati, e sprofonderà nella solitudine e in uno stato di depressione (malinconia, secondo il termine da lui usato), a volte anche aggravato da problemi fisici (come, proprio in quest’anno, un male agli occhi durato alcuni mesi). È da questo periodo che nasce il Leopardi poeta e pensatore maturo: la prigionia nella solitudine acuisce e fissa l’attitudine introspettiva e in genere autoanalitica che generano, combinate con la sua formidabile cultura, l’orizzonte mentale amplissimo e innovativo dello Zibaldone con le sue teorie sulla civiltà e sulla natura e la sua indagine sui meccanismi psicologici fondamentali dell’essere umano (teorie che sono solo una parte del lavoro di riflessione e scoperta quotidiano testimoniato dallo Zibaldone); la frustrazione e la malinconia di una gioventù avvertita come mai vissuta e  come una vecchiezza precoce, acuirono la sensibilità alla frustrazione e al dolore non solo nella propria vita ma anche intorno a lui, e da queste disposizioni nacquero la deprecazione della condizione umana nella civiltà moderna e l’esplorazione del proprio animo e delle proprie vicende interiori, rispettivamente nelle canzoni e negli idilli (1818-1822), il primo grande nucleo poetico da cui avrà inizio il futuro libro dei Canti. Successivamente questa compresenza di frustrazione e di desiderio di una vita diversa cede il posto a una sorta di rassegnazione sentita come una morte della sensibilità, dell’immaginazione e della disposizione alla poesia. Un evento importante in questo processo è il primo lungo viaggio fuori di casa che la famiglia concede a Leopardi, a Roma, dal settembre 1822 al maggio 1823, ospite presso degli zii materni. Da questo soggiorno romano tornerà con un nulla di fatto per quanto riguarda la ricerca di una sistemazione economica e professionale (malgrado alcuni contatti con importanti studiosi italiani e stranieri residenti a Roma) e una delusione definitiva sul mondo e sulla vita, che infrange molte ambizioni giovanili (su tutte il mito della «gloria», della fama letteraria, che ossessionava il giovane Leopardi, e la fiducia che fuori Recanati ci fosse un mondo dove potersi realizzare),e approfondisce e universalizza la riflessione sulla presenza dell’infelicità nella vita umana. Il Leopardi che torna a Recanati sembra trasformare la malinconia e la disperazione degli anni precedenti (dopo il tentativo fallito di fuga) in una resa rassegnata alla propria condizione e alla verità, ormai acquisita, dell’infelicità necessaria nella vita umana: come scrive in una lettera a Giordani del 6 maggio 1825, egli si sente cambiato, e così sono cambiati i suoi studi, lontani dagli affetti e dalla poesia e orientati verso la verità, odiata fino a pochi anni prima, che rivela la condizione insignificante e infelice dell’uomo nell’universo: «questo arcano [mistero] infelice e terribile della vita nell’universo». L’esplorazione di questa verità costituisce il contenuto delle Operette morali (scritte nel 1824), che sono il risultato creativo di questa fase di rinuncia alle passioni e alle illusioni giovanili e alla poesia. Intanto il nome di Leopardi comincia a circolare anche nell’editoria letteraria: nel 1824 pubblica il suo primo volume di poesie, le Canzoni.


1825-1837. Fuori da Recanati: il conflitto con il proprio tempo.
Fu proprio l’ambiente dell’editoria a fornire a Leopardi il mezzo con cui riuscì a realizzare la svolta più importante, almeno dal punto di vista materiale, della sua vita, cioè andare a vivere fuori da Recanati. L’editore Stella (con cui Leopardi era in contatto fin da giovane) lo invita a Milano, nel luglio 1825, come collaboratore a un’edizione di tutto Cicerone che, benché non realizzata, fu il primo dei progetti editoriali che permisero a Leopardi di mantenersi fuori Recanati. Va notato, a questo proposito, che per un’ironia della storia il giovane conte Leopardi, primogenito di una famiglia della nobiltà di provincia ma finanziariamente in crisi, è costretto a guadagnarsi da vivere con la propria cultura mettendola al servizio del mercato, proprio come il letterato-professionista borghese, la figura emergente dell’Ottocento. Da ora in poi la vita di Leopardi è scandita, innanzitutto materialmente (ma, come si vedrà, anche dal punto di vista culturale e umano), dalle città in cui risiede. Questi anni possono perciò suddividersi ulteriormente in tre periodi:
1) 1825-1829, da Bologna (1825-26, con una breve parentesi a Milano) e a Firenze (1826-1829, con l’inverno e la primavera 1827-28 a Pisa). Sono gli anni in cui Leopardi si mantiene grazie soprattutto ai lavori editoriali per Stella (lavori divulgativi e quindi poco amati, ad es. un commento molto sobrio al Canzoniere di Petrarca nel 1826; ma Stella sarà anche l’editore della prima edizione delle Operette morali, nel 1827). Dal punto di vista culturale, il giovane studioso e poeta, grazie anche all’amicizia di Giordani, frequenta per la prima volta da vicino gli ambienti intellettuali della cultura liberale, in particolare a Firenze, allora una delle città più vivaci e civili, anche per la relativa tolleranza del governo granducale), e tale frequentazione genera un rapporto ambivalente che sarà quello tipico di Leopardi con il proprio tempo, e diventerà, negli ultimi anni, apertamente conflittuale: da una parte una stima reciproca a livello intellettuale e anche personale (in questi anni si aggiungono altre importanti amicizie sincere oltre a quella di Giordani; soprattutto in Toscana Leopardi fu stimato e trattato con molti riguardi dagli ambienti culturali di Firenze e Pisa), ma dall’altra un disaccordo di fondo nella visione del mondo: Leopardi fu fin da allora decisamente indifferente oppure ostile agli interessi economico-sociali e politici e al progressismo riformista (e anche alla componente cattolica) della cultura liberale perché li trovò incompatibili con la sua concezione radicalmente pessimistica e materialistica dell’uomo e della sua esistenza; come scrisse a Giovan Pietro Vieusseux, direttore dell’importante rivista fiorentina L’Antologia, rifiutando un invito a collaborarvi, la sua filosofia si concentra sull’uomo in sé e sui rapporti degli uomini con la natura (cioè le leggi e i meccanismi eterni dell’esistenza umana nei suoi rapporti con la natura umana e le leggi naturali di cui fa parte), e la sua visione della condizione umana, dolorosa e insignificante nell’universo, lo rende estraneo a qualsiasi «filosofia sociale»; in realtà questo non è del tutto vero, perché Leopardi ha anche lasciato molte riflessioni sulla vita in società e sulla società italiana dei suoi tempi, ma non le pubblicò mai durante la sua vita. Infine, questo periodo è fondamentale nella vita spirituale leopardiana perché segna, dopo anni di silenzio quasi totale, la rinascita della poesia, che, per Leopardi, fu l’espressione di una rinascita interiore, non delle illusioni e delle speranze di felicità (ormai la sua concezione pessimistico-materialistica dell’esistenza, affermata nelle Operette morali, era acquisita per sempre), ma della sensibilità al mondo, al proprio animo, ai propri ricordi. Lo scenario e la concausa di questa sorta di miracolo interiore fu Pisa, dove (trascorrendovi l’inverno ’27-’28 per il clima, molto mite e preferibile a quello fiorentino) ritrovò una città piccola un paesaggio che gli ricordò Recanati e un ambiente umano molto accogliente: questo «risorgimento» (rinascita) diede il titolo alla prima poesia scritta a Pisa nell’aprile 1828, a cui segue pochi giorni dopo A Silvia: è l’inizio della seconda grande fase della poesia leopardiana.
2) 1828-1833, ancora soprattutto a Firenze, con due parentesi a Recanati (tra 1828 e 1829) e a Roma (autunno-inverno 1831-32). La cesura tra i due soggiorni fiorentini è determinata da due eventi negativi, uno economico (la fine, nell’inverno 1828, delle retribuzioni da parte dell’editore Stella) e uno familiare (la morte, nel maggio 1828, del fratello Luigi, a ventiquattro anni), che rendono inevitabile, per motivi materiali e sentimentali (le pressioni della famiglia) il ritorno a Recanati, dove Leopardi trascorse, a quanto scriveva agli amici, sei mesi disperati, sprofondato nella solitudine, nella malinconia dei tempi peggiori recanatesi, e nei mali fisici, lanciando appelli disperati ai suoi amici fiorentini per trovargli un impiego qualsiasi che gli permettesse di uscire da quel soggiorno forzato che sente come una sepoltura da vivo; e tuttavia, da quella sepoltura nascono, tra il maggio 1829 e l’aprile 1830, altre poesie che completano la nuova stagione creativa nata a Pisa, una stagione così importante che fornirà, pochi mesi dopo, lo stimolo a rivedere, selezionare e raccogliere le sue poesie edite e inedite in un nuovo libro unico, che saranno i Canti, usciti a Firenze nel 1831. Il modo che trovò per uscire da Recanati era umiliante – accettare un assegno di un anno, a titolo di prestito o di dono se non avesse potuto restituirlo, dai suoi amici fiorentini – ma, disposto a tutto per uscire dal suo «natio borgo selvaggio» (così lo definisce nelle Ricordanze), nell’aprile 1830 riparte per Firenze, e da allora non tornò più a Recanati. A Firenze non si dedica, per motivi di salute, a nuove opere oltre all’impresa, sopra ricordata, di preparare l’edizione dei Canti (da cui sperava anche di ricavare un utile tramite le sottoscrizioni degli acquirenti), e alla composizione di due nuovi dialoghi (che compariranno nella seconda edizione delle Operette morali) nel 1832, anno in cui smette anche di lavorare allo Zibaldone. Ma il secondo soggiorno fiorentino è di nuovo decisivo per il suo presente e il suo futuro, sul piano sentimentale come su quello materiale, perché è a questo periodo che risalgono due incontri decisivi: un’amicizia che divenne un sodalizio con Antonio Ranieri (1806-1888), già conosciuto due anni prima, un liberale napoletano esule tra Italia ed Europa, che dal 1830 (anno in cui si rividero) decide di fare causa comune con Leopardi nella ricerca di una sistemazione e del denaro necessario, il che significava per Leopardi la prospettiva gioiosa di non dover tornare a Recanati e una compagnia amata (fu per seguire Ranieri che Leopardi trascorse un noioso soggiorno a Roma nell’autunno-inverno 1831-32); e un’intensa passione amorosa per la gentildonna Fanny Targioni Tozzetti, conosciuta nel 1830, ispiratrice di una nuova e diversissima stagione poetica che disegna la storia di quest’amore (probabilmente fra 1831 e 1833) dall’inizio entusiastico fino a una delusione terribile, che per Leopardi significò la morte della sensibilità e l’addio definitivo a ogni illusione vitale. L’amore finì in maniera terribile per Leopardi (che si sentì sedotto e poi ignorato, mentre Fanny Targioni-Tozzetti dichiarò anni dopo di non essersi nemmeno accorto dei sentimenti di Leopardi per lei), ma il patto di solidarietà con Ranieri provocò la certezza di non essere solo e di poter vivere fuori da Recanati, grazie anche, dall’estate 1832, a un piccolo assegno mensile che chiese ed ottenne dalla famiglia.
3) 1833-1837, a Napoli. Già dal 1832 il padre di Ranieri aveva chiesto al figlio di tornare a Napoli, in séguito all’amnistia per gli esuli concessa nel 1831, ma Ranieri non fece ritorno in patria prima dell’ottobre 1833, quando vi andò in compagnia di Leopardi, e dove visse sempre con lui e con la sorella Paolina in diversi alloggi. A Napoli Leopardi prepara il progetto editoriale più ambizioso della sua vita, un’edizione completa delle sue opere in sei volumi che comincia ad uscire nel 1835 (con la terza edizione dei Canti), ma è bloccata dalla censura l’anno successivo. Ma Leopardi non è solo in conflitto con il potere reazionario dei suoi tempi, bensì anche, paradossalmente, con gli oppositori liberali, poiché li allontana da entrambi il pessimismo fondato sul materialismo e quindi il rifiuto di ogni prospettiva religiosa e di ogni visione ottimistica del progresso storico-sociale (un rifiuto che si estende anche alle vicende politiche contemporanee, cioè ai moti liberali del 1821 e del 1831, oggetto di satira in un poemetto pubblicato postumo, i Paralipomeni della Batracomiomachia, una rivisitazione satirica del genere antico dell’epica degli animali); non a caso le poesie scritte tra il 1835 e il 1836 si aprono anche ad un attacco ideologico violento, sia serio sia satirico, alla cultura liberale fiorentina e napoletana. È questa insomma la fase in cui l’ostilità di Leopardi con le ideologie del proprio tempo, quelle reazionarie come quelle liberali, è più esplicita ed acuta. Nell’aprile 1836 e fino al febbraio 1837 Ranieri, la sorella e Leopardi si trasferiscono in una villa di campagna tra Torre del Greco e Torre Annunziata, alle pendici del Vesuvio, per sfuggire a un’epidemia di colera: le ultime due poesie della sua vita (che saranno le ultime due poesie dei Canti), La ginestra e Il tramonto della luna, nascono, anche fisicamente, da questo paesaggio, tra il Vesuvio e il golfo di Napoli. A febbraio del 1837 torna a Napoli, ma dopo mesi di mali aggravati dalla residenza in campagna, mali che si protraggono anche in città fino al 14 giugno di quello stesso anno, quando muore assistito da Ranieri e da sua sorella; Ranieri dichiarò poi di aver violato l’obbligo legale, in quel periodo, di seppellire ogni cadavere in una fossa comune a causa dell’epidemia di colera, e di avere fatto trasportare il corpo dell’amico nella chiesetta di San Vitale a Fuorigrotta (nel 1911 le ossa furono poi traslate nella cosiddetta Tomba di Virgilio). Nel 1845 uscì a Firenze, a cura di Ranieri, la prima edizione completa delle opere di Leopardi, preparata in parte dall’autore stesso tra il 1835 e il 1837.

 

Fonte: citazione da http://www.liceo-carducci.it/templates/downloads/derosa/LEOPARDI3aO.rtf

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GIACOMO LEOPARDI
I temi principali della poesia e della prosa di Leopardi sono il rapporto con la natura, la condizione artificiale dell’uomo nella società del tempo, i meccanismi della società borghese del tempo, il bisogno e la ricerca di solidarietà umana.
La poesia leopardiana è conosciuta anche dai lettori contemporanei, mentre la prosa viene riscoperta solo negli anni ’50 da W. Binni, così come il pensiero filosofico.
Il pessimismo cosmico di Leopardi, l’utopia del bisogno di stringere rapporti con gli altri uomini, vengono rivalutata dalla critica sociologica. La società è formata da un insieme di rapporti socio-economici che sono la sua struttura e da una sovrastruttura che è la letteratura, la cultura ed è lo specchio della struttura.
E’ apprezzato chi riesce a legare società con economia e con natura.
Leopardi vive in condizioni difficili e per questo elabora una particolare concezione della vita. Nasce a Recanati nel 1798, una zona periferica rispetto ai centri culturali, da una famiglia nobile.
La sua formazione culturale è solida. Studia fino a 12 anni sotto la guida di un precettore che si accorge del suo genio e riconosce che non ha altro da insegnare. Dai 12 anni in poi iniziano i “sette anni di studio matto e disperatissimo” durante i quali studia da autodidatta.
Questo studio sarà l’origine del suo dolore fisico e morale perché il pessimismo è il frutto della sua deformità.
Leopardi era ateo, dichiarava l’assenza della divinità e pensava che fosse inutile illudersi che esistano un Dio e un progetto sull’uomo.
La critica vuole che questi pensieri siano dettati dalla sua deformità, ma anche se lui ha sempre negato, non è una soluzione da escludere in quanto fa parte della sua esperienza.
La sua riflessione verte sul suo dolore che viene generalizzato fino a diventare una condizione universale, cosmica e non solo personale.
Gli anni tra i 12 e i 20 anni Leopardi li trascorre tra studi, scritture e interventi in questioni letterarie.
In particolare si distingue nel campo della filologia e gli viene chiesto di commentare il II^ libro del De Repubblica di Cicerone ritrovato dal cardinale Angelo Mai.
Queste attività lo allontanano dai suoi coetanei; Leopardi sembra invidiare le altre persone che si divertivano, ma poi si accorge che queste persone non sono felici e che in ultima analisi la felicità non esiste. Secondo il pensiero leopardiano il giovane ha delle aspettative che certamente verranno deluse, ma a differenza del giovane il vecchio non ha neanche queste aspettative e quindi si deve preferire la morte alla vecchiaia.
Leopardi attraversa due fasi: una prima durante la quale conosce il bello degli antichi e una seconda in cui passa dal bello al vero. E’ qui che nasce la concezione filosofica nichilista che ha come principi la non esistenza di Dio, l’uomo che non è nulla, la Terra come pianeta periferico senza importanza che non è guardata da nessuna forza divina ed è prevalsa da una natura ostile. Questo è l’ARIDO VERO.
Per questo suo messaggio Leopardi può essere considerato un poeta moderno anche se le idee e il linguaggio sono classici.
Il pensiero leopardiano non è coerente, né sistematico né originale. La sua filosofia si lega all’idea di progresso e al pessimismo. Questo pessimismo passa attraverso varie fasi, è nichilista ma allo stesso tempo portatore di un messaggio. Non è un pessimismo fine a sé stesso, ma è un solidarismo universale, cioè una solidarietà dell’uomo con l’uomo. Leopardi parte dal fatto che l’uomo sia sottoposto alla natura e cerchi di unirsi ad una catena umana che ha la forza di riconoscere l’esistenza del male e ammetterlo. E’ una forma di titanismo.
Secondo Leopardi pensare di poter sfruttare la natura è una SUPERBA FOLA.
La figura della madre non è mai presente nelle sue opere diversamente da Foscolo e Manzoni. Il suo rapporto con la madre è edipico, la descrive come una persona inumana, intimamente orrida.
La madre lo considerava matto perché dedicava tutto il suo tempo allo studio e non pensava a risanare le sorti economiche della famiglia.
Il 1816 è un anno importante perché segna la sua conversione letteraria che passa dall’erudizione ad un particolare valore artistico. E’ però anche l’anno di una profonda crisi esistenziale e di una meditazione sul suicidio. Si rende conto di aver perso le gioie della gioventù, si sente diverso, superiore di ingegno, ma invidia la gente comune che gode di gioie semplici.
Matura qui la prima fase in cui il pessimismo diventa storico e compone le canzoni del suicidio.
Nel 1817 inizia una corrispondenza con Giordani che lo incoraggia a continuare la sua operazione letteraria. Si innamora di una cugina, ma Leopardi è innamorato del concetto di amore. Scrive quindi un’elegia intitolata “Primo amore”.
Nel 1819 tenta la fuga da Recanati perché vuole recarsi a Roma. Nel 1822 finalmente può andare a Roma ma rimane deluso da questo soggiorno. L’unica esperienza positiva è la visita alla tomba del Tasso. Insieme a Tasso e Petrarca Leopardi è ritenuto un poeta del pianto.
Nel periodo tra il 1817-18 Leopardi è influenzato dall’Illuminismo e affronta il tema dell’infelicità umana che non ha origine nella natura, una natura che anzi è positiva perché produce illusione che permette di sopportare la vita e sperare in una vita dopo la morte.
La civiltà distrugge la natura  rendendo la vita per l’uomo insopportabile; l’uomo ha scoperto gli schemi della natura mostrando l’arido vero e quindi rendendo l’uomo infelice perché privato delle sue illusioni.
L’infelicità non è dunque un dato ontologico, ma storico, dovuto all’accadere di determinati fatti.
Secondo Leopardi gli antichi erano capaci di illusione , i moderni invece no.
Queste illusioni si possono recuperare attraverso l’azione e l’eroismo.
Nelle canzoni civili Leopardi vuole recuperare i valori e i modi degli antichi e sostiene i classici.
Si inserisce quindi il discorso della propria infelicità, la natura è vista come benefica per gli altri, ma ostile a lui che si identifica con Saffo.
C’è una sorta di Titanismo, cioè di volontà di opporsi al fato attraverso il suicidio.
Tra il 1819 e il 1823 il pensiero delle illusioni entra in crisi a causa di un’adesione da parte di Leopardi alla corrente del sensismo illuminista che porta una svolta materialista tesa al meccanicismo. La causa dell’infelicità ora è ritrovata nel bisogno di essere felice, felicità che gli viene negata.
Nasce la teoria del piacere: l’uomo tende al piacere che però è sempre superiore a quello che può conseguire. Il desiderio è illimitato e destinato ad essere deluso.
L’uomo cerca una felicità illusoria, cerca nell’illusione la felicità e cerca di raggiungerla o nel futuro o nell’immaginazione.
Il compito dell’uomo è quello di conoscere la situazione reale, il suo stato fragile e considerarlo e rendersi conto che non esistono motivi di conforto. L’unica cosa che può fare è creare l’utopia solidaristica.

LO ZIBALDONE  è un insieme di pensieri e appunti della più svariata natura, scritti a partire dall’estate del 1817 e durò per quindici anni.
Il nome stesso significa proprio mescolanza confusa di cose diverse, anche se sembrerebbe che Leopardi la considerasse come un’opera autonoma.
Nello Zibaldone Leopardi tratta molti temi tra i quali il tema del piacere e della felicità, quello della poesia come creatrice di un’illusione che non è possibile pensare a livello razionale.
Inoltre difende la mitologia dicendo che non ha significato se è riferita alle cose moderne, ma è convincente nella poesia degli antichi. Gli antichi e solo loro erano in grado di creare l’illusione.
In un altro passo Leopardi tratta della scrittura polemizzando sulla posizione di Berchet.
Leopardi ha una concezione classica della scrittura, il Romanticismo privilegia l’aspetto istintivo che non si esprime sempre con mezzi puramente poetici. Secondo Leopardi la letteratura classicista obbliga all’attenzione, alla meditazione e alla riflessione, per cui la scrittura è un’operazione elaborata che prevede una preparazione; invece il romanticismo porta solo momentanee impressioni.

Nella lettera al Giordani  del 1818 Leopardi chiarisce il suo stato, si rende conto di aver rovinato gli anni migliori e il suo aspetto fisico con lo studio.
Il momento dei pensieri sul suicidio viene superato perché Leopardi trova una ragione di vita nella poesia, nell’impegno poetico che lui si assume anche componendo opere civili.
Questo aspetto del suicidio si ritrova nell’”Ultimo canto di Saffo”, quando Saffo decide di uccidersi perché per il suo aspetto fisico viene abbandonata da tutti e anche dalla natura.

ULTIMO CANTO DI SAFFO
Leopardi scrive quest’opera nel periodo in cui si stacca dal cristianesimo e aderisce al materialismo.
Tra il 1818 e il 1822 compone le Canzoni civili, liriche impegnate sia per il contenuto che per il linguaggio e la sintassi difficili, i Piccoli Idilli che rientrano nella poesia sentimentale, e da ultimo le Canzoni del suicidio: Ultimo canto di Saffo e Bruto minore.
Nell’opera dedicata a Saffo si ritrova una riflessione filosofica sul suicidio visto in un problema esistenziale (nel Bruto sarà un problema politico). Vengono toccati i rapporti uomo - uomo e uomo - natura, quest’ultimo assume proprio una caratteristica di contrapposizione tra Saffo e la natura che la circonda, tra lei brutta e la natura armoniosa.
Il discorso è fittizio e sotto il personaggio di Saffo si nasconde lo stesso Leopardi.
Il periodo rientra nell’ultima fase del pessimismo storico leopardiano, infatti viene messo in crisi il concetto di felicità nel senso che ci si chiede se esista la felicità. Nasce il pessimismo cosmico che coinvolge tutti gli uomini.
La poesia è composta quindi nel 1822 in breve tempo; Saffo è una poetessa greca che vive tra il VII e il VI secolo a.C. Durante il Romanticismo questa leggenda è nota, perché si privilegiano i personaggi che arrivano ad atti estremi.
Il lessico e la struttura sono classici, l’elaborazione formale è sottile.

Anche questa lirica si apre con un paesaggio notturno e con una serie di vocativi emotivi.
Vengono descritti gli elementi positivi della natura ma si precisa che sono solo apparenza come lo è il corpo deforme di Saffo; ma l’apparenza è importante per gli uomini.
La natura poi si trasforma in una descrizione che è più in sintonia con lo stato d’animo di Saffo.
Saffo viene esclusa dalla natura e diventa elemento di disunione. C’è questa forte contrapposizione tra la natura positiva (BELLO IL TUO MANTO) e la realtà di Saffo (DOLOROSO AMMANTO).
Gli interrogativi al verso 37 sono di carattere esistenziale e come tali senza risposta.
Il destino è ignoto a tutti, l’unica realtà è il dolore e l’uomo può comprenderne l’essenza.
Da questo deriva il titanismo che assume un carattere di protesta consapevole dei propri limiti (Alfieri non aveva questa consapevolezza).
Chi ha belle sembianze possiede l’eterno regno, mentre chi di bello ha solo l’anima è destinato a essere rifiutato anche dalla stessa natura.
Saffo decide allora di abbandonare il corpo e di uccidersi.
In questa strofe si intuisce il passaggio di Leopardi da un pessimismo storico ad un pessimismo cosmico; cioè si passa da una concezione di pessimismo personale legata anche al periodo storico, ad una situazione di sofferenza comune.
Il suicidio è visto come una protesta, il risarcimento dell’errore crudele del destino.
Il titanismo si sviluppa soprattutto negli autori tedeschi e inglesi: è la lotta senza riuscita da parte del singolo (come personaggi mitologici: prometeo, atlante...). 
Leopardi passa da un titanismo alfieriano, dove l’eroe in lotta contro il destino soccombe ma non ha la coscienza della situazione, ad un titanismo più romantico, dove si prevede l’inutilità della lotta.
Dal titanismo Leopardi passa alla protesta, che è un tentativo anche se utopistico di lottare contro il destino. La consapevolezza del destino avverso è per Leopardi un senso di forza e virilità.

GLI IDILLI
L’idillio è una descrizione, una piccola immagine. E’ un componimento che risale ai greci: Teocrito contrappone la vita della campagna a quella di città e crea il mito dell’Arcadia, più volte ripreso dalla letteratura successiva.
In epoca preromantica lo svizzero Gessner compone alcuni idilli con ambientazione naturalistica, ma che prevedeva riflessioni di altro carattere.
Leopardi scrive i “piccoli” idilli in concomitanza con le Canzoni e in seguito i “grandi” idilli.
Il paesaggio diventa occasione per una riflessione di carattere filosofico ed esistenziale.
Leopardi scrive sull’idillio: “situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo”. Il paesaggio quindi è solo un pretesto per parlare di sé. Il contenuto è quindi lirico e soggettivo.
Il linguaggio è piano, comune; il metro è l’endecasillabo sciolto che meglio si adatta alle forme confidenziali e liriche.

L’infinito
C’è un passo dello Zibaldone in cui Leopardi spiga questo idillio e il tema della percezione dell’infinito nel tempo. Leopardi dice che l’antico non è infinito, ma rispetto al presente è poetico perché permette all’uomo di immaginare molti secoli. Produce nell’uomo l’idea di tempo infinito.
Di primo impatto potrebbe trattare di un tema prettamente romantico che si accompagna ad un senso di misticità.
Leopardi però fa un ulteriore passo avanti, cioè inserisce un elemento di razionalità nel tema romantico. Il poeta è cosciente, immagina ma è un processo razionale.
L’idea di infinito nel tempo e nello spazio lo porta ad un concetto di immensità che provoca un’immensa dolcezza.
Nei primi versi si nota una ricerca fonica che dà un senso forte di musicalità grazie all’utilizzo di consonanti liquide. Anche la ricerca formale è accurata: di Leopardi si hanno tante varianti, cioè correzioni apportate dall’autore tra una edizione ed un’altra.
C’è un contrasto tra i limiti della realtà e gli orizzonti del pensiero.
Il verbo “mi fingo” dà proprio l’idea di una immaginazione portata avanti da un senso di razionalità.
(vedi fotocopia)

La sera del dì di festa
Il paesaggio è notturno. Il poeta tratta la tematica del pessimismo storico: la natura benigna è estranea al poeta che soffre e si sente l’unica vittima della natura. C’è una sorta di vittimismo misto a ribellione. Il contrasto forte è tra la natura quieta e il tormento interiore del poeta.
Questo provoca riflessione e ricordo.
Il tema della sofferenza, della negatività e dell’infelicità è visto da Leopardi in un’ottica soggettiva: lui è l’unico essere con cui la natura è ostile, mentre è benefica con gli altri.
Nelle Operette morali la natura è vista ostile a tutti gli uomini, non in modo volontario ma perché seguendo il suo corso la natura è spesso ostacolo per l’uomo.
Già nel primo verso si nota un forte equilibrio dal punto di vista formale sottolineato dall’uso di bisillabi con accenti regolari.
L’atmosfera è rasserenante, è presente l’elemento della luna che si ritrova spesso nella poesia romantica perché porta alla sfumatura dei contorni.
La “donna mia” è probabilmente un’astrazione della figura femminile che è in contrasto con l’io del poeta. Questo contrasto è rappresentato da pronomi personali che hanno funzione enfatizzante.
Nel verso 7 sembra che Leopardi invidia la sorte degli altri che godono delle cose semplici.
Il giorno festivo è la rappresentanza dell’attuarsi della speranza che porta tristezza e noia, mentre l’aspettativa è elemento positivo.
La punteggiatura spesso vuole far soffermare l’attenzione del lettore sulla situazione del poeta.
Si passa poi da una prospettiva personale alla riflessione sulla caducità delle cose umane, che è un tema di origine classico. La meditazione ha come oggetto il destino dei popoli e Leopardi invita l’uomo a non credersi importante, perché non lo è; anzi la grandezza dell’uomo è riconoscere la sua fragilità.
Nell’ultima fase della lirica è presente la componente del ricordo dell’infanzia. La poesia della ricordanza segue l’idea che il ricordo sia sempre dolce e positivo anche se si ricordano episodi tristi.
L’impressione è di una malinconia di carattere consolatorio.
La struttura della lirica non è omogenea: si passa da una prospettiva personale ad una prospettiva che abbraccia tutti gli uomini fino ad abbracciare il ricordo.

OPERETTE MORALI
Leopardi scrive le Operette morali in un momento di riflessione sul materialismo, sul pessimismo, contro la società borghese e cattolica, cioè contro le ideologie correnti.
Queste opere vengono infatti criticate al tempo e vengono rivalutate solo nella seconda metà del ‘900. Il modello è quello delle satire di Luciano, autore greco di età ellenistica.
La prosa è asciutta tanto che vengono poi tradotte in liriche.
Il linguaggio però è moderno, anche se filosofico.

Dialogo della natura e di un islandese
In quest’operetta si rivela il pessimismo cosmico del Leopardi della seconda fase in cui riflette sul senso della natura che viene vista come maligna verso l’uomo.
In realtà la natura è vista come un organismo che segue delle leggi determinate ed è indifferente all’uomo perché non è né benigna né maligna.
Un altro concetto espresso è quello dell’inutilità dell’Universo e della vita umana. L’uomo non è oggetto della cura divina, come nessun altro essere vivente.
Anzi per Leopardi è importante riconoscere lo stato di fragilità dell’uomo e creare una solidarietà tra gli uomini per essere uniti contro la natura.
In un passo dello Zibaldone si riprende il tema della sofferenza universale, la sofferenza assume un carattere che non è proprio dell’uomo ma di tutte gli esseri viventi.
La Natura è personificata come una enorme donna sempre pronta ad imperversare.
L’islandese fugge la natura e si aspetta di trovarla in luoghi solitari e invece la natura è ovunque.
L’islandese è paragonato a Leopardi, perché vive in un posto dove la mancanza di persone porta alla noia. Contro la noia Leopardi propone in un’altra Operetta morale delle attività rischiose.
Ma la natura è ostile all’uomo anche se questo vive isolato e si accontenta. La natura però dice che il mondo non è fatto per gli uomini e non si accorge del dolore dell’uomo. Questo a causa della sua indifferenza determinata proprio dal fatto che la natura deve seguire regole fissate.
L’uomo è innocente di fronte alla natura ma deve subire comunque la forza della natura stessa.
L’islandese si illude che la creazione sia un atto di volontà di una divinità. In realtà Leopardi è ateo anche se la critica cattolica di Getto vorrebbe paragonare il concetto di vita come sofferenza e quindi priva di significato al concetto cattolico di vita come sacrificio per una ricompensa ultraterrena.
Il finale del dialogo è ironico. L’islandese viene soppresso dalla natura ma non si sa precisamente come e questo sottolinea ancora una volta la poca importanza dell’uomo.
La figura della mummia è simbolo della ricerca vana di una risposta ai perché della vita.

Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie.
Federico Ruysch era un medico studioso olandese di anatomia che fu celebre per l’imbalsamazione dei cadaveri. La situazione presentata da Leopardi nell’Operetta è paradossale, perché le mummie si risvegliano alla mezzanotte dell’anno grande e matematico e hanno la facoltà di parlare pere un quarto d’ora rispondendo alle domande dei vivi.
Per quanto riguarda i contenuti del dialogo che si instaura tra il medico e le mummie emerge un’idea positiva della morte, vista come fine dei tormenti terreni. Leopardi vuole sottolineare come l’esistenza del vivo e quella del morto siano parimenti infelici.
L’Operetta si apre con un coro intonato dalle mummie nel quale la morte è vista come il solo principio immutabile e eterno nel funzionamento dell’universo.
La condizione dei morti è vista in modo negativo, circondata dalla noia e priva di ricordi; quindi sia la condizione del vivo sia quella del morto sono infelici, ma con la differenza che i morti sono privi di passioni  e desideri.
Al termine del coro inizia il dialogo vero e proprio che assume una forma colloquiale.
Leopardi non crede in una vita dopo la morte e descrive attraverso le mummie la vita del mondo vista come un cerchio, come un ciclo dopo il quale tutto ricomincia. Questa teoria presa dagli antichi serve al poeta a giustificare l’idea dell’anno grande e matematico.
Alla domanda del medico che vuole sapere cosa si prova nel momento della morte le mummie rispondono che la morte è simile al sonno e quindi che non ci si accorge del momento in cui avviene.
La morte non è un sensazione ma la perdita delle sensazioni. Questo concetto Leopardi lo riprende dalla filosofia antica.
Viene sviluppata poi la tendenza materialista di Leopardi quando il medico chiede se l’anima viene strappata dal corpo violentemente e la mummia risponde che l’anima non è unita al corpo da alcuna membrana.
In conclusione Leopardi asserisce che come il sonno anche la morte arriva per gradi e che la vita non è altro che una preparazione progressiva alla morte.

Grandi Idilli
Dopo la composizione delle Operette morali Leopardi attraversa il periodo che lo porta alla riflessione sui Grandi idilli ossia i componimenti pisano recanatesi.
Queste composizioni seguono una linea intimistica, soggettiva, descrittiva, non lontana dalla riflessione filosofica.
La critica precedente il 1947 aveva preferito interpretare le opere con un occhio per la liricità senza riguardi al pensiero filosofico.
Per Leopardi questi sono anni felici e questo è testimoniato dalla lettera del 1827 alla sorella a cui dice che la causa della sua felicità è il suo soggiorno pisano. E forse proprio questa felicità lo porta alla poesia che aveva abbandonato per la sua convinzione che non era possibile ottenere una poesia paragonabile a quella degli antichi.
Ma nel 1828 il soggiorno pisano si interrompe e Leopardi deve tornare a Recanati.

 

 

A Silvia
Silvia è probabilmente la figlia del cocchiere di casa Leopardi che muore di tisi molto giovane. Il nome non è quello vero della giovane ma Leopardi lo utilizza forse con reminiscenze tassesche.
Questo canto è un canto del ricordo: Leopardi ricorda Silvia nella loro gioventù. I due hanno aspettative per il futuro, ma Silvia muore lasciando il poeta privo di speranze.
Il poeta si ribella a questa morte accusando la Natura di rendere l’uomo infelice.
Il metro è la strofe libera di endecasillabi e settenari con alcune rime saltuarie e non stabilite.
Si avverte nella prima strofe una riflessione sulla gioventù che è bella perché ricca di speranze e aspettative per un futuro che per Silvia non verrà. La vita di Silvia è descritta come semplice e tipica delle donne del tempo.
La descrizione del paesaggio caratterizza lo stato d’animo del poeta.

La quiete dopo la tempesta
In questo idillio viene privilegiato il tema del piacere e del suo fondamento negativo.
L’unico piacere per l’uomo è la cessazione momentanea del dolore.
La lirica è ricca di dettagli realistici e di musicalità.
Secondo la critica del Sapegno non bisogna isolare in questa poesia i momenti di ispirazione lirica da quelli di riflessione filosofica.
L’ambientazione è quella di un paese che sembra rinascere dopo una tempesta; quindi il sentimento iniziale è quello di un ritorna alla tranquillità dei lavori quotidiani. La prima strofe infatti presenta delle descrizioni rasserenanti sia del paesaggio, sia della ripresa dei mestieri.
Questa tranquillità viene turbata dalla riflessione sulla gioia che viene definita come cessazione momentanea del dolore (piacer figlio d’affanno).
Leopardi riferisce questa riflessione non solo a se stesso ma a tutta l’umanità. Inoltre ha un obiettivo polemico contro le concezioni provvidenzialistiche che credono in una Natura benigna.

Il sabato del villaggio
Anche questa lirica descrive una situazione realistica e basata sulla osservazione della vita quotidiana, ma qui Leopardi vuole verificare un altro aspetto della teoria del piacere. Il piacere non è attuale ma si trova nell’illusione di una gioia futura.
Il sabato è il presunto bene che svela il carattere illusorio che induce poi alla noia. Il futuro indefinito si presta alla capacità immaginativa e quindi all’illusione.
Tutti sono felici nell’attesa del giorno festivo e addirittura si lavora fino a tarda sera perché il giorno successivo deve essere dedicato alla felicità.
Ma il giorno festivo sarà pieno di noia e non di felicità.
Leopardi si rivolge allora al fanciullo ammonendolo di godere della sua età giovane ricca di attesa e di speranza per il futuro, perché quando giunge l’età adulta essa è piena di tristezza e di noia e non porta mai le gioie sperate.

Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia

La poetica del canto sostiene che tra i vari generi della poesia l’unico che si addice ai moderni è la lirica. La lirica persiste nel tempo e attraverso essa i moderni si avvicinano agli antichi. Inoltre è un genere adatto per la poesia di meditazione su problematiche che l’uomo si pone.
Il genere epico e il dramma invece non sono possibili perché l’età moderna è priva di eroi e nazionalismi, ma è ricca di illusioni e rimembranze.
C’è un legame soprattutto il questo canto tra Leopardi e lo studio della filosofia antica, infatti Leopardi ravvisa nel mondo antico già elementi di infelicità.
Nel titolo il pastore è definito errante nel senso sia di colui che vaga sia di colui che sbaglia, ma questa seconda idea si trova in contraddizione con il termine pastore che significa guida.
Per comporre questo canto Leopardi si ispira ad un articolo riportato poi nel quaderno dello Zibaldone di un barone che racconta di un viaggio in Asia e nel quale descrive i pastori orientali che improvvisano canti notturni rivolti  verso la luna.
La rima è caratterizzata dalla presenza della finale in –ale alla fine di ogni strofe, che dà al canto un senso di cantilena.
Il canto si apre con una serie di domande retoriche, di quesiti metafisici che rimangono irrisolti e questo è ben esplicitato dall’aggettivo “silenziosa”.
L’apostrofe iniziale alla luna si ritrova anche nell’Idillio Alla luna.
La vita del pastore viene paragonata alla ciclicità della luna e vengono attribuiti al pastore due azioni che si ripetono SORGE e MOVE. L’infelicità del pastore è infatti determinata dalla perdita di speranza e quindi del piacere perché per lui il futuro è uguale al presente e al passato.
Nella seconda strofe si trova l’immagine del vecchio che dopo tante fatiche cade nell’oblio. Questa immagine ripresa da un sonetto petrarchesco richiama la concezione della vita di Leopardi.
La luna è detta Vergine perché non toccata dalla miseria umana ed inoltre si riferisce alla figura mitologica di Artemide adorata come Selene con la caratteristica della verginità.
Nella terza strofe Leopardi si identifica ormai con il pastore e porge delle domande all’ordine della natura che è responsabile dell’inganno della nascita e quindi della sofferenza dell’uomo.
Più avanti la riflessione si sposta da una prospettiva umana ad una universale e si passa a domande sul significato dei singoli fenomeni naturali.
Il pastore sente un senso di nullità di fronte alla luna che sicuramente conosce la risposta alle sue domande.
Ritorna come nell’Idillio giovanile l’idea di infinito come qualcosa che si allarga oltre la capacità visiva dell’uomo.
Poi il pastore si rivolge al suo gregge che a differenza dell’uomo riposa senza paura del tedio, che per Leopardi è la condizione di mancanza sia di piacere che di dolore e quindi di eterna insoddisfazione.
Nell’ultima strofe il pastore immagina che l’ideale della felicità possa essere la possibilità di volare fino alle stelle, ma subito si ricrede perché per tutti la vita è sventura e il giorno della nascita è funesto.

A se stesso

Scritto nel 1833 è l’ultimo canto della stagione fiorentina.
Nella forma di colloquio con se stesso il poeta invita il suo cuore a riposarsi, perché il mondo non è degno del suo palpitare, ma solo di disprezzo.
La prima invocazione segna la caduta dell’ultima illusione e quindi una sensazione di disperazione. L’idea di immobilità del cuore porta il pensiero della morte.
Nel secondo appello al cuore il poeta dice appunto che il mondo è fango e quindi non è degno neanche della sofferenza dell’uomo, ma solo del disprezzo e infine il poeta asserisce che l’unico dono del destino è la morte, perché ormai disprezza se stesso, la natura il male onnipotente.

La ginestra

Ultima opera di Leopardi è il suo testamento poetico.
Vengono sviluppati in questa lirica parecchi dei temi trattati nelle altre opere, ma in particolar modo si ritrova la polemica contro lo spiritualismo e al sua cultura antropocentrica. Inoltre si risolve anche il pessimismo grazie alla trattazione della tematica solidaristica.
La lirica viene rivalutata nel 1947 grazie alla critica del Luperini “Leopardi progressivo” e del Binni “Nuova poetica leopardiana”
La ginestra è un fiore che cresce a cespugli in zone aride ed alle pendici del Vesuvio è considerata l’unica forma di vita. E’ una figura partecipe alla distruzione dell’umanità e si piega alla natura che imperversa divenendo  monito per la superbia umana.
In apertura viene riportato un versetto del Vangelo di San Giovanni, ma in modo polemico. Per Leopardi la luce è il pensiero risorto dopo la barbarie del Medioevo. Si sente in questa concezione la forte ascendenza dell’Illuminismo sulla cultura leopardiana.
Il Vesuvio è simbolo di distruzione e questa immagine viene ripresa da una epistola di Volteire che parla del terremoto a Lisbona utilizzato come dimostrazione dell’impotenza dell’uomo davanti alle calamità naturali.
La descrizione non è certo idilliaca, ma scabra e arida. La desolazione del paesaggio contrasta con la grandezza della passata Roma.
La grandezza creata dall’uomo viene distrutta in un attimo dalla natura e quindi la superbia umana è inutile.
L’espressione “le magnifiche sorti e progressive” è tratta dalla “Dedica agli Inni sacri”  di Terenzio Mamiani.
Il poeta poi accusa il secolo in cui vive di aver abbandonato la via del Rinascimento. Leopardi si oppone così alle teorie sostenute da Manzoni, Rosmini e Gioberti.
La natura diventa matrigna, perché attraverso la ragione esaltata nell’Illuminismo l’uomo ha scoperto i suoi limiti e quelli dell’universo.
Leopardi polemizza anche sull’autoinganno dell’uomo, cioè sul fatto che l’uomo pesi ad un mondo creato in modo perfetto e per l’uomo.
Ma la vera grandezza dell’uomo è riconoscere la sua fragilità. Nasce allora l’idea del solidarismo, cioè di una utopia che prevede l’unione degli uomini contro la natura, unica colpevole e una pace tra gli uomini stessi che sono sciocchi se si fanno guerra, perché questo comportamento accresce il dolore umano.
Viene analizzato anche il tema della pietà nei confronti della natura umana, per l’uomo che non sa distinguere il vero dal falso e che ha perso l’uso della ragione.
Dopo una nuova descrizione paesaggistica sempre più lontana dall’idillio Leopardi si domanda che cos’è l’uomo di fronte alla grandezza dell’Universo. Fa quindi un paragone tra l’uomo e l’immensamente grande. Al verso 192 Leopardi polemizza contro le credenze cristiane e la superbia dell’idea di far scendere la divinità sulla terra e farla conversare con gli uomini.
Descrivendo il Vesuvio Leopardi paragona le rovine di Pompei a quelle prodotte in un formicaio dalla caduta di una mela. Il paragone con le formiche è presente anche in una novella del Verga.
La natura non ha rispetto per l’uomo e tanto meno per la formica.
La presenza della natura è costantemente in agguato e l’uomo è spaventato dagli eventi naturali. Anche le persone colte non possono ignorare questa presenza. Leopardi si pone così contro le teorie progressiste che hanno carattere consolatorio.
C’è un riferimento agli scavi di Pompei iniziati nel 1748 che fa rinascere il gusto per la rovina, per l’architettura del passato.
Il linguaggio di Leopardi è classicheggiante e si rifà sia a modelli classici come Petrarca sia ai modelli neoclassici come Alfieri, Parini e Monti. Nonostante questo la lingua leopardiana è moderna perché egli ritiene che esistano delle profonde differenze tra la lingua parlata e quella scritta, perché il parlato antico contiene dei caratteri che il parlato non ha.
Foscolo riteneva che quando il tempo avrà distrutto tutto rimarrà solo la poesia, mentre leopardi dice proprio il contrario, cioè neanche le opere dell’uomo sono eterne.
La forza dell’uomo è la mancanza di vigliaccheria, l’uomo deve solo accettare il destino.

 

Fonte:

http://www.webalice.it/forluca/materials/appunti/ITALIANO.DOC

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

 

 

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