Storia del giardino all’italiana

 

 

 

Storia del giardino all’italiana

 

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Storia del giardino all’italiana

 

Storia del giardino all’italiana

Accenni  al  giardino  del  Quattrocento

Il Quattrocento rappresenta un momento cruciale nella storia del giardino italiano: nel corso di questo secolo infatti assistiamo all’evoluzione del giardino tardo-medievale in giardino moderno, dell’hortus conclusus in locus amoenus. La trasformazione del giardino è strettamente legata a quella dell’adiacente residenza aristocratica in città e in campagna, che nello stesso tempo passa rispettivamente dalla casa-torre al palazzo urbano, dal castello feudale alla villa umanistica. Il giardino si caratterizza, quindi, come l’elemento chiave del graduale passaggio dalla struttura chiusa del castello fortificato a quella aperta verso il paesaggio della villa moderna, dettato oltre che dal venir meno di ragioni difensive, dal rinnovato interesse nei confronti della natura, mentre l’hortus conclusus della tradizione medievale sopravvive nel giardino segreto, che godrà di una discreta fortuna nel Cinquecento e nel Seicento, in quanto spazio chiuso destinato alla coltura dei fiori, riservato al proprietario e a pochi intimi. Giardino e residenza in muratura, in età tardo- medievale concepiti indipendentemente uno dall’altro, ciascuno secondo suoi propri principi, si fonderanno nel primo Rinascimento in un’unica composizione, impostata secondo precise regole  prospettiche, ponendo le basi per il loro successivo straordinario sviluppo nel Cinque e nel Seicento.

Nei giardini si combinano elementi classici con la concezione orientale del giardino-paradiso recintato, di tradizione medievale. Un prato di tenera erba, una fontana nel mezzo, delimitata da bordure di fiori quali viole, gigli e rose e erbe aromatiche. Molto ricercati sono gli alberi da frutto, peri, meli, palme, nocciole, melograni, ciliegi, pruni, fichi e viti per la bellezza del fiore, l’abbondanza e la soavità del frutto, l’ombra che offrono e per il canto degli uccelli che trovano riparo. Tutt’attorno il giardino va recintato con un fossato e alte siepi miste, secondo il clima.                                                                    L’articolazione planimetrica del giardino, per lo più scandito in regolari riquadri a loro volta articolati in geometrici scomparti,è studiata in funzione del rapporto che si stabilisce tra giardino, architettura e paesaggio.

Roma e il giardino italiano moderno

Con l’inizio del Cinquecento Roma diventa il principale centro artistico e culturale della penisola, grazie all’impegno della committenza papale ed è qui che ha avvio la grande stagione del giardino italiano moderno. Ad inaugurare la nuova architettura dei giardini è sicuramente il cortile del Belvedere in Vaticano, immensa architettura all’aperto progettata da Bramante per incarico di Giulio  II, intorno al 1503, per collegare i palazzi pontifici con la villa costruita da Innocenzo VIII  alla fine del Quattrocento, che sorgeva isolata, in alto sul colle di Sant’ Egidio, insieme teatro, museo e locus amoenus.

Il giardino : ubicazione e ruolo

Scamozzi, architetto e scenografo italiano del Rinascimento, operante nel tardo Cinquecento e nel primo Seicento a Vicenza e nell'area veneziana, in uno dei suoi trattati in cui prende in considerazione tutti gli aspetti della villa, parla anche del giardino. Si sofferma sull’ubicazione della villa in relazione al paesaggio circostante, alle strade e ai corsi d’acqua. Sostiene che il giardino che attornia l’edificio non debba impedire in alcun modo la vista della circostante campagna dal palazzo e viceversa, del palazzo dall’esterno. Di conseguenza gli elementi di maggior ingombro, quali spalliere e filari di alberi, vanno collocati alle estremità del complesso, sui fianchi o sul fondo e statue e piante in vaso su alti piedistalli.

Scamozzi spiega poi il duplice ruolo del giardino: oltre ad essere un lucus amoenus, dove passeggiare ed intrattenersi con gli amici, deve fornire “belle vedute” a chi si affaccia dai piani superiori della residenza, nel caso in cui la natura stessa non vi avesse provveduto. Nelle ville circondate da piatte, monotone distese di campi coltivati il giardino, deve, pertanto, essere il più ampio possibile, sebbene non al punto da non poterne poi garantire una adeguata manutenzione. In realtà raramente supera i 300 metri per lato. La pianta rettangolare della villa con corte anteriore e sul retro o sui fianchi, o su tutti e tre i versanti , il giardino, scompartito in regolari riquadri, si inseriscono armoniosamente nella trama geometrica del territorio agricolo.

Costruzione del giardino

Nella costruzione dei giardini delle ville, come già avvenuto per i monumentali complessi antichi e per i pittoreschi borghi medievali, si riscontra una straordinaria capacità di adattarsi alla conformazione naturale del sito fino ad immedesimarsi con esso, ora inerpicandosi su pendii scoscesi, come nel caso delle ville genovesi ora adagiandosi su un dolce declivio, come villa Madama.

La costruzione di un giardino inizia con la sistemazione del terreno, articolando in regolari terrazze un informe pendio, creando una piattaforma sulla cima di un’altura o più semplicemente livellando un’area pianeggiante. Per adattare il sito naturale ad accogliere la villa a volte sono necessari sbancamenti, spianamenti e colmate decisamente avventurose (come nel caso di Villa d’Este a Tivoli, che presenta un territorio in parte roccioso e in parte acquitrinoso), ma soprattutto creare, qualora fossero inesistenti, lievi inclinazioni per garantire lo scolo delle acque. È inoltre indispensabile avere fin dall’inizio una precisa visione d’insieme, per evitare che, in seguito ad eventuali ripensamenti o ampliamenti, il giardino risulti un’ “opera disordinata, rappezzata e confusa”.

Gli spazi così ottenuti vengono quindi articolati simmetricamente ai lati di un’asse mediano, e geometricamente scompartiti, preferibilmente da percorsi tra loro perpendicolari, in un tracciato a griglia al cui interno si inseriscono edifici e giardini. Le soluzioni planimetriche risultano tuttavia variate, legate alle peculiarità del sito, alle esigenze della committenza e alla inventività del progettista.

Accanto alla parte formale, architettonica del complesso, spesso si trova una sezione informale, il selvatico, dove la vegetazione, per lo più ad alto fusto è lasciata crescere nella sua forma spontanea (come a villa Giulia a Roma e a villa Lante a Bagnaia). All’interno della trama del giardino i vari elementi, dalle statue all’acqua, dai movimenti del terreno alla vegetazione, dapprincipio ciascuno concepito individualmente, si fondono a comporre una perfetta sinfonia.

L’acqua e le grotte

L’acqua svolge una parte di primo piano nell’architettura dei giardini del secondo Cinquecento (soprattutto laziali e toscani), dove non è più solo distribuita da fontane ornate di statue che la gettano in sottostanti vasche, come nei giardini del ‘300 e del ‘400. Gli architetti dei giardini del ‘500 hanno riscoperto “l’ingegnoso artifizio di far le fonti”, dice Claudio Tolomei, basandosi sugli scritti di idraulica di Frontino, Vitruvio e soprattutto Erone Alessandrino, che spiegavano come sfruttare la forza combinata dell’aria e dell’acqua compressa per far sprigionare e scorrere le acque nei modi più impensati, impiegandola anche a scopi ludici e spettacolari.

Cercano poi di combinare  il moto dell’acqua con la tipologia classica del ninfeo e della grotta, tanto diffusa presso gli antichi, che usavano rivestire con mosaici, conchiglie e pietre tufacee particolarmente porose. In questo periodo le grotte si fanno sempre più numerose e le decorazioni si arricchiscono di nuovi materiali e tecniche. L’acqua sgorga nei modi più svariati, imitando il lamento di un pianto e l’impetuoso scroscio delle cascate, ma anche l’aria e il fuoco.

Per lasciar scorrere liberamente le acque lungo la trama del giardino talvolta gli edifici si ritraggono riducendosi a scenografiche quinte o fondali. È il caso di villa Lante a Bagnania, con le sue fontane, vasche, catene d’acqua e peschiere.

Il  richiamo all’antico

Le statue antiche, i frammenti architettonici e gli altri reperti archeologici collezionati a Roma fin dalla fine del Quattrocento, erano dal principio accatastati nei giardini senza criteri espositivi. Bramante, per primo, ha cercato di creare un allestimento che mettesse in rilievo le qualità estetiche delle singole opere nel cortile delle Statue, posto tra la villa di Innocenzo VIII e l’esedra superiore del cortile del Belvedere. Talvolta bassorilievi e statue antiche vengono inserite, secondo accurati criteri espositivi, in nicchie e riquadri. La formulazione di uno specifico programma iconografico che, varcate le mura degli edifici, coinvolge il giardino nella sua interezza, è una delle novità di maggior rilievo nei giardini del Cinquecento, infatti per la messa a punto del programma e per colmare eventuali lacune in materia di opere d’arte venivano consultati illustri intellettuali.

Il richiamo all’antico, un’aspirazione costante dei giardini fin dal Quattrocento, raggiunge l’apice nel secolo successivo in quelle situazioni in cui i moderni manufatti si innestano direttamente sulle rovine di monumenti classici. La ben dosata combinazione di elementi naturali e di altri frutto del più sofisticato artificio, impreziosisce il giardino, “ ove mescolando l’arte con la natura, non si sa discernere s’ella è opera di questa o di quella” (Claudio Tolomei).

Alle statue viene affidato il messaggio che col giardino si intende trasmettere, in alcuni casi collegato con il ciclo di affreschi negli interni della residenza e probabilmente redatto in collaborazione dai diversi artisti coinvolti. Leon battista Alberti in uno dei suoi trattati accetta l’utilizzo di statue che destino ilarità ma mette in guardia da quelle oscene.

La vegetazione                                             

La vegetazione riflette la dicotomia tra spontaneità e artificio che caratterizza questo giardino. Da un lato un’esuberanza di specie arboree prevalentemente indigene, lasciate crescere nel “selvatico” o nei boschi che circondano e fanno da sfondo al complesso quando questo è adagiato su un pendio. Nelle sezioni geometriche impostate, alberi e arbusti sono piantati a schiera e usati per creare architetture vegetali, quali spalliere, nicchie, volte, cube, portici, logge rette da supporti in legno o in ferro. Spalliere e pergolati assicurano l’ombra lungo il percorso del giardino e con le siepi ne definiscono l’articolazione spaziale e l’architettura vegetale crea teatri, anfiteatri e labirinti. Gli alberi da frutto continuano ad avere uno spazio privilegiato nel giardino.

Il rinnovato interesse per il mondo vegetale del Rinascimento scientifico che sfocia, alla metà del ‘500, nella fondazione degli orti botanici di Pisa e di Padova, inizialmente destinati ad accogliere le sole piante officinali, ma ben presto aperti a tutte le specie e produce le enciclopediche catalogazioni del mondo vegetale, minerale, animale. Stimola inoltre i viaggi di esplorazione scientifica, in seguito alla scoperta delle Americhe che portano alla individuazione, all’introduzione e allo studio di svariate nuove specie vegetali, medicinali, alimentari, ma anche semplicemente belle o curiose. In breve si scatena una grande passione per il collezionismo botanico che, parzialmente accantonate le piante aromatiche e officinali presenti nel giardino del ‘400, ha come oggetto soprattutto erbacee dalla stupefacente fioritura, e trova la sua sede ideale nel cosiddetto “giardino dei fiori”. Nella seconda metà del ‘500 e nei primi decenni del secolo successivo le cure maggiori sono rivolte alle bulbose, alcune note da tempo, altre acclimatate da poco, provenienti per lo più dal vicino Oriente, il cui fascino è in parte riposto nella magnifica fugace efflorescenza: iris, narcisi, gigli, giacinti, anemoni, ranuncoli e gli ambitissimi tulipani (provenienti dalla Turchia). L’orticoltura ornamentale raggiunge il suo apice tra la fine del ‘500 e i primi decenni del secolo successivo, quando l’artificio umano, con interventi a cavallo tra alchimia e magia, giunge a mutare a piacimento il colore dei fiori, ad incrementare le dimensioni e ad ottenere i ricercatissimi fiori doppi.

Le aiuole

Le aiuole sono generalmente quadrate, circolari, poligonali o a stella, un tipo, quest’ultimo, che, secondo quanto attestano le fonti, è però sconsigliato poiché in angustia d’angoli acuti, restano soffocate le piante. È consigliabile poi definire i contorni delle aiuole di piante come di bosso, di mirto, di timo, di lavanda oppure con le tavole che si usano per i pavimenti. Accanto alle pregiate erbacee da fiore annuali, che richiedono tanto lavoro e durano poco, si posso affiancare alcune perenni meno esotiche ma più durevoli “acciochè il giardino sia florido in ogni tempo” (Pona).                                                                     Alberti, secondo un’antica tradizione, consiglia poi di scrivere nelle aiuole le iniziali del nome del proprietario con il bosso.

Il labirinto

Il labirinto oltre ad essere elemento ornamentale, assume i puri caratteri de gioco. Le ville, infatti, assumono sempre più la qualifica di luogo di villeggiatura e quindi di divertimento ed è così che in Europa nasce a partire dalla metà del ‘500 l’abitudine di ornare le corti con dedali di eccellente fattura che non erano altro che un passatempo per i proprietari. Tra le caratteristiche fondamentali vi è la perfetta geometria delle forme, tra le quali si predilige il cerchio, considerata la figura perfetta e l’ellisse. Il suo aspetto esteriore fa riferimento quindi alla venustas di tipo vitruviano caratterizzata dalla proporzione antropomorfica delle forme.

 

 

 

Giardino di Boboli

Il giardino di Boboli, costruito nel cuore di Firenze tra il Forte di Belvedere e la reggia medicea di Palazzo Pitti, è un parco monumentale di altissimo effetto scenografico, considerato uno dei massimi esempi, forse il più grandioso, di quegli impianti che hanno contribuito a consolidare la tipologia classica del giardino all’italiana.

Boboli si estende per quasi cinque ettari ed il suo completamento interessa oltre quattro secoli di storia, dal Rinascimento all’Ottocento, rappresentando inevitabilmente il frutto di più interventi successivi, voluti dai sovrani che via via hanno dimorato a palazzo.

Nelle spettacolari sequenze prospettiche, tipica espressione della concezione formale del giardino all’italiana, la presenza architettonicamente ordinata di un singolare e raro patrimonio botanico si accompagna a quella di vere e proprie opere d’arte, capolavori dell’architettura e della scultura, tra manierismo e neoclassicismo, ricchi di significati e rimandi simbolici.

Boboli è uno straordinario museo en plein air, testimone dei fasti di un illustre passato, ma anche un caleidoscopio di giardini, diversi nelle ore e nelle stagioni, un imprevedibile universo popolato di presenze fantastiche che da sempre esercita su viaggiatori ed intellettuali un fascino indiscusso.

Il giardino di Boboli nasce come ideale proseguimento del cortile di Palazzo Pitti, acquistato nel 1549 da Eleonora di Toledo, moglie del duca Cosimo I  de’ Medici, quando il suo primo proprietario, il banchiere Luca Pitti, aveva dichiarato fallimento. Davanti  al palazzo c’era uno spazio verde, l’Orto de’ Pitti, che tuttavia Eleonora desiderava ampliare trasformandolo in un giardino che fosse degna cornice della reggia che Cosimo intendeva realizzare nel palazzo.

All’ampliamento venne destinata la vasta area, originariamente a destinazione agricola, affacciata sui bastioni cittadini e sulla cinta muraria trecentesca, già denominata in epoca medievale Boboli, nome ricorrente nella toponomastica toscana per distinguere le aree boschive.

Il progetto fu affidato a Niccolò Pericoli, detto il Tribolo, artista prediletto dal Duca e autore, una decina d’anni prima, dell’altro giardino di Cosimo, quello della Villa di Castello. Al Tribolo si deve l’idea dello sbancamento della collina per la creazione dell’Anfiteatro: realizzazione felice sia dal punto di vista prospettico che dal punto di vista funzionale. In questo modo si crea il primo asse prospettico nel giardino, con direzione nord-ovest/sud-est che, partendo idealmente dall’ingresso principale del Palazzo, arriva sulla collina fino al Forte Belvedere.

Alla morte del Tribolo i lavori proseguirono sotto la direzione di Bartolomeo Ammannati (1511-1592) e successivamente di Bernardo Buontalenti (1568-1635), ma venne rispettato l’impianto da questi originariamente concepito.  Fu realizzato, infatti, nell’area retrostante il palazzo ai piedi della collina che sale verso il Forte Belvedere, l’Anfiteatro, uno spazio semiellittico destinato agli spettacoli di corte, che si rifaceva allo schema degli ippodromi romani. La forma dell’anfiteatro si sarebbe adattata alle nuove ali del palazzo, previste dal progetto di ampliamento voluto da Cosimo, così realizzando quell’inscindibile unità architettonica tra l’edificio ed il giardino tipica della ricerca rinascimentale.

L’odierno “anfiteatro di verzura”, il cui magnifico scenario si apre al visitatore al termine della rampa d’accesso al giardino, sostituisce quello originario formato da terrazzamenti piantati con platani, faggi, querce, frassini, olmi e cipressi. L’attuale sistemazione è attribuita all’architetto Giulio Parigi che progettò e fece costruire successivamente la struttura in muratura. Al centro dell’anfiteatro si trovano il grande obelisco egizio proveniente da Luxor, sistemato nell’attuale collocazione nel 1790, e una grande vasca antica di granito la cui collocazione risale al 1840.

Si deve infine all’iniziale progetto del Tribolo la suddivisione della collina e della valletta retrostanti il palazzo in compartimenti a maglia ortogonale, all’interno dei quali, secondo la tradizione tipicamente toscana delle “ragnaie” (boschetti delimitati da spalliere e destinati alla caccia degli uccelli con le reti, denominate “ragne”) furono piantati vigneti ed oliveti nonché ampi boschetti attraversati da alte spalliere.

Tutti i boschetti interni erano, come attualmente, composti prevalentemente di leccio, così come le alte siepi che delimitano i viali composte anch’esse di leccio nella parte superiore e di arbusti di varie specie nella parte inferiore (Viburnum tinus, Laurus nobilis, Phyllirea latifolia, Myrtus communis).

Tra i diversi architetti che dopo Pericoli si occuparono del giardino e del palazzo si segnala la figura geniale di Bernardo Buontalenti cui si deve la realizzazione della Grotta Grande detta del Buontalenti, uno dei capolavori di Boboli. Dietro l’elegante loggetta d’ingresso, sostenuta da preziose colonne di marmo rosso, che risale al preesistente vivaio opera di Giorgio Vasari, la fantasia manierista dell’autore ha creato tre ambienti suggestivi e fantastici ispirati al tema dominante della metamorfosi.

 

Il giardino

Il giardino a pianta triangolare è caratterizzato da due assi ortogonali che s'incrociano approssimativamente all'altezza del Bacino di Nettuno; questi in forte pendenza, sono segnati da un percorso centrale e si sviluppano attraverso una serie di terrazze segnate da controviali, sentieri, elementi scultorei o verdi che introducono ad ambienti particolari: radure, giardini recinti, costruzioni. All'inizio del percorso di visita vi è la fontana con la statua di un nano a cavallo di una tartaruga, realizzata nel 1560 da Valerio Cigoli (1529-1599) proseguendo si giunge alla Grotta del Buontalenti. La grotta nel suo complesso è opera del genio creativo del Buontalenti, che la concepì per Cosimo. Questa si compone di tre camere comunicanti: la prima, decorata a stucchi e spugne è caratterizzata da scene pastorali eseguite da Bernardino Poccetti (1542-1612); la seconda ospita il gruppo marmoreo di Paride che Rapisce Elena, opera di Vincenzo Rossi da Fiesole (1525-1587) e la terza affrescata dal Poccianti, ospita una bella fontana del Giambologna (1529-1608) raffigurante Venere che esce dal bagno. Oltre le statue dei Prigionieri Daci, il percorso prosegue e adiacente al viale in salita si trovano l'Orto di Giove, con la statua di Giove seduto ed adiacente, il Giardino di Madama. Salendo ancora si arriva al grande Anfiteatro a ferro di cavallo ed alla Fontana del Carciofo, dalla grande vasca ottagonale decorata con numerose statue e coronata dal carciofo in bronzo opera di Francesco Susini. L'Anfiteatro concepito forse come architettura verde, già nel 1599 fu arricchito dalle gradonate ancora esistenti, sormontate da edicole con nicchie che racchiudono statue in marmo ed urne in terracotta. La vasca in granito proveniente dalle terme di Caracalla ed un obelisco portato a Roma nel 30 a.C. dall'Egitto che Pietro Leopoldo fece trasferire a Boboli nel 1790 facendogli fare da Gaspero Paoletti (1727-1813) un basamento con tartarughe in bronzo furono collocati al centro dell'anfiteatro nel 1841. Percorrendo l'asse principale si arriva al Bacino di Nettuno attraverso una doppia rampa, all'inizio della quale vi sono tre statue di epoca romana. Attualmente il bacino è dominato dalla statua bronzea di Nettuno che emerge da uno sperone roccioso decorato con naiadi e tritoni, opera del Lorenzi (1534-1583), posta al centro di una grande vasca circondata da terrazzamenti erbosi digradanti alla cui sommità, racchiusa in una nicchia di lecci è posta la grande statua dell'Abbondanza eseguita da Pietro Tacca intorno al 1636. Da questa parte sono confine del giardino le antiche mura di città con gli elementi architettonici del Forte Belvedere e del giardino del Cavaliere, posto su un bastione o "cavaliere" delle mura costruite da Michelangiolo nel 1529. Al giardino si accede con una scala a tenaglia ai cui lati si trovano due antiche statue raffiguranti le Muse; nelle nicchie statue di Flora e di Giove Giovane opera di Giovanni Caccini. Al centro del giardino disegnato da basse siepi di bosso vi è la fontana con putto centrale in marmo, detta delle Scimmie per le tre scimmie in bronzo poste alla base. Sotto il Casino del Cavaliere vi è un grande deposito d'acqua detto "delle trote" dal quale partono le tubature per la distribuzione dell'acqua in tutto il giardino. Sul lato est dell'anfiteatro all'altezza della statua dell'Abbondanza si raggiunge la Kaffeehaus, opera di Zanobi del Rosso, padiglione in stile rococò con esotica cupola finestrata Il piccolo edificio si erge su un prato digradante al cui centro si trova la fontana di Ganimede (XVII sec.). La Kaffeehaus può essere considerato il caposaldo visivo terminale del secondo asse del parco, costituito dal viale in forte discesa, detto il Viottolone, che scandisce l'ampliamento seicentesco del giardino. L'imbocco del Viottolone è segnato da due statue dette dei Tirannicidi greci e il suo è scandito dalla sistemazione su entrambi i lati di statue antiche, in prevalenza romane e settecentesche. Tre viali perpendicolari segnano la partitura di questa parte del giardino, che ha subito nel tempo diverse trasformazioni interne, fra le quali quella del Labirinto, del quale resta solo la vasca centrale, distrutto nel 1832 dal percorso per le carrozze. Il primo viale trasversale è costituito da un pergolato di lecci con bassi sedili di pietra ai lati e all'incrocio con il Viottolone sono poste quattro statue di marmo opera di Giovanni Caccini che raffigurano la Prudenza, Esculapio, l'Autunno, e l'Estate, il percorso termina sul lato destro con la fontana dell'Oceano. Il secondo percorso trasversale termina verso le mura della città con il busto di Giove, attribuito al Giambologna e il suo incrocio col Viottolone è segnata da tre statue romane (Senatore, Bacco e Filosofo calvo) e una settecentesca. Più in basso l'incrocio con il terzo viale è caratterizzato da sei statue: Esculapio, Andromeda, una Ninfa, la Modestia, e i due gruppi a due figure campagnole dei giochi dello scaccomazzone e della pentolaccia. Alla fine del Viottolone la ripida prospettiva improvvisamente si apre sull'ellittica Vasca dell'Isola, realizzata da i Parigi nel 1618. Siepi di leccio, alte 12 metri sono il fondale delle numerose statue di pietra e di marmo soggetto mitologico, storico o popolano delimitano il piazzale ellittico interamente occupato quasi interamente da un vascone collegato a terra da due passerelle il cui imbocco è segnato da un cancello in ferro battuto. Al centro del bacino è collocata la Fontana dell'Oceano, opera del Giambologna Questa è composta dalla statua di Nettuno che sovrasta le tre statue del i Nilo, Gange e Eufrate che versano le loro acque nell'Oceano, vasca di granito dell'Elba, il cui basamento è arricchito da bassorilievi. Dall'acqua dell'isola emergono i gruppi marmorei di Perseo a cavallo e d'Andromeda con le caviglie incatenate nella roccia; In corrispondenza all'asse principale si notano i gruppi della fontana delle Arpie e quella dei Putti. In asse con il Viottolone, dopo una partitura operata da un viale trasversale segnato da quattro statue antiche raffiguranti: Giove Serapide, Giove, Divinità maschile e Claudio Imperatore si arriva all'Emiciclo o Prato delle colonne, definito da un'alta siepe con dodici nicchie che contengono busti colossali e al cui centro sono poste simmetricamente, due colonne in granito rosso che sorreggono vasi di marmo. L'ingresso di Porta Romana si apre con un rondò nel quale sono collocati alcuni gruppi in pietra. Vicino al cancello si trova la Fontana della Botticella che raffigura un contadino che versa acqua da una piccola botte su una base che è costituita da un sarcofago romano. Costeggiando il muro di cinta verso via Romana e risalendo verso Palazzo Pitti si incontrano una serie di statue fino a giungere alla Limonaia, edificio frutto di una trasformazione di una precedente fabbrica eseguita nel 1785 da Zanobi del Rosso. Vicino al grande cancello su via Romana si trova la Palazzina d'Annalena, piccola costruzione in stile neoclassico opera del Cacialli, presso la quale è visibile un piccolo giardino che ospita piante di azalee portate a Boboli dai Savoia. Proseguendo adiacente a Palazzo Pitti c'è l'edificio della Meridiana opera neoclassica di Gaspare Maria Paoletti (1778) e Pasquale Poccianti, che prende il suo nome dalle meridiane poste in facciata. Davanti a questo si estende il Prato della Meridiana, ampio spiazzo erboso in forte salita con percorsi trasversali disseminati di statue. 

Il Giardino di Boboli è un parco storico della città di Firenze. Nato come giardino granducale di palazzo Pitti, è connesso anche al Forte di Belvedere, avamposto militare per la sicurezza del sovrano e la sua famiglia. Il giardino, che accoglie ogni anno oltre 800.000 visitatori, è uno dei più importanti esempi di giardino all'italiana al mondo ed è un vero e proprio museo all'aperto, per l'impostazione architettonico - paesaggistica e per la collezione di sculture, che vanno dalle antichità romane al XIX secolo.

I giardini dietro Palazzo Pitti, residenza dapprima dei Medici, poi dei Lorena e dei Savoia, furono costruiti tra il XV e il XIX secolo e occupano un'area di circa 45.000 metri quadri. Alla prima impostazione di stile rinascimentale, visibile nel nucleo più vicino al palazzo, si aggiunsero negli anni nuove porzioni con differenti impostazioni: lungo l'asse parallelo al palazzo nacquero l'asse prospettico del Viottolone, dal quale si dipanano vialetti ricoperti di ghiaia che portano a laghetti, fontane, ninfei, tempietti e grotte. Notevole è l'importanza che nel giardino assumono le statue e gli edifici, come la settecentesca Kaffeehaus (raro esempio di gusto rococò), che permette di godere del panorama sulla città, o la Limonaia, ancora nell'originario color verde Lorena.

Il giardino ha quattro ingressi fruibili dal pubblico: dal cortile dell'Ammannati di Palazzo Pitti, dal Forte di Belvedere, da via Romana(l'ingresso di Annalena) e dal piazzale di Porta Romana, oltre a un'uscita "extra" su piazza Pitti.

 

La Storia

L'origine del nome "Boboli" nasce forse dai possedimenti della famiglia Borgolo, che si trovavano nel territorio della chiesa di Santa Felicita il Oltrarno, che Luca Pitti acquistò come orti nel 1418, quarant'anni prima di iniziare la costruzione del palazzo che dalla sua famiglia prese in nome.

Con il passaggio della proprietà ai Medici nel 1549, per l'acquisto da parte di Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I de' Medici, iniziarono l'abbellimento e gli ampliamenti, che coinvolsero anche il giardino. Esso fu iniziato da Niccolò Tribolo, architetto che dieci anni prima aveva già superbamente lavorato ai giardini della Villa medicea di Castello.

Il Tribolo lasciò un progetto al quale si attribuisce quasi certamente l'anfiteatro ricavato dallo sbancamento della collina, con il primo asse prospettico nord-ovest/sud-est, naturale estensione del cortile dell'Ammannati, tra il palazzo e il futuro Forte di Belvedere. La pietraforte usata per costruire palazzo Pitti veniva infatti prelevata proprio da questa conca, che è quindi artificiale. Il Tribolo morì di lì a poco nel 1550, quindi la direzione dei lavori passò a Bartolomeo Ammannati e in seguito a Bernardo Buontalenti. Una visione del giardino alla fine del Cinquecento si trova in una delle lunette delle ville medicee della famosa serie di Giusto Utens (1599 circa), già alla villa di Arti Mino ed oggi conservate nel Museo di Firenze com'era.

Durante il governo di Cosimo II (1609-1621) il giardino subì il più importante ingrandimento, quasi triplicando la sua estensione ad opera di Giulio Parigi e del figlio Alfonso, ideatori del secondo asse verso Porta Romana (il cosiddetto Viottolone).

Il giardino venne aperto al pubblico per la prima volta, sebbene con le dovute limitazioni, durante il regno di Pietro Leopoldo di Lorena.

Architettura e paesaggio 

I giardini hanno nel complesso una configurazione vagamente a triangolo allungato, con forti pendenze e due assi quasi perpendicolari che si incrociano vicino alla Fontana del Nettuno che si staglia sul panorama. A partire dai percorsi centrali degli assi poi si sviluppano una serie di terrazze, viali e vialetti, vedute prospettiche con statue, sentieri, radure, giardini recintati e costruzioni, in un'inesauribile fonte di ambienti curiosi e scenografici.

Il primo asse L'anfiteatro 

L'asse principale, centrato sulla facciata posteriore del palazzo, sale sul colle di Boboli, attraverso un profondo anfiteatro a forma di ferro di cavallo.

L'anfiteatro segna il punto dove la collina di Boboli venne scavata per prelevare la pietraforte usata per costruire Palazzo Pitti, e l'idea di sistemarlo in una grande spazio che in pianta disegna la forma di una campana, risale al Tribolo, che però molto probabilmente aveva concepito questa zona come architettura verde divisa da boschetti sempreverdi. Fu arricchito delle gradinate solo nel 1599, mentre le edicole con statue marmoree in stile antico e le urne in terracotta vennero ideate da Giulio e Alfonso Parigi il giovane a partire fra il 1630 e il1634. La struttura venne inaugurata nel 1637 in occasione dell'incoronazione di Vittoria della Rovere, moglie di Ferdinando II de' Medici, a granduchessa di Toscana.

Al centro vi si trovava anticamente la Fontana dell'Oceano, che nel XVII secolo venne spostata all'estremità sud-ovest del giardino (nell'Isolotto), in maniera da rendere possibile l'uso dell'anfiteatro per rappresentazioni, secondo la moda allora in gran voga degli spettacoli teatrali.

Il centro dell'anfiteatro venne abbellito nel 1790 dall'obelisco egiziano, l'unico della Toscana, nonché uno dei monumenti più antichi di tutta la regione: risale infatti al 1500 a.C. (molto tempo prima della fioritura della civiltà etrusca) e proviene dal Heliopolis in Egitto. Fu portato a Roma dall'Egitto all'epoca di Domiziano e eretto nel Tempio di Iside al Campo Marzio; dopo essere stato dissotterrato a fine del Cinquecento, finì nel giardino di Villa Medici a Roma. Venne trasportato a Firenze nel 1788 per la volontà del Granduca Pietro Leopoldo, quando radunò tutte le collezioni medicee in città per abbellire i suoi palazzi. Nel 1840 venne accoppiato con la grande vasca in granito grigio scolpita in un unico blocco e proveniente forse dalle Terme Alessandrine di Roma.

Dall'anfiteatro si gode una bella prospettiva del retro del palazzo, con le ali disposte attorno al cortile dell'Ammannati e la fontana del Carciofo.

Il bacino del Nettuno 

Più in alto, oltre l'anfiteatro, si incontra il bacino del Nettuno, attraverso una doppia rampa ornata da tre statue di epoca romana: un Settimio Severo a sinistra, un Magistrato romano a destra (ciascuna su un cippo funerario), ed al centro una Demetra su una base romana. La Demetra è una copia romana di un originale greco probabilmente di Alcamene, allievo di Fidia.

Il bacino del Nettuno fu creato nel 1777-1778 al posto di un vivaio. Qui vengono raccolte le acque che irrigano tutto il giardino e che hanno la sorgente più a monte, sotto il Giardino del Cavaliere.

Al centro del bacino si erge la Fontana del Nettuno, con la statua del Dio del mare emergente da uno sperone roccioso sul quale si trovano anche naiadi e tritoni. La statua principale è opera del 1571 dello scultore Stoldo Lorenzi e la fontana viene chiamata dagli irriverenti fiorentini la "Fontana del forcone" o "della forchetta" a causa del tridente impugnato da Nettuno in atto di colpire. Attorno alla fontana sono presenti dei terrazzamenti erbosi digradanti, che ripropongono la forma dell'anfiteatro sottostante.

Alla sommità di questa zona si trova la statua dell'Abbondanza (1636) di Pietro Tacca (con la collaborazione di Sebastiano Salvini), già iniziata dal Giambologna nel 1608. È un'opera in marmo bianco con il covone di grano in bronzo dorato. La figura ha le sembianze di Giovanna d'Austria, moglie di Francesco I de' Medici, e venne commissionata come sacrario della sfortunata granduchessa deceduta per un incidente a palazzo nel 1578 a soli trentadue anni. Inizialmente la statua sarebbe stata destinata ad una colonna celebrativa per piazza San Marco, che non venne mai realizzata.

In questa zona superiore il giardino è caratterizzato dalle muraglie difensive che si prolungano dal vicino Forte Belvedere, che si staglia sulla sinistra. Per attenuare la vista del muro di cinta vi si trovano numerosi alberi, siepi e una gran varietà di piante che creano alcuni vialetti pittoreschi.

Il giardino del Cavaliere 

Al culmine di questo asse, in posizione sfasata verso sud e con le mura cittadine a segnarne il confine, sorge Giardino del Cavaliere, uno dei giardini recintati di Boboli, che si trova esattamente sopra un bastione facente parte delle fortificazioni realizzate da Michelangelo nel 1529 prima dell'assedio cittadino dell'anno successivo. In architettura militare cavaliere veniva detta una struttura edificata al di sopra (appunto, a cavallo) di un bastione e da questo deriva il nome del giardino. Per accedervi si sale su una scala a tenaglia, cioè a rampe curve e incrociate con un terrazzino costruito sopra una piccola stanza circolare; questa scalinata fu progettata da Zanobi del Rosso tra il 1790 e il 1793.

Le due statue che decorano al scala raffigurano Flora e di Giove giovane entrambe di Giovanni Caccini.

Il giardino è decorato da basse siepi di bosso che creano forme geometriche e racchiudono specie rare e odorose di dalie e rose, che tra maggio e giugno fioriscono. La fontana centrale è chiamata fontana delle Scimmie per via delle tre scimmiette in bronzo alla base della fontana stessa; al centro della vasca l'acqua zampilla da un putto marmoreo.

Qui vi si trova il casino del Cavaliere, una palazzina costruita verso il 1700 su commissione di Cosimo III, dove il cardinale Leopoldo de' Medici teneva le conversazioni artistiche e letterarie, e dove Gian Gastone aveva il suo ritiro.

Le sobrie forme attuali, con le pareti decorate da cornici dipinte e il cornicione ornato da vasi e statue di terracotta, sono dovute alla sistemazione di Zanobi del Rosso per conto dei Lorena, che lo adibirono a sede dei festeggiamenti estivi della corte. Oggi è sede dal 1973 del Museo delle Porcellane.

La posizione privilegiata che dominava il retro della collina di Boboli offre ancora oggi dolci vedute panoramiche fino alla Torre del Gallo, con i terreni agricoli coltivati in parte a ulivo dove il tempo sembra essersi fermato.

Sotto il Casino del Cavaliere esiste un grande deposito d'acqua detto delle trote, dal quale partono le tubature per l'irrigazione di tutto il giardino.

A sinistra del primo asse 

La Kaffeehaus 

Ridiscendendo la collina verso nord-est, all'altezza più o meno della statua dell'Abbondanza, si raggiunge la Kaffeehaus, un padiglione in stile rococò coperto da un'esotica cupola finestrata e segnata da terrazze marcapiano opera di Zanobi del Rosso (1776), alla cui base, circondata da una scala doppia tenaglia si trova una grotticina. La costruzione, che oggi ospita un bar in un punto altamente panoramico, rappresenta anche il punto visivo di fuga del Viottolone, il grande viale che rappresenta il secondo asse dell'ampliamento del giardino, che idealmente portava alla Villa Medicea di Poggio Imperiale. Da qui, proseguendo a nord, si arriva all'ingresso verso il Forte Belvedere, ai piedi dei bastioni difensivi, dal quale si accede anche al Giardino Bardini ed alla Costa San Giorgio.

Il prato di Ganimede 

Davanti alla Kaffeehaus si trova il prato digradante con al centro la Fontana di Ganimede, del XVII secolo (al posto del gruppo marmoreo oggi è presente un calco).

Il Giardino di Madama 

Sempre su questo lato si incontra più a sinistra la Grotticina della Madama o delle Capre, costruita da Davide Fortini su progetto del Tribolo. Decorata con spugne, stalattiti e una vasca marmorea sormontata da quattro statue di capre che un tempo buttavano acqua. La grotta si trova a un'estremità del cosiddetto Giardino di Madama, con alcune aiuole geometriche fiorite, realizzato attorno al 1570 per Giovanna d'Austria. Il giardino davanti alla grotta, caratterizzato da alcune aiuole bordate da siepi, è detto Giardino di Madama.

L’orto di Giove

Poco più in basso segue l'Orto di Giove, dalla statua di Giove seduto, di Baccio Bandinelli (1556), mentre vicino a questo giardino si trovano le due grandi statue dei Prigionieri daci, sculture antiche del II secolo, già a Villa Medici; i due barbari sottomessi con le mani legate e le vesti in granito rosso provengono probabilmente dal Foro di Traiano: sono molto simili a quelli reimpiegati nell'Arco di Costantino; le due basi con rilievi di Vittorie, Dioscuri e barbari vinti invece provengono dal tempio del Sole sulla via Lata fatto costruire da Aureliano o, meno probabilmente, dal vicino Arcus Novus.

Il livello del palazzo 

Scendendo al livello del palazzo attraverso un viale serpentino usato dalle carrozze, si arriva ad una zona coperta di ghiaia, dove un tempo stazionavano le vetture con cavalli.

Vicino all'uscita su piazza Pitti si trova la Fontana del Bacchino, esemplare dello stile grottesco tanto in voga nei giardini del periodo tra Cinque e Seicento. È infatti costituita dalla figura dell'obeso nano Morgante, il più popolare dei nani di corte di Cosimo I, ritratto da Valerio Cioli nudo e a cavalcioni di una tartaruga (1560). La statua è oggi sostituita da una copia (la foto ritrae la copia precedente a quella attuale, che sostituisce l'originale ricoverata nei depositi del giardino).

Su questo lato del muro di cinta passa il Corridoio Vasariano, che qui ha l'uscita canonica del suo percorso di visita museale moderno, e poco più avanti, sempre lungo il bordo si trova la celebre Grotta del Buontalenti

La Grotta del Buontalenti 

La Grotta Grande, o del Buontalenti, è uno degli elementi più pregevoli del parco. La sua costruzione si deve soprattutto a Bernardo Buontalenti, che la creò tra il 1583 e il 1593 su incarico di Francesco I de' Medici, una delle architetture più bizzarre e sorprendenti di Firenze.

A destra del primo asse 

Di nuovo in alto, dal giardino del Cavaliere, se discendendo si prende invece verso sud, prima di giungere al Prato dell'Uccellare, punto di imbocco prospettico del secondo asse del giardino (il Viottolone), si incontra una seconda scalinata fiancheggiata da siepi e decorata da due statue di Muse sedute.

Poco dopo si trova il gruppo marmoreo della Lavacapo (1595-1597), opera di Valerio Cioli per Ferdinando I.

Da qui si accede a un prato che costeggia dall'alto il bacino di Nettuno, dove si trovano alcuni fabbricati che anticamente fungevano da abitazioni per i giardinieri, depositi di attrezzi e di piante durante l'inverno. Qui si trovano anche le ragnaie, cioè quei fitti boschetti dove venivano tese reti per catturare i piccoli volatili.

Nei vialetti ombrosi che occupano lo spazio tra l'anfiteatro e il Prato del Pegaso, cinti da alberi ad alto fusto, si trovano due curiose architetture coperte da cupole e parzialmente interrate: si tratta delle due ghiacciaie di Boboli, antesignane dei frigoriferi. Qui, grazie al ghiaccio che veniva giornalmente trasportato dall'Abetone e grazie all'ambiente che ricreava le condizioni climatiche delle grotte, venivano conservate le vivande destinate alle cucine granducali.

Il secondo asse 

Il Prato dell'Uccellare 

L'imbocco ideale del secondo asse è il cosiddetto prato dell'Uccellare ("uccellare" significa cacciare i piccoli volatili, infatti venivano così chiamate le radure in una macchia boscosa), situato in posizione rialzata e attraversato dal Viottolone (anche se verso nord, oltre il prato dell'Uccellare verso l'anfiteatro, questo viale diventa un saliscendi minore).

Questo ampio prato è circondato da lecci e cipressi secolari e segna il confine con la parte occidentale del giardino. Al centro è decorato da una colonna spezzata, mentre su un lato vi si trova una delle poche opere contemporanee del giardino: una monumentale testa bronzea di Igor Mitoraj, rimasta nel giardino dopo la mostra sull'artista polacco del 2002. Da qui si gode un ottimo panorama sul quartiere di Oltrarno, oltre la Palazzina della Meridiana.

Il Prato del Pegaso 

Al di sotto del Prato dell'Uccellare, attraversato da sentieri a zig-zag, si distende il cosiddetto Prato del Pegaso, un declivio collinare che riporta al livello del palazzo, in particolare davanti al piazzale coperto a ghiaia della palazzina della Meridiana.

Questa zona deve il suo nome alla scultura marmorea di Pegaso, opera di Aristodemo Costoli del 1865, usata come simbolo dalla Regione Toscana. Vi si trovano altre statue ed una grande vasca di granito grigio. I grandi alberi che vi si ergono isolati e asimmetrici ricordano il gusto del giardino all'inglese.

Il Viottolone 

Il Viottolone è un ampio viale in ripida discesa, affiancato da due filari di cipressi piantati nel 1637 e decorato da numerose statue, che segna l'asse secondario (quello sei-settecentesco in direzione sud-ovest) del giardino. Le statue, poste simmetricamente nei pressi degli incroci con i tre viali trasversali, sono sia antiche (romane), sia di fattura moderna, prevalentemente settecentesca.

La zona a sinistra del viottolone, già un tempo occupata dal labirinto, ha oggi il viale serpentino per il rondò delle carrozze. In questa zona resta la vasca centrale del labirinto, oggi circondata da un'aiuola ellittica. La parte di destra era invece dedicata alla caccia e vi si trova anche l'orto murato. Ai due fianchi del viottolone corrono due gallerie rettilinee suggestivamente circondate dalla vegetazione.

L'imbocco del Viottolone dal Prato dell'Uccellare è segnato da due statue dette dei Tirannicidi greci, davanti a una scenografia di cipressi e siepi di alloro. Queste due statue hanno solo i torsi antichi, ed è particolarmente pregevole quello di sinistra, copia dell' Aristigitone del gruppo bronzeo del447 a.C. degli scultori ateniesi Kritios e Nesiotes (quello di destra è in restauro).

Il Viottolone è quindi tagliato da tre viali laterali che creano sei scomparti del giardino.

Il primo viale trasversale

Il primo viale trasversale è costituito da un pergolato di lecci che formano due gallerie con sedili bassi in pietra sui lati.

Prima di giungere all'incrocio principale un vialetto è segnalato da due statue; in prospettiva sulla sinistra si nota una vasca circondata da un'aiuola ellittica, che era il centro di uno dei labirinti di questa parte del giardino.

Nel punto di incontro con il Viottolone sono state poste quattro statue su ciascun cantone, tutte opera di Giovanni Caccini: la Prudenza, 'Esculapio e Ippolito morente (da Policleto), l'Autunno e l'Higea.

In fondo, sulla destra si trova la Fontana dell'Oceano, omonima di quella più famosa al centro dell'Isolotto di Boboli, opera del Giambologna. Questa fontana più piccola raffigura un giovane ai cui piedi sta un delfino che versa acqua.

Il secondo viale trasversale 

Il secondo viale trasversale si taglia sul Viottolone a un incrocio con tre statue romane, un Senatore, un Bacco e un Filosofo calvo, mentre una quarta statua con Andromeda è settecentesca.

In fondo al ramo del viale trasversale sinistro, presso le mura cittadine, domina la veduta prospettica il busto colossale di Giove olimpico, attribuito al Giambologna (1560 circa), su una base in arenaria. Accanto alla statua si trova anche la curiosa fontana dei Mostaccini di Romolo del Tadda(1619-1621), costituita da una serie di piccole vasche su vari gradoni collegate da canaletti e con mascheroni che versano l'acqua da un livello a quello inferiore. Oltre alla valenza estetica questa fontana aveva anche una funzione pratica: le piccole vasche dovevano attirare i piccoli volatili che venivano poi catturati con le ragne, reti appese tra i rami del vicino boschetto (detto appunto ragnaia della Pace).

Il terzo viale trasversale 

Il terzo viale trasversale è quello più a sud-ovest e dall'incrocio con il Viottolone vi partono numerosi percorsi complicatamene intrecciati che conducono al segmento finale del giardino. All'incrocio tra i viali le siepi di bosso disegnano quattro esedre nelle quali sono collocate altrettante statue: EsculapioAndromedaNinfa e la Modestia.

A queste vanno aggiunti i vicini gruppi dei giocatori, di fattura settecentesca secondo il gusto per i temi campagnoli e popolani: i Giocatori alla pentolaccia di Giovan Battista Capezzuoli e i Giocatori del saccomazzone (1780) di Orazio Mochi su disegni di Romolo del Tadda (il "saccomazzone" era un gioco dove due giocatori bendati, sempre tenendo tenere una mano su una roccia, cercavano di scacciare l'avversario colpendolo con un lungo straccio annodato).

L'Isolotto 

Al termine del viottolone l'arredo botanico cambia repentinamente, scompaiono i cipressi e le siepi e si arriva alle morbide forme della Vasca dell'Isola, chiamata anche Isolotto e ideata da Alfonso e Giulio Parigi dal 1618.

Il piazzale è circondato da siepi di leccio alte circa 12 metri, che fanno da quinta alle numerose statue di pietra e marmo che raffigurano vari soggetti: mitologici, storici, campestri, popolani.

Al centro del piazzale fa da protagonista la grande vasca circolare, con l'isola al centro collegata alla terraferma da due passerelle. I grandi cancelli delle passerelle sono sostenuti da due colonne, su ciascuna delle quali si trova la statua di un capricorno, animale simbolo del potere del Granducato. Ai lati delle colonne sono presenti delle fantasiose fontane a forma di "arpie" maschili, che versano l'acqua in vasche a forma di conchiglia, con un complessa decorazione grottesca di esseri marini.

Sull'asse perpendicolare al Viottolone si trovano quattro fontane a livello della balaustra esterna, due per lato: le fontane delle Arpie e quelle dei Putti, decorate da delfini intrecciati, animali marini, mascheroni fantastici e statue a tutto tondo sulla sommità. Vicino a queste fontane, dall'acqua della vasca emergono alcuni gruppi marmorei della scuola del Giambologna (1637) di notevole suggestione: il Perseo a cavallo (a sud-est) e Andromeda con le caviglie incatenate nella roccia (a nord-ovest); in particolare il Perseo è collocato come se stessa saltando fuori dall'acqua, un effetto che veniva sottolineato dagli zampilli d'acqua.

Nel mezzo del bacino l'isola è circondata da una ringhiera in pietra, nelle cavità della quale sono alloggiati gli orci di terracotta che nei mesi estivi contengono la collezione di agrumi ed altre piante decorative; agrumi si trovano allineati anche sulle passerelle.

Il centro dell'isola è decorato dalla Fontana dell'Oceano del Giambologna, composta da una basamento con bassorilievi (Il ratto di Europa, il Trionfo di Nettuno e Il bagno di Diana) che sorregge una vascone circolare in granito dell'Isola d'Elba, sopra il quale si innalza il gruppo scultoreo del Nettuno, circondato da divinità fluviali sdraiate. Esse rappresentano il Nilo, il Gange e l'Eufrate, che versano simbolicamente le loro acque nella vasca grande, rappresentante l'Oceano. La fontana dell'Oceano è più antica rispetto a questa parte del giardino e un tempo si trovava al centro dell'Anfiteatro di Boboli: fu scolpita per Francesco I nel 1576 ed ha fatto da prototipo per tutte le sculture di questo soggetto; l'originale dell'Oceano oggi si trova al Bargello e qui è sostituito da una copia.

L'Emiciclo o Prato delle Colonne 

Sull'asse del Viottolone, separato dall'Isolotto da due boschetti simmetrici segnati da un ingresso neoclassico con piccoli obelischi, si trova il grande spiazzo semicircolare dell' Emiciclo o Prato delle Colonne, per via delle due colonne in granito rosso egiziano che sorreggono altrettanti vasi in marmo bianco, un tempo appartenuti a Lord Cower.

L'Emiciclo è circondato sul lato curvo da una serie di platani intervallati regolarmente da dodici nicchie verdi con statue (soprattutto busti del XVII secolo). Il lato rettilineo invece è composto da un'alta siepe di bosso con nicchie di verzura contenenti quattro antichi busti colossali:Giove Serapide, Giove, una divinità maschile non chiarita e Claudio Imperatore. Notevole è anche la statua di Vulcano di Chiarissimo Fancelli.

Verso Porta Romana 

La punta estrema del giardino, dietro l'emiciclo, è occupata da un rondò con siepi geometriche, dove sono collocate numerose statue in pietra come le tre figure grottesche di Romolo del Tadda, raffiguranti VenereAmore e la personificazione dell'Architettura. Interessante è anche la fontana della Botticella, costituita dalla statua di un contadino che vuota un barile (di Giovanni Fancelli, 1560) in una vasca realizzata con un sarcofago romano. Simile è anche l' Uomo che vanga di Valerio Cioli e di Giovanni Simone Cioli.

Davanti all'ingresso di Porta Romana si trova un notevole Perseo di Vincenzo Danti, già alla villa medicea di Pratolino, circondato da un'esedra in bosso dove si trova anche un sarcofago romano con le fatiche di Ercole.

Il fianco destro 

Risalendo sul lato che costeggia via Romana, si incontrano alcune statue come l'Uomo che scarica il secchio in un tino di Valerio Cioli e di Giovanni Simone Cioli, fino a raggiungere la grande limonaia.

La limonaia 

I Medici furono tra i primi a diffondere la moda degli agrumi nei loro giardini. Gli agrumi sono delle piante che non crescono normalmente in Toscana per via degli inverni troppo rigidi, quindi erano considerate di fatto alla stregua di piante esotiche. Il loro grande valore ornamentale spinse a un collezionismo di queste piante, che durante l'inverno dovevano trovare rifugio al coperto, in edifici appositi chiamati appunto limonaie. Per rendere possibile questi "traslochi" i limoni non dovevano essere piantati in terra, ma in grandi vasi di terracotta chiamati "conche", realizzati artigianalmente e che sono di per sé un pregevole ornamento. Le limonaie dovevano avere un microclima mite ma asciutto, per cui non di rado il pavimento era sterrato anziché lastricato, per un migliore assorbimento dell'umidità. La limonaia di Boboli si trova a metà strada tra il Palazzo e l'estremità del giardino. Frutto della trasformazione di una precedente fabbrica di mosaici, spugne e statue, fu edificata verso il 1778 su progetto di Zanobi del Rosso, nel corso di una generale risistemazione del giardino voluta dal Granduca Pietro Leopoldo. In questo sito al tempo di Cosimo III esisteva il Serraglio degli Animali, dove venivano conservati gli animali esotici comprati o ricevuti in regalo da sovrani esteri (giraffe o un ippopotamo oggi impagliato e conservato al Museo della Specola), ma anche animali per le cucine. In precedenza gli agrumi venivano conservati nel cosiddetto Stanzonaccio di Giulio Parigi (1618), ormai però troppo lontano e in dislivello dopo l'ampliamento verso l'emicilo.

La facciata della limonaia è costruita dalla ripetizione regolare di quattro campate con quattro finestroni più quattro finestre superiori, separate da lesene; nella parte superiore è presente un cartiglio con festoni con frutta e un frontone leggermente aggettante; le specchiature intorno alle finestre presentano un intonaco colore "Verde Lorena" usato anche nella Kaffeehaus, però a differenza di quest'ultima il colore della Limonaia è rimasto sempre lo stesso nei secoli (l'unico restauro del quale si conservi memoria è dell'ottobre 2004). Un lungo cornicione leggermente aggettante sopra i portoni conclude l'elegante facciata. Le sculture sulla facciata rappresentano le Muse, mentre nelle aiuole antistanti si trovano due Muse e il gruppo della Fortuna con cornucopia, opere romane copiate da sculture ellenistiche, oltre al Suonatore di cornamusa di Giovanni Battista Caccini.

Nel periodo invernale la limonaia è affollata da una grande quantità di piante, soprattutto agrumi, alcuni dei quali risalgono all'epoca medicea con cultivar originali.

La zona di Annalena 

Proseguendo lungo il vialetto parallelo a via Romana si arriva all'ingresso su questa stessa via detto di Annalena (dal nome dell'antico convento di Annalena che qui si trovava), con un cancello vigilato da due leoni assopiti in pietra.

La prospettiva di questo ingresso è abbellita dalla Grotta di Adamo ed Eva (1817), costruita come una piccola esedra preceduta da due colonne che sostengono un architrave. L'interno è decorato da concrezioni spugnose e mosaici in ciottoli policromi, mentre il nome deriva dal gruppo scultoreo di Adamo ed Eva di Michelangelo Naccherino (1616 circa).

Sempre sullo stesso lato di via Romana, risalendo verso Palazzo Pitti, si incontra la Palazzina di Annalena, una piccola costruzione in stile neoclassico dell'architetto Cacialli.

La Palazzina della Meridiana 

la Palazzina della Meridiana, opera in stile neoclassico iniziata da Gaspare Maria Paoletti sotto il Granduca Pietro Leopoldo nel 1778 e terminata da Pasquale Poccianti nel 1822-1840, prende il nome dalla meridiana che la attraversava all'interno.

Vi si accede da Palazzo Pitti e conserva gli affreschi con Episodi dei Promessi Sposi del pittore ottocentesco Nicola Cianfanelli. Attualmente ospita la Galleria del Costume, ma alcuni anni fa ha ospitato anche la Collezione Contini-Bonacossi.

Il giardino del Conte 

Adiacente alla Palazzina della Meridiana c'è il cosiddetto Giardino del Conte, chiuso da una cancellata e schermato da una siepe di leccio e d'alloro.

Da qui si vede bene anche l'ex osservatorio del Museo della Specola.

Villa d’Este

Villa d’Este, a Tivoli, in provincia di  Roma, è uno dei maggiori rappresentanti dell’arte dei giardini italiana nel periodo barocco e per questo inserita nella lista UNESCO del patrimonio mondiale. Diversi altri giardini nell’Europa manierista e barocca l’hanno presa come modello, soprattutto per le sue fontane, i giochi d’acqua e le grotte.  Nonostante il senso di inquietudine e spaesamento tipici di questo periodo, la stretta collaborazione tra mezzi naturali e artificiali, fa sì che l’intera struttura sia unitaria, cioè la natura viene “usata” e superata.                                                                                                                                      Lo stesso paesaggio intorno a Tivoli presenta una serie di caratteristiche vantaggiose per la costruzione di una villa: infatti la città sorge su un colle, dalla cima del quale si vedono i rilievi sabini e la vicina cittadina di Montorsoli, anch’essa in posizione sopraelevata. Inoltre la zona è ricca di acqua, caverne e cascate.                                                                                                                                          

Villa d’Este fu fatta costruire dal cardinale Ippolito d’Este, che, dopo la mancata elezione pontificia, era diventato governatore di Tivoli nel 1549. Tuttavia solo dopo alcuni anni il programma architettonico, ideato da Ligorio, fu realizzato dall’architetto di corte Galvani.  La villa venne costruita  sulla sommità della collina, preceduta, a settentrione, da un giardino a terrazze sviluppato verso il basso, in modo da mantenere una simmetria rispetto all’asse principale dell’edificio. Le sale del palazzo furono decorate da pittori del tardo manierismo romano, come Nebbia, Tempesta, Zuccari. Dopo la morte di Ippolito, il cardinale Alessandro d’Este fece riparare i danni alla vegetazione e agli impianti idraulici e portare delle modifiche all’assetto originario del giardino; successivamente intervenne lo stesso Gian Lorenzo Bernini. Nel XVIII secolo, quando la proprietà passò agli Asburgo, il giardino venne abbandonato e la stessa villa entrò in uno stato di degrado fino a metà del XIX secolo, quando tornò ad essere un punto di riferimento culturale, per esempio ospitando il musicista Liszt, che compose” Giochi d’acqua a villa d’Este”. Nel 1920 fu aperta al pubblico, ma a causa di un bombardamento durante la II guerra mondale e delle condizioni ambientali, nell’ultimo secolo sono state necessarie diverse opere di restauro.

Il giardino

Il giardino, opera di Ligorio, si estende per 35 000 m2  dalla facciata posteriore della villa, rispetto all’ingresso attuale. Si sviluppa intorno ad un asse principale longitudinale e cinque assi trasversali ed è suddiviso in due parti distinte: quella inferiore, pianeggiante, e quella che ricopre la collina, che sale  fino al palazzo articolandosi in cinque terrazze, unite tra loro da viali diagonali e scale laterali, secondo uno schema architettonico delle città romane.                                                                                                                                 Per ottenerlo Ligorio dovette sfruttare le antiche mura urbane come contrafforti, per realizzare un terrapieno, mentre per l’approvvigionamento dell’acqua costruì un sistema di tubazioni sotto Tivoli, che attingeva direttamente dall’Aniene, e un acquedotto. Le fontane, in tutto 50, erano alimentate senza l’utilizzo di congegni meccanici, ma sfruttando il principio dei vasi comunicanti e la pressione dell’acqua. Nell’impianto originario i viali erano coperti da pergolati e probabilmente erano fiancheggiati di mirti e allori sagomati.                                                                                                                                                                                                    Infine in tutto il giardino sono state collocate delle statue, non solo nelle fontane o nei ninfei, ma anche lungo i viali o nelle piazzette. Alcune di esse sono antiche, fatte portare dal cardinale da Villa Adriana, altre sono repliche di opere rinascimentali, come il Mosè di Michelangelo e la figura femminile nuda della tomba di Paolo III.                                                                                                                                                Nel complesso le imponenti costruzioni e le terrazze ricordano i giardini pensili di Babilonia, mentre l’approvvigionamento delle acque riprende l’ingegneristica romana.                                                                   

L’incisione più antica della villa, attribuita al francese Dupérac e risalente al XVI secolo, rappresenta il giardino quasi al completo.                                                                                                                                                              L’asse longitudinale è evidenziato dalla ripresa dei motivi del portale centrale del palazzo, in maniera sempre più semplificata, sulle mura che dividono le terrazze; in questi casi hanno la funzione di ingresso per le grotte.                                                                                                             Scesa la doppia scala della villa e oltrepassato un loggiato coperto,  il viale più grande del giardino, chiamato Vialone, si estende parallelamente all’edificio, limitato da una parte dalla Gran Loggia, dall’altra dalla fontana Europa. Grazie alla sua frescura nei mesi estivi e al panorama che si può ammirare da esso, questo luogo era frequentato dalla corte, anche per assistere agli spettacoli. Alla sua sinistra, la Loggia offre un bellissimo panorama, la campagna tiburtina e il giardino della villa. Riprende la struttura dell’arco di trionfo romano, così come la fontana Europa, ad essa diametralmente opposta. Quest’ultima è formata dalla sovrapposizione di due ordini di colonne, dorico e corinzio, che delimitano una nicchia nella quale era posto il gruppo scultoreo di Europa che abbraccia il toro, formando una fontana.

Posta in una zona dietro la villa, sopra la Fontana di Nettuno, completandone la scenografia, la Fontana dell'Organo, o Organo Idraulico, deve il suo nome al prodigioso meccanismo ad acqua che faceva in modo che si udissero dei suoni d'organo. E’ formata da un alto edificio di stile barocco, progettato da Ligorio, la cui facciata è ornata da una serie di decorazioni ispirate a motivi floreali, sirene, simboli araldici, vittorie alate e conchiglie marine: quattro colossali talamoni sostengono lo pseudo-arco; al centro vi è un abside nel quale, secondo il progetto originario, doveva trovare posto la Fontana della Natura, poi sistemata dove si trova attualmente; le due nicchie laterali più piccole, accolgono due statue, di Apollo e Diana. Una vasca ovale limitata da una balustra a colonnine, contorna la struttura, dando l'impressione che l'edificio sia sorto dalle acque. Successivamente fu aggiunta nella nicchia centrale un piccolo tempio, realizzato dal Bernini, a protezione dell’organo idraulico.                                                                                                            La fontana  di Nettuno, la più imponente e scenografica della villa, per la grande quantità di acqua e i potenti zampilli che proiettano in aria alti schizzi, è anche la più recente, restaurazione di una cascata del Bernini. E’ un’armoniosa composizione che si sviluppa lentamente dalla base, e intensifica dolcemente, per vivacizzarsi di più nella parte superiore ed esplodere verso il cielo. La parte più alta è formata dalla balaustra del piazzale antistante la fontana dell'Organo, al di sotto del quale si trovano tre ninfei. Dalla base della terrazza dei ninfei, provenienti da un canale più esterno, sorgono dodici potenti zampilli digradanti in altezza dal centro verso l'esterno. Scavalca invece la medesima balconata l'imponente massa d'acqua della berniniana cascata, originalmente costituita in pietra scolpita a grezzo, per ricordare la roccia naturale, che poi va a rompersi in un bacino più basso che ne suddivide l'acqua in tre cascate più basse. Al di sotto di questo sta un ninfeo dal quale, ai due lati, si innalzano verso il cielo dei potentissimi getti. Grandi vasche stanno al di sotto, ognuna più bassa dell'altra, in modo da far cadere le acque debordanti dall'una all'altra, formando delle placide cascate. Proprio a completare la scenografia della fontana sono in basso gli specchi d'acqua delle Peschiere, e in alto il complesso architettonico della fontana dell'Organo. La fontana di Nettuno doveva avere, secondo il progetto originario, una statua raffigurante il dio delle acque, ma non fu mai realizzata, per cui si pose nel ninfeo inferiore, il busto di Nettuno originariamente destinato ad una fontana del Mare, mai realizzata a causa delle difficoltà economiche in cui si trovava il cardinale Ippolito II.                                                                                                                                    Poste in successione innanzi alla fontana di Nettuno, da cui ne ricevono l'acqua, e contornate da una lussureggiante vegetazione, le Peschiere sono tre grandi bacini di forma rettangolare. Servivano anche ad allevare delle pregiate specie di pesci d'acqua dolce, per dare la possibilità a chi soggiornava presso la villa, di dilettarsi nella pesca.  

Sull’asse principale del giardino, sotto la loggia, è posta la fontana del Giglio, o del Bicchierone, per la sua forma di calice dentellato sovrapposto ad un altro simile, entrambi sorretti da una grande conchiglia. Molto elegante e pacata, fu aggiunta quasi un secolo dopo la realizzazione della Villa, su commissione del cardinale D'Este a Gian Lorenzo Bernini. Più in basso, sulla sinistra, sta la Grotta di Diana, completamente decorata con mosaici di pietre, stucchi ad alto e bassorilievi, e decorazioni a smalto, rappresentanti Minerva, Nettuno, la Muse e scene mitologiche. Il pavimento, pervenuto solo in parte, era in coloratissime maioliche con diversi motivi ornamentali. Era adornata da statue raffiguranti Minerva, le Amazzoni e Diana, ora nel Museo Capitolino. Le scene a carattere mitologico hanno come tema principale la metamorfosi: quella di Dafne, inseguita da Apollo, in alloro, del cacciatore Atteone in cervo per opera di Artemide, di Siringa in canna per sfuggire a Pan e infine di Callisto in Orsa per opera di Era.

La fontana di Proserpina, ideata come sala da pranzo all'aperto, è situata accanto alla Fontana della Civetta, alla quale si lega dal punto di vista architettonico, ed ha la funzione di equilibrare i due diversi piani del giardino. La fontana è composta da un ninfeo centrale e due nicchie laterali, interposte da quattro colonne tortili avvolte da tralci di vite in stucco, e da due scalinate che permettono la comunicazione fra i due diversi livelli del parco. Era stata progettata come "Fontana degli imperatori", dalle statue di Cesare, Traiano, Augusto e Adriano che dovevano ornarne gli angoli, mentre nella nicchia centrale doveva essere posta la statua di ninfe. Queste non furono però mai eseguite, e furono sostituite dal gruppo in stucco di Plutone che rapisce Persefone, su un carro a forma di conchiglia trainata da cavalli, mentre due Sileni suonano arpe marine e due delfini agitano le acque.                                                                                                                                                           Posta a sinistra della fontana dei Draghi, al termine del viale, è detta della 'Civetta' o degli 'Uccelli' per il complicato meccanismo che, sfruttando la caduta dell'acqua, faceva sì che degli uccelli metallici, comparissero su dei rami di bronzo che si intrecciavano nella nicchia della fontana, emettendo dei suoni simili ad un cinguettio; un altro meccanismo invece faceva apparire una civetta, che col suo canto ingrato, impauriva gli uccelli e smorzava il loro canto. In alto domina lo scudo di Ippolito II sorretto da due angeli; i simboli estensi dei gigli e dell'aquila ornano, invece, la parte più alta della fontana. Scendendo dall'asse principale del giardino c’è  la scenografica Fontana dei Draghi o della Girandola, che per la sua posizione centrale, risulta essere il cuore del parco. Fu realizzata, secondo la leggenda, in una sola notte, come omaggio al papa Gregorio XIII, che era ospite della villa, il cui stemma della famiglia, i Boncompagni, aveva simboleggiati dei draghi alati. Essa è formata da un gruppo scultoreo centrale, formato da quattro orridi draghi disposti a circolo, che si danno le spalle, e che sputano uno zampillo d'acqua, mentre un potente e alto getto parte dal centro del cerchio. Alle spalle si apre una nicchia entro la quale sta una grande statua di Ercole. Una doppia scalinata, abbraccia la fontana,  mentre i vasi innalzano zampilli che terminano a circolo nella vasca dei draghi. La fontana voleva essere un'allusione all'episodio mitico dell'undicesima fatica di Ercole, che, per impadronirsi dei pomi d'oro del Giardino delle Esperidi, uccide il drago dalle cento teste Ladone. Originariamente la fontana era detta della Girandola, per i complicatissimi meccanismi e artifici idraulici che riuscivano a riprodurre in una velocissima sequenza di spari, scoppi, tuonate come quelle di cannoni, crepitii, esplosioni e colpi laceranti come di archibugi e di altre armi da fuoco.            

Situato sopra la fontana dell’Ovato, la fontana di Pegaso è formata da una vasca circolare, con al centro una grande roccia, su cui poggia la statua del cavallo alato, nato dalla decapitazione di Medusa, rampante sulle zampe e con le ali spiegate. La composizione ricorda il mito di Pegaso secondo cui, giunto sul monte Elicona, dando un colpo di zoccolo sul terreno fece sgorgare la fonte Ippocrene, sacra alle Muse.                                                                                                                                La fontana dell’Ovato o di Tivoli, è situata alla sinistra del viale delle Cento Fontane, in un luogo leggermente in disparte; anticamente in questa fontana confluiva l'acqua convogliata dal fiume Aniene attraverso un canale. Viene detta dell'Ovato, per la sua particolare forma ad esedra semicircolare con al centro la grande vasca nella quale finiscono tutte le acqua cadenti e zampillanti della fontana. Contraddistinta da una particolare elaborazione, è per tale motivo la fontana più barocca della villa, in particolare grazie all'effetto delle rocce e dei massi ornamentali a voler creare una scenografia rappresentante i monti Tiburtini, dai quali discendono i tre fiumi, Aniene, Erculaneo e Albuneo, rappresentati da tre statue mitologiche. Al centro vi è la Sibilla Tiburtina o Albunea, avente in mano il piccolo Melicerte, figlio della ninfa Ino, simboleggiante il fiume Albuneo, mentre ai due lati, entro nicchie, due statue di divinità fluviali rappresentano i fiumi Aniene e Erculaneo. Si vede sulla sommità della parte rocciosa, la sovrastante fontana di Pegaso, che sembra inserirsi nella fontana e completare la composizione. Chiude la parte scenografica rupestre, una balaustra marmorea, che si apre nella parte centrale, per dar la possibilità alle acque, di formare una sorta di cascata a cupola, sotto-percorribile, che si riversa nella grande vasca, a cui fa da sfondo la costruzione sottostante, un ninfeo semicircolare, nei cui pilastri stanno, in apposite nicchie, dieci ninfee che versano acqua da vasi. Il parapetto della vasca è invece rivestito da vivaci ceramiche con particolari dello stemma Estense; di fronte stanno, in apposite nicchie, due statue di stucco, sovrastanti due fontane a zampillo, mentre il piazzale è adornato da due grandi tavoli in pietra, e da secolari alberi di platano.                                                                                                                                             Le cento fontane separano la parte del giardino a terrazze da quella pianeggiante e fiancheggiano un viale lungo cento metri che congiunge la Fontana dell'Ovato con la Rometta. Allegoricamente i tre piccoli corsi d'acqua paralleli che si formano, a diverse altezze, per l'alimentazione degli zampilli, rappresentano il fiume Albuneo, il fiume Aniene e il fiume Ercolaneo, i tre affluenti del Tevere (rappresentanto dalla Rometta), generati dai monti Tiburtini (rappresentati dalla fontana dell'Ovato). I cento zampilli sono organizzati in due file sovrapposte di mascheroni dalle forme antropomorfe, mentre sovrastano il canale più alto, zampilli generati e alternati da sculture di gigli, obelischi, navicelle ed aquile estensi: gigli di Francia e aquile simboli della famiglia d'Este, la barca di San Pietro quale simbolo del potere papale. In fondo al viale delle Cento Fontane, si apre la Rometta aperto verso la pianura romana. Al centro c’è una grande vasca con la rappresentazione di Roma in trono, scenograficamente incorniciata sulla sinistra, in origine, dalla citazione dei monumenti più belli e rappresentativi che caratterizzavano la città antica. E’posizionata su un grande basamento e vi si accede tramite un ponticello che scavalca un canale dalla forma curva, rappresentante il Tevere, che è alimentato da due ruscelli, il cui confluire rappresenta l'immissione del fiume Aniene nel Tevere. Al centro del corso d'acqua sorge una antica nave romana, rappresentante l'Isola Tiberina, il posto in cui si istaurò il primo nucleo romano, essendo un punto del fiume di facile guado; l'Isola era inoltre sede di numerosi ospedali, ai quale probabilmente allude il serpente che si svolge sotto il ponticello, simbolo del dio della medicina Esculapio. Al centro della fontana sta la statua di Roma Vittoriosa, armata di elmo, corazza e lancia, mentre al lato il gruppo scultoreo della Lupa che allatta Romolo e Remo. Adornavano la fontana in origine, molti altri gruppi scultorei simboleggianti i monumenti della Roma antica, (l'Arco di Tito, l'Arco di Settimio Severo, l'Arco di Costantino, la Colonna Traiana, il Pantheon, il Colosseo) dei quali non ci rimane traccia.  

                                                                                                                                                                                                                                            La fontana della Natura, detta anche Fontana della Dea Natura, o Fontana dell'Abbondanza, è posta a ridosso del muro di cinta, sul lato meridionale del giardino, vicino al vecchio ingresso della Villa su Via del Colle. Vi è posta la copia in travertino della Diana di Efeso, dalle molte mammelle, che simboleggia la fecondità della natura e lo scorrere ininterrotto della vita. La statua fu commissionata per ornare la nicchia centrale della Fontana dell'Organo, ma fu fatta spostare per non andare contro i dettami imposti dalla Controriforma che condannavano opere a soggetto pagano, e al suo posto fu fatta costruire, invece, un piccolo tempio con un organo idraulico.                                                                        La rotonda dei cipressi si trova nella parte più bassa del giardino, sull'asse principale, vicina all'antico originario ingresso del Palazzo, su via del Colle. E’ un piazzale a forma di esedra circolare, contornata da giganteschi alberi di Cipresso secolari, forse tra i più antichi. Adornavano la Rotonda  una serie di statue rappresentative delle Arti Liberali e quattro fontane.  Gabriele d'Annunzio dovette essere vittima della bellezza di questo piazzale, ricordandone, in un verso del suo "Notturno", gli alti Cipressi.                                                                                                       Infine un altro elemento tipico barocco sono i quattro labirinti posti su due lati opposti.

 

 

Villa Lante (Bagnaia)

Villa Lante a Bagnaia, frazione di Viterbo è, assieme a Bomarzo, uno dei più famosi giardini italiani a sorpresa manieristici del XVI secolo. Pur in mancanza di documentazione contemporanea, la sua ideazione è attribuita a Jacopo Barozzi da Vignola. La villa è conosciuta come "Villa Lante". Tuttavia non ha acquisito questo se non quando, nel XVII secolo, passò nelle mani di Ippolito Lante Montefeltro della Rovere, Duca di Bomarzo, quando la costruzione aveva già 100 anni di vita.

Bagnaia si trova lungo una strada romana che attraversa i Monti Cimini, un tempo molto trafficata, che divenne in seguito parte della Via Francigena. Tuttavia la prima menzione specifica di Bagnaia è medievale: in un documento del 963, l'abitato è indicato come Bangaria. Le terre di Bagnaia erano, fin dal XIII secolo, di proprietà del Papa, che come di consuetudine, le affidava al vescovo della vicina Viterbo. Tuttavia solo nel XVI secolo vi fu costruita una residenza episcopale. Nel corso del XVII secolo il villaggio si arricchì di qualche architettura di pregio, specialmente dopo che la costruzione di Villa Lante ne aumentò la popolarità come luogo di vacanza.

Giardini

Il giardino all'italiana di Villa Lante costituisce uno dei più classici e famosi esempi di giardino a disegno geometrico. Siamo nel periodo di massimo splendore dell'architettura del '500 e questa è una delle realizzazioni più complete e perfette, imitate per secoli, dell'idea che è a fondamento del giardino rinascimentale: concepito in un clima di magnificenza, riflette il razionalismo dell'epoca, che afferma il dominio dell'uomo sulla natura. Qui nulla è lasciato al caso, tutto deriva da una precisa norma architettonica alla quale sono assoggettate tutte le componenti sia lapidee che naturali o vegetali. Caratteristica è la quasi assoluta mancanza dei fiori che non darebbero un contributo soddisfacente al voluto effetto chiaroscurale dell'insieme. I giardini costituiscono l'attrazione principale di Villa Lante, specialmente i giochi d'acqua, dalle cascate alle fontane ai grottini sgocciolanti. Questa armonia di acque e la perfezione del suo flusso fu raggiunta solo quando l'architetto chiamò a sé, da Siena, uno specialista di architettura idraulica, Tommaso Chiruchi, con il compito di supervisionare il progetto idraulico.

Entrando da questo arco bugnato nella piazza del villaggio, il primo confronto è il Quadrato, un parterre perfettamente regolare, realizzato una generazione prima dei primi parterre francesi allo Château de Saint-Germain-en-Laye e a quello di Fontainebleau.

Le due palazzine simmetriche  su un lato solo mentre gli altri tre lati del giardino sono delimitate da alte siepi di bosso. Nel centro, il piccolo arbusto di bosso è plasmato e modellato a formare motivi decorativi che circondano piccole fontane e sculture. Il tratto più caratteristico di questo parterre è la complessa fontana posta al suo centro, formata da quattro bacini, separati da cammini transennati, con i parapetti decorati con ananas di pietra e urne decorative che intersecano l'acqua. Al cuore del complesso, un bacino centrale contiene la celebre Fontana dei Mori del Giambologna: quattro mori, a grandezza reale, disposti a formare un quadrato attorno a due leoni; tengono in alto la montagna araldica sormontata dal getto della fontana in forma di stella, lo stemma dei Montalto. Questo è il punto focale di questa insolita disposizione di casini e parterre. I Mori delimitano lo spazio che ci si aspetterebbe veder occupato da un grande palazzo affiancato dalle due palazzine. Solo qui ci si rende conto che l'intero complesso è, nei fatti, una perfettamente pianificata composizione priva di ostentazione. Qui il giardino non è concepito come una mera appendice o a, al più, un complemento, ma è parte integrale dell'originale concezione della villa nel suo insieme.

Sopra il parterre principale il visitatore può inerpicarsi attraverso querce, lecci e platani, scorgendo fontane e sculture che si aprono attraverso inaspettati scorci, e rivedendole ancora in contesti inattesi. Si arriva quindi al primo dei giardini a terrazza ascendenti: qui, alloggiata tra due scalinate in pietra, vi è la Fontana dei Lumini, una fontana circolare a gradini; sul ballatoio di ciascun gradone, da fontane più piccole a forma di lucerne ad olio sgorgano piccoli zampilli d'acqua. Arbusti fioriti di camelie, e di altre ericacee, aggiunti ne XIX secolo, risplendono nell'ombra di questa terrazza.

Sulla terrazza successiva, la terza, vi è un enorme tavolo di pietra con acqua che scorre nel suo centro. In questo posto, il cardinal Gambara intratteneva i suoi ospiti con picnic. Sulla terrazza vi sono ancora altre fontane, che riproducono divinità fluviali.  Una grossa quantità d’acqua defluisce e scende tumultuosa attraverso la Fontana della Catena, saltellando nell'inviluppo avvolto e concatenato delle chele di un gambero (emblema del Cardinale Gambara) come a costituire una catena d'acqua cristallina e sfociando nella Fontana dei Giganti, rappresentante i fiumi Tevere e Arno (ossia i buoni rapporti tra il papato di Roma e la famiglia Medici di Firenze) è l'età della ragione (o di Giove), in cui l'uomo è chiamato a lottare con le sue forze per dominare la natura per poi calmarsi nella Fontana della Tavola (o Tavola del Cardinale) come a costituire, per un raffinato gioco di forme e trasparenze, una tavola con tovaglia cristallina. L’acqua riprende poi la sua corsa e va a zampillare nella Fontana dei Lumini, come a formare tante fiammelle di candele argentate Visibile anche a Villa Farnese e Villa d'Este, questo ruscelletto di cavità scende in cascata al centro dei gradini per concludersi in fondo alla terrazza.

Sulla successiva terrazza superiore vi sono ancora fontane e grottini, e due piccoli casini che fanno da cornice ad altre fontane completando una composizione conosciuta come 'teatro delle acque'. Questi piccoli casini, come i loro omologhi più grandi sulla terrazza inferiore, hanno un disegno particolare, probabilmente anch'esso del Vignola, con logge aperte sorrette da colonne di ordine ionico. Esse reggono il nome del cardinale Gambara scolpito sulle sulla cornice. Uno dei casini a accesso a un piccolo giardino segreto, un giardino di siepi e topiarie, con una linea di colonne che gli conferisce un'atmosfera quasi melinconica.

Architettura

Le costruzioni della pizza mostrano, nelle loro antiche facciate, stemmi papali e cardinalizi in pietra logorata dal tempo. passando attraverso l'arco si incontra la prima sorpresa: non vi è alcuna villa.

Villa Lante si compone infatti di due casini, pressoché identici, anche se costruiti da proprietari diversi in differenti periodi, separati da 30 anni. Le due costruzioni quadrate hanno un piano terra ad arcate bugnate, o logge, che sostengono il piano nobile sovrastante. Ciascuna facciata, su questo piano, ha esattamente tre finestre, che alternano frontoni curvi o a punta. Ciascuna finestra è divisa da coppie di paraste. Un piano superiore è appena accennato da piccole finestre rettangolari, del tipo mezzanino, che si aprono in posizione corrispondente rispetto quelle del piano nobile.

Ogni casino è sormontato da un torrino o lanterna, che si erge sulla sommità del tetto di tegole spioventi. Questa elaborata lanterna quadrata ha due paraste, e alcune finestre, sia vere che cieche.

Ciascuno di questi casini, nel loro severo stile manierista, fu costruito da distinti e scollegati proprietari. Villa Lante fu dapprima commissionata dal cardinale Gianfrancesco Gambara che diede il proprio cognome al primo casino.

Sembra che i lavori di costruzione siano iniziati nel 1566, del casino che si incontra sulla destra entrando. Si pensa che Gambara abbia commissionato al Vignola il progetto (la villa è attribuita unicamente a lui), l'avvio dei lavori e il disegno dei giardini che l'hanno resa giustamente famosa. Il primo casino e il giardino superiore furono in breve completati, ma i lavori rimasero sospesi per tutto il resto della vita del cardinal Gambara.

Dopo la morte del Gambara, avvenuta nel 1587, gli successe quale Amministratore apostolico di Viterbo, il nipote diciassettenne di papa Sisto V, il cardinale Alessandro Peretti di Montalto. Fu lui, poco più che un bambino, a completare il progetto a Bagnaia e a costruire il secondo casino.

I due casini differiscono molto negli affreschi: pittura paesaggistica nel casino Gambara mentre gli affreschi del casino Montalto, realizzati da un artista più tardo, sono in uno stile più classicheggiante. Nel casino Gambara gli affreschi delle logge a volta esibiscono una profusione di colore che sottolinea il dettaglio architettonico, mentre nel Casino Montalto l'ambiente principale di ricevimento è decorato con una combinazione di affreschi e intonaco modellato.

Bomarzo , Il Parco dei mostri

Il principe Orsini nel 1552 ideò il “Parco dei mostri” a Bomarzo in provincia di Viterbo, aiutato nell’impresa dall’architetto Pirro Logorio, successore di Michelangelo a S. Pietro.

L’influenza del Sogno di Polifilo sul bosco fu segnalata fin dall’inizio degli studi su Bomarzo. Il sacro bosco quanto il sogno sono intestati a una donna amata e premorta. Il parco di Vicino è coronato da un tempietto “dedicato alla felice memoria dell’illustriss. Sig. Giulia Farnese”, il sogno porta una doppia dedica a Polia.

Un preciso particolare denuncia peraltro la dipendenza del tempietto dalla narrazione di Francesco Colonna. Esso presentava nei medaglioni dello zoccolo i 12 segni zodiacali e la figura del sole. Ciò richiama a due costruzioni del sogno di polifilo. La prima è il tempio rotondo dedicato a Venere che produce la vita che alla base della cupola reca proprio lo zodiaco e il sole

 Secondo i racconti, il bosco sarebbe dedicato ad un grande amore, la moglie, fino a dedicarle alla sua morte il Tempio,che si trova su una piccola altura all’interno del parco.

Dopo la morte del principe, gli eredi abbandonarono il parco, e solo dopo 400 anni, la famiglia Bettini, recuperò con restauri e lavori quello che oggi possiamo ammirare.

Nel 1962 nella terrazza inferiore prospiciente il teatro e la casetta pendente, vennero ritrovati due obelischi in peperino. Questo ritrovamento fu importante in quanto questi riportavano il nome e la data dell’ideatore del sacro bosco e un’epigrafe abbinata. Nel primo si legge :

VICINO ORSINO NEL MDLII

E nel secondo

SOL PER SFOGAR IL CORE

 Prendendo in analisi il secondo degli obelischi si può notare la formulazione dotta poiché si tratta di unaa citazione dai primi versi del primo sonetto RIME di Vittoria Colonna:

SCRIVO SOLO PER SFOGAR L’INTERA DOGLIA/ DI CHE SI PASCE IL COR

Lo sfogo riguarda un sentimento di doglia, senza dubbio dunque la descrizione  dell’obelisco allude ad un evento doloroso, probabilmente ad una separazione. Ai visitatori dell’epoca le parole dell’iscrizione non potevano che evocare il topos letterario del cuore che cerca sfogo a un dolore, per la separazione da chi non si sarebbe voluto lasciare.

Ci soccorrono dunque le notizie sulle disavventure di Vicino che nel 1553 combattè in Fiandra dalla parte dei francesi, al seguito di Orazio Farnese che aveva appena sposato la figlia naturale di Enrico II.

Quando Orazio perse la vita nel luglio del ’53 Orsini venne fatto prigioniero. E’ probabile dunque che Orsini già nel ’52 si trovasse a combattere e che proprio in quell’anno fosse partito da Bomarzo lasciano la consorte sola e addolorata. Ecco profilarsi dunque in relazione a questa partenza, una ragione plausibile per la posa dei due singolari obelischi: praticamente un voto, voluto da Vicino o dalla moglie in occasione del distacco.

Due sfingi poste all’entrata sotto un arco di pietra, offrono alla vista una terzina metricamente impeccabile, ben impaginata nel riquadro del piedistallo:

Chi con ciglia incarnate et labbra strette non va per questo loco manco ammira le famose del mondo moli sette”.  Il senso è che le installazioni del Sacro Bosco reggono il confronto con le sette meraviglie del mondo. Chi non prova stupore di fronte ai colossi di Bomarzo, vuol dire che non sarà in grado di apprezzare neanche quelle celebri costruzioni. Le due ultime parole del primo verso ricorrono, soltanto invertite, nella terzina del Sacro Bosco: che tuttavia alle ciglia incarnate abbina le labbra strette altra espressione di stupore e del silenzio che lo accompagna, trovando un riscontro nell’Orlano Furioso. Annunciando infatti la vicenda del X canto, l’Ariosto così si esprime “io vi vò di dire, e far di maraviglia/ stringer le labbra e inarcar le ciglia”. Quanto al confronto con le famose sette meraviglie esso ricorre all’Amadigi, dove si celebrano architetture che superano “i famosi miracoli d’Egitto”.

“Tu ch’entri qua pon mente parte a parte e dimmi poi se tante meraviglie sien fatte per inganno o pur per arte”.

Il motivo per cui è stata scelta la figura greca, richiama alla sua funzione di guardiano delle città sacre. Il nome in greco antico significa “strangolatrice”.  Nella mitologia greca le sfingi erano dotate di ali ed avevano la testa di una donna. Era la punizione di Era nei confronti della città di Tebe: il mostro, posto davanti alla città, su una rupe, ripeteva un indovinello e chi non riusciva a risolverlo veniva ucciso.

A questo punto il percorso si divide in due strade e sulla sinistra si trovano le statue raffiguranti gli dei più antichi: Saturno, Fano, Giano, Evando e la triplice Ecate. Quest’ultima, dea della mitologia greca,  era in grado di viaggiare liberamente nel mondo degli uomini, quello degli  dei, ed il regno dei morti. Qui è raffigurata come triplice: ovvero giovane, adulta/madre e vecchia. Poteva operare incantesimi e comandare gli spettri , e le sue state venivano poste negli incroci, a protezione dei viandanti. Fu lei a sentire le grida disperate di Persefone rapita da Ade presso il Lago Pergusa, e portata negli inferi, e fu lei ad avvertire Demetra dell’accaduto.

La testa colossare dalla bocca profetica, non può essere che un mostro marino, poiché le sopracciglia, le guance, le labbra finiscono in lunghe onde. È proteo, il figlio ed il pastore di Nettuno rappresenta qui la materia prima, il selvaggio “vecchio del mare” incarna tutte le forme del mondo, egli è il principio creatore, l’acqua e il fuoco. Tanto potente da portare sulla sua testa il globo terrestre, sormontato da un castello. Questa testa è ancora quella di Glauco, il pescatore diventato dio marino per aver gustato un’erba magica. È aureolato da ali di farfalla: quelle di Psiche, che ricordano che questo mostro ha compiuto la traiettoria rituale che corrisponde al battesimo: l’inghiottimento del mare e l’involo verso le sfere celesti.

Pegaso                                                                                                                                          Sulla strada si trova un masso dimezzato e divelto sul terreno. Sul frontone vi sono delle figure che ricordano la tomba della Sirena che si trova a Sovana, città etrusca situata a pochi chilometri da Viterbo. Sempre sul mausoleo vediamo una ninfa marina che stringe nella mano destra una melagrana, frutto che per gli antichi era vicino ai misteri sacri. 

Se Rodi altier fu già del suo colosso/ pur di questo il mio bosco anco si gloria/ ed per più non poter fo quanto posso” Rodi fu chiamata la città dei cento colossi per la presenza di numerose statue colossali. Si tratta di una dichiarazione di tono diverso da quelle che proclamano la superiorità del Sacro Bosco sulle sette meraviglie del mondo (di cui faceva parte il colosso di Rodi): in questo caso Vicino si veste infatti di panni più umili. A delucidare il senso delle parole di Vicino è ancora il riscontro delle fonti letterarie.

“Or qui son, lasso e voglio esser altrove;

e vorrei più volere, e più non voglio;

E per più non poter fò quant’io posso” sonetto del Petrarca

Non potendo fare di più faccio quello che posso ripete Vicini. Se Rodi andò fiera del suo immenso colosso, alto più di trenta metri, io sono in grado di offrire solo un gigante di questa altezza.

Scendendo si può ammirare la lotta tra due giganti. Ercole in piedi nell’atto di squarciare Caco. Quest’ultimo secondo alcuni è il dio del fuoco, altri studiosi invece lo identificano come un eroe locale di Roma. Caco viveva in una grotta nell’Aventino ed appare nella decima fatica di Ercole. Ne parla Virgilio (Eneide VIII) come di un mostro sputa fuoco, ma anche Tito Livio, Orazio (Satire), descrivendolo come un pastore e Dante (Inferno XXV) come di un centauro. Ercole il protettore dei più deboli e Caco, colui che rubava il sostentamento alla vita dei più indifesi. Ercole ha un’espressione serena non è il “bruto” perché il gesto è si implacabile, ma l’intenzione è morale, è l’atto di un eroe che trionfa sul male. L’ubicazione della scultura rimanda al ricordo dei versi del Petrarca indirizzati alle “chiare fresche dolci acque”.

Un altro gruppo statuario: una gigantesca figura di tartaruga, che sostiene sul dorso un simulacro di una donna. La figura della donna si trova su una sfera e rappresenta la vittoria alata: Nike. Gli occhi della tartaruga fissano le fauci spalancate di un animale che spunta dal fossato antistante pronta ad inghiottire la preda.  La tartaruga è posizionata su una pietra che ad un’estremità e cioè verso il torrente, è a forma di prua.

Vicino alla tartaruga si trova il cavallo alato, Pegaso, che cerca di volar via per annunciare la vittoria agli Dei. Pegaso lo ritroviamo nella leggenda di Perseo e Bellerofonte. Il suo nome deriva dalla parola greca che significa sorgente e si raccontava che era nato “alle fonti dell’Oceano”, nell’estremo occidente, quando Perseo uccise la Gorgone.

La casa pendente                                                                                                                     Sembra che sia stata Giulia Farnese nel 1555 a promuovere la simbolica costruzione. Probabilmente a titolo di augurio per un felice scioglimento della preoccupante vicenda del marito, che minacciava appunto la rovina della “sua” casa, o che siano stati negli anni successivi gli stessi coniugi ricongiunti a titolo di memoria. L’iniziativa risulterebbe analoga a quella dei due obelischi ritrovati appunto nei pressi della casetta pendente, poteva essere infatti sorta con un simile significato propiziatorio è costruita sopra un masso inclinato,come si può appurare dal sedile tagliato sulla roccia e all’interno dai pianciti integri, che ciò non sarebbe se l’inclinazione fosse stata oggetto di smottamento. La casa si trova all’inizio della primitiva entrata. Qui vicino Orsini voleva dare una prima emozione ai visitatori del suo parco. Al di fuori della casa troviamo incisi oltre alle sue armi, il motto: “quiescendo animus fit prudentior Ergo” e una dedica: “CRIST MADRUTIO PRINCIPI TRIDENTINO DICATUM” al  Cardinal Madruzzo principe tridentino in quanto sembra probabile che abbia provveduto ad intercedere per la liberazione di Orsini.

Due file di vasi introducono il visitatore alla gigantesca vasca  dove, posto al centro, c’è un altrettanto enorme Nettuno, dio dei mari, che tiene un piccolo delfino sotto ad una mano. I delfino è legato ad Apollo, si narra infatti che Apollo prese le sembianze di un delfino per condurre i Cretesi a Delfi, dove edificarono un tempio a suo nome, e sempre un delfino avrebbe favorito le nozze tra Poseidone e Anfitriti. Nel Cristianesimo dei primi secoli il delfino divenne l’emblema del Cristo amico.

 

La  ninfa dormiente                                                                                                                         La grande ninfa coricata sembra a metà strada tra il sonno e la morte. Logorio h visto in questa ninfa l’immagine di Arianna addormentata tra un amore terrestre e uno extraterrestre. Questa scultura illanguidita rappresenta anche un’altra ninfa, una di quelle che difesero il pudore della dea lunare, la ninfa di cui parla Ovidio e che Logorio chiama semplicemente Nife, secondo l’etimologia greca: la purezza. Il cagnolino, decapitato quando il luogo fu abbandonato, vegliava al suo fianco.

Cerere si trova in mezzo ad agavi e vi sono anche atre figure di contorno, come due tritoni che trattengono un fanciullo che gioca alle spalle della dea. Vicino a loro un piccolo delfino che unisce Anfitrite a questo gruppo. Cerere è circondata da grandi vasi, forse perché Ligorio ha voluto ricreare il luogo magico cantato da Sannazar : “il piazzale delle mille e mille urne..”  il suo nome deriva dal latino Ceres, ed è il nome romano della dea greca Demetra, era colei che portò agli uomini la coltivazione dei campi.

L’elefante è una delle sculture più grandi del parco. Un elefante sormontato da una torre, che stritola con la sua proboscide un legionario.  Il riferimento va ad Annibale, comandante militare dell’antica Cartagine, ed alle sue battaglie contro Roma, rappresentato appunto dal legionario. Annibale devastò il tempio di Ferronia e si impossessò dei tesori degli Etruschi. Ligorio ha voluto ricordare che uno dei primi giardini di piacere romani era appartenuto a Scipione l’Africano, inseparabile per gli uomini del XVI secolo dagli elefanti da guerra.

Il drago che non ha niente di diabolico, incarna il tempo. È attaccato da tre belve: un cane, un leone, un lupo, simboli di primavera, dell’estate e dell’inverno, del presente, dell’avvenire e del passato, che mordono invano il mostro squamoso, provvisto di ali di farfalla. A Bomarzo, il drago veglia la purezza delle fontane nello stesso modo in cui i suoi simili custodiscono le mele dell’Esperide e il Vello d’oro in Campo Marzio in Colchide. Secondo Ligorio questa bestia che tira anche il carro di Cerere, simbolo di Esculapio  e di tutte le cose sagge, è consacrata a tutti gli dei di Roma e alla città stessa.

L’orco                                                                                                                                    L’enorme testa di un uomo impietrita in un grido di spavento. La chiamano Orco, alterazione di Orcus, uno dei nomi del re degli inferi. Bisogna scorgervi l’entrata nel mondo sotterraneo come lo attesta la parafrasi di Dante scritta sulle sue labbra, “Ogni pensiero Vola”, ma anche il ricordo del “mundus” intorno al quale Roma si edificò. Assume un aspetto sempre più feroce a mano a mano che la verzura lo circonda, e cambia pure espressione secondo l’ora e la luce. All’interno un tavolo ed una panca di pietra che ne fanno una specie di taverna. Questa maschera gigante esprime bene l’impotenza disperata dell’essere che si sente preso dal destino.

Il tema delle sette meraviglie del mondo torna in un’altra iscrizione, che troviamo incisa su un masso in prossimità del tempietto:

Cedan et Memphi e ogni altra meraviglia

Ch’ebbe già il mondo in pregio al sacro boscho

Che sol se stesso e nulla’ltro somiglia.

Memphi rinvia alle piramidi ed è quindi di immediata evidenza il richiamo, alle sette meraviglie del mondo, delle quali in sostanza si dice, in modo ancor più esplicito che non nell’epigrafe iniziale, che “cerdono” alle creazioni del sacro bosco.

La terzina è celebre per il verso conclusivo, il quale è stato letto come una spavalda dichiarazione di originalità assoluta, e di indipendenza da qualsiasi programma. Vicino orsini l’avrebbe inventata per manifestare che non intendeva rifarsi a modelli, ma inseguire soltanto la propria fantasia, secondo la poetica che si credeva espressa: “sol per sfogar il core”.

Ma in questo caso un’analisi sulle fonti porta invece a individuare un preciso modello letterario della poesia del tempo, la citazione di una citazione. In fatti l’endecasillabo 3 è la riproposizione di un verso di Petrarca già replicato da Bernardo Tasso.

 

 

 

 

Fonte: http://www.liceoaselli.it/presentazioni%20PPT/Storia%20del%20giardino%20all'%20italiana.docx

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